Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

GIUSTIZIOPOLI

 

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

L’ITALIA DELL’INGIUSTIZIA

OSSIA, LA LEGGE DEL PIU’ FORTE,

NON LA FORZA DELLA LEGGE

DISFUNZIONI DEL SISTEMA CHE COLPISCONO IL SINGOLO

 

 

 

 

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

 

 

 

"Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli.

Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla.

Le pene siano mirate al risarcimento ed alla rieducazione, da scontare con la confisca dei beni e con lavori socialmente utili. Ai cittadini sia garantita la libera nomina del difensore o l'autodifesa personale, se capace, ovvero il gratuito patrocinio per i poveri. Sia garantita un'indennità e una protezione alla testimonianza.

Sia garantita la scusa solenne e il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, al cittadino vittima di offesa o violenza di funzionari pubblici, di ingiusta imputazione, di ingiusta detenzione, di ingiusta condanna, di lungo o ingiusto processo.

Il difensore civico difenda i cittadini da abusi od omissioni amministrative, giudiziarie, sanitarie o di altre materie di interesse pubblico."

di Antonio Giangrande

*****

 

INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.

La MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.

L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!! 

Della malagiustizia si parla in un’inchiesta ed in un libro a parte. Dei legulei, ossia degli operatori della giustizia, si parla dettagliatamente anche di loro in altra inchiesta ed in altro libro.

 

 

LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI ?!?!

LA GIUSTIZIA E' DI QUESTO MONDO ?!?!

"Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli. Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla."

di Antonio Giangrande

GIUSTIZIOPOLI

L'INGIUSTIZIA CHE COLPISCE IL SINGOLO

 

SOMMARIO PRIMA PARTE

 

INTRODUZIONE.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

ONESTA’ E DISONESTA’.

OTTENERE IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE È UN’ODISSEA.

RISARCIMENTO PER I PROCESSI LUNGHI. LEGGE PINTO? NO! LEGGE TRUFFA!

COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”

PARLIAMO DI INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA.

IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.

GIUSTIZIALISTI: COME LA METTIAMO CON GLI ERRORI GIUDIZIARI?

PARLIAMO DI INTERCETTAZIONI: LECITE, AMBIGUE, SELVAGGE.

PARLIAMO DELLE OFFESE DEL PUBBLICO MINISTERO ALL’IMPUTATO.

PARLIAMO DI TORTURA E VIOLENZA DI STATO.

SCIENZA E GIUSTIZIA.

LA RETORICA COLPEVOLISTA DELLA GIUSTIZIA MEDIATICA.

ASSOLTI. PERO’…

COLPA DEI PROCESSI INDIZIARI...

TOTO' CUFFARO: "LE MIE PRIGIONI".

L'INGIUSTIZIA NON E' UNA UTOPIA: E' REALTA'.

ANTONIO GIANGRANDE, GABRIELLA NUZZI, SILVIO BERLUSCONI: LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI.

INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

INGIUSTIZIA. PARLIAMO DI DANTE BRANCATISANO. DETENUTO SENZA COLPA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA……

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

INNOCENTE PER LEGGE, MA ‘NDRANGHETISTA PER SEMPRE.

LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.

L’ERRORE GIUDIZIARIO: INNOCENTI IN CELLA, ASSOLTI ED ARCHIVIATI.

MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!

GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.

ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.

IL SUD TARTASSATO.  

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

DETENUTO SUICIDA IN CARCERE? UNO DI MENO!!!

BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!

IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

SPECULAZIONE E BANCHE: ECONOMIA CHE UCCIDE.

SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.

SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.

SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.

PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.

I GRANDI PROCESSI DEL 2014 ED I GRANDI DUBBI: A PERUGIA, KERCHER; A TARANTO, SCAZZI; A TORINO, ETERNIT; A MILANO, STASI; SENZA DIMENTICARE CUCCHI A ROMA.

SLIDING DOORS A MILANO: CRISAFULLI E BARILLA'. LA VITA CAMBIATA SENZA SAPERE UN CAZZO.

CASO MARO’. ITALIANI POPOLO DI MALEDUCATI, BUGIARDI ED INCOERENTI. DICONO UNA COSA, NE FANNO UN’ALTRA.

L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

IN TEMA DI GIUSTIZIA E DI INFORMAZIONE CHI SBAGLIA PAGA? IL DELITTO DI PERUGIA. AMANDA E RAFFAELE COLPEVOLI DI INNOCENZA.

CARCERE. INFERNO SENZA ACQUA.

DONNE IN CARCERE. LA DISCRIMINAZIONE DIETRO LE SBARRE.

QUANDO IN PRIGIONE CI VANNO I BAMBINI.

QUANDO IN ESILIO CI VANNO I BAMBINI.

BREGA MASSONE: CONDANNATO IN TV.

IMPRENDITORIA CRIMINOGENA. SEQUESTRI ED AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. A CHI CONVIENE?

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

CONDANNA DEFINITIVA REVOCATA? NON E' PIU' UN TABU'.

L’ASINARA, PIANOSA ED IL FATTORE “M”.

CARCERI A SORPRESA. LE CELLE LISCE E LE ISPEZIONI SENZA PREAVVISO.

INCHIESTA. IL CARCERE, I CARCERATI, I PARENTI DEI CARCERATI ED I RADICALI…….

L’ITALIA COME LA CONCORDIA. LA RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

 

SOMMARIO SECONDA PARTE

 

LA PRESCRIZIONE. LA GARANZIA PER GLI INNOCENTI CHE I GIUSTIZIALISTI NON VOGLIONO.

PRESCRIZIONE. MANLIO CERRONI ED I 14 ANNI DI SOFFERENZA DA INNOCENTE.

MAGISTRATURA SENZA VERGOGNA.

L’ITALIA DEI MORALISTI CON LA MORALE DEGLI ALTRI.

STORIE DI MAFIOSI E PARA MAFIOSI.

POTENTE UGUALE IMPUNITO.

FIDARSI DELLE ISTITUZIONI. I CITTADINI: NO GRAZIE!! CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?

INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI? UNA BALLA. LO STRAPOTERE DEI MAGISTRATI E LA VICINANZA DEI GIUDICI AI PM, OLTRE LA CORRUTTELA.

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

FINANZA E GIUSTIZIA.

RESPONSABILITA' DELLE TOGHE? LA SINISTRA: NO GRAZIE!!!

LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO

LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.

SENTIAMO KARIMA EL MAHROUG, DETTA RUBY.

SENTIAMO CESARE BATTISTI.

YARA E' SEMPRE. SBATTERE IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA.

L'ULTIMO AFFRONTO AD ENZO TORTORA.

LA REPUBBLICA DEI MAGISTRATI.

GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.

COLPEVOLE DI ESSERE INNOCENTE.

CHE INGIUSTIZIA PERO'!!! DAI CARABINIERI ENTRI VIVO E NE ESCI MORTO O SCONTI LA PENA NELLA CELLA ZERO. 

IL CARCERE E LA GUERRA DELLE BOTTE. 

DELITTO DI STATO. FEDERICO PERNA.

POLIZIA, POLIZIA PENITENZIARIA E CARABINIERI: ABBIAMO UN PROBLEMA?

LA LEGGE NON AMMETTE IGNORANZA?

INGIUSTIZIA: IMMENSA BIBLIOGRAFIA.

LA METASTASI DELLA GIUSTIZIA. IL PROCESSO INDIZIARIO. IL PROCESSO DEL NULLA. UOMO INDIZIATO: UOMO CONDANNATO.

PARLIAMO DEL REATO DI MAFIA.

DIRITTO CERTO E UNIVERSALE. CONTRADDIZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE: CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA, UN REATO CHE ESISTE; ANZI NO!!.

G8 E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLO STATO.

AMANDA KNOX, RAFFAELE SOLLECITO E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLA GIUSTIZIA.

BERLUSCONI E LA GUERRA PERSECUTORIA DEI MAGISTRATI.

DOPO BERLUSCONI, I RIVA. ILVA E GLI ESPROPRI PROLETARI.

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

IN ITALIA UN ERRORE GIUDIZIARIO GRAVE OGNI DUE MAGISTRATI.

QUANDO IL PM SBATTE IL VIP IN CARCERE PER ANDARE IN PRIMA PAGINA.

IL PROFESSORE DI SALUZZO, LE ALLIEVE E LA GIUSTIZIA ITALIOTA.

L'INGIUSTIZIA E LA FICTION.

LA DRAMMATICA LETTERA DI GAIA TORTORA A “IL TEMPO” SULLA GIUSTIZIA ITALIANA.

QUANDO IL PM SBATTE IL VIP IN CARCERE PER ANDARE IN PRIMA PAGINA.

GLI INNOCENTI? PARLIAMONE....

DELINQUENTE A CHI?

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

IL CSM ASSOLVE IL GIUDICE ROSSO CHE ANDAVA A CACCIA CON I BOSS.

INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. GIOVANNI DE LUISE.

INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. MAURIZIO BOVA.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

BERLUSCONI E GLI ALTRI. I MAGISTRATI FANNO QUEL CHE “CAZZO” VOGLIONO.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

TRIBUNALI SPECIALI. QUELLO CHE SUCCEDE A SILVIO BERLUSCONI, CAPITA A TUTTI GLI ITALIOTI, CHE SUBISCONO E TACCIONO........ED I GIORNALISTI OMERTOSI: "MUTI SONO".

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

LE TOGHE IGNORANTI.

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI. DISCUTIAMO DELLA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!

IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.

I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.

MANETTE FACILI ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.

MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.

ED IL CITTADINO COME SI DIFENDE? CON I REFERENDUM INUTILI ED INAPPLICATI.

LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.

CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.

IL CASO DI MARCELLO LONZI.

L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.

POPULISTA A CHI?!?

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

LA LEGA MASSONICA.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.

GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.

MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!

GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.

UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.

RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?

DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?

GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.

DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.

IN ITALIA, VINCENZO MACCARONE E' INNOCENTE.

TOGHE SCATENATE.

CORTE DI CASSAZIONE: CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.

CHI E' ANTONIO ESPOSITO.

ANTONIO ESPOSITO COME MARIANO MAFFEI.

PARLIAMO DI FERDINANDO ESPOSITO.

GIUDICE ANTONIO ESPOSITO: IMPARZIALE?

IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.

PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?

BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.

DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.

BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.

I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.

QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.

PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.

CORRUZIONE: MANETTE A GIUDICI ED AVVOCATI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.

GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?

ITALIA, CULLA DEL DIRITTO NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.

MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.

LO STATO DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.

LA MALAGIUSTIZIA E L’ODIO POLITICO. LA VICENDA DI GIULIO ANDREOTTI.

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.

CITTADINI ROVINATI DALLA GIUSTIZIA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.

DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.

SE QUESTA E’ GIUSTIZIA.

GIUSTIZIA. QUELLO CHE NON SI DICE.

SEI IN CARCERE? CREPA!

SPECULATORI DELLA SOFFERENZA. CHI CI GUADAGNA SUI DETENUTI?

ASPETTATIVA DI GIUSTIZIA. DALLA PARTE DELLE VITTIME.

E IL GIUDICE SI TOLSE LA TOGA PERCHE' NON SOPPORTAVA L'IDIOZIA DEI COLLEGHI.

PERCHE' CI FELICITIAMO DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

SARAH SCAZZI. MEDIA ED APPROSSIMAZIONE, SE NON DISINFORMAZIONE.

ANNA MARIA FRANZONI: COLPEVOLE PERCHE' LO HA DETTO LA STAMPA.

IL DELITTO DI GIUSI POTENZA. SABRINA SANTORO E FILOMENA RITA (FLORIANA) MAGNINI. ACCUSATE INGIUSTAMENTE MA PER LA STAMPA RESTERANNO "COLPEVOLI E PUTTANE" PER SEMPRE.

MELANIA REA. OMICIDI E SETTE SATANICHE? NON SE NE DEVE PARLARE!!

IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. BREMBATE SOPRA: QUANDO GLI ALTRI SIAMO NOI. IL DELITTO DI YARA GAMBIRASIO.

IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. AVETRANA IL DELITTO DI SARAH SCAZZI.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. LA STRAGE DI ERBA. OLINDO ROMANO E ROSA BAZZI.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. FABRIZIO CORONA COLPEVOLE DI SFRONTATEZZA ED ARROGANZA.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. DELITTO DI MELANIA REA. SALVATORE PAROLISI CON IL MOVENTE INTERSCAMBIABILE.

GRAVINA DI PUGLIA: CICCIO E TORE PAPPALARDI. STORIA DI ORDINARIA ITALIANITA'.

PER NON DIMENTICARE. STORIE DI ORDINARIA FOLLIA. L'ESEMPLARE STORIA DI ANTONIO GIANGRANDE. PERSEGUITATO PERCHE' RACCONTA LA VERITA'.

RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO. UNA NORMA DISATTESA.

PER NON DIMENTICARE. OTTAVIA DE LUISE.

PER NON DIMENTICARE. MAURIZIO BOLOGNETTI E GIUSEPPE DI BELLO. COLPEVOLI DI ESSERE INNOCENTI.

ELISA CLAPS ED IL NIDO DI SERPI.

INSABBIAMENTI E CENSURA A POTENZA.

INSABBIAMENTI: A POTENZA UN MURO DI GOMMA.

TOGHE LUCANE. INCHIESTA CHE NON SA DA FARE.

IL MISTERO DELLA MORTE DEI FIDANZATI DI POLICORO. LUCA ORIOLI E MARIROSA ANDREOTTA.

INSABBIAMENTI: SE SUCCEDE A LORO, FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI !!!!!

DELITTO DI MEREDITH KERCHER. AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO. MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA?

OMICIDI DI STATO. IL CASO BIANZINO.

OMICIDI DI STATO. GIUSEPPE UVA.

OMICIDI DI STATO. FEDERICO ALDROVANDI.

IL CASO DEL DELITTO DI SIMONETTA CESARONI. RANIERO BUSCO E PIETRINO VANACORE.

MANOLO ZIONI IN CARCERE DA INNOCENTE.

OMICIDI DI STATO. LUIGI MARINELLI.

OMICIDI DI STATO. STEFANO CUCCHI.

OMICIDI DI STATO. MICHELE FERRULLI.

CONDANNATI PREVENTIVI. LA CONDIZIONE DEGLI INNOCENTI IN CARCERE.

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA.

SOLO A TARANTO. ILVA, SARAH SCAZZI, BEN EZZEDINE SEBAI. AVVOCATI SUCCUBI DEI MAGISTRATI.

L'INGIUSTIZIA RACCONTATA DAGLI ADDETTI AI LAVORI. 

INGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

A PROPOSITO DI GIUSTIZIA. QUELLO CHE LA STAMPA NON DICE.

CARCERE E STORIE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA.

CARA INGIUSTIZIA.

GLI INNOCENTI IN GALERA.

IL COSTO DEGLI ERRORI GIUDIZIARI.

PARLIAMO DI GIUSTIZIA E GIUSTIZIERI. L'ITALIA IN MANO AI MAGISTRATI.

LETTERE DAL CARCERE.

INTERVISTA AL PROCURATORE CAPO.

CENTO VOLTE INGIUSTIZIA.

TROPPI ERRORI GIUDIZIARI: CHI PROTEGGE GLI INNOCENTI?

EURISPES: RAPPORTO SUL PROCESSO PENALE.

DATI MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DIPARTIMENTO PENITENZIARIO. CARCERE: ICONA DELL'INGIUSTIZIA.

ABUSI E VIOLENZE SUI DETENUTI: UN DOSSIER INFINITO....

NIENTE RISARCIMENTO PER L'INGIUSTA IMPUTAZIONE.

(IN)GIUSTIZIA: 5 MILIONI GLI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

IL DIRITTO DI DIFESA: UGUALE PER TUTTI ???

IMPUNITOPOLI PER I MAGISTRATI. LA IRRESPONSABILITA’ DEI MAGISTRATI.

MPUNITOPOLI PER I FUNZIONARI PUBBLICI. FUNZIONARI PUBBLICI: IMPUNITA' ED IMMUNITA'.

MAGISTRATURA: FORTE CON I DEBOLI E DEBOLE CON I FORTI ???

IL MISTERO USTICA.

IL MISTERO MATTEI.

IL MISTERO MORO.

IL MISTERO SULLA MASSONERIA.

IL MISTERO PEDOFILIA.

IL MISTERO DEL MOSTRO DI FIRENZE.

IL MISTERO MOBY PRINCE.

DA MOSTRO A INNOCENTE, STORIE DI CALVARI.

OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.

MILANO: IL CASO RIZZOLI.

MILANO: IL CASO BERLUSCONI.

MILANO: IL CASO BARILLA’.

MILANO: I CASI MARIANI E CROSIGNANI

MILANO: IL CASO PALAU GIOVANNETTI.

CAGLIARI: IL CASO MANUELLA.

NUORO: IL CASO CONTENA.

ROMA: IL CASO ANDREOTTI.

ROMA: IL CASO LUTTAZZI.

ROMA: IL CASO SABANI.

ROMA: IL CASO DELITTO SIMONETTA CESARONI.

CASERTA: IL CASO OGARISTI.

NAPOLI: IL CASO TORTORA.

BARI: IL CASO LASTELLA.

TARANTO: IL CASO FAIUOLO, ORLANDI, NARDELLI, TINELLI, MONTEMURRO, DONVITO.

TARANTO: IL CASO PEDONE, CAFORIO, AIELLO, BELLO.

LECCE: IL CASO DI NAPOLI.

COSENZA: IL CASO MASALA.

CALTANISSETTA: IL CASO TURCO.

PEDOFILIA. LA FABBRICA DEI MOSTRI.

RIGNANO FLAMINIO E LE SUGGESTIONI. IL CASO DELLA PEDOFILIA SATANICA.

MODENA E LE SUGGESTIONI. IL CASO DELLA PEDOFILIA SATANICA.

 

SOMMARIO TERZA PARTE

 

GIUSTIZIA CAROGNA.

IL DIRITTO DI CRITICA GIUDIZIARIA.

ENZO MANNINA. IN CONFRONTO ALLA GIUSTIZIA ITALIANA KAFKA ERA UN DILETTANTE.

ONESTA’ E DISONESTA’.

CULTURA. EMIL ZOLA: L’AFFAIRE DREYFUS ED I GIORNALI CHE VIVONO DI SCANDALI.

IN NOME DELLO SCANDALO I GIORNALI SBEFFEGGIANO LA VERITA’.

MARCELLO DELL’UTRI. VITTIMA SACRIFICALE.

NICOLA MANCINO. VITTIMA SACRIFICALE.

CLEMENTE MASTELLA. VITTIMA SACRIFICALE.

CULTURA E CIVILTA’ GIURIDICA. CESARE BECCARIA. DEI DELITTI E DELLE PENE.

L’INCIVILTA’ GIURIDICA. IL RITO INQUISITORIO.

L’INCIVILTA’ GIURIDICA. LA CRUDELTA’.

DENUNCE A PERDERE.

L'IMPRESA IMPOSSIBILE DELLA RIPARAZIONE DEL NOCUMENTO GIUDIZIARIO.

LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN CAZZO.

COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”

PARLIAMO DI INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA.

COLPA DEI PROCESSI INDIZIARI...

ASSOLTI. PERO’…

L'INGIUSTIZIA NON E' UNA UTOPIA: E' REALTA'.

MORIRE DI CARCERE.

LA STORIA DELL’AMNISTIA.

ESEMPI SCOLASTICI. SONO ASSOLUTAMENTE INNOCENTI. NICOLA SACCO E BARTOLOMEO VANZETTI.

PRESUNTO COLPEVOLE.

PRESUNTA COLPEVOLE. ANNA PAGLIALONGA.

PRESUNTO COLPEVOLE. OSCAR SANCHEZ.

PRESUNTO COLPEVOLE. FABRIZIO BOTTARO.

PRESUNTO COLPEVOLE. ANGELO CIRRI.

PRESUNTA COLPEVOLE. ANASTASIA MONTANARIELLO.

PRESUNTO COLPEVOLE. ANTONIO FRANCESCO DI NICOLA.

PRESUNTO COLPEVOLE. CARMINE FORCELLA.

PRESUNTO COLPEVOLE. DINO TRAPPETTI.

PRESUNTO COLPEVOLE. SANDRO VECCHIARELLI.

PRESUNTO COLPEVOLE. TITO RODRIGUEZ.

PRESUNTO COLPEVOLE. EMANUELE NASSISI.

PRESUNTO COLPEVOLE. FILIPPO DI BENEDETTO.

PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCESCO SPANO'.

PRESUNTO COLPEVOLE. JOSE' VINCENT PIERA RIPOLL.

PRESUNTO COLPEVOLE. BRUNO DEL MORO.

PRESUNTO COLPEVOLE. EMMANUEL ZEBAZE SOKENG.

PRESUNTA COLPEVOLE. JOY IDUGBOE.

PRESUNTO COLPEVOLE. MASSIMO MALLEGNI.

PRESUNTO COLPEVOLE. PIO RAGNI.

PRESUNTO COLPEVOLE. MAURIZIO COMINO.

PRESUNTA COLPEVOLE. MONICA BUSETTO.

PRESUNTO COLPEVOLE. GIUSEPPE LA MASTRA.

PRESUNTO COLPEVOLE. GIOVANNI CAMASSA.

PRESUNTO COLPEVOLE. VITTORIO EMANUELE DI SAVOIA.

PRESUNTO COLPEVOLE. CLAUDIO BURLANDO.

PRESUNTO COLPEVOLE. GIGI SABANI.

PRESUNTA COLPEVOLE. LAURA ANTONELLI.

PRESUNTO COLPEVOLE. ROBERTO RUGGIERO.

PRESUNTO COLPEVOLE. CARLO PALERMO.

PRESUNTO COLPEVOLE. SANDRO FRISULLO.

PRESUNTO COLPEVOLE. CLELIO DARIDA.

PRESUNTO COLPEVOLE. FERDINANDO PINTO

PRESUNTO COLPEVOLE. MARIO SPEZI.

PRESUNTO COLPEVOLE. GIOVANNI TERZI.

PRESUNTO COLPEVOLE. ANTONIO GAVA.

PRESUNTA COLPEVOLE. DANIELA POGGIALI.

PRESUNTO COLPEVOLE. PIER PAOLO BREGA MASSONE.

PRESUNTI COLPEVOLI. GIOVANNI SCATTONE E SALVATORE FERRARO.

PRESUNTO COLPEVOLE. RAFFAELE SOLLECITO.

PRESUNTA COLPEVOLE. AMANDA KNOX.

PRESUNTO COLPEVOLE. LUCIANO CONTE.

PRESUNTO COLPEVOLE. MARIO CONTE.

PRESUNTO COLPEVOLE. BENIAMINO ZAPPIA.

PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO SAVINI.

PRESUNTO COLPEVOLE. OSCAR MILANETTO.

PRESUNTO COLPEVOLE. DIALLO A..

PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO SANTESE.

PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCESCO FUSCO.

PRESUNTO COLPEVOLE. ANDREA MARCON.

PRESUNTA COLPEVOLE. CHIARA BARATTERI.

PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCO MOCERI.

PRESUNTO COLPEVOLE. SALVATORE RAMELLA.

PRESUNTO COLPEVOLE. SALVATORE GRASSO.

PRESUNTI COLPEVOLI. VINCENZO E GIUSEPPE IAQUINTA.

PRESUNTA COLPEVOLE. BEATRICE CENCI.

PRESUNTO COLPEVOLE. ARMANDO CHIARO.

PRESUNTA COLPEVOLE. EMILIA SALOMONE.

PRESUNTO COLPEVOLE. ALFONSO SABELLA.

PRESUNTO COLPEVOLE. DOMENICO ZAMBETTI.

PRESUNTO COLPEVOLE. AMBROGIO CRESPI.

PRESUNTO COLPEVOLE. ILVO CALZIA.

PRESUNTO COLPEVOLE. OTTAVIANO DEL TURCO.

PRESUNTA COLPEVOLE. MARTA VINCENZI.

PRESUNTI COLPEVOLI. GIULIO E MARIA FRANCESCA OCCHIONERO.

PRESUNTO COLPEVOLE. FILIPPO MAGNINI.

PRESUNTO COLPEVOLE. ALEX SCHWAZER.

PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO PANTANI.

PRESUNTE COLPEVOLI. SABRINA MISSERI E COSIMA SERRANO.

PRESUNTI COLPEVOLI. OLINDO ROMANO E ROSA BAZZI.

PRESUNTO COLPEVOLE. MASSIMO BOSSETTI.

PRESUNTO COLPEVOLE. CATENO DE LUCA.

SONO INNOCENTE.

SONO INNOCENTE. ELAINE ARAUCO DA SILVA.

SONO INNOCENTE. ENZO TORTORA.

SONO INNOCENTE. LORENA MORSELLI.

SONO INNOCENTE. DOMENICO MORRONE.

SONO INNOCENTE. STEFANO MESSORE.

SONO INNOCENTE. ALDO SCARDELLA.

SONO INNOCENTE. MARIA VITTORIA PICHI.

SONO INNOCENTE. PATRIK LUMUNBA.

SONO INNOCENTE. ALBERTO OGARISTI.

SONO INNOCENTE. SAVERIO DE SARIO.

SONO INNOCENTE. FILIPPO LA MANTIA.

SONO INNOCENTE. FULVIO PASSANANTI.

SONO INNOCENTE. VITO GAMBERALE.

SONO INNOCENTE. CARMINE BELLI.

SONO INNOCENTE. PIETRO MELIS.

SONO INNOCENTE. GIUSEPPE GULOTTA.

SONO INNOCENTE. MARIA ANDO’.

SONO INNOCENTE. DIEGO OLIVIERI.

SONO INNOCENTE. CORRADO DI GIOVANNI.

SONO INNOCENTE. LUCIA FIUMBERTI.

SONO INNOCENTE. FRANCESCO RAIOLA.

SONO INNOCENTE. GUIDO BERTOLASO.

SONO INNOCENTE. ANTONIO CARIDI.

SONO INNOCENTE. HASHI OMAR HASSAN.

SONO INNOCENTE. MARIA GRAZIA MODENA.

SONO INNOCENTE. GIUSEPPE MELZI.

SONO INNOCENTI. GIUSEPPE ORSI E BRUNO SPAGNOLINI.

SONO INNOCENTE. ANGELO MASSARO.

SONO INNOCENTE. ANNA MARIA MANNA.

SONO INNOCENTE. CLAUDIO RIBELLI.

SONO INNOCENTE. ANTONIO LATTANZI.

SONO INNOCENTE. JOAN HARDUGACI.

SONO INNOCENTE. VITTORIO LUIGI COLITTI.

SONO INNOCENTE. VITTORIO RAFFAELE GALLO.

SONO INNOCENTE. MICHELE TEDESCO.

SONO INNOCENTE. ROBERTO GIANNONI.

SONO INNOCENTE. SANDRA MALTINTI.

SONO INNOCENTE. GAETANO MURANA.

SONO INNOCENTE. GIUSEPPE SILLITTI.

SONO INNOCENTE. PIO DEL GAUDIO.

SONO INNOCENTE. ANTONIO COLAMONICO.

ALTRI CENTO, MILLE, MILIONI DI INNOCENTI.

 

 

 

 

Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.

Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh- (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.

Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.

Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.

I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.

La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.

Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.

“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.

Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”

Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.

Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.

Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.

Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.

A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.

Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.

Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.

La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.

In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.

Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.

Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.

Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.

Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.

Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).

Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.

Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.

Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".

Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.

*****

 

 

 

 

 

 

INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.

LA MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.

L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!! 

 

 

 

 

PRIMA PARTE

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? 

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto. 
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

ONESTA’ E DISONESTA’.

1. Era una donna virtuosa, ma il caso volle che sposasse un cornuto. (Sacha Guitry)

2. L'amore ha diritto di essere disonesto e bugiardo. Se è' sincero. (Marcello Marchesi)

3. Proposta: "Facciamo il governo degli onesti!". "Già, e il pluralismo?". (Manetta)

4. Il socialista più elegante?  Martelli. Il più grasso? Craxi. Il più onesto? Manca!

5. Due manager discutono di come scegliere la segretaria e uno dei due dice di avere un metodo speciale tutto suo: "Io la ricevo in ufficio e le faccio trovare per terra un biglietto da 100.000 lire; poi con una scusa mi allontano e osservo quello che succede. La loro reazione è molto istruttiva". Dopo qualche tempo si reincontrano e il primo chiede: "Allora, amico mio, come è andata la scelta della segretaria?". "Ho fatto come mi hai detto: la prima ha raccolto il biglietto e l'ha messo velocemente nella sua borsetta. La seconda l'ha raccolto e me lo ha consegnato. La terza ha fatto come se niente fosse".  "E quale hai scelto?". "Quella con le tette più grosse!".

6. La disumanità del computer sta nel fatto che, una volta programmato e messo in funzione, si comporta in maniera perfettamente onesta (Isaac Asimov).

7. Convinto dalla tangente, il cerchio accettò di trasformarsi in quadrato. L'angolo invece rifiutò: era sempre stato retto e tale voleva restare.

8. Come ci sono oratori balbuzienti, umoristi tristi, parrucchieri calvi, potrebbero esistere benissimo anche politici onesti. (Dario Fo)

9. A volte è difficile fare la scelta giusta perché o sei roso dai morsi della coscienza o da quelli della fame. (Totò in "La banda degli onesti")

10. C'è un modo per scoprire se un uomo è onesto: chiedeteglielo. Se risponde di sì, è marcio. (Groucho Marx)

11. Se la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera (proverbio italiano)

12. L'onestà paga. La disonestà è pagata. (Silvia Ziche)

13. Definizione di corrotto: vezzeggiativo politico. (S. M. Tafani)

14. Il segreto della vita è l'onestà e il comportarsi giustamente. Se potete simulare ciò lo avete raggiunto. (Groucho Marx)

15. Niente assomiglia tanto a una donna onesta quanto una donna disonesta di cui ignori le colpe.

16. Se l'esperienza insegna qualcosa, ci insegna questo: che un buon politico, in democrazia, è tanto impensabile quanto un ladro onesto. (H.L Mencken)

17. Nel dolore un orbo è avvantaggiato, piange con un occhio solo. (Antonio (Totò) in "La banda degli onesti")

18. L'onestà è la chiave di una relazione sentimentale. Se riuscite a far credere di essere onesti, siete a cavallo. (Richard Jeni)

19. L'onestà è lodata da tutti, ma muore di freddo. (Giovenale)

20. "Jim, dove posso trovare dieci uomini onesti?". "Cosa? Diogene si sarebbe contentato di trovarne uno". (Robert A. Heinlein, Cittadino della galassia)

21. A molti non mancano che i denari per essere onesti. (Carlo Dossi)

22. Le donne oneste non riescono a consolarsi degli errori che non hanno commesso. (SachaGuitry)

23. Un politico onesto è quello che una volta "comprato" resta comprato. (Legge di Simon Cameron)

24. Le persone oneste e intelligenti difficilmente fanno una rivoluzione, perché sono sempre in minoranza. (Aristotele)

25. "Signora - dice la nuova cameriera - in camera sua, sotto il letto, ho trovato questo anello!". "Grazie Rosi. L'avevo messo apposta per controllare la sua onestà". "E' proprio quello che ho pensato anch'io, signora!".

26. Ero veramente un uomo troppo onesto per vivere ed essere un politico. (Socrate)

27. Un governo d'onesti è come un bordello di vergini. (Roberto Gervaso)

28. Si dice: "La disonestà dei politici non paga mai!". E' vero. Generalmente riscuote.

29. Sei onesta come le mosche d'estate, al mattatoio, che rinascono dalla loro stessa merda. (dall'Otello) (William Shakespeare)

30. A volte mi viene il sospetto che avere la fama di essere scrupolosamente onesto equivalga a un marchio di idiozia. (Isaac Asimov)

31. In tutta onestà, non credo nell'onestà.

32. Un uomo onesto può essere innamorato come un pazzo, ma non come uno sciocco. (François de La Rochefoucauld) 33. Ammetto di essere onesto. Ma se si sparge la voce, sono rovinato: nessuno si fiderà più di me. (Pino Caruso)

34. Donne oneste ce ne sono più di quelle che non si crede, ma meno di quelle che si dice. (Alessandro Dumas figlio) (in "L'amico delle donne")

35. La principale difficoltà con le donne oneste non è sedurle, è portarle in un luogo chiuso. La loro virtù è fatta di porte semiaperte. (Jean Giraudoux)

36. Una volta l'onestà, in un individuo, era il minimo che gli si richiedesse. Oggi è un optional. (Maurizio Costanzo)

37. Le anime belle, le figurine del presepe, le persone oneste... Ne ho conosciute tante, erano tutte come te. Facevano le tue domande, e con voi il mondo diventa più fantasioso, più colorato... Ma non cambia mai !! (Il ministro Nanni Moretti a Silvio Orlando in "Il portaborse")

38. Non è grave il clamore chiassoso dei violenti, bensì il silenzio spaventoso delle persone oneste. (Martin Luther King)

39.  Era così onesto che quando trovò un lavoro, lo restituì.

40. Mi piace un soprabito scoperto dagli americani, il koccomero, quello che si aggancia con i calamari. (Totò in "La banda degli onesti")

41. Il tipografo Lo Turco ammira tutto l'armamentario per fabbricare banconote false: "Ma questa è filagrana!".  Toto': "Sfido io! Viene dal policlinico dello Stato!". (In "La banda degli onesti")

42. L'onestà nella compilazione della dichiarazione dei redditi viene considerata in Italia una forma blanda di demenza. (Dino Barluzzi)

43. Non abbiamo bisogno di chissà quali grandi cose o chissà quali grandi uomini. Abbiamo solo bisogno di più gente onesta. (Benedetto Croce)

44. Ci sono fortune che gridano "imbecille" all'uomo onesto. (Edmond e Jules de Goncourt)

45. L'onestà dovrebbe essere la via migliore, ma è importante ricordare che, a rigor di logica, per eliminazione la disonestà è la seconda scelta. (George Carlin)

46. In Italia si ruba con onestà, rispettando le percentuali. (Antonio Amurri)

47. I nordici prendono il caffè lungo, noi sudici lo prendiamo corto. (Totò in "La banda degli onesti")

48. Ben poche sono le donne oneste che non siano stanche di questo ruolo. (FriedrichNietzsche)

49. L'onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi. (Pierre de Coubertin)

50. Neanche la disonestà può offuscare la brillantezza dell’oro.

51. Ti ho insegnato ad essere onesto, perché intelligente non sei. (Bertold Brecht)

52. L'onestà paga, ma pare non abbastanza per certe persone. (F. M. Hubbard)

53. Nessuna persona onesta si è mai arricchita in breve tempo. (Menandro)

54. Nessuno può guadagnare un milione di dollari onestamente. (No one can earn a million dollars honestly). (William Jennings Bryan)

55. Sicuramente ci sono persone disoneste nei governi locali. Ma è anche vero che ci sono persone disoneste anche nel governo nazionale. (Richard Nixon)

56. Le persone oneste si riconoscono dal fatto che compiono le cattive azioni con più goffaggine. (Charles Péguy)

57. L'onestà, come tante altre virtù, dipende dalle circostanze. (Roberto Gervaso)

58. Nessun uomo può guadagnare un milione di dollari onestamente, così come è disonesto ed invidioso chi dichiara il contrario. (Antonio Giangrande)

59. Colmo per un uomo retto: innamorarsi di una donna tutta curve.

60. Una politica onesta proietta una nazione sana nel futuro. Per questo si chiama Fantascienza. (Mauroemme)

61. Per il mercante anche l'onestà è una speculazione. (Charles Baudelaire)

62. In politica l'onestà è forse la cosa più importante. Chi ce l'ha deve partire con un grosso handicap! (Bilbo Baggins)

63. Dimettersi per una multa è soprattutto un ennesimo esempio della severità del rapporto tra etica e politica in Gran Bretagna. Tranquilli, ci pensiamo noi qua a ristabilire l'equilibrio europeo. (Annalisa Vecchiarelli)

64. La massima ambizione dell'uomo? Diventare ricco. Come? In modo disonesto, se è possibile; se non è possibile, in modo onesto. (Mark Twain)

65. Era un uomo così onesto e probo, da non essere neanche capace d'ingannare il tempo... (Fabio Carapezza)

66. Se l'esperienza ci insegna qualcosa, ci insegna questo: che un buon politico, in democrazia, è tanto impensabile quanto un ladro onesto.

67. La disperazione più grave che possa colpire una società e' il dubbio che vivere onestamente sia inutile. (Corrado Alvaro)

68. In un'epistola Orazio fustiga un doppiogiochista della morale che, ammirato da tutto il popolo, offre un bue e un porco agli dei, pregando Giove e Apollo ad alta voce. Ma subito dopo si rivolge a LAVERNA, dea protettrice dei ladri e a fior di labbra, in modo che nessun lo intenda, prega: "Laverna bella, fammi la grazia ch'io possa imbrogliar il prossimo, concedi ch'io passi per un galantuomo, un santo, e sopra i miei peccati distendi la notte, sopra gli imbrogli una nube". (Orazio)

69. Ingiuriare i mascalzoni con la Satira è cosa nobile, a ben vedere significa onorare gli onesti. (Aristofane)

70. L'onestà andrà di moda. (Beppe Grillo)

71. L'onestà è sempre la migliore scelta... ma spesso bisogna seguire la seconda scelta.

72. Odiare i mascalzoni è cosa nobile. (Quintiliano)

73. Uomini onesti si lasciano corrompere in un solo caso: ogniqualvolta si presenti l'occasione. (Gian Carlo Moglia)

74. Maresciallo: "...hanno arrestato anche il tipografo". Totò: "Lo Turco!!". Maresciallo: "No, lo svizzero". Totò: "Allora mi ha dato un nome falso!!" (Totò in "La banda degli onesti")

75. Portieri si nasce, non si diventa. (Totò in "La banda degli onesti")

76. Perchè anch'io, modestamente, nella media borghesia italiana occupo una società... condomini che vanno e che vengono, che quando è natale, pasqua mi danno la mancia, per il mio nome mi regalano lumini..." (Totò ne "La banda degli onesti")

77. Ho mandato mia moglie e i miei figli a un funerale, così si divagano un po'. (Totò' ne "La banda degli onesti")

78. Tanto Gentile il segretario pare se si dimette

e la poltrona sua saluta

e ogni lingua de li colleghi trema muta

che altrimenti vorrebber commentare.

Egli si va, sentendosi laudare,

per la rinuncia d’umiltà vestuta,

e par quasi fosse cosa non dovuta

ma invece scelta per obbligo morale.

Che il popolino l’onestà l’ammira,

e dà agli illusi una dolcezza al core,

chi se ne va senza aspettar altre prove.

Ma i peggiori non v’è modo li si muova,

né per decenza oppur spinti dall’onore,

che sol per la poltrona l’anima lor sospira. (Bilbo Baggins)

79. L'onestà non paga. Se vuoi fare l'onesto lo devi fare gratis. (Pino Caruso)

80. Ricòrdati che l'onestà paga sempre! Specialmente le tasse! (Renato R.)

81. La madre dei cretini è sempre incinta. Quella degli onesti ormai è in menopausa.

82. L'onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi. (Pierre de Coubertin)

83. Sto cercando di fare di mio figlio un italiano onesto, leale, corretto, solidale, amante della giustizia... "Un disadattato, insomma". (Stefano Mazzurana)

84. Io sono onesto. Contro chi devo scagliare la prima pietra? (Renato R.)

85. Nigeriano disoccupato trova 4.350 euro e li restituisce. Bisogna dire basta a questi gesti inappropriati, se vengono nel nostro paese devono rispettare le nostre regole. Che sono venuti qua ad insegnarci l'onestà? (Barbara Zappacosta)

86. Viviamo tempi in cui se dici "onesto!" a qualcuno, rischi d'offenderlo... (Alessandro Maso)

87. Sono una persona molto onesta e corretta. Mi sento un verme anche quando, ad un incontro, inganno l'attesa. (DrZap)

88. Secondo un emendamento del decreto milleproroghe, il M5S verrà multato per aver rifiutato i rimborsi elettorali. Sancendo la nascita di un nuovo reato: ONESTARE. (Kotiomkin) (Giovy Novaro)

Il "no" di Benedetto Croce al moralismo in politica. L'edizione nazionale dell'opera del pensatore ci restituisce i testi completi sul rapporto tra l'etica e la cosa pubblica, scrive Giancristiano Desiderio, Giovedì 26/05/2016, su "Il Giornale". È curioso, ma gli italiani quando si tratta di curare malanni e malattie non chiedono un onest'uomo, sì piuttosto un buon medico, onesto o disonesto che sia, purché sappia il fatto suo e non li mandi anzitempo all'altro mondo mentre quando ci sono in ballo le cose della politica gli italiani richiedono non uomini pratici e d'azione ma onest'uomini o, almeno, così dicono. Cos'è, dunque, l'onestà politica? Se lo chiedeva in modo diretto Benedetto Croce e rispondeva in modo altrettanto diretto: «L'onestà politica non è altro che la capacità politica: come l'onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze». Lo scritto intitolato proprio così - L'onestà politica - è il frammento XXXVII dei Frammenti di etica che uscì in volume nel 1922 e che nel 1931 andò a comporre, insieme con altri scritti, l'importante volume Etica e Politica. Ora la casa editrice Bibliopolis, che cura l'Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, sta per mandare in libreria a cura di A. Musci proprio Etica e Politica nella edizione completa del 1931 riproducendo il testo nell'edizione ne varietur del 1945. In questo modo il lettore che segue le uscite delle opere crociane avrà modo di avere in un unico testo i quattro libri che compongono il volume: appunto, i Frammenti di etica del 1922, gli Elementi di politica del 1925, gli Aspetti morali della vita politica del 1928 e il Contributo alla critica di me stesso che uscì per la prima volta nel 1918 in cento copie stampate da Riccardo Ricciardi, l'amico editore di Croce che il filosofo chiamava con affetto Belacqua. Gli scritti raccoglievano nella maggior parte dei casi testi già pubblicati sin dal 1915 su riviste e periodici: anzitutto La Critica, e poi La Diana di Fiorina Centi, il Giornale Critico della Filosofia Italiana di Gentile, Politica di Alfredo Rocco e Francesco Coppola, gli Atti dell'Accademia di Scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, i Quaderni critici di Domenico Petrini e La Parola di Zino Zini. In qualche caso anticipazioni e estratti erano già comparsi su quotidiani d'ispirazione liberale e conservatrice come Il Resto del Carlino di Tomaso Monicelli o Il Giornale d'Italia di Alberto Bergamini e Vittorio Vettori. L'origine pubblicistica dei testi ci fa aprire gli occhi sulla qualità del giornalismo italiano del secolo scorso. Ma oggi questi scritti cos'hanno da dire al lettore, son vivi o son morti? Faccia così il signor lettore, non si fidi di niente e di nessuno, neanche di questa noterella, prenda in mano il testo e si faccia un'idea sua. Qui, se è possibile, do solo un consiglio, di guardar le date e notare che gli scritti di politica - gli elementi - uscirono nel 1925 quando Croce, ormai, era passato all'opposizione di Mussolini e del fascismo, quando era finita male l'amicizia con Giovanni Gentile e in quegli scritti il filosofo della libertà marcava tutta la sua differenza rispetto alle commistioni di pensiero e azione fatte da Gentile e da Mussolini e rifiutava apertamente ogni morale governativa respingendo la sbagliata e pericolosa idea hegeliana dello Stato etico: «Nonostante codeste esaltazioni e codesto dionisiaco delirio statale e governa mentale -diceva- bisogna tener fermo a considerare lo Stato per quel che esso veramente è: forma elementare e angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori da ogni banda e trabocca, spargendosi in rivoli copiosi e fecondi, così fecondi da disfare e rifare in perpetuo la vita politica stessa e gli Stati, ossia costringerli a rinnovarsi conforme alle esigenze che essa pone». Il pregio della posizione liberale di Croce è proprio qua: nella distinzione tra filosofia e politica, pensiero e azione; una distinzione che non solo si basava sulla qualità del giudizio storico che ha la sua virtù proprio nella distinzione ma anche sulla grande e imperitura lezione di Machiavelli che rendendo autonoma la politica rese possibile il governo liberale e il controllo dei governanti. Il liberalismo di Croce ha in sé il realismo politico e questo gli consente di non degenerare né nell'utopia né nel giusnaturalismo e di essere oggi come allora un pensatore antitotalitario che si oppose non solo al fascismo ma anche al comunismo. Tuttavia, qui giunto, vorrei dare al lettore, se mi è concesso e se non lo infastidisco, un altro consiglio non richiesto: inizi la lettura dal Contributo alla critica di me stesso, un gioiello di pensiero, umanità e letteratura. Forse, è il modo migliore non solo di avvicinarsi a quest'opera ma anche di avvicinarsi a Croce e di entrare nel suo mondo che è tutto ispirato dalla libertà umana e improntato alla sua promozione e custodia. La lezione viva che si può ricavare da Etica e Politica è quella di non cadere nelle illusioni e nei miti della politica e della vita pratica e di conservare quella necessità che insita nella vita umana: pensare la propria esistenza per non farsi eccessivamente governare dagli altri.

La “presunta” onestà degli italiani, scrive il 2 agosto 2015 don Giorgio De Capitani. In questi ultimi tempi, anche a causa delle polemiche inerenti ai profughi che, dietro ordini delle Prefetture, vengono smistati e messi in alcuni locali dismessi dei Comuni, è uscita di colpo la “presunta” onestà dei cittadini italiani. Anche sul mio sito, ho letto frasi simili: da 50 anni pago le tasse, ho lavorato e sudato onestamente, ed ecco che arriva questa gente, per non dire “gentaglia”, che mi fa sentire cittadino di serie B o Z, quasi umiliato nei miei diritti, eccetera, eccetera. C’è un giornale online locale, Merateonline, dove, ogni giorno, magari con la soddisfazione del suo Direttore, appaiono lettere e lettere di cittadini frustrati dalla presenza di questi “loschi” individui, che non pagano le tasse, non lavorano, anzi li disturbano, non li fanno più vivere in santa pace. Se volete toccare di persona il polso della solidarietà o umanità della gente brianzola, ecco, ne potete avere una certa idea. Sì, una certa idea, perché in realtà i brianzoli sono ancor più egoisti, al di là della loro “innocenza” battesimale o del loro utile pragmatismo pastorale, con la benedizione dei parroci consenzienti. Ma… chi è onesto al cento per cento? Credo nessuno, nemmeno il papa. Chi non ha fatto fare qualche lavoretto in nero? Chi ha fatturato ogni lavoro eseguito? Chi ha sempre pagato l’iva? Chi ha dichiarato l’esatta metratura dei propri locali, per evitare di pagare più tasse sulla spazzatura? Chi lavora per raccomandazione o ha vinto un concorso truccato, chi è un falso invalido o un baby pensionato, ecc. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Naturalmente, quando non paghiamo qualche tassa, ci giustifichiamo in nome della nostra “onestà” presunta, oppure del fatto che gli altri non pagano: “Io non sono un coglione”!  E così via…E poi, soprattutto nel campo ecclesiastico, c’è sempre una ragione “valida” per non pagare tutte le tasse: faccio il bene, mi do da fare per gli altri, sono qui tutto il giorno al servizio della comunità anche civile, e poi dovrei pagare anche le tasse? Il bene mi fa sentire in diritto di esserne esente! Ma questo è un altro discorso, anche complesso. Ma ciò che non sopporto è la “presunta” onestà degli italiani, a giustificazione del proprio egoismo di cittadini che, per il fatto di vantare la propria onestà in base a criteri del tutto personali (ognuno si è fatto il proprio Codice e la propria Costituzione), rifiutano coloro che essi ritengono “diversi”, “estranei”, “illegali”, addirittura “pericolosi”, che mettono a rischio la “presunta” onestà di cittadini italiani.

Chi scaglia la prima pietra? L’editoriale di Sebastiano Cultrera del 06.02.2016. Le incalzanti notizie di cronaca giudiziaria provocano reazioni variegate tra i cittadini della nostra isola. Sgomento, sorpresa, sdegno, compassione o incredulità si alternano nei discorsi tra i cittadini. Ma emerge, troppo spesso, una ipocrisia di fondo che è la stessa che attraversa, troppo spesso, la nostra società procidana. “La devono pagare cara!” ho sentito dire da qualche anima bella “Anche per rispetto ai procidani onesti”. E questa storia dell’ONESTA’ è una specie di ritornello al quale, anche in politica, qualcuno si appella, e di solito lo fa chi è a corto di argomenti: naturalmente declinando il concetto di “onestà” a propria convenienza e piacimento. Io sono convinto, e ho cercato di sostenerlo anche recentemente, che il popolo procidano è un popolo profondamente onesto. Forse il nostro peggior difetto è il menefreghismo, unito ad un individualismo esasperato (i procidani sono “sciuontere”, usa dirsi). Ma rispetto ad altre realtà, anche contigue alla nostra, non possiamo certo lamentarci: non prosperano qui bande criminali, né (per fortuna) si registrano un numero di crimini particolarmente allarmante. Sostanzialmente il popolo procidano (che ha una grande storia imprenditoriale, densa di integrazione culturale e di commerci internazionali) è un popolo sano, produttivo e lavoratore, con un bagaglio etico del lavoro e della famiglia di tipo tradizionale. Tuttavia l’Onestà Aà Aà (quella degli slogan) è un’altra cosa, e proprio quegli esacerbati che la proclamano ai quattro venti (o semplicemente nelle chiacchiere da bar o da aliscafo) dovrebbero, prima, almeno, farsi delle domande. Il quadro che, in effetti, emerge dalle notizie che i media ci restituiscono, rispetto alle inchieste in corso, è un quadro complesso, che lascia intendere una vastissima rete di complicità, con l’abitudine a piccoli e grandi privilegi individuali o di “categoria” che erano diventati, nel tempo, dei veri e propri abusi; magari questi episodi non rivestono sempre rilevanza penale, ma, ciò non di meno, sono egualmente molti distanti da qualunque ideale corretto di ONESTA’. E’, poi, meritevole di approfondimento (e a breve mi piacerebbe farlo) la differenza tra i concetti di ONESTA’, di ETICA e di MORALE, recentemente abusati e usati talvolta a sproposito. Faccio solo notare che essi necessitano, per concretarsi, di un quadro di VALORI condiviso, che invece non esiste più o non è sufficientemente condiviso. Giacché ciascuno si fa una morale a proprio uso e consumo e si finisce per riferirsi, volentieri, alla sola dis-ONESTA’ degli ALTRI, in un eterno gioco di specchi asimmetrico: che, come Lui ha insegnato, ci fa concentrare, colpevolmente, esclusivamente sulle pagliuzze altrui. I sepolcri imbiancati di oggi è facile riconoscerli: sono quelli che, in certi frangenti, si sbattono più di tutti, quelli che vagano stracciandosi le vesti predicando ONESTA’ a sproposito, come se fosse una confezione di dentifricio atta a pulire bocca e denti. E nulla dicono su di loro stessi e sui loro amici, sui costumi diffusi di una comunità che non si riscatta additando le colpe di altri, neanche di uno o più capri espiatori. Invece il largo stuolo di professionisti, impiegati, commercianti e cittadini che beneficiavano (o beneficiano?) di quel “sistema” o comunque si integravano in quel quadro è imponente (e non risparmia neanche molti soggetti dispensatori di slogan o in vario modo in contiguità col moralismo di maniera); essi non sono esattamente dei criminali, almeno fino a prova contraria (e nessuno lo è, quindi, fino a sentenza definitiva). Ma certo dobbiamo dire con ONESTA’ INTELLETTUALE (ahia, l’ho detto anche io!) che tra multe cancellate, impunità varie, spiate e dossier, professionalità tecniche asservite a “papocchi” amministrativi, emerge un quadro sconfortante. Se poi apriamo il focus e vediamo anche il popolo delle casse marittime facili, dei piccoli e grandi abusi e delle piccole e grandi evasioni, possiamo allora essere certi di avere toccato quasi ogni famiglia isolana. Poiché l’averla “fatta franca” non significa essere moralmente meno colpevoli, ciò NON AUTORIZZA a scagliare la PRIMA PIETRA per ferire (a colpi di ONESTA’) chi sciaguratamente è stato scoperto. Spesso, infatti, è proprio la cattiva coscienza che porta a voler concentrarsi su uno o più responsabili (presunti) del decadimento morale, anche al fine di mondare catarticamente le proprie responsabilità e quindi la coscienza stessa. Invece la strada per la “salvezza” (cioè verso una nuova consapevolezza) passa attraverso una presa di coscienza collettiva delle VIRTU’, ma anche dei VIZI di una comunità: al fine di migliorarla.

Una banda di ballisti. Quello che sembrava un partito granitico oggi appare come un castello di carte a cui una manina, forse interessata, ne ha sfilata una. Da banda degli onesti a banda dei bugiardi è stato un attimo, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 07/09/2016 su “Il Giornale”. Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti, cadde su una bugia. Un suo successore, Bill Clinton, rischiò la stessa fine e si salvò in extremis solo perché si pentì e chiese scusa in tempo. Margaret Thatcher sull'argomento aveva un'idea più femminile: «Non si raccontano - ebbe a dire - bugie deliberatamente, diciamo che a volte bisogna essere evasivi». Virginia Raggi, neosindaco di Roma, Luigi Di Maio e tutta la banda dei Cinquestelle, travolti dallo scandalo della bugia sul fatto che nessuno sapeva che una loro assessora era indagata, sono quindi in buona compagnia. Del resto perché sorprendersi di un politico bugiardo? Machiavelli, già cinquecento anni fa, inseriva la menzogna tra le arti di cui un principe deve essere dotato se vuole ben governare. Il problema nasce quando sul malcapitato si accende il faro del sospetto, perché secondo gli esperti, per provare a coprire una bugia - esattamente come accade tra marito e moglie fedifraghi - è necessario raccontarne almeno altre sette. Che è esattamente quello che sta succedendo in queste ore nei piani alti del partito di Grillo, tra accuse e difese, sospetti e veleni incrociati. Quello che sembrava un partito granitico oggi appare come un castello di carte a cui una manina, forse interessata, ne ha sfilata una. Da banda degli onesti a banda dei bugiardi è stato un attimo. E adesso si fa dura, perché, come dice un antico proverbio russo, con le bugie si può andare avanti ma mai tornare indietro. E quindi addio per sempre verginità, addio purezza, addio diversità, addio a tutte le fregnacce che ci siamo dovuti sorbire in questi anni. Il Cinquestelle non è il partito Bengodi, non lo è mai stato e mai lo sarà, è semplicemente una casta che sta tentando di scalzarne un'altra. Con l'aggravante dell'inesperienza e dell'incapacità che si sono dimostrate maggiori del previsto, non solo a Roma ma in tutte le città in cui sono stati messi alla prova. C'è da gioire di tutto questo? No, per niente. Milioni di italiani sono stati ingannati dal moralismo di un comico e da un gruppo di ragazzini; Virginia Raggi, se come probabile resterà in sella grazie a qualche espediente mediatico, sarà un sindaco dimezzato, bugiardo e inaffidabile. E parliamo del sindaco di Roma capitale, non so se mi spiego.

Sul web scatta la gara di sfottò: "È tutta colpa delle cavallette". Raffica di parodie su Di Maio, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 08/09/2016, su "Il Giornale". Dopo le case pagate ad insaputa e lauree conseguite senza saperlo, la mail letta ma non capita da Di Maio entra di diritto nella classifica delle scuse più incredibili della politica nazionale, anche perché nel breve curriculum di Di Maio figura un periodo da webmaster, difficile da svolgere se si ha difficoltà con le mail. L'ironia del web, quindi, si abbatte senza pietà sul pupillo avellinese della Casaleggio Associati, che già aveva pronti nel guardaroba i completi da presidente del Consiglio. Anche se molte tweetstar che in altri casi avrebbero fatto a pezzi il protagonista della gaffe politica, con Di Maio si astengono dall'infierire, meglio non mettersi contro i follower grillini che fanno numero. Ma se una parte dei commenti in Rete è rappresentato dai fan che seguono fedelmente la linea indicata dal direttorio (cioè: è tutta una montatura dei partiti e dei media per screditare il M5S, gli scandali sono altri), la stragrande maggioranza sono sfottó e parodie per la goffa giustificazione addotta dal vicepresidente della Camera. Che rievoca a molti lettori, ricordi e memorie dai banchi di scuola: «Ma oggi c'era interrogazione? Pensavo si facesse ripasso», «Il cane mi ha mangiato i compiti!», «La difesa del ripetente: non avevo capito, non c'ero, e se c'ero dormivo» suggeriscono tre lettori di Repubblica.it, mentre un altro propone un'interpretazione linguistica: «Lui è napoletano e la Taverna parla in romanesco stretto, dovete pur capire il poverino!». Molti twittaroli suggeriscono una integrazione alla scusa di Di Maio pubblicando il celebre monologo di John Belushi in Blues Brothers, quando deve giustificarsi di fronte all'ex ragazza che lo punta con un fucile d'assalto M16 per averla abbandonata davanti all'altare («Ero rimasto senza benzina. C'era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C'è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!»), mentre sui social network viene rimbalza una parodia evangelica: «Tutti contro Di Maio per una mail e nessuno parla dei Corinzi che non hanno mai risposto alle lettere di San Paolo. Questa è l'Italia dei poteri forti». Su Twitter esiste un account @Iddio, con 454mila follower, e anche da lì arriva l'ironia sul vicepresidente della Camera: «Nel progetto originale era previsto di fare le donne senza peli e senza cellulite, ma ho letto male l'email». Filippo Casini ha capito l'origine del complotto denunciato dai Cinque stelle: «Di Maio: Abbiamo tutti i media contro. Soprattutto Hotmail e Outlook», i provider di posta elettronica. «Ho sbagliato a leggere la mail» is the new «Mi hanno rubato l'account», twitta la Lucarelli del Fatto. Sfotte anche Pig Floyd su Twitter: «Mi è arrivata la bolletta della luce da 230. Credo che pagherò 2.30 dicendo Scusate, ho letto male». Ma poi il popolo M5S si dà la carica con Grillo a Nettuno. E anche questo ispira la presa per i fondelli sui malintesi di Di Maio: «Nettuno? Cavolo. Ma un pianeta più vicino non c'era?».

La follia di fare dell'onestà un manifesto politico. Io non so se Casaleggio, parlandone da vivo, fosse o no il re degli onesti. So che il suo partito, dove governa, non riesce a risolvere neppure mezzo problema in più di qualsiasi altro, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/04/2016, su "Il Giornale". «Onestà, onestà», hanno intonato dirigenti e simpatizzanti grillini sul sagrato della chiesa di Santa Maria delle Grazie all'uscita della bara di Gianroberto Casaleggio. Come ultimo saluto, una preghiera laica in linea con il dogma pentastellato che al di fuori del loro club tutto è marcio e indegno. Gli unici onesti del Paese sarebbero loro, come vent'anni fa si spacciavano per tali i magistrati del pool di Mani pulite, come tre anni fa sosteneva di esserlo il candidato del Pd Marino contrapposto a Roma ai presunti ladri di destra. Come tanti altri. Io non faccio esami di onestà a nessuno, me ne guardo bene, ma per lavoro seguo la cronaca e ho preso atto di un principio ineluttabile: chi di onestà colpisce, prima o poi i conti deve farli con la sua, di onestà. Lo sa bene Di Pietro, naufragato sui pasticci immobiliari del suo partito; ne ha pagato le conseguenze Marino con i suoi scontrini taroccati; lo stesso Grillo, a distanza di anni, non ha ancora smentito le notizie sui tanti soldi in nero che incassava quando faceva il comico di professione. Cari Di Maio e compagnia, smettetela con questa scemenza del partito degli onesti che fa la morale a tutti, cosa che fra l'altro porta pure male. L'onestà non è un programma politico, è una precondizione personale per affrontare la vita in un certo modo. Io voglio comportarmi onestamente, e mi piacerebbe facessero altrettanto il mio fruttivendolo, chi mi vende l'automobile, chi si occupa della mia salute, il politico che voto. Ma da loro pretendo solo una cosa: che la frutta sia buona e sana, che l'auto funzioni come mi aspettavo, che se necessario il mio medico mi salvi la vita, che la politica sia efficiente nel risolvere i miei problemi. L'onestà che viene a mancare è un problema della loro coscienza, e giudiziario se comporta la violazione delle leggi e se danneggia la comunità. Io non so se Casaleggio, parlandone da vivo, fosse o no il re degli onesti. So che il suo partito, dove governa, non riesce a risolvere neppure mezzo problema in più di qualsiasi altro. Anzi, a volte, vedi casi Livorno e Quarto, fanno disastri ben peggiori. Cosi come in Parlamento la strategia grillina ha prodotto tanto fumo e zero arrosto. Sarò all'antica, ma in chiesa, ai cori sull'esclusiva dell'onestà («chi è senza peccato scagli la prima pietra», diceva il Padrone di casa) preferisco ancora una preghiera. 

"Noi siamo garantisti e lo siamo anche con il sindaco di Livorno raggiunto da avviso di garanzia non come gli esponenti del Movimento che sono garantisti con i loro e giustizialisti con gli altri": lo ha detto il ministro Boschi parlando nel bresciano a Desenzano del Garda il 7 maggio 2016. Boschi ha quindi aggiunto "Di Maio era a Lodi questa mattina, mi auguro che domani vada a Livorno a chiedere le dimissioni del suo sindaco". "Il 21% dei comuni amministrati dal Movimento 5 stelle - ha concluso - ha problemi con la giustizia, ma il loro grido onestà, onestà diventa omertà, omertà quando riguarda loro".

Caso Pizzarotti: il doppiopesismo che spaventa. L'ipocrisia dentro e fuori il M5S li mostra giustizialisti in pubblico, esoterici nelle “stanze delle tastiere”. Un pericolo per la democrazia, scrive Marco Ventura il 15 maggio 2016 su "Panorama".  Lo aveva detto con chiarezza Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, prima della sospensione dal Movimento 5 Stelle tramite la mail anonima dello “staff” (che rimanda al direttorio M5S e, in definitiva, al clan Casaleggio): “Non è che tutti gli altri sono cattivi e noi tutti buoni. Per sistemare i problemi a volte è necessario sporcarsi le mani”. Ammissione importante. Quindi, non erano tutti cattivi i craxiani o i berlusconiani, così come non sono tutti buoni i magistrati o i 5 Stelle. Se c’è di mezzo l’amministrazione di una città, ci si può dover sporcare le mani. Ne consegue che se questo vale per Livorno, a maggior ragione deve valere per Roma o Milano. Ci si può sporcare le mani “a fin di bene”, forse. Per dare un’aggiustatina. Eppure, per degli integralisti come i 5 Stelle dovrebbe valere il principio che il fine non giustifica mai i mezzi, insomma le mani bisognerebbe non sporcarsele in nessun caso. Tanto meno bisognerebbe accusare gli altri di sporcarsele, per poi autoassolversi se si viene beccati con le mani dentro lo stesso barattolo di marmellata con l’etichetta “concorrenza in bancarotta fraudolenta” o “abuso d’ufficio”. Sembra invece che i grillini siano una razza a parte anche sotto questo aspetto. Se sono loro a finire nel mirino delle Procure (è successo nella maggioranza delle amministrazioni locali che controllano), si tratta di giustizia a orologeria, manganellate giustizialiste, “reati minori”. Vito Crimi, ex presidente dei senatori pentastellati, sembra considerare una medaglia al petto l’avviso di garanzia al compagno di partito nonché Sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, per 33 assunzioni in un’azienda sull’orlo del baratro. Si può mai esser colpevoli, chiede Crimi, di “aver evitato a 33 famiglie di finire in mezzo a una strada?”. Eppure, in altri tempi e riferita ad avversari, l’assunzione di 33 persone in un’azienda municipalizzata che sta per fallire sarebbe stata definita proprio dai 5 Stelle “clientelismo”. I due pesi e due misure riguardano non soltanto i nemici, ma i compagni di cordata. Pizzarotti è sempre stato un mezzo dissidente rispetto ai vertici del partito, Nogarin no. Quindi Pizzarotti viene sospeso e Nogarin salvato (e difeso). Ma il problema non riguarda solo i pentastellati. Riguarda tutti noi. I 5 Stelle un giorno potrebbero avere i numeri per governare. Si tratta di un movimento rivoluzionario, guidato senza trasparenza, molto simile a una setta (spesso i rivoluzionari sono strutturalmente settari). Ma quando la setta incrocia il potere, diventa un pericolo per la democrazia. La verità è che i rivoluzionari, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi momento storico, hanno dimostrato di essere poi bravissimi a adattarsi alle poltrone e nicchie di potere, e di essere mediamente peggiori dei predecessori che si sono trovati a gestire un consenso che calava.  I due pesi e due misure di direttorio e clan Casaleggio contraddicono in modo eclatante la supposta trasparenza delle origini (che in realtà non c’è mai stata). I terribili scontri intestini appartengono alla peggiore tradizione del variegato socialismo e comunismo sovietico. Specchio capovolto del populismo sbandierato dai parlamentari 5 Stelle. Populisti e giustizialisti in pubblico, esoterici e incontrollabili nel chiuso di “stanze delle tastiere” che hanno sostituito le “stanze dei bottoni”.  

Come il giustizialista imputato diventa garantista. L'ex comunista Cioni a Firenze. I grillini Nogarin a Livorno e Pizzarotti a Parma. Prima giacobini, poi indagati: e oggi chiedono il rispetto delle regole dello Stato di diritto, scrive il 13 maggio 2016 Maurizio Tortorella su "Panorama". "A mia figlia Giulia, la più piccola, i compagni di classe domandavano: perché tuo padre non è in prigione? Nel tritacarne mediatico i giornali ti bollano come corrotto e gli amici scompaiono". È bellissima e illuminante l'intervista di Graziano Cioni al Foglio di oggi. Cioni, 70 anni, è stato un esponente del Pci-Pds-Ds-Pd toscano, assessore alla Sicurezza e alla vivibilità di Firenze: nel novembre 2008, da candidato a sindaco della città, venne travolto politicamente e umanamente da un'inchiesta e poi da un processo per corruzione per un progetto urbanistico sull'area fiorentina di Castello. Quell'inchiesta è appena terminata in nulla, in Cassazione. Ma Cioni ha vissuto quasi otto anni d'inferno. Oggi dice ad Annalisa Chirico, che lo intervista: "Io ero un giustizialista convinto. Che puttanata. Per me la legalità era un vessillo assoluto, una bandiera. Le garanzie? la presunzione d'innocenza? Non mi ponevo il problema. Quel che un magistrato fa è giusto per definizione". Cioni ricorda il famoso discorso di Bettino Craxi: quello del luglio 1992, in piena Tangentopoli, quando in Parlamento il segretario del Psi chiamò in correità tutti i segretari di partito, dichiarando "spergiuro" chi avesse negato un finanziamento illecito. "Io ero un anticraxiano di ferro" dice oggi Cioni. "Votai per l'autorizzazione a procedere. Oggi non lo rifarei. Pensavo che Craxi avesse torto. Ho capito che avevamo torto noi". Oggi che cosa dice Cioni della giustizia? "Le carriere dei pm e dei giudici vanno separate. L'assoluzione deve essere inappellabile: io sono stato scagionato da ogni accusa in primo grado, ma il pm è ricorso in appello così mi sono ritrovato nel fuoco incrociato di una contrapposizione tra giudici. La responsabilità civile dei magistrati resta una chimera: perché chi sbaglia non paga? Si dice: questo potrebbe frenarli. Ma allora un chirurgo che dovrebbe fare?". È un uomo folgorato sulla via di un processo. Induce sincera compassione umana, Graziano Cioni. La vita con lui è stata durissima e crudele, non soltanto dal punto di vista giudiziario. Ma il suo percorso mentale da giustizialista a garantista, per quanto straordinario e paradossale, e intimamente giusto, scuote l'animo. Anche perché ormai incarna in sé gli echi di una sconcertante regolarità. Perché, esattamente come lui, proprio in questo periodo approdano alla sponda garantista tanti ex giustizialisti. Sono sempre più numerosi i giacobini che, colpiti da un avviso di garanzia ed entrati loro malgrado nel circo mediatico-giudiziario, scoprono la violenza che hanno alimentato fino al giorno prima. E a quel punto saltano loro i nervi, diventano fragili, soffrono. Capiscono i disastri del populismo giudiziario. Filippo Nogarin, sindaco grillino di Livorno, e Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, indagati a diverso titolo, oggi rivendicano la correttezza del loro operato e si ribellano: rifiutano di seguire le regole del Movimento 5 stelle cui appartengono. Non si dimettono, dopo che il mantra grillino per anni è stato: "Fuori dallo Stato ogni indagato". Attenzione: qui nessuno s'indigna. Ed è in buona misura scorretto fare quel che fanno certi esponenti del Pd, che gridano strumentalmente allo scandalo per il cambio di fronte degli avversari grillini. Non pare corretta nemmeno la rivalsa di chi, nel centrodestra, osserva tacendo: come se fosse una consolazione, perché "ora tocca a loro". No, qui non si tratta nemmeno di contestare una doppia morale, o il doppiopesismo. Chi crede di avere davvero nel sangue il rispetto delle regole dello Stato di diritto, in realtà, si stupisce soltanto che tutti costoro non lo abbiano capito prima. Che non abbiano compreso che l'errore è umano, e che anche l'errore giudiziario lo è. E pertanto che non c'è alcuna certezza, né una Verità assoluta e insindacabile. Né in una chiesa, né in un partito, né (tantomeno) in un tribunale. Il problema è che non si può attendere di subire un'esperienza giudiziaria per comprendere che la presunzione d'innocenza va davvero utilizzata come una regola superiore, stellare. Che l'arresto in carcere deve essere l'ultima istanza, davvero. Che i giornali non possono devastare l'immagine di una persona. Possono porre problemi, ma non dare certezze. Quelle le ha soltanto Dio, se esiste. Il problema è che il circuito mediatico-giudiziario, un unicum vergognoso, da Paese sottosviluppato, è un mostro che va affrontato collettivamente e contenuto, possibilmente annullato. Non lo si è fatto per troppi anni, per miope calcolo politico (con la sua intervista anche Cioni lo conferma, esplicitamente). Ma di calcoli politici si può anche soccombere.

OTTENERE IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE È UN’ODISSEA.

Arrivano in casa alle 5 di mattina e ti buttano in carcere, scrive Roberto Paciucci su “Fino a Prova Contraria” il 18 giugno 2016. L’opinione pubblica pensa: qualcosa di losco avrà fatto altrimenti non gli capitava. Anni dopo sei innocente. Nessuno ti chiede scusa e resta il pregiudizio dei problemi con la giustizia. Con chi te la pigli? In Italia con nessuno. Si dirà che è prevista la riparazione per l’ingiusta detenzione. Vero.  Ma quanto devi tribolare? Per ottenere una equa riparazione il Malcapitato dovrà provvedere ad una serie di procedure e formalismi bizantini buoni solo ad ostacolare l’esercizio di un diritto al punto che alcuni uffici giudiziari (ad esempio la Corte di Appello di Roma) hanno elaborato delle vere e proprie avvertenze sulle modalità di presentazione e sui documenti da allegare.

La domanda deve essere proposta per iscritto, a pena di ammissibilità, entro due anni dalla decisione definitiva e l’entità della riparazione non può eccedere € 516.456,90.

La domanda deve essere depositata in cancelleria personalmente o a mezzo di procuratore speciale.

La domanda deve essere sottoscritta personalmente dall’interessato con eventuale procura speciale e delega per la presentazione nonché espressa richiesta di svolgimento in camera di consiglio o udienza pubblica.

Il presentatore della domanda deve essere identificato dal cancelliere.

Nell’istanza devono essere indicate le date di inizio e fine di ciascuna misura cautelare sofferta e la specie di essa (detenzione, arresti domiciliari).

All’istanza devono essere allegati una miriade di atti e documenti (formando due distinti fascicoli con indice, il primo dei quali dovrà contenere alcuni atti in copia autentica, il secondo gli stessi atti (compresa l’istanza) ma tutti in copia semplice) nonché altre tre copie della sola istanza:

Decreto di archiviazione e relativa richiesta del PM o sentenza di assoluzione in forma autentica completa di timbri di collegamento tra i fogli e data di attestazione del passaggio in giudicato;

Copia delle sentenze di merito emanate nello stesso procedimento e che riguardano l’istante;

Copia dell’eventuale verbale di fermo e ordinanza di convalida;

Copia del verbale di arresto e ordinanza di convalida;

Copia della richiesta del PM di applicazione della custodia cautelare;

Copia dell’ordinanza applicativa della custodia cautelare in forma autentica; provvedimento di eventuale concessione degli arresti domiciliari; provvedimento di modifica del luogo degli arresti domiciliari; provvedimento di rimessione in libertà;

Dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in cui l’istante attesta la pendenza di procedimenti penali (da indicare con i rispettivi numeri di registro e le relative imputazioni) in circoscrizioni diverse da quella di residenza con firma autenticata dal difensore o da un pubblico ufficiale oppure dichiarazione sostitutiva di certificazione ove l’istante dichiara di non essere a conoscenza di procedimenti penali pendenti in circoscrizioni diverse da quelle di residenza;

Copia degli interrogatori resi prima della carcerazione e in ogni fase del processo;

Copia dell’ordinanza di rinvio a giudizio nonché copia della requisitoria del PM ove trattasi di procedimenti con vecchio rito;

Certificato dei carichi pendenti della Procura del luogo di residenza;

L’istante deve indicare i luoghi in cui sono stati trascorsi gli arresti domiciliari.

Poi la domanda dovrà essere valutata nel merito in quanto l’equa riparazione non spetta al soggetto sottoposto a custodia cautelare qualora, così recita la legge, “vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”. È facile imbattersi in sentenze secondo cui la condotta dell’indagato è causa ostativa all’indennizzo qualora si sia avvalso della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio come suo diritto difensivo oppure “sia anteriormente che successivamente al momento restrittivo della libertà personale abbia agito con leggerezza o macroscopica trascuratezza”. Insomma a perdere la libertà è un attimo, per prendere i soldi un’odissea.

La colpa è sempre degli altri. Se i pm hanno deciso per la condanna, perché svolgere i processi: pena immediata in carcere, senza difesa, e buttiamo via la chiave. "I processi durano un'infinità perché ce ne sono troppi. Nella mia esperienza di 38 anni di servizio fin da subito sono stato contrario a questo codice di procedura penale perché irragionevole. Già nel 1988 sollevavo le mie perplessità sulla durata dei processi". Così Piercamillo Davigo, consigliere della Corte di Cassazione e presidente dell'Associazione nazionale magistrati, interviene alla giornata di studio promossa a Roma da Unitelma Sapienza il 17 giugno 2016. "Mi si rispondeva allora che si sarebbero fatti i riti alternativi. Ma in questo paese se uno chiede un patteggiamento, invece di aspettare un indulto o una amnistia, ci si chiede se ci sia un problema di mente. In Usa - ha ricordato - il 90% degli imputati si dichiara colpevole. Vuol dire che lì il processo è avvertito come qualcosa di serio e la condanna come inesorabile. Da noi le aule di giustizia assomigliano a un suk arabo, mentre nel processo anglosassone c'è un religioso silenzio. Tra prescrizione, abolitio criminis, e vicende assortite si ha sempre la speranza di non scontare la pena. Continuiamo ad avere un numero sterminato di processi con il risultato che il processo non può avere l'immediatezza. Scriveranno che Davigo dice che l'oralità segna il ritorno al neolitico. Sì lo dico. In larga parte il nostro processo è già diventato scritto. La prova orale è la più debole, in anni di lavoro mi sono convinto che la parte più pericolosa è la prova fornita dai testimoni oculari. E' la prova debole, quindi il processo è basato su prove scritte, come le intercettazioni telefoniche che sono peraltro trascritte".

E se poi si arriva a sentenza, nonostante, anche, per il lassismo di certi magistrati? Il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini che incontrando i giornalisti a Napoli il 17 giugno 2017 dopo un incontro con i responsabili degli uffici giudiziari sulla carenza di personale amministrativo, ha detto che "nel Distretto di Napoli restano ineseguite attualmente 50mila sentenze definitive, 30mila delle quali di condanna e 20mila di assoluzione".  “Dodicimila delle 50mila sentenze definitive non eseguite - hanno precisato fonti del Csm - riguardano persone da arrestare.” “Ai provvedimenti restrittivi si uniscono - ha sottolineato il procuratore generale di Napoli Luigi Riello - i mancati sequestri di beni.”

E se finisci giudicato da uno così? Un danno per la magistratura, scrive Piero Sansonetti il 22 aprile 2016 su “Il Dubbio”. L'intervista rilasciata da Piercamillo Davigo al “Corriere della Sera” apre due problemi. Uno molto pratico e l’altro di tipo ideale. Il problema pratico è questo: se a un cittadino qualunque capita - e capiterà - di aspettare una sentenza della Corte di Cassazione che deve essere emessa da una sezione della quale fa parte Piercamillo Davigo, come si sentirà questo povero cittadino? Potrà ricusare Davigo, o invece dovrà accettare di essere giudicato da un magistrato il quale afferma e ribadisce che “non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti”? E se per caso questo cittadino fosse uno che fa o ha fatto politica, come si sentirà a farsi giudicare da un magistrato il quale sostiene che i politici - tout court - rubano? Non è un problema “virtuale” è un problema concretissimo. E porta con se un secondo problema: è evidente che Davigo non rappresenta tutta la magistratura italiana, e che anzi la maggior parte dei magistrati hanno idee ed esprimono posizioni del tutto diverse e non in contrasto con la Costituzione Repubblicana, come sono le idee di Davigo. Però è pur vero che Davigo è stato di recente eletto a capo dell’associazione nazionale magistrati, e questo può farci immaginare che esista comunque un numero significativo di magistrati che la pensano come lui. Qualunque cittadino che dovesse finire sotto processo è autorizzato a temere che il magistrato che lo giudicherà la pensi come Davigo. Vedete, il danno che il presidente dell’Anm ha creato alla giustizia italiana con questa intervista è grande. Perché finisce col minare la credibilità non tanto di un singolo giudice, ma di tutta l’istituzione. Del resto che questo pericolo sia molto serio lo ha immediatamente avvertito il dottor Luca Palamara, che oggi fa parte del Csm e qualche anno fa ricoprì l’incarico di presidente dell’Anm. Palamara ieri mattina, appena letta la pagina del Corriere, è immediatamente intervenuto per tentare di limitare i danni. Ha fatto benissimo. Ma l’impresa è complicata, perché ormai l’intervista è stampata. E lo sfregio che ha recato all’immagine della magistratura e di tanti valorosi magistrati è irreversibile. Il secondo problema è quello dei rapporti tra giustizia e politica. Davigo non è certo uno sprovveduto. E’ un giurista molto colto, ha studiato, è sapiente. Il suo unico difetto è quello di avere una visione della giustizia e del diritto un po’ precedente all’esplosione, in Europa - nel settecento - dell’illuminismo. E dunque di essere, nelle sue idee, molto lontano dalla Costituzione Repubblicana (dal suo spirito e dalla sua lettera). La domanda è questa: se i rapporti tra politica e giustizia sono nelle mani di un leader dei magistrati che ha le idee di Davigo, come si può pensare che questi rapporti si risolvano in qualcosa diversa da una guerra? Mi pare che questa prospettiva sia temuta anche dal dottor Palamara, ma non credo che possa essere cambiata se non scendono in campo quei pezzi di magistratura, moderni e filo-Costituzione, che ci sono, sono molto grandi, ma anche, francamente, piuttosto silenziosi.

Ogni anno in Italia 7 mila persone arrestate e poi giudicate innocenti. Il garante dei detenuti: ridurre le misure di custodia cautelare. Gli avvocati: separare le carriere di giudici e pubblici ministeri. 630 milioni. La cifra pagata dal 1992 dal ministero del Tesoro per indennizzi da ingiusta detenzione. L’anno scorso sono stati 36 milioni, scrive il 24 aprile 2016 Andrea Malaguti su “La Stampa”. «Credevano che fossi il Padrino e non un uomo perbene. Così in attesa dei processi ho fatto 23 giorni di galera e un anno e mezzo ai domiciliari. Dopo di che mi hanno assolto con formula piena in primo grado, in appello e in cassazione. Eppure non è finita». Secondo la Procura di Palermo, Francesco Lena, ottantenne imprenditore di San Giuseppe Jato, titolare dello spettacolare relais Abbazia di Sant’Anastasia nel parco delle Madonie, era un prestanome di Bernardo Provenzano. Così cinque anni e mezzo fa, all’alba, le forze dell’ordine hanno bussato alla sua porta: «Venga con noi». «È per il permesso di soggiorno del ragazzo che sto assumendo?». «No, mafia». La moglie è sbiancata, lui si è sentito mancare e il suo mondo è andato in pezzi. Che cosa è successo da quel momento in avanti? «Mi hanno massacrato, trattandomi come il colletto bianco della cosca dell’Uditore e io l’Uditore non so neanche dove sia». Gogna mediatica e custodia cautelare in attesa di tre gradi di giudizio che avrebbero stabilito la sua innocenza, un destino paradossalmente non insolito. «Ogni anno settemila italiani vengono incarcerati o costretti ai domiciliari e poi assolti. Una parte di questi si rivale contro lo Stato, che mediamente riconosce l’indennizzo a una vittima su quattro», spiega l’avvocato Gabriele Magno, presidente dell’associazione nazionale vittime degli errori giudiziari «Articolo643». Lo Stato sbaglia, dunque. E sbaglia tanto. Almeno a guardare i numeri del ministero della Giustizia. Dal 1992 il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. E se la politica - come ha fatto il presidente del Consiglio Matteo Renzi - non rilanciasse il tema ambiguo dei «25 anni di barbarie giustizialiste» (parla alle procure, ai media, ai suoi colleghi o a tutti e tre?) e la magistratura non sostenesse - come ha fatto il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo - che «la presunzione di innocenza è un fatto interno al processo e non c’entra nulla con i rapporti sociali e politici» e che «i politici rubano più di prima solo che adesso non si vergognano più», sarebbe più facile capire se questi numeri siano la fotografia di una debolezza fisiologica del sistema o una sua imperdonabile patologia. Ma perché Francesco Lena sostiene che la sua vita è ancora sospesa? L’imprenditore siciliano precipita in fondo al suo pozzo giudiziario perché un gruppo di mafiosi parla di lui al telefono - «Di me e mai “con” me», chiarisce - ma nei suoi confronti non c’è nient’altro, perciò i processi finiscono in nulla. Eppure la sua proprietà viene sequestrata nel 2011 dalla sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo guidata dall’ormai ex presidente Silvana Saguto, accusata oggi di corruzione e sospesa dalle funzioni e dallo stipendio. Il sequestro avviene pochi mesi prima che la Cassazione scagioni Lena in via definitiva. A danno si aggiunge danno. «Della magistratura ho una altissima stima. Ci sono persone di grande valore, ma anche uomini e donne capaci di distruggere una comunità o una persona. Io vivo di fianco all’Abbazia e quando vedo come l’hanno trattata mi si crepa il cuore. Su 60 ettari di vigne, 30 sono stati abbandonati. Non l’hanno ancora distrutta, ma prima era un’altra cosa. Sono vittima dell’antimafia e delle gelosie, però resisto, pensando che a Enzo Tortora è andata peggio di così», spiega Lena e dal fondo della gola gli esce un suono a metà tra il sospiro e il gemito.  Il 26 di maggio una sentenza dovrebbe restituirgli ciò che è suo. Nel caso di Lena è possibile dire che le misure cautelari non abbiano inciso sulla sua vita sociale? E allo stesso tempo è possibile non pensare che nelle regioni in cui comanda la criminalità organizzata il lavoro dei magistrati sia più duro e complesso e il rischio di errore più alto? Come l’avvocato Magno, anche l’avvocato Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali, è convinto non solo che i magistrati facciano un ricorso eccessivo alla custodia cautelare, ma anche che il problema resterà irrisolto fino a quando non saranno previste la separazione delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la rinuncia alla obbligatorietà dell’azione penale, «correttivi che esistono in ogni Paese regolato dal sistema accusatorio, ma in Italia no». Per questo Migliucci, sostenuto dal suo ordine, ha pronta una raccolta di firme per presentare una legge di iniziativa popolare in ottobre. «Bisognerebbe ricordarsi della presunzione di innocenza, che non è un fatto interno al processo come ritiene Davigo e dunque l’associazione nazionale magistrati. Volere sostenere tale idea significa prescindere da un precetto oggettivo ripreso dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, per introdurre valutazioni etiche e moralistiche che sono proprie di logiche autoritarie». È evidente che siamo alla vigilia di un nuovo scontro frontale. Eppure un punto di equilibrio tra la posizione di Migliucci e quella dell’Anm, che propone operazioni sotto copertura con poliziotti che offrono denaro a politici ed amministratori pubblici per vedere come reagiscono al tentativo di corruzione o l’introduzione di una norma che aumenti automaticamente la pena a chi ricorre in Appello e perde, presumibilmente esiste. «La separazione delle carriere, che non mi scandalizzerebbe, di fatto già esiste. Ma ritenere che le mie sentenze possano essere condizionate dal fatto che prendo il caffè con un pm è ridicolo. Io decido solo secondo scienza e coscienza, come ho fatto nel caso della Commissione Grandi Rischi, quando, qui a L’Aquila, ho mandato assolti sei scienziati che in primo grado erano stati condannati per omicidio colposo e lesioni. Sentenza, la mia, confermata dalla Cassazione». Fabrizia Francabandera è la presidente della sezione penale della Corte d’Appello dell’Aquila, tribunale che lo scorso anno ha indennizzato 44 persone per ingiusta detenzione. È una donna pratica, figlia di un magistrato, che considera il ricorso alla custodia cautelare la risorsa estrema a disposizione dei giudici. «Io penso che meno si arresta e meglio è. Alcuni colleghi usano malamente la custodia cautelare, non come se fosse una misura specifica, ma come una misura di prevenzione generale. Anche perché, in Italia, per i reati sotto i quattro anni non va in galera nessuno». Lo sbilanciamento del sistema è tale per cui si rischia di restare in carcere prima del processo e di non andarci dopo in presenza di una condanna. «Ma anche sulla ingiusta detenzione non bisogna immaginare errori macroscopici. Il dolo non esiste quasi mai e la colpa grave è rara. Il sistema complessivamente funziona, ma ha delle lacune, in un senso e nell’altro». In questi giorni a Francabandera è capitato di indennizzare un uomo arrestato in una discoteca con un sacchetto pieno di palline di ecstasy. Che fosse uno spacciatore era fuori discussione. Eppure, a una analisi successiva, è risultato che le palline non erano ecstasy ma zucchero. Questo perché lo spacciatore era stato truffato. Morale: rispedito a casa e indennizzato per ingiusta detenzione. «Naturalmente gli ho liquidato una cifra bassa, perché con il suo comportamento aveva causato il comportamento degli inquirenti». Il complicato e infinito balletto tra guardie e ladri, che non riguarda solo noi, ma l’Europa. Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà e già presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione delle Torture, è appena tornato da Strasburgo dove si è confrontato con colleghi olandesi, inglesi, bulgari e francesi. «La Gran Bretagna non prevede alcun indennizzo per ingiusta detenzione, la Bulgaria paga con grandi ritardi, mentre l’Olanda, per esempio, ha un meccanismo molto simile al nostro». Anche i numeri sono simili? «Non molto differenti. Per questo penso che gli errori italiani rientrino nella fisiologia del sistema e non nella sua patologia. Mi pare anche che la riforma della responsabilità civile sia un buon compromesso, perché un giudice non può vivere sotto la spada di Damocle della causa, soprattutto in un Paese dove ci sono la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, che in genere hanno avvocati molto in gamba e molto ben pagati. Certo, bisognerebbe cercare di arrestare il meno possibile e anche lavorare di più sugli automatismi che portano all’applicazione della custodia cautelare». Niente barbarie giustizialista come dice il premier, quindi? «Se dietro queste parole c’è l’idea che la politica ha delegato troppo alla magistratura, come è successo per esempio di recente con le stepchild adoption, sono completamente d’accordo. Se intendeva dire, e non penso, che esiste un disegno delle Procure e dei magistrati, allora è una stupidaggine». Barbarie magari no, ma incomprensibile accanimento qualche volta sì. È il caso di Antonio Lattanzi, ex assessore di Martinsicuro, in provincia di Teramo, arrestato quattro volte nel giro di quattro mesi con l’accusa di tentata concussione e abuso di ufficio a seguito della chiamata in correità di un architetto che lo stesso Lattanzi aveva denunciato qualche anno prima. La Procura si intestardisce in un dinamismo irritante caratterizzato dall’incapacità di vedere le cose da un punto di vista diverso dal proprio. «Sono stato assolto in ogni grado di giudizio con formula piena. Ma ho fatto 83 giorni di prigione. Non ho capito perché abbiano usato questa durezza nei miei confronti. Dopo il primo arresto i miei avvocati hanno impugnato il provvedimento e sono stato rimandato a casa. Ma passati pochi giorni i carabinieri sono tornati a prendermi. Stavolta davanti ai miei figli. In carcere l’idea del suicidio mi ha accompagnato ogni giorno e se non fosse stato per mia moglie non so che cosa sarebbe successo. Comunque abbiamo impugnato anche il secondo provvedimento e anche questa volta mi hanno rimandato a casa». Quando sono andati a prenderlo per la terza volta racconta di avere avuto l’impressione che l’anima avesse lasciato il corpo strappato. Anche il terzo provvedimento è stato impugnato, ma il giorno prima che il tribunale per il riesame lo annullasse il giudice per le indagini preliminari ne ha emesso un quarto. «Una follia. Ma ho combattuto e vinto». Ha anche ricevuto un indennizzo, che non è bastato a pagare la metà delle spese legate al processo. «Non importa. Volevo che la mia innocenza fosse riconosciuta a tutto tondo. La prima notte in carcere è un disastro. Io però dormivo con i pantaloni e con la maglietta. Mai con il pigiama. Era il modo per dirmi: non mi piegherò mai a questo stato di cose, sono un uomo libero». Ogni anno in Italia ci sono 7000 casi Lattanzi - «tutti fratelli che vorrei abbracciare» - fisiologia o patologia del sistema giudiziario? 

Carceri "Negli ultimi 50 anni incarcerati 5 milioni di innocenti". Decine di innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su "La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on line, che da conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.

«Quattro volte in carcere in tre mesi, ma ero innocente». Ha ottenuto 55 mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. La sua vicenda è diventata un docufilm, presentato oggi al Doc Fest di Pesaro, scrive Franco Insardà il 23 giugno 2016 su "Il Dubbio". Il suo incubo ora è sul grande schermo. “Non voltarti indietro”, docufilm di Alessandro Del Grosso, racconta cinque gravi errori giudiziari tra i quali quello subito da Antonio Lattanzi: è finalista del Pesaro Doc Fest – Hai Visto Mai?, concorso internazionale di documentari provenienti da tutto il mondo su temi sociali, con la direzione artistica di Luca Zingaretti, che inizia oggi. A dispetto del titolo, Antonio Lattanzi, però, si volta indietro e rilegge tutta la sua storia con lucidità e amarezza. Una delle cose che lo hanno colpito di più è la frase pronunciata dall’avvocato dello Stato nel processo in Corte d’Appello, nel quale si discuteva della richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione: «È vero, ci sono stati degli errori, ma il fatto di non essere stato condannato ha riparato a questi errori». Antonio Lattanzi proprio non riesce a mandare giù queste parole e sbotta: «È assurdo. Sono stato arrestato quattro volte, sono stato in cella 83 giorni e per dieci anni sono stato imputato. Finalmente vengo assolto, chiedo il risarcimento e mi sento dire che l’assoluzione mi dovrebbe ripagare per questo calvario». È un fiume in piena quando racconta la sua incredibile vicenda. Ricorda perfettamente date, processi, pm, gip e giudici che lo hanno accompagnato per dieci anni.

Un incubo iniziato quando?

«Il 21 gennaio del 2002. Alle quattro di mattina i carabinieri sono venuti a casa e mi hanno notificato il mandato di arresto. Sono caduto dalle nuvole. All’epoca avevo due figli di 4 e 2 anni ed essere portato via sotto i loro occhi è stato bruttissimo. Non riuscivo a guardarli in faccia, mi sentivo addosso il loro sguardo indagatore e quello di mia moglie. Era incredula, non riusciva a capire quello che stava succedendo».

Di che cosa era accusato e da chi?

«Di concorso in tentata concussione e abuso di ufficio. All’epoca ero assessore ai Lavori pubblici del comune di Martinsicuro. Il tutto era partito dalle dichiarazioni di Pierluigi Lunghi, l’architetto responsabile del settore tecnico del comune, arrestato in flagranza di reato nel luglio del 2001. Raccontò di aver chiesto dei soldi ad alcuni imprenditori, e, a un certo punto, mi tirò in ballo dicendo che il tramite sarei stato io. Lunghi nel 1996 fu indagato, dopo una mia denuncia, per un reato di falso in atto pubblico e condannato a 14 mesi. Fu arrestato in flagranza di reato il 26 luglio 2001 e di nuovo il 22 agosto 2001».

Come si conclusero le indagini?

«Il pm, Bruno Auriemma, chiese l’archiviazione, ma poi Elena Tomassini, alla quale era passato il fascicolo del primo procedimento, chiese l’emissione dell’ordinanza di arresto al gip Giovanni Cirillo. E così quel 21 gennaio si aprirono per me le porte del carcere di Teramo».

Quanti giorni ci rimase?

«Ventidue giorni, perché il Tribunale del Riesame annullò l’ordinanza di custodia cautelare, ritenendo che non vi fossero i gravi indizi di colpevolezza e non ricorressero le esigenze cautelari. E così il 12 febbraio potei tornare a riabbracciare i miei figli».

A quel punto pensò che l’incubo fosse finito?

«Sì. Ma quella sensazione durò pochissimo: solo otto giorni. Il 20 febbraio i carabinieri vennero di nuovo per portarmi in carcere. L’accusa era la stessa, stavolta per un nuovo episodio di tentata concussione. Un altro pm Domenico Castellani chiese sempre allo stesso gip Cirillo una nuova ordinanza di arresto. Anche questa volta il Tribunale del Riesame, l’11 marzo, annullò l’ordinanza di custodia cautelare».

Di nuovo libero.

«Questa volta solo per tre giorni. Era il 14 marzo 2002. L’accusa, tanto per cambiare, era di tentata concussione in concorso con l’architetto Lunghi. Il Tribunale del Riesame, il 29 marzo 2002, annullò l’ennesima misura cautelare».

Finalmente libero.

«Non mi hanno neanche fatto uscire dal carcere di Teramo. Il giorno prima, il 28 marzo, mi hanno notificato una nuova ordinanza di custodia cautelare per un quarto tentativo di concussione. Stesso pm e stesso gip. E, tanto per cambiare il Tribunale del Riesame ordinò la scarcerazione. Era il 22 aprile del 2002».

Quale spiegazione si dà per questo accanimento?

«Penso che alcuni magistrati non vogliano ammettere di aver sbagliato in una valutazione e cercano ossessivamente gli elementi per sostenere la loro tesi accusatoria. Nella mia vicenda c’è stato il combinato disposto tra il mio accusatore, che voleva vendicarsi, e i magistrati che gli hanno creduto e sono voluti andare caparbiamente avanti, senza valutare serenamente i fatti. Se lo avessero fatto non sarei stato arrestato quattro volte, non avrei fatto 83 giorni di carcere e i processi».

Infatti nel 2003 sono iniziati i processi.

«Il 14 gennaio del 2006 sono stato assolto in primo grado, ma il pm fece ricorso per Cassazione, perché all’epoca era in vigore la “legge Pecorella”. Nel 2012 il procuratore generale nel processo di Appello all’Aquila chiese di non procedere per sopravvenuta prescrizione. Ma io e i miei legali chiedemmo di procedere. Volevo avere una sentenza. Eravamo sicuri e abbiamo avuto ragione. Sono stato pienamente assolto».

Quando è entrato per la prima volta in carcere che cosa ha pensato?

«Sono cresciuto con un insegnamento chiaro: se non si fa nulla non bisogna avere paura. Purtroppo oggi devo dire che non è vero. Sono stato sbattuto in carcere senza che avessi fatto niente. Quando sono stato arrestato è stato disposto il divieto di incontrare gli avvocati prima dell’interrogatorio di garanzia. Sono passati otto giorni prima che mi facessero vedere mia moglie. Neanche fossi il peggiore assassino».

Parliamo di sua moglie.

«È una donna straordinaria. Senza di lei non sarei riuscito a venire fuori da questo incubo. Mi è stata vicina sin dal primo momento, mi ha sostenuto sempre. A ogni arresto e a ogni scarcerazione. Quel 22 aprile 2002, il giorno della mia libertà, le chiesi di venire con il nostro fuoristrada perché dalla finestrella della cella potevo intravederne il tettuccio, e quindi quella mattina sono stato a guardare fuori. Sembravo un leone in gabbia, ma mi calmai solo quando vidi spuntare la macchina».

Prima raccontava dello sguardo dei suoi figli quando sono venuti ad arrestarlo. E poi?

«All’epoca avevo due figli, di 4 e 2 anni, che grazie a mia moglie sono cresciuti tranquilli. La più grande ha un carattere forte. Durante la carcerazione con mia moglie decidemmo che ci saremmo fatti un regalo: un altro figlio. Nel 2005 è nata Francesca. La nostra famiglia oggi è ancora più unita. Io volevo cambiare paese, ma mia moglie mi ha convinto a rimanere».

E i suoi amici?

«Martinsicuro si è diviso. I veri amici hanno creduto in me e mi sono stati ancora più vicini, altri mi hanno deluso e si sono allontanati. Va bene così».

Chi è Antonio Lattanzi?

«Sono un ottico professionista, ho 55 anni, sono nato a Giulianova e vivo con la mia famiglia a Martinsicuro, in provincia di Teramo, e sin da ragazzo ho sempre voluto impegnarmi in politica. Nel 1993 sono stato eletto consigliere comunale ed ero all’opposizione. Nel 1997 sono stato rieletto e nominato assessore ai Lavori pubblici. Poi quel 21 gennaio 2002…»

L’assessorato ai Lavori pubblici è una poltrona che scotta. Che cosa ha realizzato?

«Su tutto l’avvio dei lavori per la sistemazione del lungomare e la realizzazione del porticciolo. Opere ferme da quel 2002. Quella poltrona per me non scottava, forse ho dato fastidio a qualcuno che si è voluto vendicare».

Dopo questa esperienza ha chiuso con la politica?

«Assolutamente no. Mi chiedono di candidarmi a sindaco. I cittadini di Martinsicuro vogliono che metta a disposizione del paese la mia esperienza amministrativa e la mia determinazione. Questa vicenda mi ha rafforzato».

Come sono stati questi 83 giorni in cella?

«Sono stato trattato bene dai miei compagni di sventura e dagli agenti penitenziari. Ho visto da vicino un mondo che non immaginavo e un sistema che va senza alcun dubbio migliorato, nel rispetto del dettato costituzionale».

È stato risarcito per quella detenzione?

«Risarcito è una parola grossa. Mi sono stati riconosciuti 55mila euro, ma tenga presente che ho speso circa 200mila euro per difendermi. Senza contare tutto quello che è significata questa storia dal punto di vista psicologico per me e per la mia famiglia. Ora sento di dover davvero chiudere il capitolo. Senza voltarmi indietro».

Pelaggi, l’avvocato innocente scagionato solo dopo tre anni. La Procura della Cassazione avvia un’indagine disciplinare sui magistrati. Luigi Pelaggi, una carriera brillante prima in Confindustria e poi come capo della segreteria tecnica del Ministero dell’Ambiente con Stefania Prestigiacomo, scrive Paolo Colonnello l'11 giugno 2016 su "La Stampa”. Ci sono voluti tre anni, 32 mila pagine da leggere, cinque mesi di prigione, un figlio piccolo da ingannare («Dov’è papà?» «All’estero…») e una moglie da consolare, prima che un tribunale, questa volta di Roma, iniziasse a rendere giustizia a Luigi Pelaggi, avvocato granitico, una carriera brillantissima prima in Confindustria e poi come capo della segreteria tecnica del Ministero dell’Ambiente con Stefania Prestigiacomo, stroncata una fredda mattina del gennaio 2014 da un ordine di cattura richiesto dalla Procura di Milano per un’accusa di corruzione rivelatasi completamente inesistente. E i cui estremi d’insussistenza erano già contenuti nelle stesse carte dell’inchiesta, un gigantesco faldone composto appunto da 32 mila pagine, all’interno del quale campeggiava una relazione della Guardia di finanza di “appena” 800 pagine dove era chiarissimo che i 700 mila euro di corruzione di cui veniva accusato Pelaggi non erano mai finiti a lui ma erano semplicemente il frutto di una manovra finanziaria infragruppo tra privati. Pelaggi aveva avuto la disgrazia di finire in un’intercettazione nella quale il suo nome veniva incautamente accostato ad una cifra: «700». Ora la Procura generale della Cassazione sul caso ha aperto un procedimento. Si vuole capire come mai, pur agli atti, la relazione della Gdf che proscioglieva Pelaggi, non sia mai stata presa in considerazione dai magistrati e dai giudici che si sono succeduti nella trattazione del caso: dai 4 pm milanesi che hanno svolto l’inchiesta, ovvero l’allora aggiunto Robledo e i sostituti Basiloni, Filippini e Pirrotta, ai gip che hanno emesso il provvedimento restrittivo e lo hanno convalidato (respingendo ben tre richieste di scarcerazione) ai giudici del tribunale del Riesame. Eppure al pm romano Paolo Ielo, che alla fine lo ha prosciolto chiedendone l’archiviazione confermata un anno fa dal gip, non c’è voluto molto: gli è bastato ascoltare le ragioni di questo avvocato, leggere la relazione che gli veniva segnalata e procedere. Avrebbero potuto fare così anche i pm di Milano ai quali Pelaggi, prima di essere arrestato, aveva chiesto (inutilmente) per ben 5 volte di essere ascoltato. In tutto sono 9 i magistrati che hanno ritenuto evidentemente più pregnante una intercettazione nella quale i responsabili di una società incaricata della bonifica del sito a Pioltello dell’ex area Sisas, la Daneco, parlavano di 700 mila euro e poi di Pelaggi: «I 700 poi sai dove vanno?». «Lo so, lo so…questo commissario è fantastico». Chiacchierata suggestiva ma, si è poi dimostrato, priva di sostanza, dato che i “700” cui facevano riferimento non erano affatto destinati a Pelaggi. Ma chi è Pelaggi? L’avvocato venne nominato Commissario Straordinario del sito di Pioltello con l’incarico di portare a termine la bonifica di un’area di oltre 300 mila metri quadri, con la rimozione e lo smaltimento di 300 mila tonnellate di rifiuti speciali, sospesa dopo l’arresto di uno dei vincitori dell’appalto originario (Giuseppe Grossi). Un’operazione che il Commissario portò a termine in un anno (maggio 2010-giugno 2011) riuscendo così ad ottenere l’archiviazione della condanna dello Stato italiano da parte della commissione europea ad una molta per oltre 670 milioni di euro. Vicenda per la quale, paradosso nel paradosso, ora Pelaggi è accusato di truffa nei confronti dello Stato. Ma il legale si sente sicuro e tranquillo di poter dimostrare anche questa assurdità. Intanto ha perso 5 mesi di vita, si è visto rovinare una notevole carriera e ha avuto seri problemi famigliari. Ora sarebbe bello che qualcuno gli restituisse un po’ di giustizia. 

RISARCIMENTO PER I PROCESSI LUNGHI. LEGGE PINTO? NO! LEGGE TRUFFA!

Mini trattato del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Le accuse di Renzi ai magistrati lucani. Il premier alla direzione Pd del 4 aprile 2016: «Non arrivano mai a sentenza. Se è reato sbloccare le opere lo sto commettendo. Vedo che i giornalisti dicono che ho attaccato la magistratura. Ma non li sto attaccando, dico solo che non ci vogliono otto anni per andare a sentenza. Se è reato sbloccare le opere pubbliche, io sono quello che sta commettendo reato. Ma se si decide che un’opera va fatta nel 1989, c’era ancora il muro di Berlino, 27 anni dopo, lo scandalo non è che l’emendamento venga approvato ma che si siano buttate delle occasioni». E ancora: «Io chiedo alla magistratura non solo di indagare ma di arrivare a sentenza: perché ci sono state indagini sul petrolio in Basilicata con la stessa cadenza delle Olimpiadi, 2000-2004-2008, ci sono stati anche arrestati, ma non si è giunto mai a sentenza». All'indomani delle parole del Presidente del Consiglio Matteo Renzi arriva, dura, la replica del presidente della sezione della Basilicata dell'Associazione nazionale magistrati (Anm), Salvatore Colella: «Le dichiarazioni di Renzi sono inopportune nei tempi ed inconsistenti nei fatti. Inopportune perché arrivano in un momento molto delicato dell'inchiesta, con un intervento “a gamba tesa” e le sue insinuazioni sono quantomeno viziate da un interesse di parte, inconsistenti perché smentite, solo poche ore dopo, da un pesante verdetto di condanna contro i vertici della Total nel processo “Totalgate” (dopo 8 anni, con inchiesta nata nel 2008 per mani di Woodcock). Se è vero che in un paese civile, come dice il Presidente Renzi, “i processi arrivano a sentenza”, e noi abbiamo dimostrato di saperlo fare - ha continuato l'Anm lucana - è anche vero che in un Paese civile “il governo rispetta i lavoro dei magistrati”, sempre, anche quando toccano la propria parte politica. Ci saremmo aspettati la stessa intransigenza e fermezza di condanna annunciata dal Presidente in occasione di altre inchieste di rilievo nazionale». Renzi sceglie Facebook per rispondere alle critiche sulle sue affermazioni sulla Procura di Potenza: «Oggi leggo che Renzi accusa i magistrati, noi stiamo incoraggiando i magistrati a fare il più veloce possibile. Non accuso i magistrati, accuso un sistema che non funziona, voglio mettere in galera i ladri, per questo incalzo i magistrati perché siano veloci», ha detto Matteo Renzi in diretta da Palazzo Chigi utilizzando Facebook Mentions.

Ma a prescindere dalla diatriba farsesca, tra parti che si coprono a vicenda, parliamo dei danni inflitti alla comunità dalle lungaggini processuali ed a cui nessuno vuol porre rimedio per non inimicarsi “le sacre toghe”.

Per porre rimedio alle condanne inflitte dalla CEDU il legislatore italiano ha inventato la Legge Pinto, ossia la legge che, man mano annacquata da riforme restrittive, è a tutti gli effetti una legge truffa.

Chi è stato coinvolto in un processo – civile, penale, amministrativo, pensionistico, militare, in una procedura fallimentare o concorsuale ovvero, a certe condizioni, tributario, ecc. – per un periodo di tempo considerato «irragionevole», cioè troppo lungo, può richiedere, in base alle disposizioni della legge 24 marzo 2001, n. 89, meglio conosciuta come “legge Pinto”, una equa riparazione, cioè un risarcimento del danno allo Stato italiano, nella misura determinata dalla legge stessa in ragione degli anni o frazione eccedenti la durata ragionevole.

Secondo l’art. 2-bis, si considera rispettato il termine ragionevole per la durata del giudizio «se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità».

La legge Pinto è stata modificata col D.L.8 aprile 2013, n. 35, convertito con modificazioni nella L. 6 giugno 2013, n. 64 e col D.L. 22 giugno 2012, n. 83, con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134. È stata poi modificata dalla legge di stabilità 2016. L’ammontare effettivo del risarcimento concesso dipende dalla materia del procedimento e dalla sede territoriale della Corte: di solito vengono liquidati risarcimenti più alti per questioni in materia di famiglia o status della persona, per procedimenti penali o pensionistici, meno per altre questioni; inoltre le corti d’appello che si trovano al Nord sono, solitamente, più di manica larga rispetto a quelle del meridione, parallelamente alla differenza del costo della vita, almeno tendenzialmente. In materia, valgono inoltre le regole poste dall’art. 2 bis della legge Pinto. Il risarcimento può essere chiesto anche se il giudizio è terminato con una transazione e cioè mediante un accordo tra le parti (Cass. 8716/06, Cass. 11.03.05 n. 5398). Il risarcimento va chiesto con ricorso alla Corte d’Appello territorialmente competente e viene deciso dalla corte con un decreto che poi va notificato al ministero, con una procedura simile a quella prevista per l’ingiunzione di pagamento.

La legge 24 marzo 2001, n. 89 - nota come legge Pinto - (dal nome del suo estensore, Michele Pinto) è una legge della Repubblica Italiana. Essa prevede e disciplina il diritto di richiedere un'equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subìto per l'irragionevole durata di un processo. La norma nacque come ricorso straordinario in appello qualora un procedimento giudiziario ecceda i termine di durata ragionevole di un processo secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU), in base all'art. 13 della Convenzione che prevede il diritto ad un ricorso effettivo contro ogni possibile violazione della Convenzione. In tal modo, si introduce un nuovo ricorso interno, che i ricorrenti devono avviare prima di rivolgersi alla Corte di Strasburgo. Tuttavia le Corti d'Appello inizialmente non hanno applicato i parametri della CEDU per la definizione dell'irragionevole durata del processo, ma hanno chiesto ai ricorrenti la dimostrazione dell'aver subito un danno (cosa che, secondo l'art.6 CEDU, è incluso nel fatto stesso). Tali casi sono stati quindi ri-appellati alla Corte CEDU di Strasburgo per scorretta applicazione della Legge Pinto. Nel 2004 la Corte di Cassazione ha stabilito che i giudici nazionali devono applicare i criteri di Strasburgo nel decidere in casi relativi alla legge Pinto, senza poter richiedere la prova del danno subito dal ricorrente. La sentenza Brusco della CEDU ha infine statuito che tutti i casi pendenti a Strasburgo dal 2001 (sui quali non sia ancora stato dato un giudizio di ricevibilità da parte della Corte) debbano tornare in Italia per l'appello interno secondo la legge Pinto. La sentenza Brusco è stata criticata per gli alti costi processuali presenti nella procedura interna italiana, ed inesistenti a Strasburgo. L'art. 55 del Dl. 22 giugno 2012 n. 83, contenente "misure urgenti per la crescita del paese" (c.d. decreto sviluppo del governo Monti), ha apportato importanti modifiche alla legge, volte a porre un freno alle richieste di risarcimento. Infatti, la riforma introdotta dal c.d. DL Sviluppo 2012 è stato profondamente mutato il procedimento delineato dalla Legge Pinto per permettere un più agevole ed efficace accesso al giudizio di equa riparazione ed ottenere in tempi più rapidi (che non siano a loro volta “irragionevoli”) il giusto risarcimento.

1) Non è più investita della decisione la Corte d'Appello in composizione collegiale. A decidere sarà un giudice monocratico di Corte d'appello con una procedura modellata su quella del decreto ingiuntivo e quindi, senza inutili appesantimenti procedurali (a titolo di esempio basti pensare che per la fissazione dell'udienza, specie avanti le Corti di appello più oberate, occorrono mesi o anni di attesa).

2) Viene fissato un preciso tetto oltre il quale la lunghezza del processo diventa “irragionevole” facendo così sorgere il diritto all'equa riparazione. Il processo non è svolto in termini ragionevoli quando supera i sei anni (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità).

3) Sono stati puntualmente fissati gli importi per gli indennizzi commisurati in 1.500 euro per ogni anno o frazione di anno superiore a sei mesi che eccedente rispetto al termine di ragionevole durata.

4) In ogni caso la domanda può essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi dalla sentenza definitiva che definisce il giudizio durato oltre il termine “ragionevole”.

La Legge, 28/12/2015 n° 208, G.U. 30/12/2015, detta "Legge di Stabilità 2016", introduce rilevanti modifiche alla cosiddetta Legge Pinto (L. n° 89 del 2001) regolamentando alcuni aspetti ma, fondamentalmente, riducendo ancor di più la possibilità di ottenere l'indennizzo e riducendo, altresì, la quantificazione dell'indennizzo stesso. Contenimento degli effetti della Legge Pinto pare essere il leit motiv che, a partire dal corposo intervento sull'articolato operato dal Governo Monti, contraddistingue ogni intervento sulla materia.

SCHEMA ESEMPLIFICATIVO.

IL DANNO

Danno da lungaggine del processo per la Cedu: patrimoniale o non patrimoniale.

Danno da lungaggine del processo per lo Stato Italiano: Forfettario. Prima, da 500 euro a 1500 euro, dopo, da 400 euro a 800 euro.

IL DIRITTO

Diritto al risarcimento per la CEDU: è incluso nel fatto stesso (onere della prova a carico dello Stato, an e quantum) senza valutazione ed interpretazione.

Diritto al risarcimento per lo Stato Italiano: ai ricorrenti tocca la dimostrazione dell'aver subito un danno (onere della prova a carico dei ricorrenti, an e quantum) e valutazione data dai magistrati responsabili essi stessi del danno. Il giudice infatti, nell’accertare l’entità della violazione valuta: la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice collega durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

DURATA

Durata ragionevole del processo per la Cedu: ragionevole inteso in senso oggettivo europeo.

Durata ragionevole del processo per lo Stato Italiano: 3 anni per il primo grado; due anni per il secondo grado; un anno per il terzo grado. Precisando che il processo si considera iniziato, nell’ambito dei procedimenti civili, con il deposito del ricorso o con la notifica dell’atto di citazione; penali, con l’assunzione della qualità di imputato e non di indagato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero, quando l’indagato ha legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari.

ITER

Iter risarcitorio per la Cedu: procedimento amministrativo semplificato, veloce e gratuito.

Iter risarcitorio per lo Stato Italiano: procedimento giudiziario di competenza dell’ordine professionale foriero del danno attivato. Prima presso la Corte di Appello competente ex art. 11 c.p.p., poi, presso la Corte di Appello foriera del danno in composizione monocratica ed inaudita altera parte. Le nuove norme assicurano senz’altro una più equilibrata ed efficiente distribuzione dei carichi di lavoro (condizione indispensabile per evitare il moltiplicarsi di procedimenti c.d. “Pinto bis”o, perfino, “Pinto ter”!), ma determinano anche un grave vulnus ai principi costituzionali di terzietà ed imparzialità della magistratura, che, per accrescere la fiducia dei consociati nel sistema giustizia, richiedono di essere perseguiti e realizzati anche semplicemente sul piano dell’apparenza.

ATTIVAZIONE

Attivazione dell’iter per la Cedu: semplice domanda.

Attivazione per lo Stato Italiano: Prima semplice ricorso giudiziario, dopo una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento.

GRAVOSITA' DELL'ONERE DELLA PROVA

Onere della prova per la Cedu: Fascicolo acquisito d’ufficio.

Onere della prova per lo Stato Italiano: copie fascicolo conformi all’originale con oneri di bollo e diritti.

DIFFICOLTA' ARTEFATTE

Intoppi ed ostacoli per la Cedu: nessuno.

Intoppi ed ostacoli per lo Stato Italiano: La novità più rilevante consiste nella introduzione del concetto di "rimedio preventivo"; la parte deve dimostrare fattivamente di avere intrapreso le strade più brevi per l'ottenimento della sentenza, attraverso istanze di accelerazione, (insomma, solo se ha chiesto al giudice di accelerare in ogni modo la causa, come se fosse colpa sua e non del sistema che scricchiola), istanze di prelievo, riunione delle cause, utilizzo di riti sommari, trattazione orale ex art. 281-sexies, ecc. Gli esperti sostengono che sul versante civile questa clausola potrebbe portare ad una situazione drammatica: la rinuncia al rito ordinario e la decisione allo stato degli atti, questa la dizione tecnica, col rischio di perdere la causa. Fondamentale la regola introdotta dal prima comma dell'art. 2 secondo la quale "È inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo di cui all’articolo 1-ter".

TERMINE DELLA DOMANDA

Termine della domanda per la Cedu: ragionevole.

Termine della domanda per lo Stato Italiano: In ogni caso la domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi dalla sentenza definitiva che definisce il giudizio durato oltre il termine “ragionevole”.

PAGAMENTO

Pagamento per la Cedu: immediato e semplice.

Pagamento per lo Stato Italiano: gli indennizzi potranno essere erogati entro il limite delle risorse disponibili di un apposito capitolo del ministero della Giustizia. Per fortuna sarà possibile un‘anticipazione di tesoreria, ma solo nel caso venga attivata l’esecuzione forzata. In quel caso sarà Banca d’Italia a provvedere registrando il pagamento in "conto sospeso" in attesa che il ministero regolarizzi la partita contabile non appena abbia le risorse per farlo. Con l'introduzione del nuovo art. 5-sexies viene completamente regolamentata a nuovo la fase del pagamento. Vi è ora la necessità di formulare ripetutamente una istanza che potremo chiamare di precisazione del credito con la quale si ricorda allo Stato che non ha ancora pagato.

TERMINI DEL PAGAMENTO

Termini ragionevoli di adempimento per la Cedu: due anni.

Termini ragionevoli di adempimento per lo Stato Italiano (Pinto su Pinto): prima 4 mesi, dopo, 6 anni ordinari, dopo le pronunzie giurisprudenziali, 2 anni e tre anni. 2 anni. La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con sentenza n. 8283/2012, è intervenuta, limitando a due anni la durata massima, fra appello e Cassazione, entro cui deve concludersi il processo ex lege Pinto, istaurato al fine di ottenere l’equo ristoro per i danni subiti da un “processo lumaca”. Superato tale limite la vittima ha diritto a ottenere un secondo e differente ristoro. Infine 2 anni, primo grado, 1 anno, legittimità. I giudizi risarcitori per irragionevole durata del processo devono essere molto più che "di ragionevole durata". E' quanto si ricava dalla sentenza n. 36 del 19 febbraio 2016, con la quale la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla cd. "legge Pinto" (legge n. 89/2001). Tuttavia, con impeto chiaramente burocratico, teso a creare un percorso ad ostacoli, si prescrive che "nel caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione o della documentazione di cui ai commi precedenti, l’ordine di pagamento non può essere emesso". L'amministrazione provvede al pagamento nel termine di sei mesi. In questo periodo "... i creditori non possono procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento".

SANZIONI 

Sanzioni per la Cedu: nessuna, se non la pronuncia di rigetto della domanda.

Sanzioni per lo Stato Italiano: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge! - è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!

Per le lungaggini processuali il nostro Paese è ancora ai primissimi posti nella classifica delle violazioni dei diritti umani. Assieme a disoccupati, debito pubblico e corruzione, l'Italia detiene un altro primato internazionale: il numero di ricorsi presentati da nostri concittadini alla Corte europea dei diritti dell'uomo, scrive su Elisabetta Burba il 29 gennaio 2015 su “Panorama”. A inizio ottobre 2014, l'Italia era in cima alla graduatoria dei paesi con maggior numero di ricorsi per violazioni della Convenzione europea dei diritti umani, soprattutto per lungaggini processuali e sovraffollamento delle carceri. Tanto che nel 2013 è stata condannata a versare indennizzi per oltre 71 milioni di euro. Pur avendo quasi dimezzato l'importo rispetto al 2012 (quando aveva raggiunto la cifra record di 120 milioni di euro), anche nel 2013 il nostro paese è stato quello condannato a versare la cifra più alta fra tutti i 47 paesi membri del Consiglio d'Europa. Lo Stato ha accumulato uno stock di debito di oltre 455 milioni di euro a titolo di risarcimento per i procedimenti non definiti entro il termine massimo di 6 anni. Ogni anno vengono presentate circa 12 mila istanze relative a richieste per cause definite con ritardi fino a 3 anni (sono il 25%), per indennizzi tra 3 e 7 anni (55% circa 6.600 casi). Ma ci sono anche richieste di risarcimento per ritardi che definire esorbitanti è riduttivo: in 2.400 casi oltre 7 anni rispetto al termine di legge. Le cifre che ogni anno le casse dello Stato liquidano per questi procedimenti è di circa 45 milioni. Con 17.300 procedimenti aperti, nell'ottobre 2014 l'Italia si è aggiudicata il primo inglorioso posto nella classifica dei ricorsi, davanti a paesi non esattamente garantisti come Russia, Turchia e Ucraina. Negli ultimi mesi il numero dei ricorsi è calato agli attuali 12mila, ma la situazione resta critica. «Come numeri assoluti purtroppo siamo ancora molto in alto: al secondo posto dopo l'Ucraina e prima della Russia, anche se fortunatamente non occupiamo più la prima posizione» dice a Panorama Guido Raimondi, il giudice italiano nonché vicepresidente della Corte. Il tribunale ha sede a Strasburgo in uno stravagante palazzo del 1995 che si ispira all'allegoria della dea Giustizia: la hall centrale di vetro simboleggia l'accessibilità della Corte e le due torri d'acciaio laterali con tetto inclinato i piatti della bilancia. Ed è proprio la "denegata giustizia" l'oggetto del contendere fra la Corte e l'Italia. Al primo posto, un annoso problema dei tribunali italiani: le lungaggini processuali (seguito a ruota dal sovraffollamento carcerario). «Il nostro contenzioso riguarda in gran parte l'eccessiva lunghezza delle procedure giudiziarie- spiega Raimondi - L'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che gli Stati membri sono tenuti ad applicare, dice che ogni persona ha "diritto a un equo processo". E quando la Corte rileva la violazione di un diritto segnala allo Stato che nel suo sistema c'è un problema: spetta allo Stato risolverlo. Nel caso dei processi interminabili, un fenomeno esploso negli anni Ottanta, la soluzione trovata nel 2001 era stata la legge Pinto. Quello che in gergo è detto un "rimedio interno" prevedeva un sistema risarcitorio in ambito nazionale secondo un ammontare previsto dalla Corte. Una volta promulgata la legge, che prevedeva il diritto di risarcimento in caso d'irragionevole durata di un processo, la Corte aveva ritenuto chiuso il caso. Peccato però che a Roma mancassero gli stanziamenti necessari per applicarla...». «Non solo - commenta Manuel Jacoangeli, l'attivissimo ambasciatore italiano a Strasburgo, che riceve Panorama nella prestigiosa sede del governo italiano, una villa art nouveau del 1899. - In tutti questi anni, Roma non ha saputo risolvere il problema attraverso una complessiva riforma della giustizia. Risultato: in breve tempo i ricorsi a Strasburgo per lungaggini processuali erano ripresi, gonfiandosi a dismisura, fino a coprire circa i due terzi del totale». «Il numero dei ricorsi individuali contro l'Italia, in comparazione con quello di altri paesi, è solo relativamente un indicatore dello stato dei diritti umani - spiega Vladimiro Zagrebelsky, che è stato giudice della Corte europea dal 2001 al 2010. - In Italia è facile organizzare una valanga di ricorsi seriali, facendone esplodere il totale. In altri paesi è meno frequente, anche in presenza di massicce violazioni. La questione dei numeri va quindi relativizzata, anche in relazione al tipo dì violazioni denunziate. Ciò che invece è grave -  continua Zagrebelsky - sono le violazioni endemiche e strutturali da molto tempo senza soluzione. L'irragionevole durata dei procedimenti giudiziari ne è il maggiore esempio». Conclude Raimondi: «Per il nostro contenzioso non sì intravede una soluzione soddisfacente a breve termine».

Stop alle affollate udienze in camera di consiglio e ai rinvii per mancanza degli atti del processo presupposto: le richieste di equa riparazione per le lungaggini dei processi continuano a essere avanzate alla corte d’appello, ma i ricorsi depositati dall’11 settembre 2013 sono decisi da un giudice monocratico, e cioè il presidente della corte d’appello oppure un magistrato dello stesso ufficio a tal fine designato. Sono gli effetti delle modifiche alla legge Pinto (legge 89/2001) introdotte dal decreto legge sviluppo (Dl 83/2012, convertito dalla legge 134). La domanda di equa riparazione si propone con un ricorso che deve avere il contenuto dell’articolo 125 del Codice di procedura civile: indicazione dell’ufficio giudiziario adìto, delle parti, dell’oggetto, delle ragioni della domanda e delle conclusioni. E mentre la precedente versione della “Pinto” attribuiva alle parti la facoltà di chiedere alla corte di acquisire gli atti e i documenti del procedimento presupposto, adesso il comma 3 del nuovo articolo 3 dispone che, unitamente all’atto introduttivo del giudizio, devono essere depositati in copia autentica gli atti più significativi di quel procedimento, e precisamente: la citazione, il ricorso, le comparse e le memorie; i verbali di causa e i provvedimenti del giudice (si tratta, evidentemente, di quelli interlocutori pronunciati in corso di giudizio); infine, il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili. Adempimenti che gravano in modo non indifferente l’attività propositiva, minandone la convenienza, pur rimanendo l’esenzione dei diritti statali. Lo stesso articolo 3 individua pure la legittimazione passiva: il ricorso va proposto nei confronti del ministro della Giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del ministro della Difesa in ipotesi di procedimenti del giudice militare, del ministro dell’Economia in tutti gli altri casi. Entro trenta giorni dal deposito del ricorso, il giudice pronuncia un decreto motivato. L’istanza è rigettata nelle ipotesi previste dall’articolo 640 del Codice di procedura civile, espressamente richiamato dal nuovo articolo 3 della Pinto, e cioè quando non sia accoglibile oppure quando la parte non abbia risposto all’invito del giudice di provvedere alla prova nei casi di domanda non sufficientemente giustificata. In caso di rigetto della richiesta, non solo il ricorso non può essere riproposto (salva l’opposizione), ma la parte rischia pure la condanna al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma compresa tra mille e 10mila euro. Nei casi, invece, di accoglimento, il giudice ingiunge all’amministrazione di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando in mancanza la provvisoria esecuzione. Nel decreto il giudice liquida pure le spese del procedimento e ne ingiunge il pagamento. Il nuovo rito ricalca dunque lo schema del giudizio monitorio e introduce alcuni elementi di chiarezza, mutuati dalla giurisprudenza della convenzione dei diritti dell’uomo (Cedu) e della Cassazione, che dovrebbero condurre a decisioni tendenzialmente standardizzate. Per un verso, infatti, si è proceduto all’esatta individuazione del termine di durata ragionevole del processo: tre anni per il primo grado, due anni per il secondo, un anno per il giudizio di legittimità, con l’ulteriore precisazione che si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni. Sotto il profilo dell’importo dovuto a titolo di equa riparazione, poi, si stabilisce che il giudice liquidi una somma tra 500 e 1.500 euro per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. Un’altra importante novità riguarda i tempi. L’articolo 4 della precedente versione della Pinto ammetteva la proposizione della domanda di equa riparazione già durante la pendenza del procedimento, mentre le recenti modifiche consentono l’istanza solo entro sei mesi dal momento in cui la decisione è divenuta definitiva.

Quello che non traspare è la truffa perpetrata. Il Dl Sviluppo cambia la Legge Pinto: procedure più snelle, parametri fissi ma eccessiva discrezionalità decisoria del giudice ed altri raggiri contro il cittadino. Viene ribadito il termine decadenziale della domanda: il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, e non sarà più possibile invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio. Da un’altra angolazione però, le modifiche normative apportate dilatano oltremodo la discrezionalità decisoria del Collegio rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti, nell’accertare la violazione il giudice valuta:

- la complessità del caso,

- l’oggetto del procedimento,

- il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia:

- in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria,

- nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa,

- nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa,

- nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso;

- e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento.

E, dulcis in fundo, al comma 5 quater, si manifesta la beffa: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge! - è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!

Non basta vi è anche la “Pinto sulla Pinto”! La Cassazione sui Processi lumaca. La Cassazione interviene sulle lungaggini processuali, fissando la durata delle cause promosse ex lege Pinto, nel termine massimo di due anni, superati i quali la vittima si aggiudica il diritto ad altro e diverso ristoro. La Corte Costituzionale li dilata a 3 anni. Come si suol dire: cornuto e mazziato!

Sono le vittime del paradosso della giustizia italiana che oltre all’inganno di processi interminabili subiscono la beffa di ottenere con eccessivi ritardi processuali il ristoro dovuto! La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con sentenza n. 8283/2012, è intervenuta, limitando a due anni la durata massima, fra appello e Cassazione, entro cui deve concludersi il processo ex lege Pinto, istaurato al fine di ottenere l’equo ristoro per i danni subiti da un “processo lumaca”. Superato tale limite la vittima ha diritto a ottenere un secondo e differente ristoro. Il Collegio, discostandosi da un precedente orientamento, riconosce, dunque, la ragionevolezza del termine di due anni, ritenendolo “pienamente compatibile con le indicazioni…della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”, e considerando il fatto che un giudizio in Cassazione “non è suscettibile di compressione oltre il limite più volte ritenuto ragionevole di un anno”. Quanto al termine di quattro mesi, previsto dalla legge 89/2001, c.d. Legge Pinto, la Cassazione precisa la natura meramente sollecitatoria, e dunque non perentoria, dello stesso, essendo impensabile che un giudizio volto ad ottenere equa riparazione possa chiudersi in così breve tempo. Anche in questo caso, dunque, il Ministero della giustizia dovrà pagare! I giudizi risarcitori per irragionevole durata del processo devono essere molto più che "di ragionevole durata" quindi 2 anni, primo grado, 1 anno, legittimità. E' quanto si ricava dalla sentenza n. 36 del 19 febbraio 2016, con la quale la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla cd. "legge Pinto" (legge n. 89/2001).

Dopo tutta la traversata nel deserto e dopo averti messo contro l’intera casta dei magistrati locali finalmente si può ottenere l’equo ristoro con la pignorabilità dei beni statali, tenuto conto che il Ministero non è propenso a pagare? La finanziaria 2007 al comma 1351, così come nel 2006 era avvenuto per i beni del Ministero della Salute, ha stabilito la impignorabilità dei fondi destinati alla giustizia: “non sono soggetti ad esecuzione forzata i fondi destinati al pagamento delle spese per servizi di forniture aventi finalità giudiziaria e penitenziaria, nonchè gli emolumenti di qualsiasi tipo dovuti al personale amministrato dal Ministero della giustizia e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, accreditati mediante aperture di credito in favore di funzionari delegati degli ufficio centrali e periferici del Ministero della Giustizia, degli uffici giudiziari e della Direzione nazionale antimafia e della Presidenza del Consiglio dei Ministri”. E’ come se lo Stato adottasse per sè il principio secondo cui “chi non ha nulla, non ha niente da perdere” e cioè il nullatenente non sarà mai aggredibile forzatamente dal debitore in quanto non ha alcun bene su cui potersi soddisfare! Lo Stato rendendo i propri beni impignorabili, in buona sostanza, diviene come un soggetto che non ha beni da aggredire. La legge sopra menzionata si aggiunge a tutta una serie di norme speciali che rallentano ed ostacolano le azioni esecutive nei confronti della PA. Si pensi, ad esempio, che per proporre azione esecutiva nei confronti della PA occorrono 120 gg. a fronte della immediatezza di tale azione nel caso di cittadini. Se poi i 120 giorni cadono durante le ferie processuali questi diventano 170. Eppure tali leggi dovrebbero di per sè essere incostituzionali in quanto si preclude la pignorabilità e quindi la tutela costituzionale del credito. Con la finanziaria del 2007 i creditori si sono trovati impossibilitati ad ottenere il loro avere e lo stesso blocco lo hanno trovato i creditori in base alla Legge Pinto. Come se ciò non bastasse è intervenuta la legge 181/2008 che all’art. 1 ter ha esteso l’applicazione della impignorabilità sulle contabilità speciali delle prefetture, direzioni di amministrazione delle Forze armate e della Guardia di Finanza, alla contabilità ordinaria del Ministero di Giustizia e degli uffici giudiziari. Pertanto non sono più soggetti a pignoramento: gli emolumenti di qualsiasi tipo dovuti al personale amministrativo dal Ministero di Giustizia, accreditati mediante aperture di credito in favore dei funzionari del Ministero della Giustizia e degli uffici giudiziari.

La Legge, 28/12/2015 n° 208, G.U. 30/12/2015, detta la Legge di Stabilità 2016, introduce rilevanti modifiche alla cosiddetta Legge Pinto (L. n° 89 del 2001) regolamentando alcuni aspetti ma, fondamentalmente, riducendo la possibilità di ottenere l'indennizzo e riducendo, altresì, la quantificazione dell'indennizzo stesso. Contenimento degli effetti della Legge Pinto pare essere il leit motiv che, a partire dal corposo intervento sull'articolato operato dal Governo Monti, contraddistingue ogni intervento sulla materia.

Misura dell'indennizzo. L'indennizzo viene ridimensionato ed è ora previsto (art. 2-bis) in una misura che va da un minimo di euro 400 ad un massimo di euro 800 (mentre prima il massimo era previsto in euro 1.500).

Rimedi preventivi. La novità più rilevante consiste nella introduzione del concetto di "rimedio preventivo"; la parte deve dimostrare fattivamente di avere intrapreso le strade più brevi per l'ottenimento della sentenza, attraverso istanze di accelerazione, istanze di prelievo, riunione delle cause, utilizzo di riti sommari, trattazione orale ex art. 281-sexies, ecc. Fondamentale la regola introdotta dal prima comma dell'art. 2 secondo la quale "È inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo di cui all’articolo 1-ter".

Casi di non riconoscimento dell'indennizzo. All'art. 2 vengono inoltre aggiunti casi nei quali "Non è riconosciuto alcun indennizzo" e ulteriori casi nei quali "si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo", come ad esempio nel caso di contumacia (a dispetto di recenti pronunce della Corte di Cassazione) o di dichiarazione di intervenuta prescrizione del reato. L'indennizzo non è riconosciuto, invece, ad esempio, in "caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento" o quando la parte "ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese". A questo punto il ricorso per l'equo indennizzo sottopone il processo svoltosi in ritardo ad una valutazione, talvolta altamente discrezionale, da parte della Corte d'Appello.

Modalità di pagamento. Con l'introduzione del nuovo art. 5-sexies viene completamente regolamentata a nuovo la fase del pagamento. Vi è ora la necessità di formulare ripetutamente una istanza che potremo chiamare di precisazione del credito con la quale si ricorda allo Stato che non ha ancora pagato. Tuttavia, con impeto chiaramente burocratico, teso a creare un percorso ad ostacoli, si prescrive che "nel caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione o della documentazione di cui ai commi precedenti, l’ordine di pagamento non può essere emesso". L'amministrazione provvede al pagamento nel termine di sei mesi. In questo periodo "... i creditori non possono procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento".

Legge Pinto: la modifica della competenza per territorio e le nuove “modalità di pagamento”, scrive Finocchiaro Giuseppe - Professore associato di diritto processuale civile nell'Università degli Studi di Brescia. Ultime due rilevanti novità nella profonda metamorfosi di fine anno della legge Pinto sono costituite: da un lato, dalla modifica della competenza per territorio; dall’altro lato, dall’introduzione di una serie di complesse norme in tema di “modalità di pagamento”.

La modifica della competenza per territorio. Nel procedimento per il riconoscimento dell’equo indennizzo la Corte d’appello (competente per materia in unico grado), dovendo valutare la violazione della ragionevole durata del processo presupposto, è chiamata non soltanto a verificare anche la condotta dei magistrati cui era stata affidata la direzione del medesimo processo presupposto, ma anche a pronunciare un provvedimento potenzialmente generatore della loro responsabilità erariale, come indicato dall’art. 5, comma 4, legge Pinto. A ragione di ciò, al fine, pienamente condivisibile, di assicurare le più complete terzietà ed imparzialità del giudice chiamato a valutare sulla violazione della ragionevole durata del processo presupposto, il legislatore, fin nella versione originaria del 2001, aveva stabilito l’applicabilità del criterio di competenza territoriale previsto dall’art. 11 c.p.p. per i procedimenti penali riguardanti i magistrati. In forza di questa norma, come ben noto, si verificava uno spostamento della competenza dall’ufficio giudiziario che sarebbe stato ordinariamente competente, sicché la domanda andava proposta alla “corte d'appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata”. Questa scelta, confermata nelle precedenti riforme degli anni 2007 e 2012, dava luogo ad un inconveniente di non poco conto: faceva sì che sulle Corti d’appello limitrofe a quelle di grandi dimensioni e, conseguentemente (anche soltanto per ragioni statistiche), con un gran numero di ritardi giudiziari, si riversasse una mole di ricorsi ex legge Pinto spesso sproporzionata rispetto all’organico ridotto dell’ufficio giudiziario competente: il caso sicuramente più eclatante è quello relativo alle domande dei procedimenti celebrati nella Capitale (sede altresì delle magistrature superiori, presso cui confluiscono in sede d’impugnazione pressoché tutti i procedimenti giurisdizionali) che venivano interamente devolute alla Corte d’appello di Perugia. Per rimediare a questa inefficienza del sistema, la legge di stabilità 2016 ha sostituito l’art. 3, comma 1, prevedendo che la domanda di equa riparazione debba essere proposta alla “corte d’appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto” ed ha contestualmente aggiunto al comma 4 la precisazione secondo cui “Non può essere designato [per la trattazione del procedimento] il giudice del processo presupposto”. Le nuove norme assicurano senz’altro una più equilibrata ed efficiente distribuzione dei carichi di lavoro (condizione indispensabile per evitare il moltiplicarsi di procedimenti c.d. “Pinto bis” o, perfino, “Pinto ter”!), ma determinano anche un grave vulnus ai principi costituzionali di terzietà ed imparzialità della magistratura, che, per accrescere la fiducia dei consociati nel sistema giustizia, richiedono di essere perseguiti e realizzati anche semplicemente sul piano dell’apparenza.

“Modalità di pagamento”. E’ la rubrica del nuovo art. 5-sexies, che dimostra quanto sia vero il detto secondo cui “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”: anche dopo la liquidazione della somma a titolo di equo ristoro per l’irragionevole durata del processo presupposto, la parte deve attendere per ottenere effettiva soddisfazione del proprio diritto all’indennizzo (cioè, essere concretamente pagata). Per cercare di porre rimedio a questa situazione, nella primavera scorsa era stato siglato tra il Ministero della Giustizia e la Banca d’Italia (“anche quale esercente la Tesoreria dello Stato”) un accordo in virtù del quale questa “presta collaborazione temporanea” a quello “nelle attività preparatorie del pagamento delle somme riconosciute agli aventi diritto dalle competenti corti d’appello a titolo di indennizzo previsto dalla legge n. 89 del 2001 e delle relative spese processuali” (le parti tra virgolette sono estrapolate dal testo dell’accordo del 18 maggio 2015. Il nucleo dell’accordo consiste nella predisposizione da parte della Banca d’Italia dei mandati di pagamento grazie alla creazione di un database da aggiornarsi settimanalmente. Il nuovo art. 5-sexies, comma 1, impone ora sul creditore i concorrenti oneri, da un lato, di rilasciare un’autocertificazione “attestante la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è ancora tenuta a corrispondere, le modalità di riscossione prescelta … [accreditamento su conto corrente intestato al creditore medesimo o, per importi non superiori a 1.000 euro, per cassa o per vaglia cambiario non trasferibile]”, e, dall’altro lato, di trasmettere, all’amministrazione debitrice, della “documentazione”, che verrà precisamente individuata con decreti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e del Ministero della Giustizia da emanarsi entro il 30 ottobre 2016 (anteriormente all’adozione dei decreti ricordati, pertanto, deve ritenersi che la disposizione de qua non sia applicabile). Ai sensi del successivo comma 4, la mancata, incompleta o irregolare trasmissione, vuoi della dichiarazione, vuoi della documentazione, costituisce legittima causa per il mancato pagamento dell’ordine di pagamento entro il termine di 6 mesi dalla ricezione. Questa articolata e complessa serie di norme, di stampo spiccatamente amministrativo-burocratico, non soltanto ha rilievo interno alle amministrazioni debitrici, ma incide anche sul diritto costituzionale di azione giurisdizionale: l’art. 5-sexies, comma 7, infatti, stabilisce che prima che sia decorso il ricordato termine semestrale per lo spontaneo adempimento “i creditori non possono procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento” [di condanna].

Le nuove norme ricordate non possono non essere criticate, considerato che:

- innanzi tutto, appaiono profondamente inopportune ed inique, atteso che impongono alle parti private (risultate vincitrici all’esito di un processo giurisdizionale) di rendere delle autodichiarazioni (penalmente rilevanti) di fatti e di produrre della documentazione, i quali sono gli uni e l’altra già, rispettivamente, noti e nella disponibilità delle pubbliche amministrazioni debitrici;

- in secondo luogo, pongono dubbi di conformità con gli art. 3 e 24 Cost., posto che condizionano l’accesso alla tutela giurisdizionale, indicata a più riprese dal giudice delle leggi come diritto essenziale e fondamentale del sistema giuridico costituzionale, a formalità volte esclusivamente a rimediare alle inefficienze delle pubbliche amministrazioni debitrici, che si dimostrano incapaci di gestire in modo ordinato i pagamenti dovuti;

- da ultimo, sono potenzialmente foriere di una notevole crescita del carico di lavoro giudiziario: non pare, infatti, infondato il timore che la principale e reale conseguenza applicativa delle nuove norme sarà di creare contenzioso circa le regolare e completa trasmissione della dichiarazione e della documentazione richieste.

COPIA CONFORME DEGLI ATTI. Prima della riforma del processo ex lege Pinto, scrive Concetta Pennisi, il ricorrente non aveva eccessivi oneri di allegazione; infatti era data facoltà alla parte di richiedere che la Corte disponesse l'acquisizione in tutto o in parte gli atti e i documenti del procedimento in cui si assumeva verificata la violazione della durata del procedimento, le parti avevano diritto, unitamente ai loro difensori, di essere sentite in camera di consiglio se comparivano. Inoltre, erano ammessi il deposito di memorie e la produzione di documenti sino a cinque giorni prima della data in cui era fissata la camera di consiglio. La norma è stata sostituita dall’art. 55 del DL 83/2012 convertito in l. 134/2012 che prevede l’onere per il ricorrente di depositare unitamente al ricorso la copia autentica di tutti gli atti della causa ( l’atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata); di tutti i verbali di causa e i provvedimenti del giudice; nonché del provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili. Si tratta di formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive. Anzitutto la conformità comporta un onere economico gravoso per la parte. Presentare l’intero fascicolo in copia conforme della causa presupposta comporta il pagamento di svariate centinaia di euro in bolli: si pensi che i fascicoli di gran parte delle cause sono composte da migliaia di pagine. Orbene, se lo scopo della legge doveva essere quello di dotare l’ordinamento nazionale di un meccanismo riparatorio capace di riprodurre sul piano interno le condizioni assicurate sul piano internazionale dalla CEDU, tenuto conto che non esistono tali oneri nel procedimento dinanzi alla Corte di Strasburgo, la loro introduzione determina una vessazione tributaria che scoraggia il cittadino dal ricorrere alla giustizia interna per ottenere un’equa riparazione. Si può affermare che l’introduzione dei costi elevati per ricorrere alla giustizia e gli adempimenti formali richiesti, di fatto ha creato ulteriori ostacoli all’accessibilità dell’azione da parte del cittadino e quindi pregiudica l’effettività del ricorso interno. Le parti non possono essere gravate di oneri eccedenti la normale diligenza, tali da rendere difficoltoso o da pregiudicare il proprio diritto. Ne consegue che l’onere di cui è gravato il ricorrente ostacola di fatto l’effettivo esercizio dell’azione a tutela del proprio diritto in aperta violazione dell’art. 24 Cost. e dell’art. 34 della Convenzione che sancisce che le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’effettivo esercizio efficace di tale diritto. Per cui anche tale articolo è suscettibile della sanzione di incostituzionalità ai sensi degli artt. 117 e 24 Cost.

COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”

Risarcire Morlacchi o Di Matteo, scrive Piero Sansonetti il 14 ago 2016 su "Il Dubbio". L'editoriale del Direttore sulle sproporzioni. Piero Ostellino, recentemente, è stato condannato a risarcire con 150 mila euro due delle tre magistrate che nel giugno del 2013 condannarono Berlusconi per il caso Ruby. Ostellino criticò aspramente quella sentenza. I giudici dell'appello e della Cassazione, successivamente, diedero retta ad Ostellino e torto alle due magistrate: bocciarono la sentenza e assolsero Berlusconi. Le due magistrate però si sono sentite offese da Ostellino e gli hanno fatto causa. Hanno vinto. Criticare un magistrato - sembra - è proibito. Manolo Morlacchi - cittadino come un altro - è stato accusato qualche anno fa di aver rifondato le Brigate Rosse. Cinque mesi in cella. Rischio ergastolo. L'accusa era falsa: assolto in primo e secondo grado. Assolto in Cassazione. Lo hanno risarcito con 15 mila euro. C'è proporzione tra i 15 mila euro per cinque mesi di galera ingiusta, e 150 mila euro per una critica (giusta o ingiusta che fosse)? Le due magistrate hanno fatto causa anche a me (forse per questo sono particolarmente sensibile). A me addirittura hanno fatto due cause: una per un'intervista e una per una dichiarazione in Tv: in tutto altri 150 mila euro. Intanto mi ha fatto causa anche un altro magistrato. Il famoso Pm di Palermo Di Matteo. Altri centomila euro, vuole, perché ho scritto che lui è stato maleducato nell'interrogatorio di De Mita nel famoso processo Stato-Mafia. Ho così appreso che dire a un magistrato che è stato maleducato è dieci volte più grave che prendere un povero cristo e sequestrarlo in cella per cinque mesi. Tra i 150 mila euro alle due milanesi e i 100 mila a Di Matteo, mi tocca impegnare l'intero mio reddito futuro, se va bene, per sette o otto anni. Ho pensato che l'alternativa è quella di farmi arrestare ingiustamente e poi farmi risarcire per ingiusta detenzione. Però, per arrivare a 250 mila euro (Morlacchi docet) mi ci vorranno sempre sette o otto anni.

Le carriere con l'air bag di certi pm: sbagliano e vengono pure promossi. Il privilegio speciale delle toghe: da Esposito e Robledo a Woodcock, quando la punizione diventa un premio, scrive Enrico Lagattolla, Martedì 24/02/2015 su "Il Giornale".  Ammettiamolo: è il sogno di tutti. Una carriera con l'air bag, una vita con la rete di protezione, pochi rischi e tanto onore, l'invidiabile privilegio di cadere sempre in piedi e la lunare dispensa dai contraccolpi di uno sciagurato sfondone. Anzi, a volte pure l'insensato beneficio di un avanzamento per demeriti. È il sogno di tutti e per qualcuno è realtà. Prendete il giudice di Torino che - pochi giorni fa - è stato trasferito a Milano perché strapagava le consulenze all'amante. Non a Canicattì. A Milano, l'ufficio più prestigioso del Paese. Promoveatur ut amoveatur. A essere trombati in questo modo, c'è da metterci la firma. Vincenzo Toscano - il magistrato del capoluogo piemontese - ha affidato «incarichi remunerati» a una consulente a «cui era legato da vincoli sentimentali». La Cassazione, che lunedì ne ha confermato il cambio di sede, spiega che dava lavoro alla compagna, liquidava «compensi molto superiori alla media degli altri consulenti», e si lavorava il collegio giudicante «per ottenere una decisione favorevole» alla donna. Cosa sarebbe accaduto in qualunque azienda privata? Ma la giustizia segue altre regole. Quindi, l'insopportabile sanzione è stata la perdita di un anno di anzianità - e capirai - e il trasferimento nel palazzaccio più in vista d'Italia. Diciamola tutta: promosso. Ma per uno che da Torino viene a Milano, due fanno il tragitto opposto. L'estenuante disputa tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e il suo ex vice Alfredo Robledo si è conclusa con il trasloco di quest'ultimo in Piemonte. Che onta. Oddio, diciamo un alone. I fatti: secondo il Csm, Robledo è culo e camicia con l'avvocato della Lega Domenico Aiello. Gli «soffia» notizie riservate su un fascicolo che coinvolge alcuni politici del Carroccio. Vero o falso che sia, il punto è un altro: l'organo di autogoverno dei magistrati gli attribuisce un «provato rapporto di contiguità con l'avvocato Aiello», «improntato allo scambio di favori», così come è «inequivoca» la «propalazione» al legale dei lumbard «di atti coperti dal segreto». Sembra grave. Perciò via, Robledo lasci Milano e dismetta i panni da pm. E cosa va a fare? Il giudice. Un gradino più in alto nella scala evolutiva dell'homo togatus. Ma a Torino è andato anche un giovane pubblico ministero milanese, anche lui silurato con tutte le cautele. È una storia di leggerezze e bella vita, quella di Ferdinando Esposito, di amicizie bislacche e di un'improvvida visita ad Arcore che gli ha attirato gli strali di Ilda Boccassini. Che l'ha indagato, l'ha fatto pedinare e intercettare, e poi ha mandato gli atti a Brescia, dove un fascicolo è stato aperto senza che finora abbia portato ad alcunché. Anche su Esposito si è pronunciata la disciplinare del Csm: non può più fare il pm a Milano, sarà gip a Torino. A parte l'incomodo della breve trasferta, la carriera del magistrato prosegue spedita. Sono solo tre storie, le più recenti. Ma sono storie che si ripetono. Henry John Woodcock - quello dei disastri Vip Gate e Savoia Gate - da Potenza finisce a Napoli (qualche dubbio su quale sia la sede più rilevante?). Per le disfatte giudiziarie Why not e Toghe lucane, Luigi De Magistris se la cava con censura, trasferimento e cambio di casacca: da pm a giudice. Ma per non sbagliare, Giggino Masaniello sceglie la terza via: la politica. Ai magistrati di sorveglianza che concedono la semilibertà ad Angelo Izzo, e grazie alla quale il «mostro del Circeo» torna a uccidere, il Csm riserva un ammonimento. L'ex magistrato antimafia di Napoli che va a caccia con i boss viene assolto dal Consiglio. E il sottobosco degli sconosciuti è pieno di miracolati. Vero che ultimamente le condanne nei procedimenti disciplinari sono aumentate, ma si tratta perlopiù di sanzioni minime. Di gente cacciata dalla magistratura, negli ultimi vent'anni, se ne conta sulle dita di una mano. Quanto alla responsabilità civile, peggio che andar di notte: in un quarto di secolo i ricorsi accolti sono stati quattro su 400. È un tratto tristemente sbagliato in questa nobile categoria, semidei del diritto con la tendenza all'autoassoluzione. Avete mai visto la deferenza con cui un avvocato bussa all'ufficio di un pm? Credete davvero che in un'aula di giustizia accusa e difesa godano sempre di pari dignità? Ci dev'essere qualcosa che, strada facendo, scolla alcuni magistrati dal mondo reale. Non si spiega altrimenti, sennò, la meravigliosa ingenuità con cui il fu presidente del tribunale di sorveglianza di Milano Francesco Castellano si rivolse al Csm. Accusato di aver brigato per parare il didietro all'indagato Giovanni Consorte, Castellano propose alla disciplinare del Consiglio la sua soluzione. Facciamo così: io lascio Milano, voi mandatemi in Cassazione. Non si sa se a qualcuno scappò da ridere, ma almeno in quel caso sembrò troppo persino ai suoi pari.

Libri: "Quattro anni a Palazzo dei Marescialli", se la lottizzazione diventa magistratura. Recensione di Antonio Bevere su Il Manifesto, 15 luglio 2015. Aniello Nappi racconta in un libro i suoi quattro anni all'interno di Palazzo dei Marescialli. E si misura con i 200 "fuori ruolo", ma anche con alcune pratiche di valutazione da parte del Csm. "Soprattutto a Roma c'è contiguità fra amministrazione della giustizia e politica". Per fronteggiare la crescente espropriazione di potere giuridico ed economico, attuata da organizzazioni mafiose e da ceti finanziari e imprenditoriali, gli attuali vertici dello Stato sono ricorsi al rimedio costituito da un'anomala collocazione di pubblici ministeri in torri di controllo (Autorità Nazionale Anticorruzione, assessorato comunale delle legalità e simili) nel territorio dell'illegalità dominante. Questi avamposti delle guardie togate nelle terre dei ladri creano perplessità sotto due aspetti: da un lato, aggravano il fenomeno di magistrati distolti dal lavoro giudiziario ed inseriti nella gestione di incarichi dell'amministrazione centrale e periferica, con palese violazione del principio della separazione dei poteri prevista dalla Costituzione; dall'altro, i singoli magistrati si espongono al rischio di essere coinvolti, quanto meno per scarsa capacità di vigilanza e di prevenzione, nelle inevitabili indagini dei colleghi togati, con paradossali risvolti negativi nell'accertamento delle responsabilità penali e contabili. È di tutta evidenza che la presenza delle avanguardie giudiziarie non potrà non costituire un argomento difensivo di ottimo spessore per dimostrare la buona fede del politico e dell'imprenditore che hanno trasgredito le regole, ma sotto il vigile occhio del fuori ruolo giudiziario in missione per conto dello Stato. Né va sottovalutato che il fenomeno delle carriere parallele di alcuni magistrati, che si sviluppa frequentemente con la decisione del Consiglio superiore della magistratura di concedere collocamenti "fuori ruolo" con la destinazione a funzioni non giudiziarie presso pubbliche amministrazioni, è stato fortemente criticato dal consigliere di Cassazione Aniello Nappi, reduce dall'esperienza di componente dell'organo di autogoverno. Questa anomalia riguarda circa duecento posti, ma coinvolge una popolazione di postulanti ben più numerosa. "E questo crea le basi per un rapporto inquinante della magistratura, soprattutto a Roma, dove c'è la contiguità tra amministrazione della giustizia e politica. Qui la questione dei fuori ruolo si pone come questione morale fondamentale" (Quattro anni a Palazzo dei Marescialli, Aracne, 2014, p. 45). La lettura di questo libro - ricco di un'impressionate casistica di deroghe alla legge e alle regole interne - fa sorgere il quesito se la magistratura-impegnata in maniera generalmente encomiabile nella tutela della legalità tra i comuni cittadini e tra i cittadini eccellenti - sia capace di autogovernarsi correttamente attraverso l'organo assembleare previsto dall'art. 104 della Costituzione. È noto che il Csm è un'istituzione democratica nel senso che i suoi componenti vengono eletti da tutti i magistrati e dal Parlamento in seduta comune e nel senso che nei dibattiti in commissione e nel plenum è garantita la piena libertà di espressione, con conseguente immunità, al pari dei parlamentari. I singoli consiglieri non hanno vincolo di mandato nei confronti degli elettori e dei gruppi che ne hanno proposto la candidatura. Nel quotidiano svolgimento della valutazione della capacità professionale dei singoli, della assegnazione dei ruoli dirigenziali, il consigliere Nappi ha dovuto fare i conti con la consolidata regola pragmatica, secondo cui le determinazioni e le scelte espresse con il voto devono essere soggette al principio di maggioranza, nel senso devono essere assunte non secondo coscienza, ma secondo l'indicazione della maggioranza del gruppo di appartenenza. È stato facile rilevare che il voto per vincolo di maggioranza, alias per disciplina di gruppo, risponde alla logica, alla teorizzazione, alla pratica del voto di scambio: io voto uno dei tuoi se tu voti uno dei miei, come la riconosciuta esigenza di risarcire il contraente nei confronti del quale si è rimasti inadempienti...È vero che all'interno dei gruppi il principio di maggioranza viene applicato con qualche elasticità. Ma è proprio questa elasticità a farne lo strumento fondamentale dei baratti, che sono di per sé occasionali. È appunto l'accettazione del principio di maggioranza a rendere possibili occasionali accordi, ora con l'uno ora con l'altro gruppo, tanto più vantaggiosi quanto maggiori sono i pacchetti di voti disponibili. In questo contesto è nato un goffo e spiacevole episodio che ha avuto inopinata diffusione, nella totale indifferenza delle istituzioni: da una corrispondenza riservata di un componente dell'organo di autogoverno inavvertitamente è volata in rete, il 23.11.2012, una missiva in cui il mittente - pur riconoscendo "più opportuno politicamente piazzare una giovane collega napoletana di Area ad un posto direttivo, sia pure di rilievo minore", auspicava che non si facesse "tuttavia una ingiustizia troppo grossa". Nappi osserva che, pur essendo l'opportunità politica collegata a più criteri (età, territorio, appartenenza ad una corrente), è documentabile che "il criterio dell'appartenenza è accettato e riconosciuto all'interno dei gruppi consiliari". Che non si sia trattato di un caso eccezionale è dimostrato dal silenzio e dall'indifferenza della corporazione: mercoledì 8 maggio 2014 il medesimo consigliere, in qualità di Presidente della Quarta Commissione del Csm (competente per materia nelle progressioni in carriera), ha partecipato, nella sessione della Scuola superiore della magistratura dedicata all'ordinamento giudiziario, a un confronto a due voci sul tema Standard di rendimento e carichi esigibili). Talvolta gli scambi falliscono per una sopravvenuta modifica tattica delle alleanze e più raramente per l'imprevista dissociazione dal gruppo di appartenenza, con reazioni sanzionatorie, come è accaduto proprio a Nappi, la cui espulsione "venne giustificata anche con la dissociazione nel voto per un incarico semi direttivo". La lottizzazione guidata dai vertici delle tre correnti - osserva l'autore - è giustificata con l'esigenza di garantire il pluralismo culturale negli uffici e nell'organo di autogoverno, ostentando di ignorare una realtà ben visibile in magistratura e in tutte le istituzioni: "La pratica della lottizzazione, spacciata per pluralismo, ha impoverito il nostro Paese, privandolo di una classe dirigente adeguata". In conclusione, poiché è impossibile presumere che la bussola del criterio di appartenenza, impiegato per selezionare e premiare con pratiche spartitorie e preordinate, conduca infallibilmente a beneficiare i migliori, è indubbio il danno degli "indipendenti n.n." e il pregiudizio dei cittadini cui è sottratta la possibilità di avvalersi adeguatamente della capacità professionale di questi ultimi.

Quattro anni a Palazzo dei Marescialli. Pubblichiamo, a cura dell’Unione delle Camere Penali, fra gli editoriali, il testo integrale dell’intervento del Presidente dott. Aniello Nappi al convegno tenutosi a Camerino il 19 novembre 2015 a margine della presentazione dell’omonimo libro, nel quale l’autore racconta la sua esperienza al CSM. Il volume contiene una lucida e spietata disamina sul declino dell’organo di autogoverno della magistratura, le cui cause vengono individuate proprio nella sindacalizzazione delle correnti dell'Anm, che ha determinato inesorabilmente la trasformazione del Consiglio stesso “in una sorta di condominio sindacale”. La gestione correntizia delle carriere dei magistrati, recentemente evidenziata dalla Commissione Scotti istituita dal governo, coincide con l’allarme, come si legge nel libro, sulla degenerazione del Csm che, afferma l’autore, “rischia di mettere in discussione l’essenza stessa dell’attività giurisdizionale, che è nella sua indipendenza e nella sua terzietà”. La sindacalizzazione della componente togata del consiglio, sostiene sempre l’autore, comporta moltissime conseguenze negative, perché “i sindacalisti tutelano il lavoratore, non il giudice; e non sempre le due posizioni si sovrappongono”.

Camerino, 19 novembre 2015. Intervento del Dott. Aniello Nappi. "Quando si tenne alla Luiss di Roma la presentazione del mio libro sul CSM (Quattro anni a Palazzo dei marescialli – Idee eretiche sul Consiglio superiore della magistratura), il Vicepresidente Legnini esordì in funzione difensiva del Consiglio, domandando: “Ma chi ha mai parlato bene del Consiglio?”; e qualcuno gli fece eco, rilevando che in effetti il CSM non ha mai goduto di buona stampa. Sicché ci si domanda dov’è l’eresia, se del CSM si è sempre parlato male. Sennonché non mi sarei di certo scomodato, non avrei dedicato un’estate a mettere giù queste memorie, solo per parlar male del Consiglio. Ho invece inteso proporre una ben precisa diagnosi di un problema, che definisco come crisi di credibilità, come declino del Consiglio, individuandone la causa nella sindacalizzazione delle correnti dell'Anm, con la trasformazione del Consiglio in una sorta di condominio sindacale. Considero questa una degenerazione, non perché ce l’abbia con i sindacati, ma per una ragione molto semplice e banale. Il Consiglio Superiore della Magistratura è un particolare ufficio del personale: gestisce la carriera, la mobilità, la valutazione di professionalità dei magistrati. Occorrerebbe domandarsi allora perché per questa attività di gestione del personale, che in altri uffici pubblici o nelle aziende private è svolta dall’amministrazione, da un consiglio di amministrazione, si scomoda il Presidente della Repubblica e si mette su un organo di rilevanza costituzionale. E la risposta è evidente: perché è chiaro che nel momento in cui si decide del destino professionale di un magistrato, del suo trasferimento piuttosto che della sua valutazione di professionalità, c’è il rischio di condizionarne l’attività giurisdizionale. Si rischia dunque di mettere in discussione l’essenza stessa dell’attività giurisdizionale, che è nella sua indipendenza e nella sua terzietà. È questo che giustifica l’esistenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Tuttavia se le componenti togate del CSM, che sono elette sulla base delle indicazioni dell’Associazione nazionale magistrati, sono formate di sindacalisti, viene fuori un palese conflitto di interesse. Tutti comprendono che il sindacalista non può essere l’amministratore del personale, perché avrebbe due parti in commedia: quella della tutela del lavoratore e quella della gestione del lavoratore. Questo determina una situazione insostenibile. Ed è qui la mia denuncia, fondata su una diagnosi precisa. Non parlo genericamente di degenerazione, perché la degenerazione delle istituzioni pubbliche, non solo nel nostro Paese, è un fenomeno al quale purtroppo ci siamo abituati. E parlare genericamente di degenerazione non avrebbe giustificato che si scrivesse un libro sul CSM. Il problema del Consiglio è dunque nella sindacalizzazione della sua componente togata. E questo comporta moltissime conseguenze negative, perché la missione del Consiglio sarebbe quella di tutelare il giudice come istituzione. I sindacalisti tutelano invece il lavoratore, non il giudice; e non sempre le due posizioni si sovrappongono. Molto spesso la tutela del lavoratore contraddice gli interessi e la funzionalità dell’istituzione. Si determina inoltre una burocratizzazione dei magistrati. La sindacalizzazione nella gestione del personale ne comporta la burocratizzazione, perché si privilegia il rispetto delle garanzie destinate a tutelare il lavoratore anziché le garanzie dell'istituzione giudiziaria. Il giudice, ciascun giudice, è un’istituzione, di cui va garantita l’indipendenza e l’autonomia, oltre a essere un lavoratore, cui vanno riconosciute tutele economiche e “contrattuali”. Al Consiglio superiore della magistratura non è demandata però la tutela economica e contrattuale del magistrato lavoratore, bensì la ricerca di un equilibrio tra garanzie individuali dei magistrati ed efficienza dell’istituzione giudiziaria. Le garanzie individuali dei magistrati, che attengono all’ambito del loro ruolo istituzionale, vengono invece sempre più interpretate all’interno del CSM in termini di garanzie sindacali del lavoratore magistrato. Tutto questo accade per di più in un momento in cui il ruolo del giudice va sempre più enfatizzandosi. Una volta il giudice doveva essere solo il mediatore tra il caso concreto e la norma di diritto, espressa di regola in una legge. La situazione è oggi radicalmente mutata. Viviamo oggi una moltiplicazione degli ordinamenti, dalla Convenzione europea diritti dell’uomo al diritto dell’Unione Europea; e una moltiplicazione delle corti, dalla Corte europea di giustizia alla Corte europea dei diritti dell’uomo alla Corte costituzionale. Si pensi solo alla recente sentenza europea sul caso Contrada, quale esempio di riconoscimento della funzione normativa della giurisprudenza, a proposito della punibilità del concorso esterno in associazione mafiosa. Sicché oggi il diritto lo fanno sempre di più i giudici. Cresce perciò l’esigenza di un approccio sempre meno burocratico alla funzione giudiziaria, nel momento stesso in cui si burocratizza invece sempre di più la posizione del giudice. È come lo spostamento della crosta terrestre, la deriva dei continenti nella teoria della tettonica delle placche. Le nostre istituzioni giudiziarie sono sollecitate da due spinte opposte: da una parte la burocratizzazione, provocata dalla gestione sindacalizzata del Consiglio, dall’altra la spinta di tutto il sistema, anche sovranazionale, verso un’assunzione sempre maggiore di responsabilità del giudice come produttore di norme. Temo che ne possa venir fuori un sommovimento istituzionale, che metterà a rischio le tradizionali garanzie del nostro sistema giudiziario. Quando in questo Paese la politica avrà finalmente conquistato il suo primato, non accetterà più che il piccolo sindacato di una corporazione burocratizzata rivendichi un ruolo di autonomo interlocutore istituzionale senza assumersene anche le responsabilità. Così sarà a rischio non solo il destino di qualche magistrato, ma sarà a rischio la tenuta dello stesso sistema democratico. Per far fronte a questo rischio, occorre che la magistratura associata recuperi al più presto l'orizzonte culturale di un tempo. E’ opportuno a questo punto domandarsi in che senso il Consiglio tutela il magistrato come lavoratore piuttosto che come giudice, come istituzione. Gli esempi sono tanti. Prendiamo il caso dell’incompatibilità parentale tra magistrati e avvocati. La legge prevede tre criteri per definirla: la natura delle materie (penale, civile o lavoro), la dimensione dell’ufficio e l’importanza, l’intensità del lavoro dell’avvocato. Questi sono i tre criteri che detta la legge, per stabilire quando un magistrato non può svolgere le sue funzioni nella stessa sede in cui opera un suo congiunto esercente la professione forense. Questa legge viene interpretata nel senso che basta che risulti favorevole uno soltanto di questi criteri per escludere l’incompatibilità. Insomma, se il magistrato è coniuge dell’avvocato più importante del piccolo tribunale, purché l’uno si occupi di diritto civile e l’altro di diritto penale, si esclude l’incompatibilità. Se fosse invece richiesto l’esito favorevole di tutti e tre i criteri, non solo la differenza delle materie, ma anche le dimensioni dell’ufficio e l’intensità dell’attività lavorativa, dovrebbe in un caso del genere riconoscersi l’incompatibilità. Contrariamente a quanto sarebbe stato ragionevole attendersi, invece, è stata respinta la proposta di considerare necessariamente concorrenti i tre criteri. E’ questa una tipica applicazione sindacale di una norma, perché tende a tutelare l’interesse del lavoratore anziché dell'istituzione. Tende a tutelare gli interessi di chi fa il magistrato nel luogo dove è nato, dove abita. Ed è comprensibile che, se arriva un congiunto a fare l’avvocato, è duro dover cambiare sede. Sennonché la logica sindacale è incompatibile con la logica istituzionale. Non perché i sindacati siano cattivi. Ma perché i sindacati debbono essere l’interlocutore dell’istituzione, non possono sostituire l’istituzione. Le delibere del Consiglio sono pubbliche. E secondo la legge sulla privacy, quando si tratta di un pubblico funzionario, di chiunque eserciti funzioni pubbliche, tutto deve essere controllabile e deve essere conoscibile, tutto ciò che attiene alla carriera e all’attività di chi svolge funzioni pubbliche. Benché tanto preveda la legge, non è stato possibile ottenerlo. Si è detto che soltanto la delibera è pubblica, ma i documenti sui quali la delibera si fonda non sono pubblici. Mentre è evidente che, se non si può accedere ai documenti, non si può controllare criticamente la delibera. In realtà il Consiglio si dà regole molto rigide per le sue decisioni, detta criteri di decisione molto rigorosi, che agevolano le risposte negative. Una decisione che può determinare scontento risulta così giustificabile come inevitabile. Quando però la domanda alla quale bisogna dare risposta viene da chi è vicino agli apparati sindacali, allora il consiglio si riconosce esplicitamente il potere di derogare all’eccessiva rigidità dei suoi stessi criteri. Ed è chiaro che, se si riconoscesse il controllo dei documenti oltre che della delibera, risulterebbe palese la singolarità della deroga. Veniamo così ad un altro aspetto, perché poi tutto si tiene. Ci sono circa 450 magistrati, tra i 400 e i 500 magistrati, che hanno esoneri dal lavoro, totali o parziali. Ad esempio gode giustamente di un parziale esonero dal lavoro chi fa parte del Consiglio giudiziario. Ma un parziale esonero dal lavoro è riconosciuto anche ai cosiddetti RID, referenti informatici distrettuali, ai formatori decentrati, e via elencando. Questi incarichi, che hanno il vantaggio di ridurre l’impegno nel lavoro giudiziario, sono distribuiti su indicazione delle correnti dell’ANM. È uno dei mezzi per creare un piccolo ceto dei sindacalisti, con la conseguenza di una separazione sempre più netta da tutta la magistratura reale, dai tanti magistrati di prim’ordine, di grandissimo valore, che in questo contesto non contano assolutamente nulla. Negli anni in cui le correnti dell’associazione avevano un contenuto progettuale, programmatico, c’erano idee diverse sul ruolo del magistrato, sulla funzione dell’interpretazione della legge, E fu questa diversità di orientamenti culturali a determinare la nascita delle correnti dell’Associazione. La sindacalizzazione ha oggi portato all’omogeneizzazione su quasi tutte le questioni di principio. Si è discusso ad esempio di quali conseguenze debba avere la mancata osservanza del calendario del processo, uno strumento di efficienza dell’istituzione giudiziaria. E tutti i gruppi sono stati d’accordo nel dire che non debba avere conseguenze disciplinari, indipendentemente dalla considerazione delle conseguenze sulla funzionalità del sistema, perché del funzionamento del processo al sindacalista non interessa molto. Al sindacalista interessa tutelare il magistrato lavoratore che, se non ha rispettato il calendario, non deve andare incontro a una responsabilità disciplinare. Sulla questione della partecipazione dei magistrati alle commissioni d’esame degli avvocati, necessaria per favorire una comune cultura forense, si è detto che non può essere considerata obbligatoria, perché ancora una volta prevale l'interesse del lavoratore sull'interesse dell'istituzione. E così sul problema dell’incompatibilità parentale tra magistrati (si ammette che due coniugi svolgono le proprie funzioni all’interno della stessa Procura della Repubblica, anche se di piccole dimensioni); sul problema del rapporto tra condanna disciplinare e valutazione di professionalità (si esclude che il giudicato disciplinare possa in qualche misura vincolare la valutazione di professionalità); sul livello massimo di “carichi esigibili” di lavoro (si tende a fissarlo in misura eguale per tutti, con un livellamento verso il basso della professionalità dei magistrati, perché la logica sindacale non ammette che si diano occasioni per distinzioni e comparazioni di merito). In questo senso si può dunque affermare che la sindacalizzazione determina un conflitto d’interessi, perché la gestione del personale non può essere affidata a chi il personale lo tutela come lavoratore. È infatti questa logica individualistica e sindacale che ha portato anche a una degenerazione del rapporto con il giudice amministrativo, soprattutto, ma non solo, nel conferimento degli incarichi direttivi. In realtà dovrebbe essere scontato che l’incarico direttivo non è previsto per permettere ai magistrati di fare carriera; è previsto per far funzionare gli uffici. E tra l’altro comporta tali e tanti impegni di lavoro, aggiuntivo è diverso, che richiederebbe una notevole dose di altruismo. Se nella scelta dei magistrati ai quali affidare gli incarichi direttivi si segue una logica individualistica, intesa a soddisfare le aspirazioni del lavoratore piuttosto che le esigenze dell’istituzione, è evidente che il giudice amministrativo, abituato appunto a tutelare gli interessi individuali nei confronti della Pubblica Amministrazione, non potrà non riconoscere ai magistrati una sorta di diritto alla carriera. Solo se il CSM fosse in grado di esprimersi secondo una logica istituzionale, anche il giudice amministrativo avrebbe dei problemi a garantire i singoli piuttosto che la istituzione. Invece il giudice amministrativo è giunto ad affermare che, se il presidente di un tribunale trasferiva alla sede centrale una grande quantità di cause di una sezione distaccata, ledeva illegittimamente gli interessi dell’ufficio periferico. Mentre sarebbe stato più plausibile garantire gli interessi della funzionalità dell’ufficio, anziché del gruppo locale di avvocati che protestava contro quel provvedimento. Da questo sistema, da questo cambiamento della logica della partecipazione e della selezione dei componenti del Consiglio, deriva poi tutto il resto; deriva anche l’inefficienza degli uffici, perché tutto è destinato a tutelare i singoli piuttosto che le istituzioni. Si sono avute in particolare conseguenze estremamente negative e preoccupanti nell’interpretazione della disciplina dell’organizzazione degli uffici di Procura. Benché la legge dica chiaramente che il procuratore della Repubblica può revocare l’incarico a un sostituto anche per un mero dissenso sulla conduzione e conclusione delle indagini, si sostiene che il procuratore della Repubblica, nel momento in cui ha assegnato il procedimento, ha consumato il suo potere. I sostituti rivendicano, senza alcun fondamento, le stesse garanzie di precostituzione e tendenziale immutabilità che la Costituzione prevede per il giudice. E il CSM tende, almeno nelle proclamazioni di principio, ad assecondare questa rivendicazione, rinunciando così a ricercare un equilibrio ragionevole tra le garanzie individuali dei magistrati e le esigenze di funzionalità degli uffici. Certo, è necessario un controllo del CSM sugli interventi del procuratore della Repubblica, ma non è ammissibile una così palese elusione del testo legislativo. I rimedi a questa situazione di crisi vanno ricercati soprattutto sul piano culturale. Ma interventi normativi sono comunque auspicabili. Le soluzioni sono necessarie innanzitutto con riferimento al sistema elettorale dei togati e ai criteri di scelta dei laici. In realtà nella selezione della componente laica si tende a predeterminare la nomina del Vicepresidente. I partiti politici vogliono decidere preventivamente chi dovrà essere il Vicepresidente, benché ne sia prevista l’elezione da parte dell’Assemblea, dopo l’insediamento del consiglio. E’ certamente opportuno che il compito del Vicepresidente sia affidato a un politico, perché si tratta di un ruolo appunto politico, che richiede una specifica professionalità. Ma la pretesa di predeterminare la scelta del Vicepresidente comporta che i segretari dei partiti coinvolti prendano contatto con i responsabili delle correnti, con evidenti problemi per l'autonomia dei singoli consiglieri. E poiché gli accordi preliminari non sono abbastanza garantiti, si sceglie come predestinato alla vicepresidenza un personaggio che abbia una certa levatura politica, avendo cura di fare in modo che tutti gli altri siano ben al di sotto di questa levatura. Altrimenti c’è il rischio che si vada in Assemblea e venga eletto un personaggio diverso quello che era stato predeterminato. Dunque, poiché si deve fare in modo che quello che sarà eletto Vicepresidente sarà proprio colui che hanno scelto i gruppi parlamentari prima che il Consiglio si costituisca, si deve creare un gap notevole di spessore politico tra chi è destinato a fare il Vicepresidente e gli altri. Per quanto riguarda i professori il margine è più elastico, si può eccedere in bravura per qualcuno; ma per quanto riguarda i politici, deve essere netta la distinzione, la differenza di peso politico. E tutti gli altri vengono preventivamente informati che non debbono candidarsi alla vicepresidenza. Per quanto riguarda il sistema elettorale dei magistrati, l’obbiettivo dovrebbe essere quello di evitare che ciascuna corrente limiti il numero dei propri candidati al numero dei seggi che ritiene di poter ottenere, perché così si predetermina il risultato delle elezioni. Occorre costringere ad aumentare il numero di candidati, per evitare queste distorsioni del sistema istituzionale. Quanto alla sezione disciplinare l’esigenza principale, in una prospettiva di riforma, è quella della specializzazione dei suoi componenti. Si è detto: «chi giudica non amministra e chi amministra non giudica». A me sembra ragionevole. Ai componenti della sezione disciplinare dovrebbero essere affidati solo compiti giurisdizionali e compiti di controllo. C'è una commissione di controllo sul bilancio, una commissione che si occupa del regolamento interno e che vigila sul regolamento.  Affidiamo a questa commissione tutti i compiti di controllo e giurisdizionali e non quelli di amministrazione: non perché questa commistione sia di per sé ostativa a una corretta amministrazione della giustizia o a una corretta amministrazione dei magistrati; ma perché comporta una scarsa professionalità, non si riesce a ottenere una giurisprudenza coerente e uniforme. Ci sono poi l’ufficio studi e i magistrati segretari, che sono uffici importantissimi, perché il consigliere appena eletto e per almeno un anno o due è in genere inesperto; mentre i magistrati segretari, cioè coloro che li assistono, sono già del luogo, hanno competenza specifica in materia di ordinamento giudiziario. C'è una marea di circolari, delibere, risoluzioni del CSM, di cui è difficile impadronirsi senza il sostegno di chi è già del posto ed è esperto. Ma sono le correnti dell’Anm a scegliere chi mandare all'ufficio studi o alla segreteria, con una rigida lottizzazione. Per gli incarichi direttivi c’è una competizione per i posti; e gli accordi sono occasionali, ora con una corrente ora con un'altra. Non c’è una spartizione lottizzatoria, tranne quando si debbono assegnare tanti posti insieme, come avviene ad esempio per la Cassazione. Per i magistrati segretari c’è invece una proporzione rigorosa tra il peso elettorale di ciascun gruppo e il numero di magistrati segretari e di componenti dell’ufficio studi. Nel 1990 era stata approvata una legge che escludeva i magistrati dalla segreteria e dall’ufficio studi, prevedendo l’affidamento di questi ruoli a funzionari assunti per concorso. Con una delibera di legittimità almeno dubbia si è detto che questa legge è stata implicitamente abrogata. Sarebbe comunque necessario che questi posti fossero sottratti alla lottizzazione, che esclude chi non ha una tessera, esclude chi non ha appartenenza. Ma non si è voluto nemmeno che i magistrati vengano scelti per concorso: si è preteso che siano scelti col bilancino delle correnti, perché ciascuna corrente deve avere un numero di magistrati segretari e di componenti dell’ufficio studi proporzionale al suo peso elettorale. Il fondo della questione è tuttavia nell’involuzione dell’ANM. Negli anni ‘60 e ‘70 la Magistratura ha rappresentato in questo Paese una forza di emancipazione, contribuendo, ad esempio, all’attuazione della Costituzione e alla diffusione di una sensibilità ecologica. Questa funzione propulsiva è stata conservata certo dai giudici; ma è ormai del tutto estranea all’impegno delle correnti dell’ANM. Le correnti si distinguono solo come apparati, come apparati che cercano di giustificare la propria esistenza. Non c’è più differenza progettuale. Tant’è che per quasi tutte le questioni di fondo, tutte le correnti finiscono per convergere su un’impostazione sindacale. In una situazione disastrosa, qual è quella del sistema giudiziario italiano, si è arrivati a proporre l’allungamento dei termini di deposito delle sentenze civili monocratiche. La crisi della giustizia è certamente una crisi da eccesso di input: c’è un eccesso di domanda. E questo eccesso di input è responsabilità della politica, una politica abnormemente interventista. Sul codice di procedura penale siamo ad oltre centodieci leggi di modifica. Non c’è stabilità dei criteri di giudizio. Tuttavia se non c’è un’assunzione di responsabilità da parte della magistratura, per favorire una efficiente organizzazione degli uffici e una ragionevole prevedibilità delle proprie decisioni; se i magistrati non si riappropriano del proprio ruolo progettuale, nelle scelte anche politiche relative all’organizzazione del proprio lavoro, risulterà inutile qualsiasi riforma. Purtroppo il CSM, cui queste scelte organizzative sono in misura notevole affidate, manca di capacità progettuale. In consiglio c’è solo un sindacato che pensa prevalentemente agli interessi dei lavoratori, molto poco a quelli dell’istituzione". 

Interpellata dal Dubbio, il 2 agosto 2016, la portavoce del Comitato Altra Proposta, il giudice presso il Tribunale di Pisa Milena Balsamo, fa subito una premessa: «Noi vogliamo ricondurre le correnti, patrimonio storico-culturale dell’Anm, al loro originario ruolo: quello di essere centri di elaborazione culturale indispensabili alla democratica affermazione dell’indipendenza interna e dell’autonomia che rappresentano le prerogative fondamentali della magistratura». E per tale ragione, aggiunge la giudice Balsamo, «siamo per il sorteggio come sistema di selezione dei candidati al Csm».

Le correnti sono il problema principale della magistratura?

«Per capire a che punto siamo arrivati, suggerisco la lettura del libro scritto dall’ex togato Aniello Nappi Quattro anni a Palazzo dei Marescialli. Idee eretiche sul Consiglio Superiore della Magistratura, dove sono descritti il sistematico abuso d’ufficio, la violazione delle regole e i favoritismi per gli amici».

Lei ritiene che la magistratura abbia perso di credibilità a causa della cosiddetta deriva correntizia?

«Si, e questo perché le correnti si sono trasformate in centri di potere che condizionano, secondo strettissime logiche di appartenenza, ogni scelta di autogoverno della magistratura, a cominciare dalla selezione dei magistrati dirigenti».

Riccardo Magherini, un’altra "sentenzina" per omicidio colposo, scrive Susanna Marietti, coordinatrice associazione Antigone, il 13 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Un altro omicidio colposo. Di nuovo c’è stata negligenza, imprudenza o imperizia in quelle manette messe dietro la schiena e quella faccia buttata sul terreno per circa mezz’ora in una posizione che impediva a Riccardo Magherini di respirare. “Aiuto, aiuto, sto morendo”, sono state le ultime parole pronunciate da Riccardo in quella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Firenze, registrate dal cellulare di un uomo affacciato a una finestra lì vicino. Arriva ora la sentenza di primo grado nella quale tre carabinieri vengono condannati per omicidio colposo, uno di loro a otto mesi di carcere e gli altri due a sette. Per il primo era stato chiesto ben un mese di più. Sapete perché? Perché mentre Magherini era a terra ammanettato e soffocante lui lo ha preso a calci. Ma il giudice non ha voluto procedere per l’accusa di percosse. Un altro omicidio colposo, come quello di Federico Aldrovandi, pericolosissimo ragazzino di diciotto anni, persino un po’ mingherlino, che tornava dalla discoteca a Ferrara una notte del settembre 2005 ed è stato picchiato a morte da quattro poliziotti. Lui urlava “basta, aiutatemi, sto morendo” e loro lo prendevano a manganellate e a calci. Cosa c’è di colposo nella condotta tenuta dai poliziotti? Lo stesso pubblico ministero affermò al processo: “Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono”. Un evidente omicidio preterintenzionale, punito con il carcere dai dieci ai diciotto anni, per come viene descritto in queste parole. Eppure è lo stesso pm a chiedere una condanna a tre anni e otto mesi, con il crimine derubricato a omicidio colposo (scusate, non l’ho fatto apposta…). E all’indomani della sentenza dicevamo tutti che finalmente Federico aveva avuto giustizia, che ora si sapeva chi erano i suoi assassini. Il papà di Federico affermava: “Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così”. Oggi accade lo stesso per il processo relativo alla morte di Riccardo Magherini. Il fratello è contento della “sentenzina”, sa che di più non può aspettarsi per rendere giustizia a Riccardo. Tutti noi lo sappiamo. Diamo per scontato che quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine la scelta sia tra impunità completa o “sentenzine” esemplari. Ci hanno abituato che in Italia è così. Eppure i crimini compiuti da funzionari dello Stato sono tra i più odiosi che si possano immaginare. Quei poliziotti e quei carabinieri erano lì a nome di tutti noi. Il loro non è un crimine privato.

Toghe innominabili, scrive Filippo Facci il 12 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Piercamillo Davigo non è più lui. Da presidente dell'Anm è stato investito da così tante bufere che ogni sua uscita pubblica ora suona imbarocchita da distinguo e premesse: sabato ha parlato a un convegno dei Cattolici democratici (sarà questo: era pieno di democristiani) e ogni volta premetteva che «non penso che tutti i politici rubano, rubano in molti... Non credo siano tutti mascalzoni, ma...». Ce l'hanno rovinato. Fortuna che non manca di che obiettargli. Ha parlato di «politici che non si vergognano più» e verrebbe da chiedergli quando mai si siano vergognati i magistrati colti in castagna: anche perché fare i loro nomi è proibito. Già. Dovete sapere che la sezione disciplinare del Csm ogni anno sanziona blandamente con ammonimenti, censure e perdite di anzianità una serie di magistrati che, per esempio, non hanno pagato il conto al ristorante, hanno dimenticato innocenti in carcere, hanno perso fascicoli e anni di lavoro altrui, o semplicemente non lavorano, o sono mezzi pazzi (uno l'hanno visto chiedere l'elemosina per strada, un altro ha spalmato l'ufficio di nutella, un altro ha urlato «ti spacco il culo» a un avvocato) e però i loro nomi non sono divulgabili. Il Csm ha invocato la legge sulla privacy e la protezione dei dati personali, come d'obbligo solo per i minori e le vittime di violenze sessuali: eppure parliamo di gente che giudica della vita altrui. Ecco, dottor Davigo: secondo lei è giusto?

Subisci e taci ti intima il sistema gognatico medio-giudiziario.

Un buon libro ricorda le perversioni italiane del sistema “gognatico” giudiziario, scrive Giulia De Matteo il 4 Agosto 2011 su "Il Foglio". La perp walk italiana comincia con un avviso di garanzia e interminabili chilometri di carta in cui ci si sbizzarrisce a interpretare ogni parola strappata alle intercettazioni, in cui si costruiscono teoremi fatti di parole d’ordine (“cricca”, “la rete di relazioni”, “appaltopoli”, “l’affare”) da cui si ricavano accuse vaghe ma efficaci a relegare l’indagato nell’angolo dei cattivi. Il cammino è destinato a concludersi nella dimenticanza generale, a luci spente, tra l’indifferenza dei quotidiani e delle televisioni, animatori inferociti alla partenza. Maurizio Tortorella ha raccolto le storie più eclatanti di questa dinamica nel libro “La Gogna” (Boroli Editori), in cui smonta fase per fase la catena di montaggio della diffamazione che prelude i processi ai personaggi pubblici, attraverso un’analisi a freddo delle storie su cui ormai si sono spenti i bollori mediatici e si è fatta strada la verità processuale. C’è per esempio la vicenda di Guido Bertolaso, ex capo della Protezione civile, raggiunto dall’accusa di corruzione negli appalti sui lavori straordinari per il G8 sull’isola della Maddalena (poi spostato a L’Aquila) il 10 febbraio 2010. Tortorella racconta i giorni seguenti l’apertura delle indagini attraverso i titoli dei giornali e le ricostruzioni della vicenda. Così tra le intercettazioni pubblicate sui giornali quella in cui Bertolaso racconta il piacere suscitato da un certo massaggio fattogli da una tal Francesca diventa l’indizio che alimenta il sospetto del coinvolgimento di Bertolaso in un giro di escort usate a mo’ di tangente nel giro di favori fra i potenti dei grandi appalti. Quando si scopre che Francesca è una fisioterapista professionista di quarantadue anni è troppo tardi. Soprattutto non interessa più: gli untori degli scandali hanno già impresso il loro sigillo (quello che conta per l’opinione pubblica). Il 5 aprile 2010 si è aperto il procedimento che tratta degli abusi edilizi e da allora non una riga è stata più scritta. Difficile dire quando questo selvaggio rito giudiziario sia iniziato in Italia, sicuramente la sua massima celebrazione è stata Tangentopoli: l’età della presunzione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Dalla caduta della Prima Repubblica, è sorta la Seconda e i nuovi decisori, scampati al tritacarne giustizialista, hanno riscritto l’articolo 111 della Costituzione, ispirandosi ai principi di tutela dell’indagato e dell’imputato delle carte europee, adeguato il codice penale ai principi del giusto processo e adottato il modello accusatorio. Ma poco di questa mano di vernice garantista è riuscita a incidere sulla mentalità comune. Soprattutto non ha impregnato il sistema mediatico che ha continuato a riversare, con il sostegno dei gestori dei processi, il solito appannaggio culturale collaudato durante Mani pulite. L’apertura di un’indagine, a cui segue in automatico la carcerazione preventiva, giustificata da un uso pervertito dell’articolo 56 del codice di procedure penale, è il vero fulcro della vicenda processuale. I dati citati da Tortorella parlano di 37.591 condannati definitivi su un totale di 67.000 detenuti in carcere: 43 detenuti su 100 sono in cella senza che sia stata ancora pronunciata una sentenza di condanna definitiva. E’ questa fase che dà il via a fiumi di inchiostro, ad approfondimenti televisivi in cui si alimenta lo scandalo con gli indizi raccolti nella indagini. La ricerca della verità è secondaria rispetto alla foga di emettere un verdetto di popolo. Tutto questo dura fino al rinvio a giudizio. Poi i riflettori si spengono e la farraginosa, lenta e poco accessibile ai non addetti ai lavori macchina processuale comincia. “La Gogna” come un occhio di bue ha seguito alcuni figuranti del circuito mediatico-giudiziario prima e dopo il rinvio a giudizio, ricostruendo le vicende giudiziarie di Alfredo Romeo, Ottaviano Del Turco, Calogero Mannino, Silvio Scaglia, Antonio Saladino (al centro dell’operazione “Why Not”). Leggete le loro storie e capirete meglio in che senso Tortorella usa la parola gogna.

Ed eccola l'orda dei gognatori. Il tipico esempio di disinformazione.

Mafia capitale, la minaccia in aula contro il cronista. L'avvocato difensore di Massimo Carminati, Bruno Naso, aggredisce in aula con frasi ingiuriose e pesanti insinuazioni il giornalista dell'Espresso Lirio Abbate, da anni sotto scorta per le minacce subite dopo aver rivelato gli affari di mafia e crimine a Roma, scrive Attilio Bolzoni il 30 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Puntare il dito contro un giornalista - sempre lo stesso - è come indicare un bersaglio, prendere la mira. Ma c'è un avvocato, qui a Roma, che forse non ha capito che Lirio Abbate non è solo. Una Mafia Capitale sotto processo si agita e si dimena nelle gabbie cercando disperatamente alibi e vie di fuga, i suoi difensori intanto sono a caccia di capri espiatori e di cronisti "colpevoli " per avere raccontato un potere criminale tollerato per troppo tempo. Chi parla (o chi scrive) sta diventando giorno dopo giorno e udienza dopo udienza obiettivo di insinuazioni e di attacchi spericolati, sta diventando un'ossessione che non annuncia niente di buono ma che al contrario comincia a preoccupare tutti noi giornalisti. Potremmo chiamarlo il "caso Abbate", ci sembra però più opportuno presentarlo come il "caso Naso". L'avvocato Bruno Naso, difensore del nero Massimo Carminati e di alcuni imputati del dibattimento contro i boss Fasciani, il penalista che all'apertura del processo su Mafia Capitale l'ha battezzato "un processetto". È da settimane, da mesi, che questo legale non perde occasione in pubblico dibattimento di aggredire - con frasi ingiuriose e pesanti allusioni - il giornalista dell'Espresso Lirio Abbate, il primo che nel dicembre del 2012 ha svelato i misteri e le contiguità della mafia della capitale italiana citando i "quattro re di Roma ", Massimo Carminati, Michele Senese, Carmine Fasciani, Giuseppe Casamonica. L'ultima imboscata dell'avvocato Naso contro Abbate è di ieri mattina, in un'aula di Piazzale Clodio di Roma, al processo d'appello contro i Fasciani, padrini e padroni di Ostia, malacarne di incerta nobiltà mafiosa ma con entrature nel crimine che conta e nelle amministrazioni locali. L'avvocato Naso nella sua arringa finale prima si augura che i giudici "emetteranno una sentenza politicamente scorretta", poi parla della "regia inequivoca" del procuratore Pignatone "che è venuto a Roma pensando che Roma fosse una grande Reggio Calabria ", poi ancora riserva le sue azioni offensive - davanti agli imputati, particolare non insignificante - a "De-lirio" Abbate, il giornalista che prima ancora che i mafiosi di Roma fossero catturati aveva descritto come si muovevano da Sacrofano al Campidoglio, dalle miserabili periferie fino alle stanze della spartizione degli appalti. L'avvocato Naso si chiede perché "non hanno dato a De-Lirio il premio Pulitzer", fa credere che non sia un giornalista ma che agisca praticamente in combutta con investigatori e magistrati: "Abbate, che è casualmente di Palermo, che casualmente ha lavorato a Palermo quando c'era Pignatone, che casualmente frequenta ambienti frequentati da Pignatone…il cerchio si chiude". Su un altro palcoscenico, quello di Mafia Capitale a Rebibbia, il 4 gennaio scorso, lo stesso Naso aveva più volte citato "De-Lirio" (interrotto dal pm Cascini e tra le risatine di alcuni suoi colleghi) giustificando i suoi insulti al giornalista "perché se li meritava". E non era neanche quella, la prima volta che gli dedicava la sua attenzione. L'avvocato Naso ha naturalmente il diritto di difendere i suoi clienti - Carminati, gli amici dei Fasciani, gli ex Nar che ha sempre assistito - con ogni mezzo che la legge gli consente. Quello che non può fare - e non solo in un'aula di giustizia ma anche fuori - è additare un giornalista come "organizzatore" di un complotto, come protagonista di una trama ordita insieme a carabinieri e a pubblici ministeri, come un supporter operativo della procura della Repubblica. Abbate ha fatto semplicemente quello che sa fare: il giornalista. Trasformarlo in altro, come sta provando l'avvocato Naso fin da prima del dibattimento di Mafia Capitale - è estremamente pericoloso. Lirio Abbate vive sotto scorta dal 2007, negli ultimi anni il livello di protezione intorno a lui si è elevato, nel dicembre del 2013 è stato anche oggetto di una scorribanda (un'auto che ha speronato quella della polizia dove era a bordo) mai chiarita, intercettazioni ambientali e telefoniche ci svelano che Carminati ha più volte manifestato la volontà di fargliela pagare. L'avvocato Naso tenga debitamente in conto tutto questo. Ogni sua parola può venire facilmente fraintesa. Anche da chi sta dentro le gabbie.

Ed ecco, invece, l'altra verità.

"Pignatone vive nel far west di Reggio". L'avvocato Naso accusa: "Regia politico giudiziaria". "Avvocati pedinati e intercettati, violato il principio di legalità e indagini fatte con lo stampino per cercare reati e non ipotesi". Al processo al clan Fasciani l'avvocato Naso difensore anche di Carminati si scaglia contro il Procuratore di Roma e dice ai giudici..., scrive Venerdì, 29 gennaio 2016, Valentina Renzopaoli su “Affari Italiani”. Pignatone “giudice del far west”, abituato a utilizzare metodi istruttori che “violano il principio di legalità”, capace di tessere una regia di “politica giudiziaria” che travalica i confini del Tribunale. E' un attacco durissimo e senza precedenti: le parole dell'avvocato Giosuè Bruno Naso impietriscono i giudici della II sezione della Corte d'Appello del Tribunale di Roma, dove si sta svolgendo il processo di secondo grado per Carmine Fasciani e altri diciassette imputati. Nell'arringa finale, per la difesa del suo cliente Riccardo Sibio, considerato dall'ipotesi accusatoria come uno degli organizzatori dell'associazione a delinquere di stampo mafioso, Naso si lancia in uno scontro frontale. “Questo processo fa parte di una certa operazione di politica giudiziaria, spiegata da una ragione inequivocabile, che porta il nome del nuovo procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, che è venuto a Roma pensando che Roma fosse una grande Reggio Calabria per applicare metodi investigativi e processuali da far west”, ha tuonato l'avvocato nell'incipit del suo discorso. Parole di fuoco che, senza lasciare molto spazio alla fantasia, demoliscono l'azione del super procuratore, “padre” di Mafia Capitale, raccontando di “processi fatti con lo stampino” e basati su una massa di intercettazioni “sparate” in ogni direzione, “non per ricercare la prova di un reato ipotizzato ma per ricercare il reato”. “Il meccanismo istruttorio è sempre lo stesso, mediante intercettazioni a catena: si individua un soggetto che può incarnare sospetti, gli si viviseziona l'esistenza e si comincia a intercettare “a strascico” tutti quelli che gli girano intorno, alla ricerca di un reato ad ogni costo” ha spiegato. “La contestazione avviene sotto il profilo della contestazione di stampo mafioso, scattano le misure di natura patrimoniale per neutralizzare le possibilità di difesa e non ci si ferma nemmeno di fronte all'attività defensionale”. A questo punto, si è voltato verso i colleghi avvocati: “Guardate che ciascuno di voi è sottoposto ad un controllo massiccio e invasivo, attraverso i vostri telefoni personali e di studio”. E urlando: “Mia figlia, avvocato di Carminati, è stata pedinata dalle 8 del mattino alle 19 di sera, un pedinamento che non poteva che nascere da un'intercettazione. Questo procuratore pensa che il crimine si debba combattere come nel far west”. Con una conclusione degna dell'intera arringa, alla Corte esterrefatta il legale esclama: “Qui si vedrà se avete la cultura della giurisdizione in forza della quale il crimine non si combatte con metodi criminali, o se pensate che siamo tornati nel “far west” per fare giustizia ad ogni costo. Il vero tema è: ve la sentite di fare una sentenza politicamente scorretta?”. Il messaggio finale è ancora per Pignatone: “Chi sta coltivando ambizioni non può servirsi della vostra libertà di coscienza. Questo è un momento difficile e abbiamo bisogno che il principio di legalità siano salvaguardato”.

L'Ordine degli avvocati di Roma pronto a studiare il caso Naso - Abbate - Pignatone, scrive Roberto Galullo l'1 febbraio 2016 Fino a questa mattina il telefono dell'avvocato Mauro Vaglio, presidente dell'Ordine degli avvocati di Roma non aveva squillato. Nessuno, tra i suoi colleghi, in questi ultimi giorni, aveva sollevato la necessità di prendere posizione su quanto accaduto in un aula di Tribunale di Roma la scorsa settimana. Nel corso di un'udienza del processo di appello contro i Fasciani di Ostia, l'avvocato Giosuè Naso, difensore di Massimo Carminati, si era scagliato contro Lirio Abbate, inviato dell'Espresso (definendolo “de-lirio” Abbate e rivendicando l'uso legittimo dell'ironia nella sua requisitoria), che per primo descrisse la cupola criminale che ruotava intorno al “cecato” e alla sua banda di allegri compari. Sorte analoga aveva avuto il capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone, descritto come sodale di Abbate. Non vale quasi la pena ricordare che Abbate vive blindato da nove anni per le continue minacce di morte. Vaglio, però, nel fine settimana ha studiato la situazione ed è stato pronto a rispondere con la massima trasparenza all'unica chiamata giunta: quella del Sole 24 Ore.

Presidente Vaglio, l'Ordine degli avvocati di Roma viene chiamato in causa su quanto accaduto. Prego, esprima il suo giudizio.

«Tecnicamente la situazione è questa: l'Ordine è ente pubblico non economico, e dunque è fuori luogo la forzatura di chi cerca di suggerirci un comportamento pubblico da sbandierare ai giornali».

Nulla quaestio, come direste voi legali, sulla natura giuridica dell'Ordine ma insistiamo: i termini per un vostro intervento ci sono o non ci sono?

«Effettivamente c'è stato un riferimento al giornalista oltre che al procuratore e a questo punto il consiglio dell'ordine ha due possibilità: ritenere che questa notizia possa avere risvolti disciplinari oppure ritenere che non ci siano. La valutazione non è discrezionale, di solito il consiglio dell'ordine dovrebbe trasmettere la richiesta al consiglio di disciplina».

Bene. E a chi spetta fare il primo passo?

«Posso farlo anche io come presidente dell'ordine, sentiti gli altri consiglieri. E' l'ufficio nella sua coralità, comunque, che svolge questa funzione. Normalmente c'è la comunicazione al consiglio di disciplina e contemporaneamente si dà un termine di 20 giorni all'avvocato investito della questione, per le sue deduzioni».

Ritentiamo la domanda: l'Ordine di Roma si attiverà o no?

«Abbiamo un ufficio apposito che ogni giorno analizza i giornali e quanto accade nelle aule dei Tribunali in tutta Italia. E' molto probabile che il consiglio di disciplina analizzi il caso».

Lei si sarebbe mai comportato come il suo collega Naso?

«Non può pormi questa domanda. Veramente sì. Sarebbe come chiedere a un giudice di esprimere un concetto sul processo che si sta svolgendo».

Ma lei non deve intervenire su un processo in corso.

«Non posso rispondere. Non mi sembra corretto criticare pubblicamente un collega prima di aver analizzato gli atti e le eventuali controdeduzioni».

Aggiriamo l'ostacolo: si è mai trovato nella sua professione o nella sua vita associativa di fronte ad atteggiamenti simili?

«Capita molto spesso di avere questo tipo di atteggiamento in ambito civile, con termini forti nei confronti del collega o dell'avvocato controparte».

E cosa succede in quei casi?

«La procedura descritta sopra. Ricordo che le sanzioni partono da un avvertimento, che è la sanzione minima, una sorta di rimprovero e arrivano fino alla sospensione o alla radiazione. Se ci dovesse essere un'azione penale da parte del giornalista o del magistrato anche l'eventuale condanna costituisce un'azione disciplinare».

Solidarietà dell’AIGA all’Avv. Giosuè Bruno Naso espressa l’8 febbraio 2016. L’Associazione Italiana Giovani Avvocati esprime piena e incondizionata solidarietà all’Avvocato Giosuè Bruno Naso, fatto oggetto di pesanti attacchi mediatici per aver, nel corso di un’arringa difensiva, stigmatizzato il contenuto di alcune inchieste giornalistiche del dott. Lirio Abbate e contestato la sistematica violazione della segretezza delle indagini preliminari. La libertà di stampa, presidio di garanzia di uno Stato democratico, non sarà mai messa in discussione dall’avvocatura, che storicamente ha vigilato per il rispetto dell’art. 21 della nostra Costituzione. È amaro constatare che, viceversa, un valore di rango straordinariamente più elevato, quello della libertà personale e conseguentemente il diritto di difesa, sia oggi messo in discussione, in modo così becero e violento, da quello stesso mondo che vive in funzione della libertà di manifestazione del pensiero. Proprio per tutelare al massimo la sacralità del diritto di difesa, la Costituzione e il codice di procedura penale pongono quale unico limite quello della continenza verbale, che è stato considerato rispettato dall’unico soggetto legittimato a contestarlo (il giudice procedente). Senza entrare nel merito dei fatti affermati dal Collega, della cui fondatezza non spetta ad altri che al Tribunale compiere valutazioni, l’arringa “incriminata”, lungi dal costituire, come pure gratuitamente lasciato intendere, una sorta di “minaccia” al giornalista da parte di un “portavoce” di un presunto criminale, rappresenta, viceversa, un luminoso esempio di richiamo ai valori della Giurisdizione, della presunzione di innocenza, del rispetto delle regole processuali, soprattutto da parte di chi rappresenta lo Stato ed esercita la pretesa punitiva, e della libertà dell’avvocato nella difesa dei propri assistiti. Senza scomodare l’esempio dell’Avvocato Otto Stahmer, protagonista al processo di Norimberga della difesa di imputati poi riconosciuti responsabili di crimini contro l’umanità, la Giovane Avvocatura tiene a sottolineare come la difesa degli imputati, quanto più impopolare (e quindi difficile), tanto più è nobile. L’AIGA auspica che tutte le Istituzioni Forensi prendano immediatamente una rigida posizione a tutela dell’Avvocato Giosuè Bruno Naso e, tramite esso, di tutta l’Avvocatura.

La Camera Penale di Trapani ha deciso di far sentire su questo caso la propria voce, anche se in fin dei conti le vicende romane sono lontane da questa città. In sostanza la Camera Penale di Trapani, con un documento mandato al ministro della Giustizia Orlando, per sottolineare il rango di diritto inviolabile che la Costituzione riconosce alla difesa, prendendosela a male con i giornalisti che hanno stigmatizzato il comportamento dell’avvocato Naso, ha deliberato che ad apertura di tutte le udienze penali che si svolgeranno dal 22 al 26 febbraio 2016, gli avvocati chiederanno che si metta a verbale la seguente dichiarazione: “l’avvocato difende la libertà con la libertà di difendere”.

A Naso è tutto un De-Lirio, scrive “Il Fango Quotidiano” il 31 gennaio 2016. A noi, piace fare la voce fuori dal coro, non in modo pretestuoso, ma per cercare di offrire una visione, un punto di vista meno fazioso e schierato con la massa. Non prendiamo parti, non siamo amici di nessuno e si può dire non (su)sopportiamo nessuno: dai politici ai criminali, fino ai giornalisti e agli sbirri (non usiamo il termine in senso dispregiativo ma storico). Il caso, tutto giornalistico, che tiene banco in questi giorni è quello della battuta fatta dall’avvocato Giosuè Naso difensore di Massimo Carminati nel processo che vede quest’ultimo come imputato e accusato di essere il capo della cosiddetta “mafia capitale”. In particolare 2 sono le affermazioni che hanno indignato la stampa italiana: lo storpiamente del nome del Giornalista Lirio Abbate in De-Lirio Abbate e quella in cui l’avvocato parla di un complotto tutto politico che vedrebbe Lirio Abbate come collaboratore e referente della procura, in particolare con il procuratore Giuseppe Pignatone. Sono stupidaggini? Sicuramente, ma rientrano nelle facoltà, e nelle possibilità lecite che ogni avvocato ha il diritto di utilizzare. Come previsto dalla legge anche i serial killer o appunto i capimafia hanno diritto a una difesa e naturalmente un avvocato non si può limitare a dire “il mio cliente è innocente” o “sono tutte falsità” deve riuscire a trovare il modo di replicare e smontare e dimostrare l’infondatezza delle accuse. Inoltre Volendo essere precisi un avvocato difensore non deve trovare le prove. Quelle le deve trovare chi accusa perchè secondo la legge si è innocenti fino a prova contraria e non viceversa.  Non avendo strumenti efficaci è quindi comprensibile che l’avvocato cerchi di delegittimare coloro che hanno avviato l’inchiesta e coloro che l’hanno ispirata/anticipata (in questo caso il giornalista Lirio Abbate). Il giornalista Peter Gomez Lancia il suo editto via twitter (i giornalisti possono devono usarlo, solo i politici ci fanno brutta figura…) "Gli avvocati italiani tolgano il saluto all'avvocato Naso. Sanzionare socialmente le sue parole contro Lirio Abbate". 22:23 - 30 Gen 2016. Anche il suo collega Marco Lillo segue a ruota. "Non basta abbracciare il mio amico @LirioAbbate. Tutti quelli che incontrano l'avv Naso in tribunale gli tolgano il saluto. O di qua o di là". 21:56 - 30 Gen 2016. Eh qui non capiamo. Naso è il difensore di Carminati per forza di cose sta di là… Forse Lillo e Gomez pensano che il dovere di un avvocato con la schiena dritta sia di non difendere i criminali e quelli d’ufficio dovrebbero fare solo finta di difendere il loro assistito. Per carità, sono punti di vista. Roberto Saviano che non perde certo occasione scrive (sempre su twitter) "Solidarietà a Giuseppe Pignatone e @LirioAbbate per le violente parole dell'avvocato del boss Carminati contro di loro". 21:01 - 30 Gen 2016. Ora, premesse le ovvietà sulla solidarietà, sul giornalismo, sulla mafia che è una montagna di merda e bla bla (no perchè se no Lillo pensa che stiamo di là). Noi vorremmo provare a fare alcune riflessioni (sempre che ciò ci sia concesso). Prima che montasse la vicenda soprannominata “mafia capitale” nessun magistrato, processo o condanna aveva mai sancito o ipotizzato che la criminalità romana fosse ascrivibile alla mafia (una leggera svista…). L’oggi super boss Carminati, prima di sentire le intercettazioni di Buzzi che diceva che con gli Immigrati si facevano più soldi che con la droga e che si imbastisse l’inchiesta girava tranquillamente per la città e non aveva alcuna pendenza o reati da scontare. Era un uomo libero e nessuno ne parlava (a parte Lirio Abbate). Durante il “sindacato” targato Alemanno nessuno mai si era sognato di parlare di cooperative, di minacce, pollici spezzati, mazzette ecc. Poi quando bisognava fare fuori Marino che aveva “brutte intenzioni” ecco che hanno scoperchiato il vaso di pandora. Massimo Carminati il 7 dicembre parla con una persona (non si sa chi sia…) con tono “furioso”: “FINCHÉ MI DICONO CHE SONO IL RE DI ROMA MI STA PURE BENE, COME L’IMPERATORE ADRIANO.  PERÒ SUGLI STUPEFACENTI NON TRANSIGO, LUNEDÌ VOGLIO ANDARE A PARLARE COL PROCURATORE CAPO E DIRGLI: SE SONO IL CAPO DEGLI STUPEFACENTI A ROMA MI DEVI ARRESTARE IMMEDIATAMENTE. NON SO CHI C… È QUESTO ABBATE, QUESTO INFAME PEZZO DI M… FINCHÉ MI ACCUSANO DI OMICIDI … MA LA DROGA NO… COME TROVO IL GIORNALISTA GLI FRATTURO LA FACCIA… TANTO SARÀ SCORTATO, COSÌ GLI AUMENTANO PURE LA SCORTA”. Carminati si incazza dopo aver letto l’articolo di Lirio Abbate su L’Espresso. Ora, bisogna comprendere che Carminati è uno di quei criminali che tengono alla loro reputazione, che ha un sistema di valori e principi tutto suo. Ma quello che però lo rende credibile è che difficilmente un criminale farebbe di tutto per smentire solo l’accusa meno grave nei suoi confronti. Carminati non sa di essere intercettato e non ha motivo di mentire. A lui non frega nulla delle accuse di omicidio, di mafia o dell’appellativo “Re di Roma” (quelle lo lusingano) a lui dà fastidio la più insignificante, lo spaccio di droga. L’articolo di Lirio Abbate, con tutto il rispetto per la causa, l’impegno e le conseguenze che il giornalista ha subito e sta ancora affrontando, non ci sembra un gran lavoro. Se dobbiamo essere sinceri è scritto davvero maluccio. Un giornalista quando fa della accuse dovrebbe in un certo senso dimostrarle, fornire fonti (non rivelarne l’identità ovviamente) fornire argomentazioni, testimonianze. Abbate fa solo una lunga lista di quelle che a noi sembrano più che altro sue convinzioni riportate con lo stile del romanziere. Ci sarebbero dovute essere delle “prove” (non di livello processuale naturalmente) ma almeno argomentazioni in grado di supportare le tesi espresse. Se provassimo a metterci nei panni di uno dei mafiosi di qui parla l’articolo non ci saremmo preoccupati più di tanto perchè non c’è nulla nell’articolo che possa costituire un reale problema: non ci sono date, fatti, non si smaschera nulla. Si dice solo, quello controlla la zona ovest, quell’altro la est, spacciano droga (ma non dove e come). Insomma nulla che un avvocato appena laureato non possa risolvere (stiamo ragionando dal punto di vista criminale ovviamente). Il giornalismo d’inchiesta per noi è un’altra cosa. Anche la magistratura e ci fa un po’ sorridere perchè, come detto nessuno aveva mai parlato di mafia, ma dopo che il giornali e i media hanno sdoganato il termine ecco che tutti si sono precipitati nei soliti “io l’avevo detto”, “eh, era evidente” ecc. Inoltre quando oramai tutti parlavano di mafia ecco che arriva la relazione del prefetto Gabrielli che invece dice che non si tratta di mafia. Ma insomma, è mafia o non è mafia? mmm e chi lo sa… Quello che è certo è che in tutta questa storia non ci sono morti ( e meno a male ), non si zittiscono persone, non ci sono faide per la conquista di posizioni vacanti tutte cose tipiche di un contesto mafioso,  e non è vero come scrive Abbate che è perchè la mafia è cambiata, basta vedere quello che accada Napoli in questi giorni…Oggi, come detto, sono tutti lì a indignarsi e a schifarsi delle parole dello squallido avvocato Naso a cui va tolto il saluto (se che se ne importa Naso, con quello che prende…) però ad essere sinceri a noi sono anche altre le cose che ci fanno schifo. Forse siamo folli, ma a noi fa schifo:

Che gli agenti dei servizi o altro corpo dello stato, come emerso dalle intercettazioni, avvertivano e tenevano costantemente informato Carminati, non risparmiando encomi, elogi e ammirazione.

Che era impossibile che finanza e carabinieri non sapessero o non vedessero cose che per la loro evidenza (questi facevano tutto alla luce del sole, nei bar, per strada, parlavano al cell) era davvero difficile non vedere.

Che dopo l’esplosione del caso sono partiti i consueti depistaggi (furti misteriosi e inquinamenti vari).

Che politici di ogni schieramento sapevano ma nessuno di loro parlava.

Che tanto alla fine pagheranno i capri espiatori (che se lo meritano, sia chiaro) da dare in pasto all’opinione pubblica, ma forze dell’ordine colluse, servizi deviati e politici la faranno franca come avviene sempre.

Che come evocato dall’avvocato Naso ci sono cose che a confronto mafia capitale sembra una fiaba per bambini. Come quella della brutta storia del generale Ganzer e del suo gruppo di gruppo di ufficiali e sottufficiali dei Carabinieri del ROS (ci sono omicidi, spaccio di droga ‘ndrangheta e chi più ne ha ne metta) che ha è finita a tarallucci e vino con una bella prescrizione (noi del fango ne parleremo a breve in un articolo dedicato al caso).

Che giornalisti o sedicenti tali partecipano a fabbricazioni di false intercettazioni (vedi caso Crocetta/Tutino) o manipolano le trascrizioni. Per non parlare di quando vengono in possesso illecitamente e dietro compenso o altra utilità di informazioni, documenti fascicoli segretati che una volta resi pubblici, non solo rischiano di vanificare anni di lavoro di delicate indagini, ma anche di far organizzare e allertare indagati e sospetti ringraziando si prodigano per eliminare possibili tracce e prove.

Potremmo andare avanti a lungo.  Ma ci sta venendo da vomitare. L’avvocato Naso è stato offensivo ma il giornalista/conduttore Massimo Giannini che ha parlato di rapporti incestuosi fra il ministro Maria Elena Boschi e il padre no, lui lo difendiamo, perchè “è uno di noi” bisogna tutelare la categoria… E poi si sa che la Boschi, Boldrini, e le renzioidi possono/devono essere offese screditate e delegittimate. La Boldrini era la stronza sotto scorta, Abbate l’eroe della carta stampa minacciato dal perfido cecato. Il mondo va così due pesi e due misure, anzi a Naso si potrebbe dire che è tutto un De-lirio.

Criminale con diritto alla difesa. Non ha mai negato rapine e eversione nera e banditismo. Ma Carminati odia droga e mafia. Al Cecato è negata una tutela giudiziaria decente. Icona mediatica, non sta al gioco. Le ragioni del 416 bis secondo i legali, scrive Annalisa Chirico il 30 Dicembre 2014 su “Il Foglio”. Anche i criminali hanno diritto alla difesa. Quella che leggete è una difesa di Massimo Carminati. Il giornalista collettivo, per definizione, è megafono della requisitoria e censore dell’arringa. Qui si contraddice la pubblica accusa. Non è lesa maestà ma tributo alla giurisdizione. Ci hanno raccontato che Carminati è un fascio cecato, dominus di una romanissima cupola mafiosa, trafficante e pluriomicida. Di sicuro c’è un fatto: “Er Cecato” è cecato veramente. Orbo di un occhio. Nell’epopea mitica del “re di Roma” propalata dalla grancassa massmediatica, l’occhio lo avrebbe perso in uno “scontro a fuoco” con la polizia. Prima bufala. L’unica arma che Carminati indossa quel 20 aprile del 1981 è un passaporto falso. Al valico di Gaggiolo, in provincia di Varese, Carminati è a bordo di una Renault 5 con due sodali in fuga dalla retata anti Nar della magistratura romana. Quando l’auto si ferma e i tre tentano di scappare, gli agenti della Digos sparano. Carminati è salvo per un pelo: il bulbo oculare sinistro è spappolato, un frammento del proiettile gli rimane conficcato nella testa. Il giovane, nato 23 anni prima da una famiglia borghese ben insediata nella capitale, maturità classica e qualche esame alla facoltà di Medicina, non è un neofita del crimine. Infiammato dall’ideologia eversiva, estremista, dei Nuclei armati rivoluzionari, nel ’79 insieme a quattro camerati mette a segno la rapina della Chase Manhattan Bank di piazzale Marconi a Roma. Da allora il certificato penale di Carminati s’ingrossa tra rapine, eversione, banda della Magliana, fino all’ultima clamorosa impresa: il furto nel caveau della banca interna del Palazzo di giustizia a Roma. “Massimo ha un’alta considerazione di sé”, sorride sornione l’avvocato Giosué Bruno Naso che lo difende da trent’anni. La reputazione conta. Per questo, quando nel dicembre 2012 l’Espresso pubblica un articolo a firma di Lirio Abbate che svela in anticipo l’inchiesta detta Mafia Capitale e attribuisce al Nero condanne per droga e omicidi, Carminati s’infuria: “Finché mi dicono che sono il re di Roma mi sta pure bene, come l’imperatore Adriano. Però sugli stupefacenti non transigo. Lunedì voglio andare a parlare col procuratore capo e dirgli: se sono il capo degli stupefacenti a Roma mi devi arrestare immediatamente”. Assistito dall’avvocato Ippolita Naso, figlia di Giosué Bruno, cita per danni editore e giornalista. L’articolo di “De-Lirio Abbate”, come lo ribattezza Naso pater, alimenta l’ego di Carminati definito “arbitro di vita e di morte”, “unica autorità in grado di guardare dall’alto quello che accade nella capitale”. Ma poi l’articolista si spinge oltre e lo tira in ballo nel “business della cocaina”. Il che, per il Carminati pensiero, equivale alla peggiore delle infamie. E’ cresciuto nel mito volontaristico che non ammette dipendenze. L’uomo vero è un soggetto nel pieno controllo di sé. La droga è robaccia per il “Mondo di sotto”. Il casellario giudiziario di Carminati conferma la sua impostazione: zero condanne per droga. Quanto al profilo del pluriomicida, in entrambi i processi per l’assassinio del giornalista Carmine Pecorelli (presunto mandante l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti) Carminati è assolto. Il nome del Nero rimbalza in “Romanzo Criminale”, nonché in diverse inchieste su servizi segreti deviati e depistaggi di stragi. Sconta pure il carcere inseguito da accuse poi falcidiate a colpi di archiviazioni e assoluzioni. “E’ la solita mania tutta italiana di riscrivere la storia del paese in chiave giudiziaria – commenta il legale Naso pater – Massimo non è un frate trappista ma con la mafia non c’entra niente. Hanno tentato di coinvolgerlo nelle trame dei cosiddetti ‘misteri italiani’ privi di alcun esito giudiziario. Se non quello di rinverdire il mito carismatico del Nero”. Una vita tra fiction e realtà. Fino all’ultimo colpo di scena: Mafia Capitale. L’annuncio dell’“imminente scoperta” avviene nel corso di un convegno del Partito democratico a opera del procuratore capo Giuseppe Pignatone, magistrato stimatissimo che lo scorso sabato ha rilasciato una corposa intervista al Sole 24 Ore per dettagliare sullo sviluppo dell’inchiesta. Pignatone contesta il 416 bis perché è convinto che esista una mafia autoctona, romanissima, dotata degli “indici rivelatori” della tipica struttura associativa mafiosa. Pignatone vuole riuscire laddove gli inquirenti fallirono nei confronti della banda della Magliana (per la quale l’aggravante mafiosa fu esclusa dal giudice). “A quel punto – insinua maliziosamente Naso pater – chi potrà negargli il posto di procuratore nazionale antimafia?”. L’avvocato Naso filia ha coniato l’espressione “mafia parlata”: “Non ci sono morti né feriti.  Pullulano invece gli episodi di corruzione, estorsione… ma che senso ha contestare il 416 bis?” L’imputazione mafiosa estende la gamma dei mezzi investigativi disponibili, abbassa la soglia di gravità indiziaria, consente una gestione dei detenuti più favorevole alla procura. Il ministero di via Arenula ha disposto il 41 bis per l’indagato Carminati (non è ancora neanche imputato), il che significa 23 ore in cella e una sola visita al mese per i familiari. Chi lo conosce dubita che il “carcere duro” possa fiaccarlo nello spirito ribaldo. Ma di certo una misura cautelare così rigida rende assai ardua l’articolazione di una strategia difensiva. “Il 41 bis c’è anche a Rebibbia e a Civitavecchia. Perché trasferirlo prima a Tolmezzo, in provincia di Udine, e poi a Parma? Hanno sequestrato i conti suoi e dei familiari. Come farà a coprire almeno le spese della difesa? – si domanda Naso pater – Non siamo messi nelle condizioni materiali per difenderlo. Ma lo sa che hanno pedinato e intercettato me e mia figlia per mesi? Persino durante i colloqui con il mio assistito, cosa che è espressamente vietata dalla legge”. All’indomani dell’arresto avvenuto il 2 dicembre scorso, si consuma la prima “colossale buffonata”: un interrogatorio di garanzia in cui Carminati dovrebbe rendere conto delle risultanze d’indagini durate quattro anni e racchiuse in 80 mila pagine. Mentre i giornali ricamano sulla scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere, manco fosse un’implicita ammissione di colpa, gli avvocati che hanno ricevuto il malloppone appena 12 ore prima dell’incontro con il gip, si tormentano: “Come facciamo a consigliare al nostro assistito di rispondere se non abbiamo avuto il tempo di vagliare le carte?”. L’ordinanza d’arresto di oltre 1.200 pagine, un compendio d’intercettazioni telefoniche e ambientali, replica quasi testualmente l’istanza dei pm “i quali, a loro volta, ricalcano l’ultima informativa dei carabinieri. Il che vuol dire che non c’è più un controllo giurisdizionale sull’operato degli investigatori”, sostiene Naso pater. Davanti al collegio del tribunale del Riesame che potrebbe scarcerare Carminati ma non lo fa, Naso filia si scaglia contro “i metodi di un’indagine ossessiva, quotidiana, mostruosa” e contro un’imputazione, il 416 bis, che è “un calderone senza confini definiti in cui rientra ogni tipo di condotta, secondo il pericoloso e subdolo schema dell’argomentazione assiomatica”. Come un dogma. In effetti, le intercettazioni andrebbero ascoltate oltre che lette. “Il tono conta – prosegue la giovane e agguerrita Ippolita – E’ una manifestazione di spacconeria romana, un autentico cazzeggio che sconfina nel turpiloquio. Come si può pensare che un mafioso impartisca ordini imprecando seduto su una panchina con la gente che si volta a guardarlo?”. L’ormai famigerata pompa di benzina è un palcoscenico a cielo aperto. Di quale omertà parliamo? Carminati sa da tempo di essere pedinato e intercettato. Con le telecamere installate presso il benzinaio di corso Francia improvvisa siparietti da smargiasso rivolgendosi direttamente ai carabinieri: “Che ne dite, oggi facciamo un’estorsione o un’usura?”. Quando telefona a Naso filia, esordisce così: “Buongiorno, avvocato, sono il re di Roma”. Sembra una barzelletta. Stando all’ipotesi accusatoria, mentre a Roma scorrono miliardi di euro tra metropolitane e cantieri infiniti, Mafia Capitale si avventerebbe sul bottino delle corruzioni municipali con funzionari disposti a vendersi per 400 euro… “Fateci delinquenti ma non cojoni”, confida un risentito Carminati all’avvocato di una vita, Naso pater, all’indomani dell’episodio di intimidazione denunciato da Lirio Abbate. “Ma davvero credono che per mettere paura a un giornalista già scortato prendiamo un ventenne inesperto e lo mettiamo a bordo di una Clio per speronare un’auto blindata?”. La reputazione prima di tutto. “Forse ci siamo dimenticati che cos’è la mafia vera, come agisce – commenta Naso pater – C’è indubbiamente un malcostume diffuso che riguarda molte amministrazioni comunali. Ma è roba per “Striscia la Notizia” più che per la procura di Roma”. Si spieghi meglio, avvocato. “Se volete c’è una cultura mafiosa ma nessun metodo mafioso. E quella cultura mafiosa, se mi permette, permea la realtà italiana a molti livelli: negli appalti, nell’università, nella magistratura”. Attenzione che la incriminano. “Dico, e ripeto, che quando alcuni incarichi direttivi in magistratura restano vacanti per mesi e anni perché i capicorrente non si mettono d’accordo sulla spartizione dei posti, anche lì si appalesa una logica spartitoria di stampo mafioso”. I legali sono pronti a dare battaglia. Nessun giudizio abbreviato ma un processo vero, udienza per udienza. Naso pater non esita a definire Carminati un “Robin Hood del XX secolo”: se poteva aiutare qualcuno, non si risparmiava. Se occorreva sbloccare in Campidoglio una pratica, che riguardasse gli affari suoi o di persone a lui vicine, Carminati sapeva chi contattare. “Avete ridotto a questo stato la politica per la quale tanti di noi sono morti? E adesso io vi uso”, era l’atteggiamento sprezzante che il Nero riservava al mondo dei colletti bianchi e dei politicanti all’ombra del Cupolone. Per il resto, conduceva una vita morigerata e rigorosa con la sua compagna nella villetta di Sacrofano, una smart e pochissime uscite, una grande passione per National Geographic, “Quark” e SkyTg24. Banditi alcol e droghe. “Sa quante volte ha pagato le visite mediche private a ex camerati e ai loro familiari?”, evidenzia Naso pater. E allora uno si chiede come potesse mantenere un figlio ventenne a Londra e fare pure beneficenza con le sole entrate del negozio della compagna. “Ricordiamoci che del bottino del caveau è stata rinvenuta soltanto una minima parte”, si lascia scappare l’avvocato. Il Nero le rapine non le ha rinnegate, se l’è appuntate al petto come una medaglia al valore. Adesso che a 56 anni si ritrova per la prima volta nella sua vita al 41 bis, sussurra impaziente al suo legale: “Fateci fascisti ma non mafiosi”. Carminati invoca giustizia.

Per altri avvocati come i Naso, però, non è finita bene.

Ora si racconta un fatto: un avvocato ha chiesto il trasferimento del dibattimento per legittimo sospetto. Quando si parla di “legittimo sospetto” ci si riferisce ad un presupposto applicativo dell’istituto giuridico della rimessione dei processi. Quest’ultimo, attualmente contemplato dall’art. 45 c.p.p., concretando una deroga a previsioni ordinarie in materia di competenza, comporta, come noto, il trasferimento del processo da una ad altra sede giudiziaria. Ratio ispiratrice del rimedio è la necessità di assicurare l’imparzialità della decisione finale rispetto a fattori di turbativa ambientale, capaci di incidere, dall’esterno, sulla regolarità processuale, intaccando così la genuinità del verdetto definitivo. Di fatto l'istituto non è stato mai applicato.

Anche perchè i magistrati, con l'ausilio della stampa, sanno come far impedire la richiesta travisandone gli effetti.

Camorra, lesse proclama contro Cantone e Cafiero de Raho: l’avvocato dei boss condannato a 5 anni e mezzo. I giudici hanno assolto con la formula "per non aver commesso il fatto" Francesco Bidognetti e l’altro esponente del clan di Casal di Principe, Antonio Iovine. Come era già avvenuto nell'altro processo per diffamazione nei confronti di Rosaria Capacchione e Roberto Saviano, scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 luglio 2016. “Un camorrista in toga”. Così il pm della dda di Napoli Sandro D’Alessio definì Michele Santonastaso, ex difensore dei boss dei Casalesi Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, definì l’avvocato che il 13 marzo 2018 nell’aula del processo d’Appello Spartacus, il 13 marzo del lesse una lettera-istanza per legittimo impedimento in cui venivano messi nel mirino due giornalisti e due magistrati: Rosaria Capacchione e Roberto Saviano, Raffaele Cantone (nella foto) e Federico Cafiero de Raho. Per la diffamazione della giornalista de Il Mattino e ora senatrice Pd e per lo scrittore Santonastaso è stato già condannato a un anno l’11 dicembre 2014, oggi – a distanza di quasi un anno dalla requisitoria è arrivata la condanna per diffamazione e calunnia nei confronti dell’attuale presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e del procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho. Il Tribunale di Roma lo ha condannato a 5 anni e sei mesi. I giudici hanno assolto con la formula “per non aver commesso il fatto” lo stesso Bidognetti e l’altro esponente del clan di Casal di Principe, Antonio Iovine. Come era già avvenuto nell’altro processo. A Santonastaso i reati contestati sono aggravati dal metodo mafioso. Il procedimento nato a Napoli è giunto a Roma per competenza perché sia Cantone sia De Raho erano in servizio alla Dda di Napoli all’epoca dei fatti. L’accusa aveva chiesto per tutti gli imputati sei anni di reclusione. Il legale lesse a nome dei due boss (non presenti in aula) una memoria in cui veniva messa in dubbio la serietà dell’inchiesta chiedendo, quindi, il trasferimento del dibattimento per legittimo sospetto. La lettera diffamatoria nei confronti dei magistrati conteneva espressioni minacciose e accusava i pm “di essere in cerca di pubblicità”. Nel documento venivano citati anche lo scrittore Saviano e Capacchione. A Santonastaso inoltre un anno fa furono confiscati beni mobili e immobili per 8 milioni di euro dai Carabinieri di Caserta e dagli agenti della Dia di Napoli che notificarono anche una misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di dimora nel comune di residenza della durata di 4 anni. L’avvocato era stato arrestato due volte, nel settembre del 2010 e nel gennaio del 2011, per avere commesso una serie di reati finalizzati ad agevolare la fazione Bidognetti del clan dei Casalesi, il clan Cimmino e il clan La Torre. Fu nell’udienza per chiedere la confisca dei beni – che l’11 dicembre 2014 – il pubblico ministero definì Santonastaso “camorrista in toga la cui attività, iniziata negli anni ’90, ha avuto un’escalation culminata con la lettura nell’aula del processo d’Appello Spartacus, il 13 marzo del 2008, dell’istanza per legittimo impedimento in cui vengono messi nel mirino due giornalisti e due magistrati, l’estremo tentativo dei Casalesi di ricompattarsi come aveva fatto Cosa Nostra dopo l’omicidio di Salvo Lima”.

Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.

Tribunale di Potenza. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato.

Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitati. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.

Per dire: una norma scomoda inapplicata.

Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.

Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.

L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.

Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.

Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?

E anche stavolta, come decine di volte ancora prima con accuse montate ad arte, non ci sono riusciti a condannare il dr Antonio Giangrande. Il Dr Lucio Setola del tribunale di Potenza assolve il dr Antonio Giangrande il 19 maggio 2016, alle ore 17, dopo un’estenuante attesa dalla mattina da parte dell’imputato e dei sui difensori l’avv. Pietrantonio De Nuzzo e l’avv. Mirko Giangrande.

La stessa cosa si ripete a Taranto dove l’avv. Nadia Cavallo ha ripresentato una querela per diffamazione, per un fatto già giudicato e da cui è scaturita assoluzione. La nuova querela della Cavallo aveva prodotto un decreto penale di condanna emesso dal Gip Giuseppe Tommasino senza contradditorio. La doverosa opposizione del difensore, l’avv. Mirko Giangrande, per “ne bis in idem”, ossia non processato è condannato per lo stesso fatto, portava al Giudizio Immediato presso il Tribunale di Taranto da cui il 3 ottobre 2016 scaturiva ennesima sentenza di assoluzione.  

Come si dice..."Cane non mangia cane!". Toga non tocca toga e alla fine perdono sempre i cittadini. Perché la vera casta pericolosa non è quella della politica, è quella che non caccia i tanti Scavo che ha in seno, scrive Alessandro Sallusti (la destra politica), Sabato 14/05/2016, su "Il Giornale". A riprova che i magistrati non sono esseri superiori, esenti dai limiti e vizi di noi comuni mortali, un importante pubblico ministero di Roma, Francesco Scavo, titolare dell'inchiesta sui marò e di quella sull'omicidio di Luca Varani, è stato processato dal Csm per molestie sessuali nei confronti di alcune avvocatesse: apprezzamenti imbarazzanti a sfondo sessuale, avance e «repentini palpeggiamenti». Dopo aver accertato i fatti, che sanzione ha deliberato il Csm? Censura e trasferimento d'ufficio, come giudice, al tribunale di Viterbo. Ora, qui non parliamo di un manager sporcaccione o di un impiegato esuberante, ma di un magistrato. Cioè di un professionista che avendo in mano le vite e i destini di altri uomini dovrebbe dimostrare doti di equilibrio al di sopra di ogni sospetto. Doti evidentemente incompatibili con il profilo psicologico di un molestatore seriale. Che continuerà invece ad operare, non più come accusatore ma, peggio mi sento, come giudice. Non voglio ironizzare in base a quali giudizi Francesco Scavo emetterà le sue sentenze a carico di imputati magari difesi da giovani avvocatesse. Ma dico che è come se un pilota trovato positivo al test antidroga, invece che messo a terra venisse spostato a pilotare un aereo solo un po' più piccolo. Come se un chirurgo alcolizzato fosse trasferito dal grande ospedale a uno di provincia. Volereste su quell'aereo? Vi fareste curare in quell'ospedale? Penso di no. E allora mi chiedo perché i cittadini di Viterbo debbano finire nelle mani di un giudice poco equilibrato. E la risposta è una sola: la magistratura italiana usa due pesi e due misure, a seconda che si tratti di noi o di loro, e chissà quante volte accade perché il caso Scavo non è certo una eccezione. Se Piercamillo Davigo, neo presidente dell'Associazione nazionale magistrati, invece di dare dei ladri a tutti i politici e di considerare imprenditori e cittadini colpevoli fino a prova contraria, facesse un bel po' di pulizia in casa sua, il Paese ne avrebbe certamente maggiori benefici. Ma è come chiedere al tacchino di anticipare il Natale. Perché la vera casta pericolosa non è quella della politica, è quella che non caccia i tanti Scavo che ha in seno.

Storia di magistrati, di malagiustizia e del popolo che paga sempre…Come un magistrato viene beccato dalla polizia nei cessi di un cinema che fa un pompino a un ragazzino ed esce dalla vicenda con una promozione che farà lievitare anche gli stipendi dei suoi colleghi. Un costo da 70 milioni di euro all’anno…Il “pompino” più caro della storia, scrive Stefano Livadiotti (la sinistra politica), giornalista del settimanale L’ ESPRESSO (tratto dal libro “MAGISTRATI L’ULTRACASTA”). Un magistrato viene sorpreso in un cinema di periferia, dove ha promesso soldi a un ragazzino per appartarsi con lui. Scattano le manette e la sospensione dal lavoro. Poi, però, dopo tre gradi di giudizio e grazie a un’amnistia, tutto è annullato. E il Consiglio superiore della magistratura lo riabilita. Con una sentenza grottesca che fa impennare gli stipendi di migliaia di suoi colleghi. Ecco i verbali segreti di tutta la storia. Sono le 18 di un freddo pomeriggio di dicembre quando L.V., rispettabile magistrato di corte d’appello con funzioni di giudice del Tribunale di Milano, fa il suo ingresso nella sala dell’Ariel, un piccolo cinema all’estrema periferia occidentale di Roma. Sullo schermo proiettano il film western La stella di latta. Ma ad attirare Vostro Onore nel locale non sono certo le gesta di John Wayne nei panni dello sceriffo burbero. No, a L.V., che ha ormai 41 anni suonati, dei cow-boy non frega proprio un fico secco. Se si è spinto tanto fuori mano è perché è in cerca di tutt’altro. Così, dopo aver scrutato a lungo nel buio della platea, individua il suo obiettivo. E, quatto quatto, scivola sulla poltroncina accanto a quella occupata dal quattordicenne I.M. Quello che succede in seguito lo ricostruisce il verbale della pattuglia del commissariato di Polizia di Monteverde che alle 19.15 raggiunge il locale su richiesta della direzione. “Sul posto c’era l’appuntato di polizia G.P., in libera uscita e perciò casualmente spettatore nel cinema, che consegnava ai colleghi sopravvenuti due persone, un adulto e un minore, e indicava in una terza persona colui che aveva trovato i due in una toilette del cinema. L’adulto veniva poi identificato per il dottor L.V. e il minorenne per tale I.M. Il teste denunciante era tale F.Z”.L’appuntato G.P. riferiva che verso le 19, mentre assisteva in sala alla proiezione del film, aveva sentito gridare dalla zona toilette: “zozzone, zozzone, entra in direzione!”. Accorso, aveva trovato il teste Z. che, indicandogli i due, affermava di averli poco prima sorpresi all’interno di uno dei box dei gabinetti, intenti in atti di libidine. Precisava, poi, lo Z. che, entrato nel vestibolo della toilette, aveva scorto i due che si infilavano nel box assieme, richiudendovisi. Aveva allora bussato ripetutamente, invitandoli a uscire, ma senza esito. Soltanto alla minaccia di far intervenire la Polizia l’uomo aveva aperto, tentando di nascondere il ragazzo dietro la porta.” “Il minorenne, a sua volta, raccontava che verso le 18 era seduto nella platea del cinema intento a seguire il film quando un individuo si era collocato sulla sedia vicina: poco dopo questi aveva allungato un mano toccandogli dall’esterno i genitali. Egli aveva immediatamente allontanato quella mano e l’uomo se n’era andato. Ma dopo dieci minuti era ritornato, rinnovando la sua manovra. Questa volta egli aveva lasciato fare e allora l’uomo gli aveva sussurrato all’orecchio la proposta di recarsi con lui alla toilette, promettendogli del denaro. Egli s’era alzato senz’altro, dirigendosi alla toilette, seguito dall’uomo. Entrati nel box, l’uomo gli aveva sbottonato i calzoni, ed estratto il pene lo aveva preso in bocca.” Adescare un ragazzino in un cinema è un fatto che si commenta da solo. Che a farlo sia poi un uomo di legge, o che tale dovrebbe essere, appare inqualificabile. Ma non è solo questo il punto. Se i fatti si fermassero qui, non potrebbero essere materia di questo libro. Invece, come vedremo, la storia che comincia nella sala dell’Ariel giovedì 13 dicembre del 1973, per concludersi ingloriosamente 8 anni dopo, va ben oltre lo squallido episodio di cronaca. Per diventare emblematica della logica imperante almeno in una parte del mondo della magistratura ordinaria (di cui esclusivamente ci occuperemo, senza prendere in considerazione quelle contabile, amministrativa e militare). Cioè, in una casta potentissima e sicura dell’impunità. Dove lo spirito di appartenenza e l’interesse economico possono portare a superare l’imbarazzo di coprire qualunque indecenza. Dove il vantaggio per la categoria finisce a volte per prevalere su tutto il resto e l’omertà è la regola. Dove in certi casi giusto la gravità dei comportamenti riesce a offuscare la loro dimensione ridicola. Quel giorno, e non potrebbe essere altrimenti, V. viene dunque arrestato. Vostro Onore cerca disperatamente di negare l’evidenza. S’arrampica sugli specchi, raccontando di aver pensato che il ragazzino si sentisse male e di averlo quindi seguito nel bagno proprio per assisterlo. Ma non c’è niente da fare: l’istruttoria conferma la versione della polizia. Così, il Tribunale di Grosseto rinvia a giudizio V. per “atti osceni e corruzione di minore”. E, il 28 dicembre del 1973, si muove anche la sezione disciplinare del Csm, l’organo di governo della magistratura, che lo sospende dalle funzioni. V. sembra davvero un uomo finito. Ma non è così. Il 21 gennaio del 1976, il verdetto offre la prima sorpresa. Con il loro collega, i giudici toscani si dimostrano più che comprensivi. Il tribunale della ridente cittadina dell’alta Maremma ritiene infatti che, “atteso lo stato del costume”, l’atto compiuto da V. nella sala del cinema vada considerato soltanto come contrario alla pubblica decenza. Come, “atteso lo stato del costume”? Cosa succedeva all’epoca nei cinema di Grosseto: erano un luogo di perdizione e nessuno lo sapeva? Boh. Andiamo avanti: “Conseguentemente, mutata la rubrica nell’ipotesi contravvenzionale di cui all’articolo 726 del codice penale, lo condanna alla pena di un mese di arresto […] Per quanto poi riguarda la seconda parte dell’episodio, esclusa la procedibilità ex officio, essendo ormai il fatto connesso con una contravvenzione, proscioglie il V. per mancanza di querela dal delitto di corruzione”. Ma il procuratore generale non è d’accordo, e questa è una buona notizia per tutto il paese. E V., che pure dovrebbe fregarsi le mani, neanche. Entrambi presentano ricorso. Si arriva così all’8 marzo del 1977, quando a pronunciarsi è la corte d’appello di Firenze, che ribalta il precedente giudizio. Ma lo fa a modo suo. Per i giudici di secondo grado, quelli di V. sono atti osceni. Evviva. Però, siccome il primo approccio con il ragazzino è avvenuto nella penombra e l’atto sessuale si è poi consumato nel chiuso del gabinetto, il fatto non costituisce reato. V. se la cava quindi con una condanna a 4 mesi, con la condizionale, per la sola corruzione di minori. E di nuovo, non contento, ricorre, con ciò stesso dimostrando la sua incrollabile fiducia nella giustizia. Assolutamente ben riposta, come dimostra il terzo atto della vicenda, che va in scena due anni dopo, il 30 marzo del 1979: “La corte suprema, infine […] annulla senza rinvio limitatamente al delitto di corruzione di minorenne, a seguito dell’estinzione del reato in virtù di sopravvenuta amnistia”. Amen. V. era definitivamente sputtanato davanti a tutti i colleghi. Ma senza più conti in sospeso con la legge. E tanto bastava al Consiglio superiore della magistratura (d’ora in avanti Csm), che il successivo 29 giugno revocava la sua sospensione, rigettando una richiesta in senso contrario del procuratore generale della cassazione, perché “le circostanze non giustificavano l’ulteriore mantenimento […] di una sospensione durata cinque anni e mezzo”. A V. restava da superare solo un ultimo scoglio: il verdetto della sezione disciplinare. Ed è proprio in quella sede che la storia assumerà i toni più grotteschi. La sceneggiata finale, come racconta nel dettaglio la sentenza finora inedita, scritta a macchina e lunga 12 pagine, si svolge il 15 maggio del 1981, quando si riunirono i magnifici 9 della giuria che deve esaminare il dossier n. 294. Molti di loro faranno una carriera coi fiocchi. C’è l’allora vicepresidente del Csm, che è addirittura Giovanni Conso, futuro numero uno della consulta e ministro della giustizia, prima con Amato e poi con Ciampi. C’è Ettore Gallo, che all’inizio degli anni novanta s’accomoderà anche lui sul seggiolone di presidente della corte costituzionale. C’è Giacomo Caliendo, che siederà poi nel governo di Silvio Berlusconi, con l’incarico di sottosegretario alla giustizia. C’è Michele Coiro, che sarà procuratore generale del Tribunale di Roma e poi direttore generale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E ancora: i togati Luigi Di Oreste, Guido Cucco, Francesco Marzachì e Francesco Pintor, e il laico Vincenzo Summa. Chi pensa che in un simile consesso le parole siano misurate con il bilancino è completamente fuori strada. Vista dall’esterno, la sede del Csm ha perfino un che di lugubre, ma quando si riunisce la sezione disciplinare l’atmosfera è più quella del Bagaglino. La sentenza offre un campionario di spunti dalla comicità irresistibile. Come quello offerto dal medico di V., che lascia subito intendere quale incredibile piega potrà prendere la vicenda. “Veniva anche sentito il medico curante, dottor G., che testimoniò di aver sottoposto il V. a intense terapie nell’anno 1970 a causa di un trauma cranico riportato per il violento urto del capo contro l’architrave metallico di una bassa porta. Si trattava di ferita trasversale da taglio all’alta regione frontale, che il medico suturò previa disinfezione. Vostro Onore, insomma, aveva dato una craniata. E allora? “Benché fosse rimasto per dieci giorni nell’assoluto prescritto riposo, il paziente accusò per vari mesi preoccupanti disturbi, quali cefalee intense, sindromi vertiginose, instabilità dell’umore, turbe mnemoniche. Le ulteriori terapie praticate diedero temporaneo sollievo, ma vi furono frequenti ricadute, soprattutto di carattere depressivo, che si protrassero fino al 1972 […] È emerso che la madre dell’incolpato è stata ricoverata per 25 anni in clinica neurologica a causa di gravi disturbi.” Che c’entra?”, direte voi. Tempo al tempo. Dopo quella del luminare, la seconda chicca è la testimonianza dell’amico notaio. “All’odierno dibattimento sono stati escussi sette testimoni, dai quali è rimasta confermata l’irreprensibilità della vita dell’incolpato, prima e dopo il grave episodio, e soprattutto la serietà dei suoi studi e del suo impegno professionale. In particolare, il notaio dottor M. ha ricordato il fidanzamento del dottor V.con la sorella, assolutamente ineccepibile sul piano morale per i quattro-cinque anni durante i quali egli ha frequentato la famiglia. Il matrimonio non è seguito per ragioni diverse dai rapporti tra i fidanzati, che sono anzi rimasti buoni amici.” Par di capire, tra le righe, che V. non molestasse sessualmente la fidanzata. La credibilità della qual cosa, alla luce della sua successiva performance con il ragazzino, appare, questa sì, davvero solida. Nonostante le strampalate deposizioni, gli illustri giurati sembrano decisi a fare sul serio. E subito escludono in maniera categorica di poter credere alla versione che il collega V., a dispetto di tutto, si ostina a sostenere. “I fatti,” tagliano corto, “vanno assunti così come ritenuti dai magistrati di merito dei due gradi del giudizio penale”. Poi, però, cominciano a tessere la loro tela. “E tuttavia ciò che colpisce e stupisce, in tutta la dolorosa e squallida vicenda, è la constatazione che l’episodio si staglia assolutamente isolato ed estraneo nel lungo volgere di un’intera esistenza, fatta di disciplina morale, di studi severi e di impegno professionale.” Come diavolo abbiano fatto a stabilire che “l’episodio si staglia assolutamente isolato”, i giurati lo sanno davvero solo loro. Ma andiamo avanti. La prosa è zoppicante, però vale la fatica: “Tutto questo non può essere senza significato e non può essere spiegato se non avanzando due diverse ipotesi. O l’episodio ha avuto carattere di improvvisa e anormale insorgenza, quasi di raptus, la cui eziologia va ricercata e messa in luce; oppure se, al di sotto delle apparenze, sussiste effettivamente una natura sessuale deviata o almeno ambigua, è doveroso stabilire perché mai essa si sia rivelata soltanto e unicamente in quell’occasione, durante tutto il corso di un’intera esistenza”. L’alto consesso propende, ça va sans dire, per la prima delle due ipotesi. “Già […] i giudici penali avevano adombrato suggestivamente, in presenza dei referti clinici, della deposizione del curante e di quella del maresciallo S. che eseguì l’arresto, che la capacità di intendere e di volere del V., al momento del fatto, doveva essere scemata a tal punto da doversi ritenere ‘ridotta in misura rilevante’, e ciò – secondo i giudici – “per una sorta di psicastenia, di una forma di malattia propria, tale da alterare specialmente l’efficienza dei suoi freni inibitori contro i suoi aberranti impulsi erotici’“. Poste le premesse, i giudici dei giudici preparano il gran finale, citando il parere pro veritate di due professori, scelti naturalmente dalla difesa di V. “Secondo gli psichiatri […] l’episodio in esame, non soltanto costituisce l’unico del genere, ma esso, anzi, ponendosi in netto contrasto con le direttive abituali della personalità, è da riferirsi a quei fatti morbosi psichici che, iniziatisi nel 1970, si trovavano in piena produttività nel 1973, all’epoca del fatto. Durante il quale, pur conservandosi sufficientemente la consapevolezza dell’agire, restò invece completamente sconvolta la ‘coscienza riflettente’, cioè la rappresentazione preliminare degli aspetti etico-giuridici della condotta da tenere e delle sue conseguenze. Il che ha reso inerte la volontà di inibire quelle spinte pulsionali su cui il soggetto non riusciva più a esprimere un giudizio di valore.” Tutta colpa, dunque, della “coscienza riflettente”, che era andata in tilt. Ma come mai? Chiaro: “Su tutta questa complessa situazione il trauma riportato nel 1970 ha svolto un ruolo – secondo i clinici – di graduale incentivazione delle dinamiche conflittuali latenti nella personalità, fino all’organizzazione della sindrome esplosa nell’episodio de quo”. Vostro Onore, dunque, dopo la zuccata è diventato scemo? Neanche per sogno. Lo è stato, ma solo per un po’. “D’altra parte, poi, proprio l’alta drammaticità delle conseguenze scatenatesi a seguito del fatto, unita alle ulteriori cure e al lungo distacco dai fattori contingenti e condizionanti, hanno favorito il completo recupero della personalità all’ambito della norma, come è testimoniato dai successivi otto anni di rinnovata irreprensibilità.” Adesso insomma Vostro Onore è guarito e può senz’altro rimettersi la toga. “Il che comporta essersi trattato di un episodio morboso transitorio che ha compromesso per breve periodo la capacità di volere, senza tuttavia lasciare tracce ulteriori sul complesso della personalità.” Conclusione, in nome del popolo italiano: “Il proscioglimento, pertanto, si impone”. Addirittura. “La sezione assolve il dottor V. perché non punibile avendo agito in istato di transeunte incapacità di volere al momento del fatto”. Il procuratore se n’è fatta una ragione e non propone l’impugnazione. Il futuro ministro non ha nulla da eccepire. Il collega che siederà sullo scranno di presidente della consulta se ne sta muto come un pesce. E, diligentemente, i giurati mettono la firma sotto una simile sentenza. Dove si racconta la storiella di uno che ha sbattuto la testa e tre anni dopo è diventato scemo e ora però non lo è più. A parte il fatto che una zuccata prima o poi l’abbiamo presa tutti, magari pure Conso e Gallo, e qualcuno di noi da piccolo è perfino caduto dalla bicicletta: ma non è che poi ci siamo messi proprio tutti a dare la caccia ai ragazzini nei cinema di periferia. Il fatto che la sezione disciplinare del Csm non sia esattamente un tribunale islamico non è certo una notizia. Nel capitolo 3, intitolato Gli impuniti, ne racconteremo davvero di tutti i colori. Ma il caso di V.è al di là di ogni limite. Anche perché la sua storia non è rimasta sotto traccia come molte altre. Al contrario, nel mondo della magistratura è diventata molto, ma proprio molto popolare. Per un motivo semplicissimo, raccontato, nell’ottobre del 1994, dall’avvocato ed ex parlamentare radicale Mauro Mellini, in Il golpe dei giudici. Mellini sa bene quel che dice. Il libro lo ha infatti scritto quando aveva appena lasciato il Csm, di cui era consigliere: “A conclusione della vicenda V. non solo aveva ripreso servizio, ma era stato valutato positivamente per la promozione a consigliere di cassazione, conseguendo però tale qualifica con un ritardo di molti anni. E, avendo cumulato nel frattempo molti scatti di anzianità sul suo stipendio di consigliere d’appello, si trovò per il principio del trascinamento a portarsi dietro, nella nuova qualifica, lo stipendio più elevato precedentemente goduto grazie a tali scatti e a essere quindi pagato più di tutti i suoi colleghi promossi in tempi normali. Questi ultimi, allora, grazie all’istituto del galleggiamento, ottennero un adeguamento della loro retribuzione al livello goduto dal nostro magistrato”. Come consigliere, Mellini aveva modo di accedere agli archivi segreti del Csm. E così si era tolto la curiosità di fare due conti. “Pare che tale marchingegno abbia comportato per lo stato un onere di oltre 70 miliardi.” Tanto è costato ai cittadini italiani il caldo pomeriggio del pedofilo in toga. Trasformato d’un colpo da reprobo a benefattore dell’intera categoria. La domanda è inevitabile. Quando hanno deciso di prosciogliere il collega, Lor Signori del Csm non avevano a portata di mano un pallottoliere per fare due conti? O, al contrario, hanno prosciolto V. proprio perché i conti li avevano fatti, eccome? La risposta è arrivata nel 1993: il 29 settembre V. si è visto negare l’ultimo passaggio di carriera, quello alle funzioni direttive superiori della Cassazione. Eppure, i fatti sulla base dei quali è stato giudicato erano gli stessi di prima. Sarà perché nel frattempo era stato abolito il galleggiamento? E quindi nessuno avrebbe beneficiato di una sua ulteriore promozione?

PARLIAMO DI INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA.

Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.

Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh- (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.

Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.

Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.

I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.

La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.

Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.

“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.

Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”

Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.

Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.

Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.

Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.

A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.

Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.

Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.

La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.

In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.

Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.

Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.

Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.

Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.

Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).

Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.

Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.

Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".

Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.

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INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.

LA MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.

L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!! 

Troppi giudici impreparati? Serve un intervento legislativo per riformare l'accesso alla magistratura. Sono diventati forse troppi gli errori giudiziari per non porsi il problema di una riforma dei criteri di accesso all'esame da magistrato, scrive Annamaria Villafrate su “Studio Castaldi”. Concorso in magistratura: desiderio di molti alla portata di pochi? Probabilmente no. Dato che vi può partecipare anche chi si è laureato a fatica e dopo una serie infinita di 18. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Da diversi anni fanno notizia anche sui media errori grossolani delle prove scritte degli aspiranti giudici, una professione complessa che richiederebbe molto studio e impegno. In Italia avvocati, giuristi e cittadini denunciano la gravissima situazione di incertezza del diritto. Soggetti condannati per il reato di omicidio in primo grado, magicamente assolti in appello. Sentenze con motivazioni e dispositivi spesso frutto di un veloce copia e incolla. La giustizia italiana è affidata tal volta a magistrati degni di grande rispetto, altre volte però a decidere delle sorti di un giudizio vi sono magistrati che farebbero bene a rimettere mano allo studio di manuali e codici di procedura. Che vi sia una grossa fetta di magistrati dalla scarsa preparazione oramai è sotto gli occhi di tutti ed è anche attestata dal quotidiano ribaltamento di sentenze di merito da parte della Corte di Cassazione che fin troppo spesso è costretta a intervenire per correggere errori talvolta "imbarazzanti". Proviamo soltanto ad accedere al CED della Cassazione nella pagina in cui è possibile visualizzare le sentenze per esteso (italgiure.giustizia.it/sncass/) e a digitare le parole virgolettate "cassa la sentenza impugnata": rimarremo sorpresi di quante sentenze vengono quotidianamente bocciate dalla Suprema Corte a conferma del fatto che i giudizi di merito sono spesso, anzi troppo spesso, decisi in modo inaffidabile. Cosa dire poi dei continui e destabilizzanti contrasti giurisprudenziali? Identiche questioni giuridiche risolte con sentenze diametralmente opposte in diversi ambiti territoriali e che costringono la Corte di legittimità a un surplus di lavoro per fare chiarezza. Senza parlare del problema che si crea alla "certezza del diritto" che sta sempre più somigliando a un miraggio. Il ruolo del magistrato è senza dubbio molto delicato. Le sue decisioni possono incidere profondamente sulla vita delle persone. Una sentenza penale errata o basata su un'analisi superficiale dei fatti può privare un individuo della propria libertà. Mentre una sentenza civile può incidere sugli equilibri privati di una coppia o portare alla rovina economica un intero nucleo familiare, un'azienda o un'impresa. Come possiamo dunque accettare che si commettano così tanti errori e che ci sia così tanta incertezza? Un problema di questa portata si potrebbe anche risolvere con due interventi da mettere in campo:

1) Redigere testi di legge più chiari e non soggetti ad interpretazione. Il linguaggio giuridico è ancora troppo complesso e solleva troppi dubbi interpretativi. E a peggiorare la comprensibilità delle norme è poi la copiosa presenza di continui rinvii ad altri testi di legge e l'assenza d'interpretazioni autentiche da parte del legislatore. Non è infrequente che dopo l'emanazione di una nuova legge, decreto o regolamento, gli addetti ai lavori manifestino dubbi in merito alla concreta applicabilità delle nuove disposizioni alle fattispecie concrete.

2) Garantire un maggiore livello di preparazione dei magistrati. Un simile risultato è conseguibile anche introducendo, per legge, un filtro efficace per fare accedere al concorso solo i più meritevoli. Possiamo davvero permetterci di consentire l'accesso all'esame anche studenti che non abbiano un curriculum scolastico di tutto rispetto? Non è troppo delicato il compito affidato a chi diventerà poi magistrato? Una maggiore competenza della magistratura si può ottenere solo attraverso una preventiva severa selezione.

Tutto questo nella speranza che si possa tornare a ciò che accadeva in passato, quando, come scriveva Calamandrei, un avvocato non doveva preoccuparsi di "insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri".

Quei 44 ergastolani ostaggio dell'antimafia populista, scrive Giuseppe Rossodivita il 5 settembre 2016 su "Il Dubbio". "Boss e stragisti al Congresso dei Radicali? Provocazione spudorata". Così il titolo di un articolo su Il Fatto Quotidiano di qualche giorno fa che, come rivendicato successivamente dalle colonne dello stesso giornale, ha bloccato il trasferimento da parte del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), di 44 ergastolani presso il carcere di Rebibbia per consentirgli di partecipare al 40° Congresso (da qualche ignorante chiamato raduno) del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito. Bene, l'Italia è salva, viva Il Fatto Quotidiano. Purtroppo, al di là delle autocelebrazioni del giornale di Travaglio, non è così. La vicenda è invece paradigmatica di una sottocultura che ha condizionato negativamente la crescita di un paese che sul punto da anni non compie altro che passi indietro. Sulla spinta di questa sottocultura populista e che fonda il proprio successo sull'ignoranza, madre e padre delle paure di chi in questa condizione viene mantenuto, l'Italia non solo non è salva, ma sta messa decisamente male. Allora cerchiamo di fare un po' di informazione, quella che, come da prassi in questi casi, è stata fatta scientificamente mancare. Il trasferimento dei detenuti ergastolani, diversi ex 41 bis, era stato richiesto nell'ambito di un progetto cui questi detenuti hanno aderito denominato "Spes contra Spem", che si potrebbe tradurre con la frase per cui non basta avere speranza ma occorre essere speranza, farsi speranza in prima persona, con il proprio agire quotidiano, come ripetuto quasi ossessivamente negli ultimi anni da Marco Pannella. Con tutti questi detenuti si sono tenuti diversi incontri, ai quali anche chi scrive ha partecipato, quale Segretario del Comitato Radicale per la Giustizia Piero Calamandrei che affianca Nessuno Tocchi Caino nella battaglia volta a far accertare l'incostituzionalità dell'ergastolo cosiddetto "ostativo". Cos'è l'ergastolo ostativo? È quell'ergastolo che esiste, ma che per finalità ora editoriali, ora elettorali, viene negato che esista. Se chiedete ad un passante per strada com'è l'ergastolo in Italia, vi risponderà che in Italia l'ergastolo non c'è, perché tanto prima o poi tutti escono di galera. Ovviamente non è così, ma far credere il contrario alimenta paure che poi determinano vendite di giornali e consensi elettorali per chi si propone come salvatore della patria, essendone invece il boia. L'ergastolo ostativo è quell'ergastolo che viene comminato per aver commesso particolari tipi di delitti di mafia, che impediscono di godere di qualsiasi beneficio penitenziario legato ad un percorso di rieducazione e reinserimento. L'ergastolo ostativo è quell'ergastolo che porterà queste persone, un migliaio circa, ad uscire di galera, come si usa dire con cruda espressione, solamente "con i piedi in avanti". È la morte per pena, molto simile alla pena di morte. A meno che non barattino la loro vita con quella di qualcun'altro: potrebbero uscire vivi, gli ergastolani ostativi, solo se "collaborando" facciano chiamate di reità nei confronti di altri. Solo a quel punto le porte del carcere si potrebbero aprire. Ma "collaborare" nell'unico modo oggi preso in considerazione dallo Stato, facendo cioè incarcerare altri, non sempre è possibile, magari anche volendolo, per mille diverse ragioni, basti pensare alle ritorsioni nei confronti di figli e familiari tipici della criminalità organizzata. Senza contare che una "collaborazione" determinata da motivi egoistici non morire in carcere non necessariamente risulta sincera o veritiera, potendo rivelarsi calunniosa e non necessariamente restituisce alla società una persona migliore: ma questo ai Travaglio d'Italia non interessa, interessando loro solo la certezza della virile vendetta dello Stato, anche se contraria alla Costituzione. Il punto però è che il problema di questi detenuti è un problema del nostro Paese. Con il sistema attuale le mafie prosperano. È un dato di fatto. La storia e la cronaca testimoniano che le mafie non si sconfiggono solo a colpi di sentenze: per ogni mafioso condannato altre giovani leve sono pronte a prenderne il posto, essendo cresciute nel loro mito. Ciò che alimenta le mafie è una vera e propria sottocultura, che trae la sua forza dalle deteriori condizioni economiche, sociali e culturali in cui larghe fette di Paese vengono mantenute, anzitutto dalle mafie stesse, anche quando indossano il "vestito buono" della politica politicante. I 44 detenuti iscritti al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito sono stati assassini e stragisti, ciascuno almeno venti se non trenta anni fa. Ora sono altro, lo sono divenuti giorno dopo giorno, nei venti o trent'anni di reclusione che hanno subito e vorrebbero poter esser testimoni e testimonial di una dissociazione come quella che portò alla sconfitta del terrorismo che lo Stato invece sino ad ora si ostina a non prendere in alcuna considerazione. Per lo Stato o collabori o muori in carcere: questo è il modello fallimentare con cui combattere i fenomeni mafiosi. Il messaggio culturale che questi 44 detenuti potrebbero invece lanciare  e avrebbero potuto lanciare dal Congresso del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito - è dirompente, soprattutto nei loro territori di provenienza, soprattutto per quelle giovani leve che oggi li considerano come esempi in quanto boss, killer o stragisti: la cultura mafiosa è sbagliata, è sottocultura, c'è un altro modo per poter vivere da uomini e donne in Sicilia, in Calabria, in Campania, in Puglia ed è un modo che ripudia quella sottocultura mafiosa e sposa la legalità su cui solo si può fondare la pacifica e civile convivenza, quella legalità che solo lo Stato può garantire. Firmato ex boss ed ex assassini di mafia. Così, ancora una volta, la sottocultura dell'antimafia populista e di facciata si è contrapposta ad un'altra sottocultura, quella mafiosa. È il Paese, e non certo i Radicali o i 44 detenuti, ad aver perso un'occasione. Per ora. Perché essere speranza di lotta alla mafia - come hanno voluto essere con il coraggio civile maturato in decenni di detenzione questi 44 detenuti - significa non stare lì ad aspettare che qualcun'altro combatta la mafia per loro o per noi, magari solo con quegli strumenti messi in campo sino ad oggi e che hanno garantito alle mafie, come alle antimafie di facciata, lunga vita e prosperità.

Giustizia digitale, chiusa per ferie, scrive Guido Scorza il 22 luglio 2016 su “L’Espresso”. “A far data dal 21 luglio e sino al 7 settembre 2016 sarà consentito il solo deposito in maniera cartacea degli atti urgenti con esclusione del deposito telematico stante l’impossibilità a riceverli da parte del personale amm.vo e del magistrato titolare in quanto assenti per ferie”. Recita letteralmente così un avviso, firmato dal Presidente della Sezione Fallimentare del Tribunale di Napoli e rivolto a tutti i curatori delle procedure fallimentari. A leggerlo verrebbe da ridere se il funzionamento della Giustizia non fosse così importante sul piano economico e su quello democratico. Una manciata di righe piene zeppe di contraddizioni che sembrano, per davvero, lo scherzo di un burlone che ha rigirato il senso di una comunicazione con la quale si intendeva dire l’opposto ovvero che, in estate, per consentire a personale amministrativo ed a magistrati di prendere visione degli atti, anche se fuori dall’ufficio, il loro deposito deve necessariamente avvenire solo per via telematica. Eppure è tutto drammaticamente vero. Il Presidente di una Sezione di un Tribunale importante come quello di Napoli è costretto – perché è difficile credere che se non costretto, qualcuno sarebbe riuscito a concepire una regola tanto apparentemente illogica – a mettere nero su bianco che il tanto decantato processo civile telematico è chiuso per ferie e che durante i mesi estivi si ritorna alla sana e vecchia carta. Ma più che il divieto di procedere al deposito per via telematica, ciò che lascia davvero senza parole è la sua motivazione: “stante l’impossibilità a riceverli da parte del personale amm.vo e del magistrato titolare in quanto assenti per ferie”. Impossibile resistere alla tentazione di leggere e rileggere questa motivazione nella convinzione – o, almeno, nella speranza – di aver capito male e che il senso sia esattamente l’opposto. Può essere difficile – e, forse, persino impossibile - ricevere un atto depositato in forma cartacea ma come fa a considerarsi impossibile, nel 2016, ricevere un atto trasmesso per via telematica? Sarebbe intellettualmente disonesto però puntare l’indice contro il Presidente della Sezione fallimentare del Tribunale di Napoli – che, per inciso, non è certamente né il primo, né l’unico ad aver dovuto stabilire certe regole – dimenticando che, evidentemente, se si arriva a certi tragicomici epiloghi è perché, ad oltre tre lustri dall’entrata in vigore della prima disciplina sul processo civile telematico, sistemi ed interfacce continuano ad essere disegnati, progettati ed implementati in modo tale da complicare la vita agli utenti del sistema giustizia anziché semplificarla. Che la giustizia digitale debba chiudere per ferie prima e più di quella cartacea è, veramente, una barzelletta dal retrogusto amaro. [Grazie a Matteo G.P. Flora per la segnalazione]

La diseguaglianza della giustizia, scrive Michele Ainis il 22 luglio 2016 su "La Repubblica". La Giustizia è un treno a vapore. Ma non tutte le tratte ferroviarie sono lente, non tutti i convogli procedono a passo di lumaca. Dipende dai macchinisti, dipende inoltre dai binari: come mostra l'analisi dei dati pubblicata oggi su questo giornale, la velocità dei tribunali cambia notevolmente da un angolo all'altro del nostro territorio. E alle deficienze s'accompagnano, talvolta, le eccellenze. Solo che gli italiani non lo sanno, non conoscono le performance dei diversi uffici giudiziari. È un paradosso, giacché nella società online siamo tutti nudi come pesci. Un clic in Rete e puoi scoprire usi e costumi del tuo vicino di casa, del collega d'ufficio, del compagno di banco. Sono nude anche le amministrazioni pubbliche, da quando un profluvio di decreti ha reso obbligatoria l'"Amministrazione trasparente": quanto guadagna il Capo di gabinetto e dov'è situato il gabinetto, nulla più sfugge ai controlli occhiuti dell'utente. Anzi: il "decreto Trasparenza" del ministro Madia ha appena introdotto l'istituto dell'accesso civico, permettendo a ciascun cittadino d'accedere - senza alcun onere di motivazione - ai dati in possesso delle amministrazioni locali e nazionali, dal comune di Roccacannuccia alla presidenza del Consiglio. Sennonché troppe informazioni equivalgono di fatto a nessuna informazione. Dal pieno nasce il vuoto, come mostra la condizione del diritto nella patria del diritto: migliaia di leggi, migliaia di regole che si contraddicono a vicenda, sicché in ultimo ciascuno fa come gli pare. Anche l'eccesso di notizie offusca le notizie, le sommerge in una colata lavica. E spesso ci impedisce di trovare l'essenziale, l'informazione di cui abbiamo bisogno per davvero. Quando c'è, naturalmente. Perché talvolta manca proprio l'essenziale. Un esempio? La giustizia, per l'appunto. Grande malata delle nostre istituzioni, su cui s'addensa - di nuovo - un fiume di libri, analisi, commenti. Per lo più autoreferenziali, come i temi su cui discetta la politica: di qua la separazione delle carriere fra giudici e pm, oppure i tempi della prescrizione; di là un estenuante contenzioso sulla legge elettorale. Ma è davvero questo che interessa ai cittadini? Un bel saggio appena pubblicato dal Mulino (Daniela Piana, Uguale per tutti?, 226 pagg., 20 euro) rovescia l'usuale prospettiva. L'eguaglianza davanti alla legge - osserva infatti la sua autrice - è il caposaldo dello Stato di diritto. Ne discende, a mo' di corollario, che l'applicazione delle leggi sia sempre impersonale, dunque garantita da giudici obiettivi e indipendenti, senza oscillazioni, senza asimmetrie fra i tribunali. Ma non è così, non è questa la norma. Perché, di fatto, in Italia vige una forte diseguaglianza nell'accesso alla giustizia, nelle opportunità di tutela dei diritti. Dipende dalla discontinuità del nostro territorio, dalla forbice socio-economica che divide Mezzogiorno e Settentrione. Dipende da storture organizzative ma altresì comunicative, psicologiche. Insomma, non basta misurare l'universo normativo per misurare la giustizia. Conta piuttosto la percezione dei cittadini, che a sua volta deriva da fattori extragiuridici, esterni alla dimensione del diritto. Quanto sia complicato, per esempio, raggiungere i tribunali, orientarsi al loro interno, prelevarne documenti. Come tradurli nella lingua che parliamo tutti i giorni. Il costo d'ogni causa. La percentuale di successo dei diversi avvocati che operano nello stesso territorio. Quando verrà fissata l'udienza per una procedura di divorzio o per il recupero d'un credito. Quale sia la probabilità di soccombere in una controversia civile, rispetto alle statistiche di quel particolare ufficio giudiziario. I tempi dei processi del lavoro, delle liti condominiali, delle cause di sfratto. Sono queste le informazioni essenziali, è questo che interessa al cittadino prima di bussare al portone della legge. Se non so come funziona il tribunale della mia città, non potrò avvalermene per tutelare i miei diritti. Oppure dovrò farlo al buio, tirando in aria i dadi. Da qui una richiesta, anzi un'ingiunzione in carta bollata: fateci sapere. Scrivete tutti questi dati sui siti web dei tribunali, cancellando il sovrappiù che genera soltanto confusione. O lo fate già? Magari ci siamo un po' distratti, meglio controllare. Con un'indagine a campione fra tre tribunali di provincia, al Sud, al Centro, al Nord. Messina: che bello, qui c'è un link su "Amministrazione trasparente". Ci guardi dentro, però trovi soltanto l'indice di tempestività dei pagamenti ai fornitori. Meglio che niente, ma per te che non sai ancora se intentare causa è niente. Rieti: l'immagine d'un edificio anonimo, qualche sommaria informazione. In compenso tutti i dettagli sulla festività del Santo Patrono. Parma: niente anche qui, tranne una carrellata d'udienze rinviate. E un servizio indispensabile: il Servizio di anticamera del Presidente del Tribunale. A questo punto blocchi il mouse, però prima d'arrenderti non rinunci a visitare il sito del palazzo di giustizia più famoso: Milano. Più che un tribunale, un tempio, dove la seconda Repubblica (con Tangentopoli) ricevette il suo battesimo. Strano, proprio lì manca una foto del palazzo, che resta perciò invisibile ai fedeli. Tuttavia c'è una lieta sorpresa: il link con tutte le tabelle sugli arretrati del tribunale milanese, nonché sulle politiche intraprese per smaltirli. Peccato che i dati siano fermi al 2010, quando al governo c'era ancora Berlusconi, quando il papa si chiamava Benedetto XVI. Ma dopotutto si tratta d'un esercizio di coerenza: nella giustizia italiana è in arretrato pure l'arretrato.

I giudici arroccati nelle loro “garanzie” rendono la legge diseguale per tutti. Orlando sulla prescrizione e un libro della politologa Piana, scrive Marco Valerio Lo Prete il 28 Giugno 2016 su "Il Foglio”. Ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in visita ad alcuni uffici giudiziari siciliani, ha detto che “non esiste un nord e un sud nell’ambito della giustizia”. E quella che a una prima lettura potrebbe apparire come una carezza buonista a tutto il sistema, contiene in realtà un messaggio critico che gli addetti ai lavori hanno carpito. “Dalle performance legate alle prescrizioni, emerge che nello stesso paese, con le stesse leggi e spesso anche con le stesse condizioni materiali, ci sono uffici che hanno, rispetto ai procedimenti sottoposti, il 30-40 per cento di prescrizioni e altri che stanno sotto il 2 o l’1 per cento. E anche in questo caso non sono le solite Trento e Bolzano, che vengono sempre citate come realtà virtuose: sono spesso, invece, uffici del Mezzogiorno, uffici di frontiera che però sono in grado di dare una risposta perché nel corso del tempo hanno prodotto elementi di innovazione organizzativa”, ha detto Orlando. In altre parole: cari magistrati, rimboccatevi le maniche, perché tante delle attuali disfunzioni del pianeta giustizia non sono colpa del governo ladro ma dipendono da voi. E’ questa una delle riflessioni al centro dell’ultimo libro della politologa Daniela Piana, pubblicato dal Mulino e intitolato “Uguale per tutti? Giustizia e cittadini in Italia”. Con linguaggio scientifico, quasi asettico, la studiosa dell’Università di Bologna mette in dubbio che l’uguaglianza di fronte alla legge sia oggi garantita a tutto tondo nel nostro paese. Con indagini sul campo e dati alla mano, l’autrice sottolinea infatti che “il diritto garantisce” ma “la funzione rende reale ed effettiva tale garanzia. Fra il diritto e la funzione (rendere giustizia) intervengono diversi fattori”, che a loro volta influenzano “quelle variabili che rendono diseguale o potenzialmente diseguale l’accesso alla giustizia resa al cittadino e alla collettività”. Un procedimento di diritto del lavoro viene definito nel distretto di Milano in 280 giorni in media (meno di 10 mesi), contro i 1.371 giorni di media (quasi quattro anni) nel distretto di Bari; allo stesso tempo, all’interno del distretto di Milano, una causa di diritto della famiglia si chiude in 142 giorni a Busto Arsizio e 258 giorni a Milano, poi – nel distretto di Bari – in 447 giorni a Foggia e in 536 giorni a Trani. Per la politologa Piana “non trova riscontro nella realtà dei fatti” l’ipotesi che “maggiore è il numero dei magistrati che lavorano in un tribunale, maggiore la performance e minore il numero di giorni per definire i procedimenti”. Infatti “ad Ancona la scopertura dell’organico togato è del 17 per cento, mentre a Belluno del 18 per cento. I tempi medi del primo ufficio sono di 224 giorni, mentre nel secondo 326. Palermo ha una scopertura dell’organico togato dell’11 per cento, mentre Milano del 16 per cento. I tempi medi di Palermo sono 436, quelli di Milano 229”. Piuttosto sembra incidere di più, secondo Piana, il personale amministrativo presente nei tribunali. Anche qui, però, non è questione di “quantità”: “Il rapporto Cepej (del Consiglio d’Europa, ndr) pubblicato nel 2014 rileva che solo il 2,5 per cento del personale non togato (cioè del personale non appartenente al corpo dei magistrati) è specializzato in management”. Nel resto d’Europa va diversamente: il tentativo di offrire una risposta in termini di professionalità ed efficienza ha spinto gli uffici giudiziari di altri paesi, come l’Olanda, ad avvalersi sistematicamente di figure professionali specializzate in management e accounting. D’altronde mentre il budget allocato complessivamente per il comparto nel nostro paese è in linea con gli standard europei – l’1,5 per cento del pil, come in Germania, il doppio del Belgio (0,7), poco meno di Francia (1,9) e Paesi Bassi (2) –, noi ci caratterizziamo per una ripartizione delle stesse risorse particolarmente generosa verso il solo sistema giudiziario (i tribunali) e sparagnina invece nei confronti degli utenti (vedi per esempio il patrocinio a spese dello stato). “I dati del Cepej mostrano che nel 2008 l’Italia spende 1,9 euro per cittadino per l’accesso alla giustizia contro una media europea di 7,2”. Così non c’è da meravigliarsi se sui media hanno trovato eco negli ultimi anni le proteste per l’eliminazione di tutte le sezioni distaccate dei tribunali, come anche la cancellazione di 31 tribunali e di 31 procure, avviate dal governo Monti, mentre è passato quasi sotto silenzio il fatto che “le recenti analisi dell’Osservatorio per il monitoraggio degli effetti sull’economia delle riforme della giustizia istituito dal ministro della Giustizia Orlando (…) hanno mostrato che la revisione della geografia giudiziaria ha comportato un miglioramento generale dei tempi con cui vengono definiti i procedimenti”. E’ l’organizzazione, bellezza! La politologa Piana lo ripete e lo dimostra, senza addossare croci in maniera preconcetta, rilevando che anche la politica preferisce annunciare il cambiamento senza poi seguire da vicino “il governo del cambiamento”. La sorte della riforma Mastella docet: solo nel 2015, a otto anni dall’entrata in vigore di quella legge, il Consiglio superiore della magistratura ha stilato incentivi e meccanismi di valutazione previsti dal testo per gli incarichi diretti e semidirettivi. Ecco spiegato perché “l’Italia è un paese che si è lungamente qualificato per un alto grado di garanzie ordinamentali e processuali e al contempo per un basso rendimento nella risposta resa al cittadino”. Siamo il paese con le norme e le garanzie per i giudici “più belle del mondo” ma allo stesso tempo il paese più condannato dalle corti europee per la lunghezza dei processi e quello in cui sono peggiori gli indicatori oggettivi e soggettivi sullo stato di diritto.

Una giustizia giusta, fino a prova contraria, scrive Silvia Dalpane il 20 luglio 2016 su “Il Dubbio”. Presentato il movimento fondato da Annalisa Chirico. Significativa la testimonianza dell'infermiera di Piombino, vittima di un vero e proprio processo mediatico. Fino a prova contraria. Un principio giuridico, un auspicio, che dà il nome al nuovo movimento presieduto dalla giornalista Annalisa Chirico: «Siamo stanchi di una giustizia ostaggio delle schermaglie politiche, che pregiudica anche la qualità della democrazia». Alla presentazione in Piazza Colonna la testimonianza più forte è stata quella di Fausta Bonino, l'infermeria di Piombino vittima di un processo mediatico che l'ha trasformata in mostro. Dopo 21 giorni in carcere con l'accusa, tremenda, di aver ucciso 13 pazienti in corsia, è stata scarcerata dal Tribunale del Riesame di Firenze, che ha sconfessato l'indagine della procura di Livorno: «Sono qui perchè spero che cambi qualcosa. Sono stata sbattuta in galera con grande clamore. Non lo auguro a nessuno, la mia vita è cambiata per sempre. Sono giunta peraltro all'amara constatazione che se non si hanno soldi o supporto non se ne esce fuori, perché non avrei potuto consultare i periti che sono stati fondamentali». Eloquenti i dati raccolti dai promotori del movimento: in Italia ci vogliono in media 600 giorni per arrivare al giudizio di primo grado nelle cause civili. Soltanto Malta fa peggio di noi; in Francia ne bastano 300, in Germania 200. A Foggia, Salerno e Latina il 40% dei processi si protrae da oltre tre anni. In video-collegamento il presidente dell'Autorità nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone, che ha rimarcato quanto questa lentezza incida in termini di competitività. L'Italia infatti è soltanto l'ottavo paese dell'Unione Europea per investimenti provenienti dagli Usa, mentre logica vorrebbe che fosse almeno sul podio: «Le classifiche internazionali vengono utilizzate per scegliere se portare o meno i capitali in alcuni paesi. Gli imprenditori vogliono certezze sulla durata delle controversie e prevederne gli esiti». Il giudice costituzionale Giuliano Amato ha indicato dei possibili correttivi: «Ero ragazzo quando ho sentito parlare per la prima volta di riforma della giustizia. Bisognerebbe rafforzare i filtri che in campo penale precedono l'intervento dell'inquirente e del giudicante. Qualunque illecito amministrativo diventa automaticamente penale, anche perché i pm italiani hanno la capacità di individuare potenziali irregolarità e fattispecie di reato che altrove non esistono. Negli uffici arrivi di tutto, senza prima essere setacciato». L'ex presidente del consiglio indica negli Usa l'esempio da seguire: «Siamo molto più lenti di loro, che hanno soltanto due gradi di giudizio invece di tre. Puntano a chiudere in fretta le controversie, mentre noi inseguiamo per anni la chimera della verità assoluta. Spesso l'appello è più lungo del primo grado: un'inciviltà difficile da comprendere e accettare». Dall'ex ministro è arrivato anche un riferimento, forte, all'attualità: «Il caso Cucchi urla vendetta, quelle immagini fanno male. Evidentemente all'interno di alcune categorie c'è ancora oggi dell'omertà». Il confronto con il modello statunitense è stato approfondito grazie all'intervento dell'ambasciatore americano a Roma, John R. Phillips: «Gli investitori spesso non sbarcano in Italia per via di un sistema legale ritenuto inaffidabile. Negli Usa e in molti altri paesi europei i procedimenti viaggiano molto più spediti. Da noi è stata determinante la quantificazione di un limite alla produzione degli incartamenti da parte degli avvocati, che può essere derogato soltanto in casi eccezionali. Anche la digitalizzazione ha rappresentato un evidente passo avanti rispetto al cartaceo». Smaltimento degli arretrati e esaustività delle pronunce di primo grado gli altri capisaldi di un modello al quale l'Italia è chiamata a ispirarsi: «Negli Usa ci sono metodi alternativi per risolvere le dispute. Le parti raggiungono un compromesso in tempi brevi e addirittura il 90% dei casi viene archiviato senza processo. Rispetto all'Italia si arriva al grado successivo di giudizio soltanto quando possono essere contestate questioni di diritto e non di fatto. Mediamente la Corte Suprema è chiamata a pronunciarsi soltanto 80 volte l'anno». Non è mancato un riferimento all'indagine della Procura di Trani, che denunciò possibili interessi speculativi da parte di una nota agenzia di rating: «Alcuni dirigenti di Standard & Poor's sono stati accusati dopo avere declassato i conti italiani. La criminalizzazione dei comportamenti negligenti ha rappresentato un grande deterrente per imprenditori e amministratori delegati. Ecco perché si allontanano: in Italia i rischi sono troppo alti». Per l'ex ministro della Giustizia Paola Severino l'Italia deve compiere tanti progressi anche dal punto di vista culturale: «La corruzione emerge a tanti livelli. Ancora oggi chi paga le tangenti viene considerato più furbo degli altri, mentre sta commettendo un grave delitto. A Hong Kong hanno insegnato ai bambini dell'asilo che corrompere è reato e hanno sgominato il fenomeno. Da bambina mia madre mi fece restituire una mela e mi disse che si vergognava di me, che l'avevo rubata. Tante famiglie dovrebbero imitarla. La prevenzione e l'applicazione delle regole vengono prima della repressione». Il presidente dell'Unione delle camere penali Beniamino Migliucci condivide i principi ispiratori di Fino a prova contraria: «Bisogna recuperare alcuni valori del processo liberale democratico: la presunzione d'innocenza, la separazione delle carriere e il ragionevole dubbio. Troppo spesso si dà importanza ai risultati delle indagini o alle sentenze di primo grado. Il giustizialismo invece non è proficuo. L'opinione pubblica è influenzata molto dai media e va formata in modo differente. È come con le malattie: quando riguardano gli altri non ci si rende conto di cosa rappresentino nè come vadano affrontate». Un punto ribadito da Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale all'università di Palermo: «Parte del sistema mediatico è molto appiattita sull'attività giudiziaria. Alcuni giornalisti hanno un rapporto privilegiato con i magistrati e quindi non possono essere sufficientemente critici. Prese di posizione oggettivamente discutibili non vengono approfondite sul serio, con un approccio intellettuale autonomo». Vi sono comunque esempi virtuosi. I 22 tribunali delle imprese hanno risolto il 70% dei casi a loro sottoposti in meno di un anno. «Rappresentano un'esperienza felicissima e hanno accorciato moltissimo i tempi del diritto civile. Andrebbero estesi all'ambito penale», ha aggiunto la Severino. Torino, grazie all'impegno del magistrato Mario Barbuto, ha smaltito il 26% di arretrati, imponendosi come modello di organizzazione: «Prima della legge Pinto alcuni processi si erano dilungati per 15 o addirittura 30 anni e avevamo subito ben quindici condanne della Corte Europea. La vergogna mi ha imposto un differente programma di gestione, improntato su una statistica comparata di 24 parametri. L'Osservatorio ci ha consentito di studiare le performances di 140 tribunali italiani e non sono mancate le sorprese». Smentiti tanti luoghi comuni: «Non è vero che la giustizia è in crisi dappertutto. 28 uffici giudiziari superano le medie europee. Il pieno organico non è sinonimo di maggiore efficienza e neppure gli indici di litigiosità o criminalità incidono in modo determinante. Non vi è una questione meridionale: Marsala è il secondo tribunale in Italia per velocità dei processi. E i carichi esigibili non sono affatto una soluzione. D'altronde è come se gli ospedali esponessero un cartello per annunciare che i medici cureranno soltanto i primi 150 pazienti e che tutti gli altri dovranno arrangiarsi...».

Chirico: «Il mio corpo è uno strumento di lotta...» Intervista di Errico Novi del 15 luglio 2016 su "Il Dubbio". «Marco è stato un grande maestro e mi ha insegnato a essere sfacciata come le persone che hanno idee forti. Il privato è anche politico, non concepisco l’ipocrisia della separazione tra le due vite». Bisogna essere sfacciati per mettersi a parlare di giustizia dalla parte degli indagati, per sfidare il mainstream forcaiolo. E ad Annalisa Chirico il coraggio non manca, l’entusiasmo neppure né una splendida indole pannelliana che «mi porta a considerare il mio corpo uno strumento di lotta: l’ho imparato da quel gigante che è Marco Pannella, certo». E adesso questa giornalista che con un’intervista a un togato del Csm è capace di far scoppiare un caso istituzionale da restare nella storia di Palazzo dei Marescialli, presiede un movimento che «intende promuovere una vera riforma del sistema giudiziario italiano». Si chiama “Fino a prova contraria”, è una specie di bandiera con su impresso l’articolo 27 della Costituzione e ha in programma un incontro per martedì prossimo a Palazzo Wedekind intitolato “Cambiamo la giustizia per cambiare l’Italia”, con il giudice costituzionale Giuliano Amato, il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone, il professor Giovanni Fiandaca, il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin e il numero uno delle Camere penali Beniamino Migliucci, oltre ai giuristi, imprenditori e magistrati che Annalisa ha coinvolto nella sua associazione.

Di questi tempi si rischia, a mettersi contro il mainstream giustizialista.

«Be’ ci sono polemiche persino per il fatto che alla presentazione interverrà Fausta Bonino, l’infermiera di Piombino che i pm continuano a inseguire armati di manette fino in Cassazione, e l’ex ergastolano Giuseppe Gulotta che si è fatto 22 anni di carcere prima di vedersi dichiarato innocente. Noi comunque non ci proponiamo come un’associazione di vittime della giustizia ma per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla patologia del processo mediatico, un caso tutto italiano che si regge sulla commistione incestuosa tra giornalisti e magistrati».

Andate controvento.

«Sono contenta del riscontro che abbiamo trovato già dal giorno del battesimo a Villa Taverna con l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, mi pare che siamo già riusciti a conquistare una certa autorevolezza. Già ci riconoscono come movimento che si batte per una giustizia più efficiente in funzione di un Paese più competitivo. Sono soprattutto gli stranieri che hanno bisogno di essere rassicurati sul funzionamento del processo, in Italia. Gli americani sono rimasti choccati dal caso Amanda Knox. La grandissima parte dell’opinione pubblica Usa è rimasta incredula nello scoprire che con il sistema processuale italiano si può essere dichiarati innocenti dopo quattro anni di carcere. Ci sono altre vicende in cui il collegamento con il sistema economico è ancora più netto».

Ad esempio?

«Il caso Ilva, in cui un polo siderurgico di livello mondiale è già stato oggetto di sequestri di beni alle persone nonostante, dopo diversi anni, si sia ancora alle battute iniziali del processo».

Fai esempi che difficilmente possono intenerire l’opinione pubblica assetata di condanne.

«E invece io credo che già ora qualcosa tenda a cambiare. Ci sono episodi che segnano un passaggio, lo fu il cosiddetto referendum Tortora che raccolse un consenso fortissimo. Credo che oggi la battaglia in difesa delle garanzie per le persone indagate, degli imputati, possa far breccia nell’opinione pubblica. Anche grazie al fatto che il re, cioè la magistratura, è nudo».

A cosa ti riferisci.

«Agli episodi che hanno spezzato l’incantesimo del magistrato infallibile: penso a quando si è scoperto il valore degli immobili di Di Pietro, al capitombolo elettorale di Ingroia, alla giudice Silvana Saguto coinvolta nello scandalo di Palermo sui beni confiscati, a un caso come quello di Morosini che racconta in un’intervista come la corrente Md intenda impegnarsi contro il governo sul referendum costituzionale».

Quell’intervista c’è stata o no?

«Mi attengo alla prima smentita di Morosini, in cui parlò di colloquio informale che lui riteneva non avrebbe dovuto essere inteso come intervista».

Tu perché l’hai inteso come intervista?

«Perché a un certo punto ho cominciato a prendere appunti sul taccuino, e davo per scontato che lui avesse compreso la mia intenzione di riportare le sue parole. D’altronde mi era parso che lui potesse essere interessato a rendere pubbliche quelle considerazioni per giochi interni alla sua corrente».

E invece?

«E invece lui pensava che prendessi appunti chissà perché. Dopo il comunicato dell’Anm e l’intervento del guardasigilli ha pronunciato una smentita completa, per mettersi in salvo. Io a quel punto, per la simpatia che ho nei suoi confronti, sono rimasta silente».

Vi siete più sentiti?

«Come no. Siamo rimasti in buoni rapporti».

Davvero? Non ti ha sbranato al telefono?

«No. Sa che non ho infierito, né lo ha fatto il mio giornale, il Foglio».

I togati del Csm sono impreparati all’esposizione mediatica?

«I magistrati in generale usano la comunicazione benissimo. E ci riescono grazie al fatto che quasi tutti, a cominciare dai giornaloni, ben si guardano dal far loro le pulci come fanno con i politici».

Sei stata provocatoria con il libro Siamo tutte puttane, continui a esporti in modo temerario: esagero se dico che in questo sei un po’ pannelliana?

«Io mi considero pannelliana, considero il mio corpo uno strumento di lotta, l’ho imparato dai radicali, anche grazie al lavoro fatto all’Strasburgo quando Marco era deputato europeo. Lui è stato un grande maestro e mi ha insegnato a essere sfacciata come le persone che hanno idee forti. Il privato è anche politico, non concepisco l’ipocrisia della separazione tra le due vite. Le cose che scrivo e che porto avanti costituiscono un unico habitat umano con il modo in cui vivo e le persone che conosco».

Ecco, ma prima o poi il Fatto ti toglierà la pelle di dosso.

«Il Fatto si è già occupato di me e dei miei fidanzati veri o presunti in varie occasioni. Ho molta simpatia per Marco Travaglio, un uomo eccentrico e incline allo spettacolo».

A proposito di simpatie: con Chicco Testa vi siete lasciati così male?

«Lasciati? Ma che dici?»

Lo hai scritto tu sul Giornale di Sallusti.

«Macché. È qui vicino a me mentre parlo al telefono. Quell’articolo aveva un tono letterario, parla di Becoming, il memoir della Williams su come si risorge dopo una separazione».

E se d’improvviso sparissi e ti limitassi a scrivere senza apparire mai?

«Non potrei mai scrivere semplicemente degli articoli. Porto avanti delle battaglie proprio perché scrivo quello che Annalisa pensa».

Carceri "Negli ultimi 50 anni incarcerati 4 milioni di innocenti". Decine di innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su "La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on line, che da conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.

ASSOLTI. PERO’…

Assolti? C’è sempre un però, scrive Michele Ainis su “Il Corriere della Sera” l’11 novembre 2015. E go te absolvo, sussurra il prete dietro la grata del confessionale. Ma se lo dice il giudice allora no, non vale. In Italia ogni assoluzione è un’opinione, per definizione opinabile o fallace; e d’altronde ogni processo è già una pena, talvolta più lunga d’un ergastolo. Ultimo caso: Calogero Mannino. L’ex ministro democristiano arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa, prosciolto 25 anni più tardi dalla Cassazione, dopo una giostra d’appelli e contrappelli, dopo 22 mesi di detenzione, dopo la gogna e la vergogna. E adesso assolto di nuovo in primo grado nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Reazioni: sì, però... C’è sempre un però, c’è sempre una virgola della sentenza d’assoluzione che si lascia interpretare come mezza condanna (in questo caso l’insufficienza delle prove), o magari c’è una dichiarazione troppo esultante del prosciolto, un suo tratto somatico tal quale la smorfia di Riina, una corrente d’antipatia che nessun verdetto giudiziario riuscirà mai a sedare. Mannino sarà anche innocente, però non esageri, ha detto l’ex pm Antonio Ingroia in un’intervista a Libero. Lui invece esagera, come fanno per mestiere i romanzieri; e infatti ci ha promesso in dono un romanzo col quale svelerà le intercettazioni di Napolitano. Peccato che pure stavolta ci sia di mezzo una sentenza, oltretutto firmata dal giudice più alto. Giacché nel 2013 la Corte costituzionale - per tutelare la riservatezza del capo dello Stato - impose l’immediata distruzione dei nastri registrati, e dunque i nastri sono stati inceneriti, anche se nessuno può incenerire la memoria di chi li ascoltò a suo tempo. Come Ingroia, per l’appunto. Risultato: la Consulta ha sancito l’innocenza «istituzionale» dell’ex presidente, l’ex magistrato ne dichiara la colpa. Risultato bis: anche in questo caso non conta il giudizio, conta il pregiudizio. Potremmo aggiungere molte altre figurine a quest’album processuale. Potremmo rievocare le maestre di Rignano: nel 2006 imputate di violenza sessuale sui bambini, assolte per due volte in tribunale, però sempre colpevoli secondo i genitori, tanto che hanno smesso d’insegnare. O altrimenti potremmo citare il caso di Raffaele Sollecito: assolto anche lui per il delitto di Perugia, dopo un ping pong giudiziario di 8 anni; qualche giorno fa vince un bando della Regione Puglia per creare una start up, e s’alzano in coro gli indignati. Insomma, alle nostre latitudini l’unica prova certa è quella che ti spedisce in galera, non la prova d’innocenza. E allora la domanda è una soltanto: perché? Quale virus intestinale ci brucia nello stomaco, trasformandoci in un popolo incredulo e inclemente? Chissà, forse siamo colpevolisti perché abbiamo perso l’innocenza: la nostra, non la loro. Perché siamo vecchi e sfiduciati, dunque non crediamo più nei giudici come nei partiti, come nei sindacati, come nelle chiese. Perché la giustizia ci ha deluso, e in effetti la storia è costellata d’errori giudiziari. Però sono più i dannati dei salvati: Dreyfus (Francia, 1894), Sacco e Vanzetti (Usa, 1927), Girolimoni (sempre nel 1927, ma in Italia), Valpreda (1969), Tortora (1983). Altrettante vittime innocenti d’uno strabismo processuale, nonostante il doppio grado di giudizio, nonostante il riesame in Cassazione. Domanda: ma se una sentenza può sbagliare, perché a un certo punto diventa inappellabile? Risposta: perché la verità assoluta non è di questo mondo, perché dobbiamo contentarci di verità parziali, convenzionali. E perché il diritto tende alla certezza, non alla comprensione filosofica. Quando ci rifiutiamo di prenderlo sul serio, quando respingiamo i suoi verdetti, la nostra insicurezza diventa ancora più acuta. 

Errori giudiziari: una nuova vergogna. Nella Legge di stabilità 2016 il governo ha dimezzato i risarcimenti della legge Pinto per i processi troppo lenti. Rendendoli ancora più difficili, scrive Maurizio Tortorella il 15 gennaio 2016 su "Panorama". I radicali, grazie alla testa e alla penna di Deborah Cianfanelli, avvocato spezzino da tempo impegnato nella difesa dei diritti civili, hanno appena pubblicato uno studio che (come troppo spesso accade ai radicali) è passato in assoluto silenzio. Ed è un peccato, perché lo studio descrive come processi lenti e errori giudiziari in Italia siano ormai divenuti parte della nostra bancarotta economica. Cianfanelli ha analizzato i risultati della cosiddetta legge Pinto, la n. 89 del 2001, varata dal governo del premier Giuliano Amato. La norma stabilisce una "corretta durata dei processi" individuandola in tre anni per il primo grado, in due anni per il secondo grado, in un anno per la Cassazione. Quando fu varata, 14 anni fa, la norma cercava di fare argine a migliaia di richieste di risarcimento per la lentezza dei processi penali e civili approdati presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. I radicali stimano che il costo provocato dalla Legge Pinto sui conti pubblici sia di circa un miliardo di euro l’anno, quasi il doppio di quanto calcola oggi il governo. Alla cifra vanno poi aggiunti200 milioni circa per i risarcimenti da ingiusta detenzione, originati all’incirca da altri 2 mila procedimenti l’anno. Il numero di cause basate sulla legge Pinto è in continuo aumento: i ricorsi erano 3.580 nel 2003, saliti a 49.730 nel 2010, a 53.320 nel 2011, a 52.481 nel 2012, a 45.159 nel 2013, l’ultimo anno con dati ufficiali. Se si tiene conto che la media del rimborso liquidato è di ottomila euro, si arriva velocemente a cifre stellari. Bene. Che cosa ha deciso di fare, il governo, di fronte a questo disastro giudiziario ed economico? Forse intervenire per accelerare in qualche modo i tempi medi del processo? Macché. I radicali denunciano che anzi la Legge di stabilità 2016 (all’articolo 56 del titolo nono) ha introdotto silenziosamente alcuni importanti modifiche alla legge Pinto, al solo scopo di "renderne molto difficile se non meramente eccezionale la possibilità d’accesso". Il problema è stato brutalmente risolto alla fonte, insomma: se la legge Pinto costa troppo, rendiamo più difficili gli indennizzi. I trucchi adottati sono molto insidiosi: per avere diritto a presentare ricorso, l’imputato di un processo penale deve presentare l’istanza di accelerazione delle udienze "almeno sei mesi prima del decorso del termine ragionevole di durata". Quando il suo giudizio arriva in Cassazione, l’imputato deve fare istanza "due mesi prima dello spirare del termine di ragionevole durata". La legge stabilisce poi che è "insussistente" il pregiudizio da irragionevole durata del processo nel caso d’intervenuta prescrizione del reato. "Ancora una volta" scrive Cianfanelli "anziché cercare di porre in essere rimedi strutturali in grado di riportare il sistema giustizia sui binari della legalità, si cerca di aggirare l’ostacolo rendendo inaccessibile la strada al risarcimento del danno". Parole sante. Anche perché, non contento, il legislatore ha praticamente dimezzato i valori dei risarcimenti. L’ultima Legge di stabilità stabilisce infatti che il giudice dovrà liquidare "una somma non inferiore a euro 400 euro e non superiore a euro 800 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo". Per fare un confronto, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che non è certo il giudice di prima istanza in materia, individua oggi il parametro dell’indennizzo in mille-millecinquecento euro per ogni anno di processo Giustizia italiana, mala e pidocchiosa.

Incubo carcere preventivo: quattro milioni di innocenti. In 50 anni troppe vittime hanno subìto l'abuso della detenzione. E i pm insistono nonostante le nuove regole. Il caso di Mantovani, scrive Andrea Camaiora Mercoledì 11/11/2015 su “Il Giornale”. La carcerazione preventiva recentemente inflitta all'ormai ex vicepresidente di Regione Lombardia Mario Mantovani offre tristemente un nuovo spunto per affrontare l'annosa questione della carcerazione preventiva. Qual è la situazione nel nostro Paese? Nel 2009, il numero dei detenuti in custodia cautelare era di 29.809, pari al 46% del totale della popolazione carceraria; il dato di oggi è di 18.622, il 34,5%. Questi dati rivelano come troppe volte l'applicazione della custodia cautelare non costituisca l'extrema ratio, così come previsto dalla nuova disciplina in merito voluta dal Guardasigilli, Andrea Orlando, ma assuma connotati diversi, come quelli di un'anticipazione della pena. In molte occasioni i destinatari di misure cautelari personali vengono, dopo anni, assolti: i numeri parlano chiaro, dal 1991, lo Stato ha pagato quasi 600 milioni di euro a più di 20 mila persone per riparazione per ingiusta detenzione, anche per effetto di sentenze definitive che hanno assolto persone che erano state arrestate. Negli ultimi 50 anni, 4 milioni, ebbene sì, 4 milioni di cittadini sono stati prima dichiarati colpevoli, quindi arrestati e infine rilasciati perché innocenti. Dal 1991 al 2012 lo Stato ha dovuto spendere 600 milioni di euro per risarcire chi è stato indebitamente arrestato. E il dato ulteriormente negativo è che questa dinamica non accenna a diminuire, anzi aumenta. Nel 2014 le somme spese dallo Stato per le riparazioni per ingiusta detenzione sono aumentate del 41% rispetto al 2013. La nuova normativa è più che limpida sull'imposizione o meno della detenzione carceraria. Per giustificare il carcere, il pericolo di fuga o di reiterazione del reato non deve essere soltanto concreto ma anche «attuale». Il giudice non può più desumere il pericolo solo dalla semplice gravità e modalità del delitto. Per privare della libertà una persona l'accertamento dovrà coinvolgere elementi ulteriori, quali i precedenti, i comportamenti, la personalità dell'imputato. Anche gli obblighi di motivazione si sono intensificati. Il giudice che decide per il carcere non potrà infatti più limitarsi a richiamare gli atti del pm, ma dovrà dare conto con autonoma motivazione delle ragioni per cui anche gli argomenti della difesa sono stati disattesi. Sono aumentati da 2 a 12 mesi i termini di durata delle misure interdittive (sospensione dell'esercizio della potestà dei genitori, sospensione dell'esercizio di pubblico ufficio o servizio, divieto di esercitare attività professionali o imprenditoriali) per consentirne un effettivo utilizzo quale alternativa alla custodia cautelare in carcere. È cambiata anche la disciplina del Riesame. Il tribunale della Libertà ha tempi perentori per decidere e depositare le motivazioni, pena la perdita di efficacia della misura cautelare. Che, salvo eccezionali esigenze, non può più essere rinnovata. Il collegio del Riesame deve inoltre annullare l'ordinanza liberando l'accusato quando il giudice non abbia motivato il provvedimento cautelare o non abbia valutato autonomamente tutti gli elementi. Tempi più certi anche in sede di appello cautelare e in caso di annullamento con rinvio da parte della Cassazione. Con questo quadro di riferimento, colpisce assai non una voce critica rispetto al provvedimento subito da Mantovani: molte e autorevoli sono state infatti le prese di posizione. Semmai ciò che si sente sempre più forte è il silenzio, l'assenza di autocritica dei cantori della manetta facile, della condanna in piazza e anche di coloro che, siamo in tanti, credono nel rigore e nella serietà della magistratura. Il tutto perché c'è chi sta leggendo questo articolo e chi - come Mantovani, ma non solo lui - si trova sottoposto a carcere preventivo da circa un mese.

Giustizia: le mille balle sulla prescrizione. Cresce in modo inarrestabile. Per colpa della ex Cirielli, varata da Berlusconi nel 2005. E della melina degli avvocati. Tutto falso: ecco perché, scrive il 15 febbraio 2016 Maurizio Tortorella su "Panorama". A partire dalle litanie dell'ultima inaugurazione dell'anno giudiziario, e cioè dalla fine di gennaio, siamo inondati di continui, alti lamenti sulla prescrizione, l'istituto che brucia "inutilmente e vergognosamente" troppi processi penali. Sui giornali si legge che le prescrizioni sono in continuo aumento: formano ormai un'ondata inarrestabile, che anno dopo anno uccide un numero crescente di procedimenti, sottraendo gli autori di reati alla giustizia. Per questo, si legge nei commenti e nelle interviste, il Parlamento dovrebbe approvare al più presto una proposta di legge che riduce grandemente la prescrizione. La riforma prevede allungamenti, sospensive dopo la condanna in 1° e 2° grado. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si è perfino detto d’accordo con il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, per raddoppiare la prescrizione nei reati corruttivi. Secondo la propaganda che picchia sui tamburi in questo febbraio, la colpa di questa situazione disastrosa è tutta da attribuire (e come dubitarne?) alla famosa, malfamata legge Cirielli, varata nel dicembre 2005 sotto il governo Berlusconi: una norma così vergognosa che perfino il suo autore, il deputato Edmondo Cirielli, la rinnegò (e infatti viene rubricata come "ex Cirielli"). Ovviamente, la responsabilità dell'ondata di prescrizioni ricade anche sugli avvocati penalisti e sulle tattiche dilatorie che usano in tribunale. Secondo i cantori del populismo giudiziario, i difensori, complici di chi non vuole giustizia, usano la prescrizione come primo strumento in loro possesso per “salvare" i clienti, ovviamente sempre colpevoli, e per arrivare così al risultato di eludere la giustizia. Tutto vero? Al contrario, è tutto falso (tranne qualche caso, che innegabilmente e probabilmente magari esisterà). E a dimostrarlo sono i dati ufficiali del ministero della Giustizia. Basta andare a cercarli e metterli in fila. Partiamo dalla legge ex Cirielli. Non ha alcuna colpa. In realtà, i procedimenti finiti in prescrizione dal 2005 al 2012 sono andati diminuendo. La legge è andata in vigore alla fine del 2005, e quell'anno si è chiuso con 183.224 reati prescritti. Nel 2012 la cifra era calata a 123.078. È vero che poi nel 2013 e 2014 il dato è tornato ad aumentare (per l'esattezza a 123.078 e a 132.296). Però è clamorosamente falso che da dieci anni a questa parte ci sia un costante aumento delle prescrizioni. Perché rispetto al 2005 siamo ancora sotto di oltre 50 mila reati. Passiamo allora agli avvocati: sono loro i colpevoli? Nemmeno per idea. Sommando tutte le prescrizioni intervenute dal 2005 al 2014, il totale è di 1.454.926 reati e procedimenti prescritti. Sapete in quale fase processuale è andato in prescrizione il reato? Nel 70,7% dei casi, durante le indagini preliminari: per l'esattezza, in1.028.685 casi. Insomma, è accaduto quando gli avvocati non possono praticamente agire, quando tutto o quasi è nelle mani del pubblico ministero. Questa percentuale, semmai, dovrebbe far pensare quanti difendono come intoccabile il principio costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale. Se oltre 1 milione di processi è abortito in dieci anni già prima del rinvio a giudizio dell'imputato, un motivo ci sarà. I motivi sono fondamentalmente due. O sono i pubblici ministeri che si accorgono troppo tardi dei reati. O sono i pubblici ministeri che lavorano male, lasciando nei cassetti i processi che importano poco loro. 

L'eredità di Ermes ai rom che lo avevano derubato. Il suo "patrimonio" consiste unicamente in una casupola e un magazzino sgarrupato del valore di poche migliaia di euro, scrivono Nino Materi e Giuseppe De Lorenzo, Sabato 07/11/2015, su “Il Giornale”. Assegnata ai due rom-ladri l'eredità di Ermes Mattielli. Cioè l'uomo che era stato derubato (da quegli stessi due rom-ladri) per ben 20 volte. Diventa ancora più tragicamente paradossale la storia del 63enne robivecchi vicentino, morto due sere fa di infarto. Un malore provocato anche dallo stress per una vicenda giudiziaria assurda. Lui condannato a 5 anni per essersi difeso da una coppia di nomadi entrata in casa la sera del 13 giugno 2006 nella sua abitazione nel paese di Arsiero (Vicenza). Mattielli spara, li ferisce. Viene incriminato per tentato omicidio, mentre i due zingari se la cavano con una condanna a 4 mesi. Entrambi restano liberi. Liberi di continuare a rubare. Ma ora, forse - e questa sarebbe l'ennesima beffa - liberi addirittura di andare ad abitare nella catapecchia di Ermes: la stessa baracca che loro - i rom manolesta - andavano periodicamente a «ripulire» dei miseri averi di Mattielli. Ermes, oltre ai 5 anni di galera, si è beccato infatti pure una condanna pecuniaria non indifferente: 135 mila euro di risarcimento. Risarcimento a beneficio di chi? Ma dei nomadi che lo andavano sempre a derubare, ovviamente. Ora Ermes è - speriamo per lui - passato a miglior vita. Il suo «patrimonio» consiste unicamente in una casupola e un magazzino sgarrupato del valore di poche migliaia di euro. I familiari di Ermes hanno deciso di rinunciare a cotanti «beni». E così, come prevede la legge, gli immobili passeranno allo Stato che poi provvederà a «girarli» ai nomadi «danneggiati» da Mattielli, i quali potranno usarli come meglio credono: venderli o andarci ad abitare. E giudicate voi se questo non è scandaloso. «Non ci sono genitori, moglie, figli né fratelli o sorelle - spiega l'avvocato di fiducia di Mattielli, Maurizio Zuccollo - credo abbia solo qualche cugino. Ma questi potranno rifiutarsi di ricevere l'eredità, viste le modeste proprietà del rigattiere e quel risarcimento da 135mila euro. Così, in assenza di eredi, lo Stato diventerà proprietario dei beni di Ermes, adoperandosi per il pagamento del dovuto ai rom». «L'art. 596 del codice civile - spiega al Giornale l'avvocato Marco Tomassoni - enuncia che, in mancanza di altri successibili, l'eredità è devoluta allo Stato italiano: l'acquisto avviene di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinunzia». Il secondo comma dell'art. 586 prevede inoltre che lo Stato risponda dei debiti del defunto intra vires (ovvero nei limiti di ciò che ha ricevuto dal defunto stesso) e che «provveda alla liquidazione dell'eredità nell'interesse di tutti i creditori e legatari» che abbiano presentato dichiarazione di credito. Ovvero i due rom, che potranno quindi andare dal notaio per togliere da morto quello che non erano riusciti a rubare a Mattielli in vita. E spostando sullo Stato l'onere del risarcimento. Alla luce di tutto questo bene ha fatto due sere fa Nicola Porro ad aprire la sua trasmissione (Virus, Rai2) con la gigantografia di Ermes Mattielli. Un uomo che in vita ha vissuto da «invisibile», ma la cui «presenza», ora, da morto, pesa sulla coscienza di tutti. L'ultima intervista Ermes l'aveva rilasciata ad Alessandro Mognon del Giornale di Vicenza, diretto da Ario Gervasutti. Parole che, lette oggi, alla luce di questi ultimi sviluppi, appaiono ancora più amare: «Ho una gamba di legno, ma neppure l'invalidità minima. Vivo con l'orto, le galline. Mi hanno messo alla carità. Andavo in giro con l'Ape a raccogliere rottami, sbarcavo il lunario. Adesso devo pagare 135 mila euro. Ma chi li ha mai visti 135 mila euro? Io soldi non ne ho, l'ho detto anche all'avvocato che non posso pagarlo. Vivo con poco più di 100 euro, me li faccio bastare. Oggi ho mangiato quattro patate e du ovi». Racconta Mattielli che per mesi aveva trovato davanti al cancello del magazzino lavatrici e frigoriferi abbandonati: «Pensavo: “guarda 'sti cretini, mi tocca portare tutto all'ecocentro”. Solo dopo ho capito che li mettevano i ladri per salirci sopra e saltare la rete...». Fa vedere dove è successo tutto: «Ecco, li ho trovati qui». Perché non ha sparato un colpo in aria per farli scappare? «Ho visto una luce, ho sparato contro quella. Poi sono sbucati dal buio, erano a due metri da me, ho preso paura. In dieci anni sono venuti 20 volte a rubare. Vengono qui a rubare, da me che ho una gamba di legno. Cosa dovevo fare? Datemi uno stipendio e io lascio spalancate porte e finestre. Dovevano stare a casa loro, quei due. E non sarebbe successo nulla. Ma erano padroni loro, i ladri. A me giudici e avvocati hanno chiesto di patteggiare, ho detto: “neanche morto”. Lo Stato ha pagato il legale ai nomadi che mi hanno derubato, ai ladri». Ladri che ora, forse, vivranno anche nella sua casa. Dopo averla derubata. Per anni. Benvenuti in Italia.

Dopo la morte di Ermes sarà lo Stato a risarcire i due ladri rom. Secondo la legge i rom si approprieranno della casa di Ermes. Intanto l'avvocato di Ermes attacca: "Era preoccupato dal pignoramento", continua Giuseppe De Lorenzo.  Ermes Mattielli è morto d'infarto dopo il calvario giudiziario che lo aveva condannato a 5 anni e 4 mesi di galera. Gli unici ad uscire indenni (e più ricchi) da questa vicenda sono i due ladri rom, che proprio dall'ex rigattiere attendevano i 135mila euro di risarcimento che il giudice ha disposto. Li riceveranno dallo Stato. Sul futuro dell’eredità, quello che è certo è che Ermes non aveva parenti stretti: “Non ci sono genitori, moglie, figli né fratelli o sorelle - spiga l’avvocato di fiducia di Mattielli, Maurizio Zuccollo - credo abbia solo qualche cugino”. Ma questi potranno rifiutarsi di ricevere l’eredità, viste le modeste proprietà del rigattiere e quel risarcimento da 135mila euro. Così, in assenza di eredi, lo Stato diventerà proprietario dei beni di Ermes, adoperandosi per il pagamento del dovuto ai rom. “L’art. 596 del codice civile - spiega a il Giornale l’avvocato Marco Tomassoni - enuncia che, in mancanza di altri successibili, l’eredità è devoluta allo Stato italiano: l’acquisto avviene di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinunzia”. Il secondo comma dell’art. 586 prevede inoltre che lo Stato risponda dei debiti del defunto intra vires (ovvero nei limiti di ciò che ha ricevuto dal defunto stesso) e che “provveda alla liquidazione dell'eredità nell'interesse di tutti i creditori e legatari” che abbiano presentato dichiarazione di credito. Ovvero i due rom, che potranno andare dal notaio per togliere da morto quello che non erano riusciti a rubare a Mattielli in vita. E spostando sullo Stato l’onere del risarcimento. Secondo l'avvocato del pensionato di Arsiero, Maurizio Zuccolo, l'infarto di Ermes si inserisce in un momento di grossa preoccupazione per il rischio che la sua casa - l'unica cosa di cui disponeva - gli venisse tolta per risarcire i rom. "Era preoccupato per il futuro, aveva paura gli pignorassero la casa per pagare i 135mila euro: era preoccupato come può esserlo chiunque si trovi in quella situazione". Si può comprendere. Resta l'amarezza di una vicenda nata nel segno di due rom delinquenti (ed ora più ricchi) e finita con la morte di un onesto cittadino. Non può non indignare.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Gli errori fatti dai giudici? Ecco quanto ci sono già costati, scrive Franco Bechis, su “Libero Quotidiano”. È una piccola città, composta da 22.689 cittadini italiani censiti al 24 settembre 2014. E in questo momento assai vicina alle 24 mila persone. Sono i perseguitati dalla giustizia italiana, cittadini mandati dietro alle sbarre senza motivo dal 1992 ad oggi. Errori dei pubblici ministeri, che hanno fatto scattare le manette ai loro polsi prendendo un abbaglio. Non un errore casuale: una città. Probabilmente le vittime della giustizia sono ancora di più, perché il tristissimo elenco numerico è compilato dal ministero dell’Economia: i ventiquattromila sono quelli che dopo avere subito l’ingiusta detenzione non si sono limitati ad accettare le scuse, ma hanno avuto la possibilità di pagarsi un avvocato, fare ricorso e ottenere un risarcimento. Per questo il loro elenco è conservato da Pier Carlo Padoan e non dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando: le casse dello Stato hanno dovuto pagare loro, per l’errore e spesso la sciatteria dei magistrati, la bellezza di 567 milioni di euro dal 1992 ad oggi. Ogni anno c’è un migliaio di casi così, qualche volta anche il doppio. E il Tesoro è costretto a sborsare 20, 30, 40 perfino 55 milioni di euro l’anno per mettere una toppa ai guai combinati da magistrati faciloni: è diventato un problema di finanza pubblica. Questo conto è assai salato perché lo è il risarcimento a chi è stato in carcere ingiustamente anche solo in custodia cautelare. Ma sale per le casse dello Stato accompagnato dai risarcimenti per la legge Pinto sulla ingiusta durata dei processi, dalle condanne continuamente ricevute dall’Unione europea per lo stesso motivo e per l’incredibile ritardo con cui vengono pagati anche quei risarcimenti alle vittime della mala giustizia. Oltre a quella piccola città - evidenziata nella tabella qui in pagina - c’è anche un’altra cifra che fa tremare le vene ai polsi: 30,6 milioni di euro che lo Stato ha dovuto pagare negli stessi anni a 100 vittime di errori giudiziari: casi in cui non solo hanno sbagliato pm, gip, tribunali del riesame, ma anche le corti di primo e secondo grado e perfino la Cassazione. Sentenze divenute definitive, e poi un nuovo evento, magari una confessione improvvisa, svelano che il colpevole era invece innocente. I risarcimenti dipendono dai mesi o anni di carcere ingiusto patito, ma queste come le altre cifre sono la vera vergogna della giustizia italiana. Casi che sembravano negli anni scorsi per lo meno ridursi, e che invece nell’ultimo biennio sono tornati a lievitare. In tutto il 2013 erano 24,9 milioni i risarcimenti pagati per ingiusta detenzione. In otto mesi e mezzo dell’anno successivo si era già a 22,2 milioni di euro, e probabilmente l’anno si è chiuso sopra i 29 milioni di euro. Da fonti ufficiose abbiamo appreso che la stessa voce al 30 luglio 2015 era già arrivata a 20,9 milioni di euro di risarcimenti pagati. Con quel trend quest’anno si chiuderà intorno ai 35 milioni di euro. Al ministero custodiscono gelosamente la divisione per uffici giudiziari di questi casi. Ma da fonti attendibili abbiamo saputo che ai vertici della classifica si trovavano procure ben note alle cronache giudiziarie. I risarcimenti avvengono normalmente 4-5 anni dopo gli errori, e fino al 2013 ai primi posti di questa classifica del disonore c’erano gli uffici giudiziari di Potenza, poi soppiantati nel 2014 e soprattutto nel 2015 dagli uffici giudiziari di Napoli. Chissà se è l’effetto del passaggio da una procura all’altra di un pm protagonista di indagini che hanno fatto molto discutere (e portato a scarsi risultati processuali) come John Henry Woodcock. Ma il dato numerico è proprio quello. Nella tabella del ministero esiste una voce in uscita, ma non una in entrata. Chi ha compiuto quegli errori giudiziari non paga un centesimo di quello che lo Stato deve versare. Spesso non paga nemmeno sotto il profilo disciplinare, nonostante la legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Il fatto è che quasi sempre questi incredibili casi vengono trattati nascondendo la polvere sotto classico tappeto di casa. I magistrati sbagliano, ma non pagano. A settembre proprio questo sarà uno dei temi principali da affrontare sulla giustizia. Il Nuovo Centrodestra ha depositato alcuni emendamenti a un disegno di legge governativo che rendono obbligatoria l’azione disciplinare nei confronti di qualsiasi magistrato abbia causato un risarcimento per ingiusta detenzione o un errore giudiziario. Il Pd sta facendo resistenza, a difesa della corporazione dei magistrati e fregandosene di quella città di vittime della giustizia. Ma la battaglia è all’inizio.

Fbi, il grande inganno degli esami truccati per incastrare gli imputati. Bufera sugli investigatori americani. I controlli sospetti hanno ingiustamente mandato a morte 32 persone, scrive Vittorio Zucconi su “La Repubblica”. Morire per un capello, nell'illusione della pseudoscienza investigativa piegata agli imperativi della politica e di indagini che devono produrre un colpevole a tutti i costi e persino ucciderlo: è la morale raggelante della scoperta che l'Fbi ha sopravvalutato, male interpretato o addirittura truccato per anni migliaia di "prove" costruite sull'esame dei capelli. Prima che la genetica smentisse, con gli esami del Dna, decine di sentenze rivelando l'innocenza dei condannati, il Federal Bureau of Investigation aveva individuato nei capelli trovati sui luoghi del delitto, più attendibili delle controverse impronte digitali, una della direttissime per identificare i responsabili. Ma dopo un riesame minuzioso condotto dalla Associazione Nazionale degli Avvocati Difensori, la Nacdl, e dal "Progetto Innocenza", emerge che l'Fbi ha barato quasi sempre a favore dell'accusa utilizzando l'esame microscopico dei capelli. Trentadue imputati furono condannati a morte e quattordici di loro giustiziati, sulla base di queste presunte prove truccate. L'espressione che l'inchiesta condotta sui processi prima del 2000 e pubblicata ieri dai media americani come il Washington Post è volutamente cauta, per non creare l'impressione che la massima agenzia investigativa del governo federale e la sola nazionale bari al gioco terribile della verità giudiziaria: l'Fbi ha overstated, si dice, ha esagerato, ha sopravvalutato le evidenze probatorie cercate con il microscopio nei capelli e nei peli sui luoghi del delitto, offrendo agli investigatori, all'accusa, alle giurie popolari certezze che certezze non erano. Ma le parole non possono cambiare i numeri che sono raggelanti. Nei 268 casi nei quali i capelli sono stati usati contro l'imputato l'Fbi ha portato in dibattimento prove che non erano prove, elementi fasulli. Nel 95 per cento dei casi studiati, l'errore è andato a favore dell'accusa, contribuendo alla sentenza di colpevolezza. Soltanto raramente l'errore, che sempre e comunque è possibile, ha portato all'assoluzione. Sono dati, comunque parziali perché ancora le polizie e le procure della repubblica rifiutano di aprire gli archivi su 1200 processi, che tendono a confermare il classico sospetto di ogni avvocato difensore e di ogni imputato, che la macchina investigativa, l'apparato della Giustizia siano costruiti intenzionalmente non per portare alla determinazione della colpevolezza o della non colpevolezza, ma per raggiungere a ogni costo una sentenza di condanna. L'Fbi, che dopo i decenni della implicita, autocratica certezza di infallibilità che il suo creatore e zar, J. Edgar Hoover aveva creato con instancabile propaganda, ha risposto, insieme con il Ministero della Giustizia, che il Bureau, come tutti i magistrati inquirenti e i tribunali "sono fortemente impegnati a perfezionare e rendere ancora più accurate le analisi dei capelli, così come l'applicazione di tutte le scienze forensi ". Mentre tutti i condannati in processi basati sull'esame dei capelli saranno informati dei possibili errori giudiziari. Un impegno che sarà di poco conforto per i quattordici uomini già passati attraverso le camere della morte nei penitenziari. La rivelazione, che si aggiunge alle vicende di detenuti, alcuni addirittura da anni nei bracci della morte, scagionati completamente dai nuovi test sul Dna, non certifica la fallibilità dei test sui capelli, ma fa di peggio: insinua il dubbio che l'Fbi, come le Procure, le polizie, la pubblica accusa giochino a carte truccate pur di ottenere prima l'incriminazione e poi la condanna dell'accusato. E così giustificare davanti a elettori che chiedono "giustizia" indagini e celebrazioni di processi, valutate positivamente soltanto se portano a una condanna. I prosecutor, i magistrati dell'accusa, sono misurati in funzione delle sentenze di colpevolezza che riescono a ottenere. Il principio del dubbio pro reo, che deve valere nelle aule di giustizia quando il procedimento è pubblico, non vige nei laboratori delle analisi scientifiche dove, se questi dati sono concreti, sembra funzionare l'esatto opposto: nel dubbio, si va contro il presunto reo. Un dubbio che apre un altro, amarissimo capitolo nell'amministrazione della Giustizia anche nelle nazioni apparentemente più garantiste e rispettose dei diritti dell'accusato e dell'imputato. Che siano i soldi e non la scienza ha determinare l'esito di un procedimento. Nel sospetto che anche le prove e gli indizi qualificati con la solennità della scienza siano piegati alla soggettività di chi investiga e conduce l'accusa "nel nome del popolo", la difesa deve ricorrere a controanalisi e controperizie capaci di confutare, o almeno di mettere in discussione le conclusioni degli accusatori. Un diritto che ha un enorme e ovvio limite nei costi: non tutti gli imputati possono permettersi le batterie di contro analisi forensi e quelli che non possono si devono affidare al lavoro di agenzie governativa teoricamente al di sopra delle parti. Una semplice, quanto evidente spiegazione del perché sia molto più facile mandare in carcere o al patibolo i poveri e sia più facile scampare, per i ricchi. Eppure anche i meno ricchi pagano le tasse che finanziano il lavoro dei funzionari governativi che li trascinano in carcere tirandoli per i capelli.

Ed in Italia?

C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».

 M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.

Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.

COLPA DEI PROCESSI INDIZIARI...

Colpa dei processi indiziari. Colpa dei processi indiziari (se c'è chi sbaglia a indagare, a periziare, a sentenziare... e troppi innocenti vengono spediti in carcere e uccisi psicologicamente sui media). Gli sbagli della giustizia moderna denunciati dal dottor Imposimato già sei anni fa...Colpa dei processi indiziari. Di Ferdinando Imposimato su “Albatros Volando Controvento” del 28 dicembre 2015. Bisogna anzitutto partire da un dato. Nella realtà processuale, nell’esame dei diversi casi giudiziari, esistono due verità antitetiche: una verità reale e una processuale. Queste due verità non coincidono quasi mai. L’obiettivo fondamentale del giudice consiste nel fare emergere la verità storica, affinché tra questa e il giudizio finale vi sia una perfetta coincidenza. Questo risultato, tuttavia, difficilmente viene raggiunto per una serie di ragioni sia di ordine processuale che professionale. L’aspetto drammatico del processo è che il giudice, nel conflitto tra le due verità, è tenuto a seguire soltanto e semplicemente quella processuale. Questa contraddizione può manifestarsi in due modi: il giudice può avere la convinzione morale della colpevolezza della persona imputata nei confronti della quale però manchino le prove o queste non siano sufficienti. In questo caso il giudizio non può che essere di assoluzione. Nel secondo caso, il giudice può avere l’intima convinzione dell’innocenza di una persona, ma le prove processuali – testimonianze, riconoscimenti, perizie – depongono contro l’imputato. La conseguenza è drammatica: la condanna di un imputato è “giusta” sul piano processuale ma ingiusta su quello sostanziale. E’ la tragedia dell’Enrico VIII di Shakespeare, nella quale il duca di Buckingham, condannato a morte per le accuse calunniose dei suoi servi, non impreca contro i giudici ma ne accetta il verdetto: “Non nutro rancore contro la legge per la mia morte: alla stregua del processo essa doveveva infliggermela, ma desidero che coloro che mi hanno accusato divengano più cristiani…”. Il giudice deve decidere solo in base alle emergenze processuali. Anche se intuisce la verità reale, egli ha l’obbligo di applicare la legge, quindi di tener conto delle risultanze processuali che molto spesso, portano lontano dalla verità reale. Rispetto a quest’ultima, le deviazioni sono dipendenti da diversi fattori: da errori dei testimoni nella percezione della verità (si confonde una persona con un’altra), degli investigatori nella ricerca delle prove, dei periti nella ricostruzione di un fatto storico, del giudice nell’esercizio del metodo deduttivo con il quale si risale da un fatto certo ad un altro fatto. Una deviazione assai frequente della verità storica è quella che nasce da perizie medico legali e psichiatriche errate. Nel caso di un delitto con autore ignoto e con molti sospettati, l’affermazione da parte del perito medico legale che si tratta dell’opera di un sadico, di un maniaco sessuale che ha certe caratteristiche fisiche e psichiche (si presume in alcuni casi di definire l’altezza e la corporatura dell’ignoto autore!!), unita alla conclusione del perito psichiatrico che la persona soprattutto è un soggetto che ha quelle caratteristiche descritte dal medico legale, producono come conseguenza pericolosa l’errore del giudice. Nella mia non breve esperienza, non è stato infrequente l’errore dei periti psichiatrici d’ufficio (cioè nominati dal giudice) nell’accertamento della “capacità di intendere e/o di volere di un soggetto”. Sovente essi hanno affermato che il soggetto rientrava in una certa categoria che era proprio quella nella quale il pubblico ministero aveva collocato l’autore del delitto. Ma non è stato raro il caso del privato che ha assecondato l’orientamento sbagliato della pubblica opinione. I periti, insomma, compiono spesso il loro lavoro sotto la spinta di fattori emotivi, di elementi extrascientifici che li conducono a conclusioni lontane dalla verità. E questa è una delle cause più frequenti dell’errore giudiziario. Non mi riferisco soltanto ai periti psichiatrici, ma anche a quelli balistici, grafici, ai medici legali in genere. Le perizie, specialmente nei grandi processi, sono un dato costante della ricerca della verità. Molto spesso allontanano dalla verità perché compiute da persone che non sono in grado di far bene il proprio lavoro – anche se solo raramente si tratta di persone in malafede. Esempio classico: nell’esame ordinato per l’omicidio del giudice Emilio Alessandrini ci fu un perito che affermò, con certezza assoluta, che l’arma che aveva sparato il proiettile mortale contro il giudice era una certa pistola. Siccome questa pistola proveniva da un certo terrorista, che era un uomo che aveva commesso un altro omicidio, il giudice disse: “Questo è l’uomo che ha ucciso Alessandrini”. Senonché, a distanza di quattro o cinque anni, venne fuori il vero assassino che confessò, aggiungendo di aver sparato con un’altra pistola. Altri periti, in seguito, confermarono che il primo aveva sbagliato. Da allora mi resi conto che quell’uomo avrebbe potuto subire un ergastolo per via di una perizia sbagliata, e che se non fosse venuto fuori il vero autore dell’omicidio, quell’errore non sarebbe mai stato scoperto. Ma il problema è che non sempre vengono fuori i veri autori di un crimine. Molto spesso, poi, il giudice non è in grado – un po’ per incapacità, un po’ per superbia, un po’ per gli errori altrui – di cogliere l’errore. Di qui le tragedie che si verificano: il numero degli errori giudiziari è molto superiore a quello che viene normalmente percepito nella realtà. Un’altra causa molto frequente di errore è costituita dai riconoscimenti personali: è molto facile che siano sbagliati. Nell’istruire il caso Moro, ricordo di aver ascoltato personalmente cinque o sei testimoni che affermavano con assoluta certezza di aver visto in via Fani un terrorista la cui descrizione corrispondeva a Corrado Alunni. Quest’ultimo, inevitabilmente, ricevette un mandato di cattura per concorso nel sequestro e nell’omicidio di Aldo Moro. Senonché, per sua fortuna, presto vennero fuori i veri autori della strage di via Fani, che esclusero categoricamente che Alunni fosse presente; in secondo luogo, non fu difficile appurare che egli, il giorno del sequestro, era detenuto. Ecco, questa vicenda rappresenta il classico esempio di errore compiuto dal giudice, ma provocato dall’errore altrui: il giudice è infatti obbligato a tener conto delle testimonianze di persone della società civile, disinteressate e che non conoscendosi tra loro facciano il medesimo riconoscimento personale nel rispetto delle garanzie stabilite dalla legge, quando per giunta affermano qualcosa “con assoluta certezza”. Un altro caso, legato all’omicidio di Girolamo Tartaglione: una ragazza confessò di essere responsabile dell’assassinio, chiamando in correità altre due persone. Nel leggere il testo della confessione di questa ragazza – molto precisa e dettagliata – mi resi conto che si trattava di un falso, per un paio di particolari rivelatori. Non volli accettare quella “verità” processuale, condivisa invece dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dal pubblico ministero. Non volli assecondare la tesi della stampa che parlava di brillante soluzione del caso Tartaglione. Ero convinto, sulla base di due dati oggettivi, che la verità processuale emersa fino a quel momento non fosse corretta. Riuscii, col tempo, a convincere la donna a ritrattare e ad affermare che aveva confessato il falso. Per fortuna, perché poco tempo dopo vennero fuori i veri autori dell’omicidio (Valerio Morucci e Adriana Faranda). Ebbene, questo esempio serve a dimostrare ciò che vado da sempre ripetendo: la confessione non è “la madre di tutte le prove”, perché può accadere che anch’essa sia fonte di errore. Che cosa può consentire di capire quando qualcuno dica il vero e quando il falso? La professionalità di un giudice o di un investigatore, indipendentemente dall’esistenza di altri elementi che possano smentirlo. Uno dei più gravi fattori capaci di provocare l’errore giudiziario è poi la presenza, nel nostro ordinamento, del principio del libero convincimento del giudice (sancito dall’art.192 del codice di procedura penale). L’esistenza di un fatto può essere desunta non soltanto dalla prova, ma anche dagli indizi, purché siano gravi, precisi e concordanti. In realtà, l’art.192 afferma una regola – il fatto non può essere provato se non attraverso la prova legale – che prevede una sola eccezione: la presenza di indizi che abbiano le tre caratteristiche sopra accennate. Ma la realtà del nostro ordinamento è purtroppo diversa: l’eccezione è diventata una regola. I procedimenti sono ormai quasi tutti indiziari. Che cos’è un indizio? Un fatto desunto dall’esistenza di un altro fatto. In pratica, il risultato di una deduzione logica. E qui veniamo all’errore, perché troppo spesso l’indizio non è altro che un sospetto che si è trasformato in un indizio, prima di trasformarsi ulteriormente in prova. Questo è un grave vizio dell’ordinamento giudiziario del nostro paese, capace di portare alle situazioni processuali assurde e inaccettabili così frequenti nei tribunali italiani. Per molti casi clamorosi – piazza Fontana, strage di Bologna, omicidio Chinnici, comunque per il 60-70 per cento di fatti di straordinaria gravità – si sono avute decisioni contraddittorie a livello di giudici di merito: non dunque in Cassazione, ma tra il primo e il secondo grado di giudizio. Sentenze di condanna rovesciate in pronunciamenti assolutori, sulla base degli stessi elementi in punto di fatto. Molto spesso, un medesimo quadro probatorio è giudicato in maniera differente: sugli stessi elementi si pronunciano in maniera opposta i giudici di primo e quelli del secondo grado. Ma questo non può essere, perché gli elementi di prova devono essere valutati in modo uniforme da tutti i giudici. In caso contrario, si potrebbe parlare di un fatto arbitrario. Certo, in presenza di ulteriori elementi che completino, migliorino, rettifichino un certo quadro, d’accordo; ma quando questo quadro è esattamente lo stesso, allora vuol dire che c’è qualcosa che non va. Un qualcosa rappresentato proprio dal principio del libero convincimento del giudice, in virtù del quale alcuni giudici considerano certi indizi né gravi, né precisi, né concordanti; altri giudici, invece, si pronunciano in senso opposto. A questo punto, una serie spaventosa di errori giudiziari diventa inevitabile. Per quel che mi riguarda, credo purtroppo di aver quanto meno contribuito a commettere errori giudiziari, nella mia veste di giudice istruttore, organo monocratico che – secondo il vecchio rito penale – doveva ricostruire la verità nel corso della fase più difficile, quella della verifica delle prove raccolte dalla polizia o offerte dal pubblico ministero. Ma, potendo contare su una fortissima personalità, non mi è mai capitato di venire influenzato dalla polizia o dal pm. Molto spesso, anzi, mi è capitato di ricostruire un fatto in maniera decisamente diversa da quella seguita dal pubblico ministero. Perché sono convinto che anche quelle che sembrano verità elementari e pacifiche debbano sempre essere verificate. Esistono rimedi concreti al problema dell’errore giudiziario? A mio avviso, il vizio è ineliminabile. Al massimo lo si potrà ridurre, puntando verso due distinte direzioni. Da un lato, la professionalità del giudice, vale a dire la formazione del magistrato, la valutazione delle sue capacità, che non consistono soltanto nella conoscenza tecnica del diritto, ma anche nel saper ricostruire la verità attraverso la valutazione critica di tutte le prove. Una maggiore professionalità che va però richiesta anche ai periti, per evitare valutazioni errate capaci di pregiudicare il corretto andamento processuale e di generare errori giudiziari. Dall’altro lato, il libero convincimento del giudice: un principio da rivedere, prendendo spunto da altri sistemi (per esempio, quello anglosassone) nei quali la deduzione logica non ha valore probatorio, che è riservato invece esclusivamente a un elenco tassativo, sancito dalla legge. Senza essere esterofili – perché anche gli ordinamenti degli altri paesi sono caratterizzati da vizi di diverso tipo – ritengo che la possibilità di trasformare in prova un semplice indizio – il più delle volte privo di qualsiasi rilevanza probatoria – rappresenti un nodo che deve essere risolto prima possibile. Il rischio che una persona possa essere arrestata sulla base di elementi labili, che poi possono essere valutati o svalutati secondo l’umore del giudice di turno, è una delle circostanze maggiormente deprecabili del nostro sistema. Un dato che contribuisce ad affievolire la certezza del diritto. Ma l’errore ha anche altre radici, delle quali si discute molto negli ultimi anni. La più importante è l’interpretazione della legge contro l’intenzione del legislatore, come conseguenza della violazione stessa del principio dell’imparzialità del giudice. L’attività politica del giudice all’inevitabile scontrarsi delle ideologie a scapito della verità e dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. L’opinione di Cesare Beccaria circa l’arbitrio lasciato ai giudici, dal principio del libero convincimento, di orientarsi nell’interpretazione delle leggi recando le loro filosofie sociali e politiche illuminate: “Il sovrano sarà il legittimo interprete delle leggi, perché è il depositario delle libertà di tutti, non il giudice il cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto, o non, un’azione contraria alle leggi. Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni. Questa verità, che sembra un paradosso alle menti volgari più percosse da un picciol disordine presente che dalla funeste ma remote conseguenze che nascono da un falso principio radicato in una nazione, mi sembra dimostrata”. E poi Beccaria traccia il quadro delle storture che derivano da un’interpretazione legata alle opinioni soggettive dei giudici: Le nostre congnizioni e le nostre idee hanno una reciproca connessione: quanto più sono complicate, tanto più numerose sono le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo ha il suo punto di vista, ciascun uomo in differenti tempi ne ha uno diverso. Lo spirito della legge sarebbe dunque il risultato di una buona o di una cattiva logica del giudice, di una facile o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice con l’offeso, e da tutte quelle minute forse che cangiano le apparenze di ogni oggetto nell’animo fluttuante dell’uomo. Quindi veggiamo la sorte di un cittadino (colpevole o innocente, nda) cangiarsi spesse volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite dei miserabili essere vittime dei falsi raziocinii, o dell’attuale fermento degli umori di un giudice, che prende per legittima interpretazione il vago risultato di tutta quella confusa serie di nozioni che gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma l’errante instabilità delle interpretazioni”. (C. Beccaria: “Dei delitti e delle pene”). Ludovico Antonio Muratori espresse un giudizio analogo e ancora più pessimistico sulla giustizia affermando che “misera è la condizione di chi deve litigare, egli si crede di andare a picchiare alle porte della giustizia, né si accorge che va a mettere il suo alla ventura di un lotto”. E questa condizione si ripete in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Il nostro compito è quello di combatterle essendo sempre pronti a riconoscere l’errore. Prima di concludere mi viene alla mente l’immagine del giovane arrestato dalla magistratura come “mostro di Merano”. Il suo volto muto e disperato deve indurre alla riflessione. Luca Nobile era stritolato nella macchina della giustizia e non aveva voce per gridare la sua innocenza. Solo la ripetizione degli omicidi da parte del vero assassino ha salvato l’innocente da una probabile condanna all’ergastolo. La sua unica colpa fu quella di essere somigliante all’autore dei delitti.

I limiti strutturali del processo indiziario, scrive Luca Cheli. La natura del processo indiziario nel diritto penale italiano ha origine nella distinzione tra “prova diretta o storica” e “indizio” in quanto elementi di prova. Cercando di non complicare troppo le definizioni, a cui sono stati dedicati interi libri, la prova diretta o storica è la rappresentazione diretta del fatto da provare (tramite fotografia o testimonianza, per esempio), mentre l’indizio e un fatto (certo nella sua esistenza, almeno in teoria) dal quale può essere inferenzialmente dedotto il fatto da provare. Anche la prova diretta non è automaticamente “verità sicura”, perché le testimonianze devono essere valutate nella loro credibilità e le fotografie (per esempio) nella loro autenticità. Tuttavia, se tre persone vedono da pochi metri di distanza Tizio sparare a Caio e una delle tre persone riprende pure l’atto con il proprio smartphone, si può dire, una volta verificato che i testimoni non hanno motivo di mentire o di coalizzarsi contro Tizio e che il filmato ripreso non è stato alterato in qualche modo, che la colpevolezza di Tizio è provata oltre ogni ragionevole dubbio. Se invece il teste Uno riferisce di dissapori tra Tizio e Caio, il teste Due di aver visto, poco prima del fatto, Tizio vicino alla zona dove Caio è stato ucciso ed il teste Tre di aver sentito una volta Tizio parlare di una vecchia pistola che suo nonno aveva sottratto ai tedeschi in ritirata durante la Seconda Guerra Mondiale, allora siamo in presenza di indizi. Questo perché nessuna delle tre testimonianze è diretta rappresentazione del fatto da provare (che Tizio abbia sparato a Caio), ma ognuna riporta un fatto noto e certo (ma su questo torneremo), dal quale si potrebbe dedurre che Tizio abbia effettivamente sparato a Caio: perché ne aveva il movente (dissapori), il mezzo (pistola del nonno) e l’opportunità (è stato visto nelle vicinanze della zona del delitto poco prima che questo avvenisse). In questo secondo caso il processo a Tizio per l’omicidio di Caio sarebbe un processo indiziario. Ho volutamente presentato un caso di processo indiziario molto “semplice” che probabilmente farà propendere la maggioranza dei lettori per la “probabile” colpevolezza di Tizio. Ma persino così le cose non sono affatto “semplici”. In effetti, cosa lega i tre fatti noti (forniti dai tre testimoni) al fatto ignoto da provare (Tizio ha o non ha sparato a Caio)? Essenzialmente la nostra (del lettore o del giudice fa poca differenza) logica, ovvero il modo in cui la nostra mente ritiene che da certi fatti ne debbano, con maggior o minore probabilità, derivare degli altri. Insomma molti di noi penseranno che se Tizio ce l’aveva con Caio, se aveva una pistola ed era pure stato visto vicino alla scena del crimine poco prima che lo stesso avvenisse... deve essere con ogni probabilità colpevole. Il ragionamento costitutivo alla base del processo indiziario presenta una certa analogia con la formula che permette, nella geometria euclidea, di ottenere il valore di uno dei tre angoli interni di un triangolo conoscendo l’ampiezza degli altri due. In questa analogia si potrebbe dire che la prova diretta è costituita dalla misurazione diretta dell’angolo di cui vogliamo conoscere l’ampiezza, mentre gli indizi sono costituiti dal valore dell’ampiezza degli altri due angoli interni del triangolo. Ora, nella geometria euclidea i due modi di ottenere il valore di uno degli angoli interni sono equivalenti perché la somma dei tre vale sempre 180 gradi. Abbiamo cioè una regola certa, sicura ed invariante. Ma la realtà delle cose, degli eventi, della vita non fornisce mai la rassicurante certezza delle formule di Euclide. E allora cosa succede? Parlando con un linguaggio diverso e meno aulico rispetto a quello dei tomi di giurisprudenza, dirò che alla fine dei conti si va per “probabilità”, ma una probabilità non quantificata e ben difficilmente quantificabile: un “mi pare”, “mi sembra”, “credo”. Ovviamente nelle motivazioni i giudici togati usano altre espressioni, ma chi ha letto qualche sentenza si ricorderà di espressioni quali “è ragionevole ritenere”, “risulta credibile”, “questo Giudice ritiene” e così via, che sostanzialmente sono la rappresentazione in termini “giuridicamente corretti” (e presentabili) delle valutazioni a spanna di cui sopra. Perché, sia chiaro, i giudici professionisti conoscono senz’altro la procedura e gli aspetti tecnici del diritto meglio di un dilettante, quale l’autore del presente articolo, tuttavia, quando si tratta di applicare la “logica” in un processo indiziario alla fondamentale domanda “colpevole o innocente”, essi non hanno più strumenti del cittadino medio. E d’altronde di cittadini medi è formata la maggioranza (6 su 8) dei membri delle Corti di Assise e di quelle di Appello del nostro Paese. Non per caso, infatti, di “libero convincimento” del giudice parla il nostro ordinamento: per quanto possano essere nobili le origini storiche di quell’espressione, di fatto si parla sempre, in ultima analisi, di una convinzione soggettiva e individuale. Infatti, cosa lega la pistola del nonno di Tizio, la presenza del medesimo nelle vicinanze della zona del crimine e i suoi dissidi con Caio all’omicidio di quest’ultimo? Non c’è nessuna regola dei centottanta gradi, nessuna formula matematica: ci sono solo le nostre considerazioni su cosa riteniamo più o meno probabile o ragionevole. La pistola del nonno potrebbe essere un ferrovecchio arrugginito ed inutilizzabile che Tizio non sa nemmeno più dove sia o che può aver buttato per inutilità dopo averne parlato al teste Tre svariati mesi (o anni) prima del delitto, la presenza di Tizio in prossimità del luogo del crimine una mera coincidenza e i dissapori con Caio la rappresentazione amplificata post omicidio di piccole beghe che ognuno di noi può avere. Una certa linea di pensiero, molto sfortunatamente spesso in Italia fatta propria anche dalla Cassazione, sostiene che gli indizi vanno considerati globalmente, con l’implicito corollario che se anche ognuno di essi può essere spiegato diversamente, quando vengono considerati collettivamente allora assumono un valore probatorio non solo superiore ma addirittura determinante (in una delle peggiori sentenze recenti della Cassazione, questo processo è stato definito “valutazione osmotica”). Con buona pace dei Soloni più o meno variamente togati ed imparruccati di questo mondo, per quanto la presenza di più indizi certamente rafforzi un possibile quadro accusatorio rispetto ad un numero inferiore dei medesimi, ciò che essi vanno a formare è una possibile rappresentazione degli eventi, mai l’unica e spesso neppure la più probabile. Sì, certo, se a casa di Tizio dovesse essere trovata una Luger P08 la cui rigatura della canna coincide con i segni sulle pallottole estratte dal corpo di Caio, e magari pure un diario scritto di proprio pugno da Tizio in cui questi esprime il proprio odio per Caio e lo minaccia ripetutamente di morte, allora direi che la probabilità che Tizio sia colpevole è alta. Ma quanto, in percentuale? Ottanta, ottantacinque, novanta, novantacinque, novantanove per cento? Come potrei quantificarla? E se anche potessi quantificarla, quale sarebbe la “soglia” probabilistica oltre la quale sarebbe giusto condannare? E se, come spesso succede con le perizie, quelle rigature sono solo compatibili con quelle sui proiettili? E se Tizio avesse scritto frasi simili sul suo diario anni prima nei confronti di Sempronio e Calpurnia, senza mai aver poi fatto loro alcun male? Quanto cambierebbero le mie probabilità? Il punto fondamentale, alla fine di tutto, è che non abbiamo alcuna regola certa e matematica; pensiamo di avere una logica, ma anche questa, in ultima analisi, quanto si distingue dalle nostre sensazioni ed impressioni? Un’ultima parola la riservo alle famigerate prove scientifiche, che dovrebbero quantomeno portare qualche saldo elemento numerico-quantitativo nella nebbia probabilistica (ma sarebbe meglio dire “possibilistica”, visto che si parla di probabilità non propriamente quantificabili). Purtroppo, nella realtà delle perizie e consulenze tecniche come esse oggi sono in Italia, la prevalenza di espressioni qualitative quali “compatibilità”, “non incompatibilità”, nonché spesso “opinioni d’esperto” non suffragate da studi quantitativi, non fa che aggiungere altra foschia al già indistinguibile paesaggio della verità fattuale. Gianrico Carofiglio, nella sua opera “L’arte del dubbio” definisce il risultato di un processo come “individuazione di verità accettabili nella prospettiva dell’adozione di decisioni preferibili”. Verità accettabili, decisioni preferibili. E’ un linguaggio che mi suona tremendamente “politico”. Se dovessi decidere di condannare qualcuno a pene detentive, io vorrei avere verità certe e decisioni giuste, altrimenti non me la sentirei mai. Ma certo capisco che se uno ragiona in termini di mantenimento dell’ordine nella società (e questo è un ragionamento politico), allora si può ambire a verità credibili per la società stessa e a decisioni preferibili per l’effetto che esse hanno sulla stabilità della società medesima. Però sia chiaro che stiamo parlando di stabilità e controllo della società, non di giustizia per la vittima, per i famigliari, eccetera, eccetera. Abbandoniamo quindi una certa retorica facile a sentirsi sui giornali e in TV e chiediamoci semplicemente se in realtà non abbiamo bisogno del processo indiziario per scopi di ordine sociale e quindi, in ultima analisi, di stabilità dello Stato. Possiamo anche rispondere positivamente, ma a quel punto non stiamo più facendo giustizia, ma solo politica.

L'INGIUSTIZIA NON E' UNA UTOPIA: E' REALTA'.

GIUSTIZIA INGIUSTA. Boom di innocenti in cella anche nel 2015. La top ten degli errori giudiziari dell’anno. Quattro milioni arrestati ingiustamente In compenso dal ’98 al 2014 gli inquirenti riconosciuti colpevoli sono solo quattro, scrive Luca Rocca il 30 dicembre 2015 su “Il Tempo”. Milioni di persone incarcerate ingiustamente, migliaia le vittime di errori giudiziari, centinaia di milioni di euro per risarcire chi, da innocente, ha subìto i soprusi di una giustizia letteralmente allo sfascio. I numeri che descrivono il penoso stato del nostro sistema giudiziario non lasciano scampo e immortalano uno scenario disastroso a cui nessun governo è riuscito, finora, a porre rimedio. Il sito errorigiudiziari.com, curato da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, ha messo in rete i 25 casi più eclatanti del 2015 di cittadini innocenti precipitati nella inestricabile ragnatela della malagiustizia italiana. Casi che contribuiscono a rendere il panorama del nostro impianto giudiziario, come certificano più fonti (Unione Camere Penali, Eurispes, Ristretti Orizzonti, ministero della Giustizia), più fosco di quanto si pensi.

INNOCENTI IN CARCERE. Se dall’inizio degli anni ’90 gli italiani finiti ingiustamente dietro le sbarre sono stati circa 50mila, negli ultimi 50 anni nelle nostre carceri sono passati 4 milioni di innocenti. E se nell’arco di tempo che va dal 1992 al 2014 ben 23.226 cittadini hanno subìto lo stesso destino, per un ammontare complessivo delle riparazioni che raggiunge i 580 milioni 715mila 939 euro, i dati più recenti attestano che la situazione non accenna a migliorare. Come comunicato dal viceministro della Giustizia Enrico Costa, infatti, dal 1992, anno delle prime liquidazioni, al luglio del 2015 «è stata sfondata la soglia dei 600 milioni di euro» di pagamenti. Per la precisione: 601.607.542,51. Nello stesso arco di tempo, i cittadini indennizzati per ingiusta privazione della libertà sono stati 23.998. Nei primi sette mesi del 2015, inoltre, le riparazioni effettuate sono state 772, per un totale di 20 milioni 891mila 603 euro. Nei 12 mesi del 2014, invece, erano state accolte 995 domande di risarcimento, per una spesa di 35,2 milioni di euro. Numeri che avevano fatto registrare un incremento dei pagamenti del 41,3 per cento rispetto al 2013, anno in cui le domande accettate furono 757, per un totale di 24 milioni 949mila euro. In media lo Stato versa circa 30 milioni di euro all’anno per indennizzi. I numeri a livello distrettuale riferiti ai risarcimenti per ingiusta detenzione collocano al primo posto Catanzaro con 6 milioni 260mila euro andati a 146 persone. Seguono Napoli (143 domande liquidate pari a 4 milioni 249mila euro), Palermo (4 milioni 477mila euro per 66 casi), e Roma (90 procedimenti per 3 milioni 201mila euro).

ERRORI GIUDIZIARI. Nel 2014 è stato registrato un boom di pagamenti anche per quanto riguarda gli errori giudiziari per ingiusta condanna. Dai 4.640 euro del 2013, che fanno riferimento a quattro casi, si è passati a 1 milione 658mila euro dell’anno appena trascorso, con 17 casi registrati. La liquidazione, infatti, è stata disposta per più di 1 milione di euro per un singolo procedimento verificatosi a Catania, e poi per altre 12 persone a Brescia, due a Perugia, una a Milano e l’ultima a Catanzaro. Dal 1992 al 2014 gli errori giudiziari sono costati allo Stato, dunque al contribuente italiano, 31 milioni 895mila 353 euro. Ma il ministero della Giustizia, aggiornando i dati, ha certificato che fino al luglio del 2015 il contribuente ha sborsato 32 milioni 611mila e 202 euro.

MAGISTRATI «IRRESPONSABILI». La legge sulla responsabilità civile dei magistrati è stata varata la prima volta nel 1988 e modificata, per manifesta inefficacia, solo nel febbraio di quest’anno. I dati ufficiali accertano che dal 1988 al 2014 i magistrati riconosciuti civilmente responsabili dei loro sbagli, con sentenza definitiva, sono stati solo quattro. Secondo l’Associazione nazionale vittime errori giudiziari, ogni anno vengono riconosciute dai tribunali 2.500 ingiuste detenzioni, ma solo un terzo vengono risarcite. Stefano Livadiotti, nel libro «Magistrati, l’ultracasta», scrive che le toghe «hanno solo 2,1 probabilità su 100 di incappare in una sanzione» e che «nell’arco di otto anni quelli che hanno perso la poltrona sono stati lo 0,065 per cento».

Piangono e strillano. Così i magistrati hanno ottenuto il massimo. Hanno ottenuto il massimo che potevano dopo 28 anni di tradimento del voto popolare espresso a grandissima maggioranza nel referendum promosso dai radicali e dopo che, nel 2011, scrive Rita Bernardini su “Il Tempo” il 27 febbraio 2015. "Il pianto frutta": nessuno meglio dei magistrati italiani sa mettere in pratica questo antico modo di dire della saggezza popolare. Frignano per poi piangere fino a singhiozzare perché con la legge appena approvata sulla responsabilità civile, le toghe nostrane ritengono di non essere più indipendenti, di essere sottoposte a continui ricatti e costrette ad autocontenersi per il timore di essere chiamate in causa. La verità è che hanno ottenuto il massimo che potevano dopo 28 anni di tradimento del voto popolare espresso a grandissima maggioranza nel referendum promosso dai radicali e dopo che, nel 2011, la Corte di Giustizia Europea aveva condannato l’Italia per i limiti posti alla responsabilità civile dei giudici nell'applicazione del diritto europeo. Oggi al Governo e in Parlamento sono tutti protesi a rassicurare i magistrati che strillano e battono i piedi minacciando sfracelli. Da una parte il Parlamento è arrivato ad appiccicare alla legge una relazione d’accompagnamento in cui si spiega che per "negligenza inescusabile" si intende un travisamento "macroscopico ed evidente" dei fatti; dall’altra il Governo che, con il ministro della Giustizia, s’inventa il "tagliando", affermando di essere pronto a cambiare la legge entro sei mesi se ci saranno abusi. Ma quali abusi si possono temere se saranno giudici a giudicare altri giudici? In realtà, già quando fu promosso quel referendum, insieme al compianto Enzo Tortora, i radicali avevano ammonito che occorreva urgentemente affrontare le questioni della separazione delle carriere, degli incarichi extragiudiziari, dei distacchi dei magistrati nell’amministrazione pubblica, dell’automaticità delle carriere, del principio (falso perché impossibile da attuare) dell’obbligatorietà dell’azione penale, della correntocrazia nel Csm, insomma, una riforma organica della Giustizia che affermasse concretamente la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Oggi, con oltre cento magistrati distaccati presso gli uffici legislativi dei ministeri, c’è poco da stare tranquilli: c’è sempre una manina pronta a pinzare alle leggi l’interpretazione autentica, oppure un’intimidazione per la quale l’esecutivo si ritiene costretto a promettere revisioni nel caso in cui gli effetti delle leggi non assicurino, come è stato fino ad oggi, l’impunità delle toghe, i loro privilegi, le loro carriere. Grande assente da questo film – e ho motivo di dubitare che entrerà in scena – è l’illegalità palese dell’amministrazione della Giustizia che colpisce, come denunciava il Commissario per i diritti umani Alvaro Gil-Robles 10 anni fa, il 30 per cento della popolazione italiana per tempi irragionevoli trascorsi in attesa di una decisione giudiziaria, in violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; Convenzione che, secondo il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa viene sistematicamente violata dall’Italia fin dal 1980. Noi che la lotta per la responsabilità civile dei magistrati l’abbiamo per anni fatta-vissuta-vinta assieme ad Enzo Tortora con il calvario che quest’uomo perbene ha dovuto subire, siamo raggiunti da un’infinita tristezza quando vediamo che Renzi twitta esultante la foto di Tortora e tutti i media lo ritwittano raggianti. Quando nell’83 abbiamo sposato la causa di Tortora l’abbiamo fatto contro tutto e tutti perché era unanime il coro che definiva Enzo un camorrista, "cinico mercante di morte£. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se oggi – pressoché isolati – Marco Pannella e i radicali fanno proprio, nell’impegno politico quotidiano, il messaggio che il Presidente Emerito Napolitano ha inviato al Parlamento nell’ottobre del 2013 sulle infami carceri e sulla débâcle della giustizia italiana: non siamo bizzarri oggi, così come non lo eravamo più trent’anni fa al fianco di Enzo Tortora. Mi auguro che questa volta ci si aiuti ad aiutare il Paese e coloro che abitano il nostro territorio a non subire per troppo tempo ancora le conseguenze di una democrazia perennemente tradita nei suoi connotati costituzionali.

Da Enzo Tortora alla hostess ecco tutti gli sbagli delle toghe. C’è Manolo Zioni, rimasto un anno in cella per colpa di un tatuaggio. Il vero rapinatore confessò ma non venne creduto. Ignazio Manca in carcere oltre un anno per non aver fatto niente, scrive Mau. Gal. su “Il Tempo il 26 febbraio 2015. I "padre" di tutti gli errori giudiziari fu il processo a Enzo Tortora. Un errore che segnerà per sempre la vita del presentatore televisivo e, per alcuni, ne decretò anche la prematura scomparsa. L’elenco dei volti noti finiti nelle maglie dell’ingiustizia all’italiana è lungo. Si va da Gigi Sabbani a Serena Grandi. Se Tortora venne arrestato nell’83, in favore di telecamere nel giugno del ’70 fu la volta di Lelio Luttazzi, ammanettato con Walter Chiari per droga. E l’8 aprile 1994 toccò a Leonardo Vecchiet, medico della Nazionale. Ma ci sono anche tanti sconosciuti, nomi anonimi, che hanno subito il danno nell’indifferenza generale. Il record spetta a Giuseppe Gulotta, che ha scontato 22 anni per un duplice omicidio mai commesso. Anche i casi e le storie più recenti (tutti sono denunciati quotidianamente dal sito specializzato "Errorigiudiziari.com") sono numerosi. E, spesso, fanno venire i brividi. C’è Manolo Zioni, rimasto un anno in cella per colpa di un tatuaggio. Il vero rapinatore confessò quasi subito, ma non venne creduto. Il giovane romano venne, per sua fortuna, scagionato da una perizia su una macchia sulla pelle. Assolto, otterrà un risarcimento di circa 80 mila euro per i suoi 351 giorni dietro le sbarre. Marin H., invece, aveva già scontato un anno per il reato di sfruttamento della prostituzione. Ma questa volta non era recidivo. Lui non c’entrava, anche se le "ragazze" lo accusavano. Alla fine, ha ottenuto 51 mila euro. E che dire dell’ex vicesindaco di Montesilvano Marco Savini, che ha impiegato ben otto anni per vedere riconosciuta la sua estraneità ai fatti. Travolto (è proprio il caso di dirlo) dall’inchiesta "Ciclone" nel 2007, con le pesanti accuse di associazione per delinquere, truffa e corruzione, ha fatto 98 giorni in cella e ora attende un rimborso. La vita di Luigi Vittorio Colitti è stata distrutta quando aveva solo diciotto anni. Fu accusato di aver aiutato il nonno ad uccidere il vicino di casa, un consigliere comunale e provinciale dell’Italia dei Valori. Ci sono voluti due processi e quattordici mesi di prigione prima che venisse giudicato innocente. Ora chiede mezzo milione di euro. Ignazio Manca ha trascorso in carcere oltre un anno. E non aveva fatto niente. Era accusato di riciclaggio e ricettazione e venne condannato in primo grado a quattro anni di reclusione. Il fatto che il fratello si fosse assunto ogni responsabilità, così scagionandolo, non ha sfiorato la mente di chi lo stava giudicando, facendogli sorgere un "ragionevole dubbio". All’epoca dei fatti si trovava in ospedale e solo per questo fu assolto in appello: avrà 150 mila euro. Uno dei casi più eclatanti e strazianti fu quello della hostess Elena Romani, ritenuta l’assassina della figlia Matilda. Una bambina. Mentre la piccola moriva, però, lei non era neanche in casa. Ciò non ha impedito che dovesse affrontare tre gradi di giudizio prima di dimostrare la sua innocenza. Adesso vuole 80 mila euro. Ma il procuratore generale della Corte d’appello non è d’accordo: sostiene che con il suo comportamento abbia giustificato i sospetti su di lei. Pasquale Capriati, accusato di tentata rapina e tentato omicidio, ha dovuto attendere quasi un quarto di secolo: solo dopo 23 anni (6 mesi in cella e due ai domiciliari) si è capito che si trattava di uno sbaglio. Prosciolto, ha chiesto allo Stato 516 mila euro per ingiusta detenzione. E l’avvocato barese Sergio Mannerucci ha dovuto subire una settimana in prigione e due anni di odissea giudiziaria per far capure che non c’entrava niente con la truffa all’Inps di cui era stato accusato. Errori pagati con la privazione della libertà dagli indagati. E con i soldi da noi contribuenti.

Dodici casi di ordinaria ingiustizia. Accuse senza prove, perizie sbagliate, rapine mai fatte, così si può finire in carcere da innocenti, scrive Andrea Ossino su “Il Tempo” il 30 dicembre 2015.

Cinque anni per droga Ma il colpevole non era lui. Per 5 anni hanno creduto fosse un narcotrafficante internazionale. W.U., quarantenne residente a Frosinone, ha visto crescere le sue due gemelline da dietro le sbarre. Non è riuscito a stare vicino alla sua famiglia nei momenti di difficoltà. Tutto questo perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era stato arrestato nel 2010, mentre era all'aeroporto di Capodichino, a Napoli. La Dda partenopea lo aveva fermato insieme ad altre 30 persone perché risultava aver avuto contatti con la fidanzata di un uomo che faceva parte di un'organizzazione criminale dedita al narcotraffico. Il legale dell'uomo, Francesco Galella, è riuscito però a dimostrare che quelle telefonate che provavano come tale «Biggy» cedesse e ricevesse stupefacenti, non erano riconducibili al suo assistito. W.U. è quindi stato assolto e adesso chiede allo stato 500 mila euro. Una cifra che non gli potrà mai risarcire gli anni persi, ma almeno gli consentirà di rifarsi una vita dignitosa.

Accusati senza prove di una truffa milionaria. Accusati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, Pio Maria Deiana, Carlos Luis Delanoe e Carmelo Conte, sono stati assolti dal tribunale di Terni perché il fatto non sussiste. Era il 2005 quando i tre indagati cercarono di acquistare una squadra di calcio, la Ternana, e Villa Palma, un luogo dove poter avviare una fondazione. L'affare non andò in porto perché vennero arrestati prima che la filiale di una banca concedesse loro un prestito di 100 milioni di euro sulla base di una fidejussione di 400 milioni di dollari di una banca brasiliana. Proprio la fidejussione li fece finire sul banco degli imputati, dal quale dovettero assistere alla sfilata dei testimoni eccellenti: dall’ex presidente del Coni di Terni, Massimo Carignani fino all'ex sindaco di Terni, Paolo Raffaelli. Grazie ai teste e alle perizie capaci di dimostrare la veridicità della fidejussione e la limpidezza dell'operazione finanziaria, la corte di Terni li assolse sottolineando che i 3 erano stati reclusi ingiustamente per 6 mesi. Adesso chiedono di essere risarciti.

In cella a 16 anni per una perizia sbagliata. Una perizia sbagliata lo aveva condotto in cella quando aveva 16 anni. Sulla sua testa una pesante accusa: aver ucciso il padre. Per questo motivo Luca Agostino aveva trascorso 113 giorni in carcere. Il padre, Cosimo, era stato ucciso con tre colpi di arma da fuoco il 24 febbraio del 2010. Luca era stato arrestato insieme al fratello maggiore, Vincenzo. La perizia non lasciava spazio a dubbi: sulle mani del ragazzo era presente polvere da sparo. Neanche la testimonianza del fratello reoconfesso, grazie al quale era stata trovata anche l'arma del delitto, aveva convinto gli inquirenti milanesi. Poi i consulenti del giudice e quelli della procura arrivano a una conclusione unanime: «i risultati delle operazioni peritali appaiono compatibili con le dichiarazioni rese dai tre soggetti presenti al momento dell’omicidio». A scagionarlo definitivamente una conversazione in carcere con il fratello: «Vincenzo esprime sorpresa e rabbia verso il fratello quando apprende che Luca potrebbe aver toccato la pistola e risultare perciò positivo alla prova dello Stub». Adesso Luca è stato risarcito: 24mila e 300 euro.

Medico condannato Ma salvò un detenuto. Ha chiesto un milione di euro per ingiusta detenzione. Una cifra a sei zeri che comunque non potrà mai ripagarlo del torto subito. Alfonso Sestito, cardiologo del Policlinico Agostino Gemelli di Roma è stato assolto con formula piena. Secondo gli inquirenti avrebbe scritto una falsa perizia. Un documento che avrebbe consentito la liberazione di un detenuto e che sarebbe stato «richiesto» dall'avvocato Marco Cavaliere, condannato a tre anni di carcere. Così il medico aveva dovuto trascorrere quindici giorni agli arresti domiciliari e, dal febbraio del 2013, era stato costretto a non allontanarsi dalla Capitale. Nel corso del processo, il legale del dottore è riuscito a dimostrare che grazie a quella perizia, l'imputato avrebbe salvato la vita al paziente, il detenuto Carmine Buongiorno. Così l'uomo è stato assolto dall'accusa di falso. Adesso Alfonso Sestito, dopo aver chiesto di essere risarcito, è in attesa del pronunciamento del giudice.

Sei mesi in cella per una rapina mai fatta. Per un anno è stato detenuto ingiustamente, trascorrendo anche 6 mesi all'interno di un penitenziario. Claudio Ribelli, secondo l'accusa, avrebbe rapinato una donna puntando un coltello alla gola del figlio. Magro il bottino ottenuto: 100 euro e una piccola collana d'oro. Il ventottenne sardo era finito nel carcere di Buoncammino, a Cagliari, perché la vittima affermava di averlo riconosciuto. Erano in due i complici che nel 2010 avevano rapinato la donna. Il primo, Pierpaolo Atzeni, è stato condannato a scontare 5 anni e 4 mesi di reclusione. Il presunto complice, Claudio Ribelli, è invece stato assolto e la Corte d'appello di Cagliari ha stabilito che lo Stato gli corrisponda 91.082 euro come riparazione per ingiusta detenzione. Del resto le telecamere di una stazione di servizio che avevano immortalato la scena del crimine avevano ripreso il complice scagionando Ribelli. Adesso l'operaio sardo cerca di rifarsi una vita nonostante abbia trascorso 6 mesi in una cella di 4 metri per 4 priva di acqua calda, riscaldamento e pavimento, insieme ad altri 5 detenuti.

Tentato omicidio. Ma il marito aveva mentito. Anche in Sicilia, nel 2015, è stato riconosciuta una riparazione per ingiusta detenzione. Ad Elena Khalzanova infatti sono stati dati 38mila euro. Era stata assolta due anni fa, nel luglio del 2013, dopo essere stata accusata di aver tentato di uccidere il marito. Ma secondo la corte di Catania, i 18 giorni di galera e i 286 giorni di arresti domiciliari affrontati da Elena, ingegnere russo di 59 anni ed ex direttore di una fabbrica della marina militare sovietica, non valgono neanche 40 mila euro. Elena era stata accusata di voler uccidere il marito – avrebbe tentato di soffocarlo con un cuscino – per impossessarsi dell'eredità. Ma l'unico testimone che la accusava era proprio la vittima. Durante il processo le sue testimonianze sono però state ritenute «incoerenti e contraddittorie e come tali non meritevoli di credito». A causa di presunte violazioni anche il Consolato generale della Federazione russa a Palermo aveva seguito il caso.

Accusato di corruzione Prosciolto dopo 6 anni. Dante Galli al momento del suo arresto lavorava come dirigente dell'ufficio urbanistica di Pietrasanta, in provincia di Lucca. Il 31 gennaio del 2006 però aveva perso tutto. Era stato arrestato insieme al sindaco Massimo Mallegni e a numerosi politici, funzionari e imprenditori. Sulla sua testa pesava un'accusa importante: corruzione. Dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari ha dovuto affrontare un maxi processo nel corso del quale fortunatamente era tornato a piede libero. Il suo incubo è terminato dopo sei anni. Il 2 aprile del 2012. Il tribunale di Firenze non ha avuto dubbi: Galli è stato prosciolto da ogni accusa e deve essere risarcito per tutte quelle settimane trascorse tra il carcere e gli arresti domiciliari. Adesso pronuncia parole felici, si dichiara sereno, ma nessuno potrà mai cancellare l'esperienza vissuta, la perdita della libertà e della dignità professionale. Adesso all'uomo è stato riconosciuta l'ingiusta detenzione. Il politico però non ha fatto sapere a quanto ammonta.

Per i pm era un boss. Scagionato a 70 anni. Il suo nome gli è costato 3 anni e 11 mesi da scontare agli arresti domiciliari. Ma Beniamino Zappia non era il boss della mafia italo-canadese e adesso deve essere risarcito. Una vicenda che inizia il 22 ottobre del 2007, quando la Dia di Roma arresta l'uomo accusandolo di associazione a delinquere di stampo mafioso. Gli inquirenti pensano infatti sia il tramite tra le cosche agrigentine e quelle canadesi legate ai fratelli Rizzuto di Montreal, credano che i boss si siano serviti di lui per infiltrarsi negli affari d'oro relativi alla costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Così lo arrestano insieme ad altre 18 persone. Complice il suo nome e la sua fedina penale non proprio immacolata, Zappia viene recluso a San Vittore, poi a Roma e ancora a Benevento e Secondigliano. Nel 2008, ormai 70enne, viene trasferito in regime di carcere duro. Poi i dubbi, la concessione degli arresti domiciliari nel maggio del 2010 e infine la sentenza. Il 23 novembre del 2012 viene assolto perché il fatto non sussiste.

Un anno di detenzione. Ma i testimoni lo salvano. Una detenzione durata ben 351 giorni e un indennizzo di 100 mila euro, pari a 235 euro al giorno. Manolo Zioni, romano, quando aveva 22 anni era stato accusato di aver messo a segno 3 rapine, tutte compiute tra l'agosto e il settembre del 2010, in zona Pineta Sacchetti, nella Capitale. Nonostante Alessandro Rossi, un rapinatore già in stato di detenzione, avesse ammesso di aver compiuto anche i colpi contestati a Zioni, i giudici non gli credono. Nessun testimone lo riconosce e allora viene disposta una perizia sulle immagini riprese dalle telecamere. Il rapinatore, quello vero, aveva un diamante tatuato sul collo. Manolo Zioni invece solo una macchia sulla pelle. Così il ragazzo viene rimesso in libertà e dopo 20 giorni viene assolto per non aver commesso il fatto. L'imputato viene risarcito, ma non è di certo un santo. Così lo scorso giugno è stato fermato nuovamente. In zona Primavalle avrebbe gambizzato un uomo, un personal trainer di 35 anni con cui aveva un debito in sospeso.

58 euro per ogni giorno incolpato ingiustamente. Lo stato gli ha dato 23 mila euro. Ogni giorno che ha trascorso in carcere vale appena 58 euro. E in cella Alberto Vitulo ha trascorso ben 13 mesi. Spaccio di sostanze stupefacenti. Questa l'accusa sostenuta dagli inquirenti di Cavarzere, in provincia di Venezia. L'uomo, 53 anni, era stato arrestato il 28 ottobre del 2008. L'operazione dei carabinieri aveva sgominato una banda di neofascisti accusati di trafficare stupefacenti. In pratica l'associazione avrebbe portato la cocaina dal Sudamerica per poi rivenderla nelle piazze di spaccio del Veneto. Alberto Vitulo, secondo l'accusa, avrebbe gestito il traffico nell’area del rodigino. Alla fine l'uomo è stato assolto. Misero il risarcimento ottenuto e sentenziato dalla Corte d'appello di Venezia. Ma i giudici hanno motivato l'ingiusta detenzione in carcere spiegando anche che Vitulo, originario di Cavarzere, avrebbe contribuito colposamente all’emissione e al prolungamento della misura cautelare a suo carico, omettendo di fornire agli inquirenti alcun chiarimento in merito al comportamento che gli veniva contestato.

Vicesindaco «truffatore». Ma era una menzogna. Un calvario giudiziario durato ben 8 anni. L'avvocato Marco Salvini, quando aveva solo 32 anni, aveva dovuto trascorrere anche 98 giorni in regime di arresti domiciliari. La vicenda che risale al 2007 lo ha visto accusato di associazione per delinquere, truffa e corruzione. Adesso chiede un risarcimento per il torto subito, per la libertà privata, per la reputazione persa in un paese, Montesilvano (provincia di Pescara), dove le voci corrono velocemente, specialmente se un processo dura più di 8 anni, soprattutto se l'avvocato Marco Salvini, al momento dell'arresto, era anche il vicesindaco di Montesilvano. La sua vita è cambiata radicalmente prima di essere assolto, prima di uscire a testa alta dall'inchiesta Ciclone, quella che nel 2007 lo ha condotto in braccio alla giustizia. Ora crede ancora nel sistema giudiziario. Un sistema capace anche di assolvere e di risarcire per il danno subito. Adesso l'uomo attende le motivazioni della sentenza e si appresta a chiedere un corposo risarcimento.

In galera 156 giorni per un errore di calcolo. Quella lunga fedina penale non gli è stata certo d'aiuto. Luigi Aiello in ogni caso è stato detenuto 156 giorni di troppo, per un errore di calcolo. Adesso è stato risarcito. Dall'errore commesso dai giudici ne era scaturito anche un secondo, questa volta commesso da Aiello. L'uomo infatti aveva una complessa vicenda giudiziaria che grazie alle leggi, e ai numerosi soggiorni in carcere, lo aveva costretto a scontare gli ultimi 5 anni e 8 mesi agli arresti domiciliari. Lui però, durante l'ultimo periodo, era andato in Spagna. Quando era tornato, dopo alcuni mesi, era dunque stato arrestato e condannato a un ulteriore anno di reclusione. Mentre stava scontando i suoi giorni in galera i suoi legali si erano accorti dell'errore. Conti alla mano, la Corte d'appello di Trento aveva accolto la sua richiesta di ingiusta detenzione: 40mila euro. Adesso l'uomo sta affrontando gli altri processi a suo carico e presto saprà se gli verrà riconosciuta una seconda ingiusta detenzione.   

Dal 2000 l'Associazione Culturale "ARTICOLO 643" tutela le vittime di "errori giudiziari, ingiusta detenzione e lungaggini processuali". Sono un gruppo di professionisti (avvocati, docenti universitari, etc.) che si dedicano assiduamente alle delicate tematiche della Giustizia. Da anni mettiamo a disposizione dei cittadini competenze specifiche nei delicati istituti della revisione processuale e della riparazione per ingiusta detenzione. Il loro portale è divenuto un efficace veicolo di informazione per gli addetti ai lavori e un punto di riferimento per le centinaia di persone che ogni anno sono vittime di errore giudiziario o di ingiusta detenzione.

Altro esempio di spendita di passione a favore delle vittime dell’ingiustizia terrena è il lavoro di due giornalisti validi e coraggiosi che gestiscono il sito web ErroriGiudiziari.com che al 26 ottobre 2015 contava su 658 casi presenti nel loro archivio. Questo sito nasce dall’idea di due giornalisti che da anni si occupano di errori giudiziari e ingiusta detenzione. Nel 1996, dopo aver realizzato il capitolo “Giustizia-Ingiustizia” per il Rapporto Italia Eurispes, pubblicano il libro “Cento volte ingiustizia – Innocenti in manette”, una raccolta di errori giudiziari dal Dopoguerra ai giorni nostri. Da allora hanno continuato a raccogliere e archiviare casi e storie di vittime di errori della giustizia, che ora danno vita a Errorigiudiziari.com, il primo archivio italiano sugli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni.

Benedetto Lattanzi (Roma, 1966), giornalista, lavora per un’agenzia di stampa nazionale.

Valentino Maimone (Roma, 1966), giornalista, scrive di attualità e salute per diversi periodici nazionali e per il web.

Legge Pinto, stretta sui risarcimenti. Rischiano anche quelli per ingiusta detenzione? Scrivono il 16 settembre 2015: Giudici, la carriera prima di tutto. Il direttore del quotidiano romano “Il Tempo”, Gian Marco Chiocci, interviene con un editoriale sul tema della riforma della giustizia, degli errori giudiziari, dell’ingiusta detenzione e della responsabilità dei magistrati. A poca distanza dalla pubblicazione di dati aggiornati sugli innocenti in carcere nel nostro Paese, le sue parole non sono affatto tenere: il sottosegretario alla Giustizia, Enrico Costa, sta facendo un’opera meritoria di trasparenza nel tentativo di cambiare le cose. Ma le prospettive, stando al ragionamento di Chiocci, non sono affatto rosee: le riforme possibili, viste le resistenze della categoria dei magistrati, sono in realtà decisamente improbabili. Esattamente due anni fa “Il Tempo” mandò in stampa un’inchiesta devastante sulle ingiuste detenzioni, argomento tornato oggi di moda per il tentativo del governo di farla pagare a chi sbaglia, cioè ai magistrati eventualmente colpevoli d’aver mandato in galera un innocente. A scanso di equivoci e pie illusioni diciamo subito che nonostante Enzo Tortora, il referendum dei radicali, i mille tentativi di provare a regolamentare un’anomalia solo italiana, quest’ultimo esperimento, lodevole nelle intenzioni e rivoluzionario sulla carta, certamente non vedrà la luce. Il sottosegretario alla giustizia Costa, nel rendere noti i dati della vergogna (tra errori giudiziari e ingiuste detenzioni in 22mila sono stati risarciti, oltre 600 i milioni di euro che lo Stato ha tirato fuori come indennizzo) ha sollecitato l’applicazione della «responsabilità dei magistrati» attraverso l’avvio, in automatico, ai titolari dell’azione disciplinare, dell’ordinanza che accoglie l’istanza di riparazione per il carcere ingiusto. In altre parole, nelle intenzioni del sottosegretario, a differenza del passato ove non vi era alcun obbligo di trasmissione, una volta ottenuto l’indennizzo, il fascicolo verrà preso, impacchettato e girato ai titolari dell’azione disciplinare che valuteranno se e come comportarsi con il magistrato che ha trattato il caso in questione. Fino ad oggi su 22 mila errori giudiziari accertati, hanno pagato solo 8 giudici. Con questo sistema in tanti potrebbero rischiare inciampi di carriera. Ecco perché la rivoluzione sognata da Costa non si farà mai.

Tra i centinaia di casi, ne raccontiamo qualcuno....

Addio a Mario Conte, magistrato vittima della malagiustizia. Gli errori giudiziari sono qualcosa che può capitare a tutti. Finire in carcere da innocenti, vivere un periodo più o meno lungo di ingiusta detenzione, è molto meno raro di quello che si possa pensare. Un fenomeno che in Italia è decisamente sottovalutato perché – numeri alla mano – costituisce in realtà una vera emergenza sociale: come altro definireste i circa mille casi di riparazione per ingiusta detenzione che ogni anno in media si verificano nel nostro Paese, da più di vent’anni a questa parte? La storia del magistrato Mario Conte, una precocissima esperienza a Palermo in prima linea nell’antimafia seguita da una carriera come pm a Bergamo, sotto questo aspetto è illuminante. Finì trascinato in un’accusa infamante, per un giudice dalla condotta cristallina come lui, per opera di un pentito. Travolto da capi di imputazione pesantissimi. Sottoposto a un’odissea giudiziaria a cui, nel tempo, si aggiunse un macigno ancora più colossale: una malattia terribile come il mieloma multiplo. Difficile dire se provocata, magari indirettamente, dal calvario personale cui già era stato sottoposto dal momento dell’incriminazione infondata. Ma destinata comunque a cambiargli la vita per sempre. Mario Conte ha impiegato 18 anni per dimostrare la sua totale estraneità a ogni accusa. Ha vinto contro la malagiustizia, ma ha dovuto cedere a qualcosa contro cui, purtroppo, non poteva che soccombere. Di lui ci resta un libro testamento dal titolo chiaro ed efficace come pochi altri. Perfetto per ricordare a tutti che finire nelle maglie dell’errore giudiziario può accadere a chiunque: a prescindere dalla condizione sociale, dalla provenienza, dalla collocazione geografica. E quando la giustizia sbaglia, sono dolori veri. Raccontare la sua storia in giro per l’Italia sarebbe stato, per quanto possibile, un piccolissimo risarcimento alle vicende nelle quali è stato suo malgrado coinvolto. Ma Mario Conte non ce l’ha fatta: è spirato pochi giorni prima che il suo libro «E se fossi tu l’imputato? Storia di un magistrato in attesa di giustizia» (Guerini e Associati Editore) potesse essere presentato nel paese che aveva dato le origini alla sua famiglia, Villanova del Battista, al quale era molto legato. Quello che ha riguardato Conte può essere catalogato come mero errore giudiziario, uno di quelli che in Italia, purtroppo, non sono così rari? Napoletano di nascita, ma irpino di Villanova per origini familiari, Conte era entrato in magistratura a soli 27 anni: da allora, a Bergamo per anni da pubblico ministero presso la Procura della Repubblica. «E se fossi tu l’imputato?» è il suo libro-testamento che invita a fuggire, a rigettare il concetto di giustizia come mero e vuoto esercizio del potere. Un titolo che è una domanda secca a chi legge, per far intendere che l’errore può colpire chiunque: anche magistrati come lui. Perché gli ultimi 18 anni della vita di Conte sono un vero e proprio calvario. Prima, nel 1997, viene accusato da un pentito di essere a capo di una serie di presunte operazioni illecitamente gestite dai militari del Ros di Bergamo e di Roma, che avrebbero costituito una struttura deviata per strumentalizzare le norme sulla consegna controllata di stupefacenti, al fine di conseguire brillanti operazioni. Nel 2003, Conte riceve il primo avviso di garanzia. Le accuse, gravissime, gli piombano addosso come un macigno: associazione a delinquere, traffico di stupefacenti, falso, peculato. «Io sono un pm, non un narcos», reagisce d’istinto. Normale, per chi aveva trascorso quattro anni, dal 1992 al 1996, da applicato presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Là dove la mafia la si combatte giorno dopo giorno, minuto dopo minuto. Al dramma giudiziario si aggiunge quello strettamente personale, che alcuni neurochirurghi ritengono legato al primo a filo doppio: nel 2006 gli viene diagnosticato un mieloma multiplo. Conte non si arrende e alla battaglia per la sua innocenza affianca quella per la guarigione. Battaglie che terminano nello stesso periodo, seppur con esiti drammaticamente opposti: dopo aver rinunciato alla prescrizione, nel luglio 2014 viene assolto con formula piena dalla Corte d’Appello di Milano. Il 2 ottobre scorso, invece, deve arrendersi al male che in 9 anni lo ha divorato. Dopo i funerali, tenuti a Bergamo, oggi, con una celebrazione alle 17 presso la Chiesa di Santa Maria Assunta, lo ricorderà anche Villanova del Battista. Oltre all’insegnamento di una vita integerrima, Mario Conte lascia un libro che è anche un testamento, una visione del tanto discusso e discutibile sistema giuridico italiano maturata attraverso la propria professione e la vicenda che lo ha coinvolto. Un sistema che egli conosce benissimo ma del quale rimane vittima. Eppure, basterebbero «piccoli accorgimenti: bisogna recuperare – scrive Conte – le distinzioni dei ruoli e la cultura della prova, oggi spesso soppiantata da una visione della giustizia non già come servizio nei confronti del cittadino, ma come esercizio di un potere che funge da ammortizzatore sociale, scadendo così in un’attività di supplenza di altri poteri dello Stato incapaci di esprimere il proprio ruolo». (fonte: Domenico Bonaventura, Il Mattino, 10 ottobre 2015)

Storia di Mario Conte, magistrato rovinato dalla “giustizia”. Un processo all’ingiusto processo, scrive il 28 Maggio Francesco Amicone su “Tempi”. Messo alla sbarra per vent’anni secondo le accuse (inattendibili) di un criminale senza scrupoli, uscito assolto ma distrutto da due gradi di giudizio, l’ex pm ha deciso di scrivere un libro per legittima difesa. A partire da oggi, giovedì 28 maggio, sarà nelle librerie “E se fossi tu l’imputato?” (Guerini e Associati, 143 pagine, 15,50 euro), il libro in cui l’ex pm di Bergamo Mario Conte “processa” l’ingiusto processo subìto per vent’anni dopo essere stato coinvolto nella rumorosa indagine sul generale del Ros Giampaolo Ganzer. Pubblichiamo l’articolo tratto dal numero di Tempi in edicola che racconta la sua storia. L’Italia non sarebbe abbonata alle sentenze europee per violazione dei diritti umani e la giustizia avrebbe risolto gran parte dei suoi problemi, se fosse svelta come lo era Biagio Rotondo a uscire di prigione. Rotondo era un criminale soprannominato “il Rosso”. Entrava in prigione con accuse che avrebbero sistemato chiunque per anni e riusciva ottenere gli arresti domiciliari dopo qualche mese. Spaccio, rapine, furti. La sua fedina penale era costellata di crimini, anche violenti, ma riusciva a cavarsela con le parole. Mandava a chiamare il pm di turno e in cambio di informazioni per lui si aprivano le porte del carcere. Per i suoi accusati, invece, ad aprirsi era una lunga stagione di guai. Dalle parole di Rotondo nasce l’inchiesta che dal 1997 ha coinvolto alcuni carabinieri della sezione anticrimine di Bergamo, i vertici dei carabinieri e un magistrato, per associazione a delinquere e traffico di stupefacenti. Rotondo non c’è più, si è impiccato in carcere nel 2007, ma il processo per alcuni imputati, in particolare l’ex comandante del Ros Giampaolo Ganzer, è ancora in corso. La durata quasi ventennale del processo è solo un particolare dell’esperienza da imputato vissuta da Mario Conte. Per trent’anni pm a Bergamo e oggi scrittore per legittima difesa, dal 1997 al 2014 Conte ha calcato aule di tribunali e studi di avvocati replicando alle accuse di Rotondo, della procura di Brescia e di Milano, dalle quali è stato completamente scagionato lo scorso anno. Dichiarato due volte innocente, ha preso la penna e ripercorso la sua vicenda giudiziaria raccontando nel dettaglio gli errori, le discrasie del sistema e alcune sviste dei pm che hanno condotto l’inchiesta. E se fossi tu l’imputato? è il titolo del libro di Conte, editato da Guerini. La vicenda ha inizio nel 1997. A giugno di quell’anno, Rotondo viene arrestato per tentato omicidio, rapina, illecita detenzione e porto di armi dalla questura di Brescia. Le porte del carcere si sarebbero chiuse per almeno un decennio se non avesse aperto bocca. Non bastava il mea culpa, c’era bisogno di una storia. Il Rosso l’aveva e la offrì alla procura di Brescia. Il pm Fabio Salamone decise di ascoltarla. Rotondo parlò della sua collaborazione con i carabinieri di Bergamo, due anni come informatore fra il 1992 e il 1994, soffermandosi su alcune irregolarità compiute dai militari e spiegando, dichiarazione dopo dichiarazione, in cosa consistesse il suo lavoro. Il compito affidatogli da “il Biondo”, “il Ciccio” e altri militari del Ros infiltrati nelle organizzazioni del narcotraffico, sarebbe stato quello di trovare criminali e istigarli ad acquistare la droga da loro importata tramite alcune fonti. In Italia, la legge sulle attività sotto copertura vieta la provocazione, ma stando a Rotondo, era proprio quello che facevano lui e gli altri militari coinvolti: avrebbero imbastito un traffico di stupefacenti internazionale con la protezione di un magistrato di Bergamo, Mario Conte, che firmava gli atti di indagine per ottenere successo, pubblicità e fare carriera. Il “sistema” sarà poi definito dai magistrati e dai giornalisti “metodo Ganzer”, generale dei carabinieri allora in ascesa e oggi in pensione, con una sentenza della Cassazione ancora pendente. Salamone, colpito dalle confessioni di Rotondo, fece parlare il pregiudicato per altri due anni. L’inchiesta, per quanto delicata, approdò davanti a un giudice soltanto nel 2003, a Milano. Nel frattempo Rotondo non smise di delinquere e fu nuovamente arrestato nel 2007, dopo aver violato più volte il programma di protezione testimoni che aveva conquistato con le sue dichiarazioni sul Ros. Sulla base delle parole di Rotondo è stato costruito un processo in cui Conte viene accusato di essere a capo del “sistema” con cui gli agenti del Ros, sotto la sua regia, avrebbero violato la legge sulle “consegne controllate” di droga, usando come burattini il Rosso e narcotrafficanti del calibro di Otoya Tobon, soprannominato “El drago” (un colombiano ai vertici del cartello di Calì e in seguito collaboratore della Dea americana). Il problema, afferma l’ex pm di Bergamo, non è avere cercato riscontro alle parole del pentito, ma il metodo seguito per verificarle. Le dichiarazioni di Rotondo difficilmente potevano essere ritenute attendibili, nel suo caso. Esaminato dalla difesa o dalla accusa, Rotondo più volte aveva cambiato versione dei fatti. Ai giudici che hanno assolto Conte è parso evidente dalle stesse dichiarazioni del pentito, il quale nel 1997 affermava «io non so se il dottor Conte sapesse come le operazioni venivano gestite», per poi cambiare parere dopo quattro anni di collaborazione: «Il dottor Conte certamente sapeva che lo stupefacente era nelle mani del Ros e che io cercavo acquirenti». Ma non si fermano qui le perplessità sulle dichiarazioni di Rotondo, perché il consulente di Conte, analizzando i nastri delle registrazioni del 1997 e del 1998, vi riscontrò molte anomalie. Ad esempio numerose interruzioni – in alcuni casi ogni sei minuti, in un caso addirittura ogni cinquanta secondi – e a volte sovra-incisioni che avrebbero dovuto rendere quelle registrazioni inutilizzabili. Il metodo operativo che avrebbe seguito Conte, usare le fonti dei carabinieri come Rotondo o “El drago” per imbastire traffici di droga direttamente dagli uffici della procura, sarebbe poi stato confermato da un appunto (senza data e non protocollato) di un maresciallo dei carabinieri. Si tratta di un resoconto di una riunione del 1991 fra il pm Conte e sottufficiali del Ros e del Road. In quell’occasione, stando all’appunto inoltrato da un maresciallo (del Road) ai superiori di stanza a Roma, Conte avrebbe teorizzato come infrangere la legge per incastrare alcuni narcotrafficanti. Nella riunione si era parlato di un’operazione sotto copertura nel quadro dell’allora nuova legge sugli agenti “undercovered”. L’appunto del carabiniere (deceduto prima di testimoniare), stando all’accusa confermava le parole di Rotondo. Secondo i giudici, però, non poteva considerarsi fedele a quanto detto da Conte. Ciò è avvalorato dal fatto che nessun altro ufficiale di polizia giudiziaria aveva pensato di informare i superiori di quel “metodo” di condurre le operazioni anti-droga. Ma ciò che ha stupito Conte è il fatto che sia stato proprio lui a dovere chiamare a testimoniare i presenti alla riunione per dimostrare che quell’appunto non poteva corrispondere a un suo discorso. Anche in questo caso, secondo il magistrato di Bergamo, si è disatteso un principio cardine del sistema processuale italiano. Il pm, infatti, non è un avvocato dell’accusa che si limita a cercare conferme alla sua teoria. Deve applicare la legge senza ignorare gli indizi a favore dell’imputato. Un modo di procedere diverso porta alla «inversione dell’onere della prova», dove è un presunto colpevole a dovere dimostrare la falsità o la verità di una teoria, quando questo compito spetterebbe ai pm. Nel processo Conte ci sono stati 43 depositi di atti relativi a indagini integrative in un arco temporale che va dal 2005 al 2012, con una media di un deposito di migliaia di pagine ogni due mesi. Il fascicolo del solo dibattimento è composto da circa 95 mila file. Migliaia di pagine, decine di faldoni da studiare, e tempi che si allungano portano inoltre a errori e confusioni negli stessi addetti ai lavori. È quasi inevitabile. Quando il procuratore generale fece appello contro la sentenza di primo grado che aveva assolto Conte, avrebbe dovuto aver studiato tutti gli atti nei quarantacinque giorni a disposizione per legge. Il che avrebbe implicato una velocità di lettura media di circa 2 mila pagine al giorno e un impegno giornaliero di circa 17 ore lavorative. 24 ore su 24, se si conta anche la redazione dei motivi di appello, una volta letti gli atti. Umanamente impossibile. Nella doppia veste di ex imputato e magistrato (favorevole alla responsabilità civile), Conte si chiede come può funzionare una giustizia che non risponde dei propri errori. Gli abbagli che sono spesso favoriti da una proliferazione di atti, mettono in difficoltà sia l’accusa sia la difesa. Conte, a riguardo, cita un esempio lampante. Nei suoi capi d’accusa era stata inserita un’operazione della procura di Bologna, condotta da un altro magistrato. L’errore all’apparenza banale fu fatto presente al pm che gestiva l’inchiesta nella seconda fase (udienza preliminare) e sembrò essere accolto. Ma fu dimenticato nella richiesta di rinvio a giudizio. Questo sbaglio, spiega l’ex pm Conte, ha comportato una evitabile perdita di tempo. Si è dovuto chiamare il magistrato di Bologna e farlo venire a testimoniare a Milano per provare che quell’operazione non aveva nulla a che fare con l’imputato. Nelle requisitorie dei pm si assiste, racconta Conte, a una replica delle inesattezze presenti negli atti. Dalle date alle interpretazioni, ovunque può nascondersi una svista. Emergono anche aspetti non chiari sul modo di seguire le regole da parte della stessa autorità giudiziaria. Riguardo all’uso delle intercettazioni, ad esempio. Conte spiega come nel suo processo dovessero essere acquisite alcune conversazioni registrate dalla procura di Roma ma che ciò fu impossibile. Il pm, nel dibattimento, informò le parti dell’impossibilità di acquisirle per «motivi tecnici». Si trattava, disse l’accusa, di «conversazioni registrate dalla Guardia di Finanza su delle cassette purtroppo oggi irrecuperabili». Conte volle controllare e scoprì un’altra verità. I finanzieri avevano scritto al pm milanese: «È d’obbligo precisare che l’operazione di registrazione venne effettuata per soli scopi operativi. Non essendoci alcuna autorizzazione formale dell’autorità giudiziaria». «Come già specificato, la registrazione non era stata oggetto di alcuna autorizzazione del pm (di Roma, ndr), il quale, verbalmente, al momento del coordinamento con gli operanti circa le attività da esperire, aveva con gli stessi convenuto di effettuare tale registrazione». Stando alle parole dei finanzieri, quindi, era stata eseguita un’intercettazione abusiva. Ecco perché non potevano essere acquisite. Si conclude con una seconda assoluzione in appello, senza strette di mano o risarcimenti, la vicenda di Conte. La carriera dell’ex pm, oggi giudice civile, è ancora bloccata dal Consiglio superiore della magistratura, che a un anno dall’assoluzione chiede a Conte di rispondere della richiesta di rinvio a giudizio di dieci anni fa, incurante dell’innocenza stabilita dai tribunali. E se fossi tu l’imputato? è un “processo” a un processo. Un libro che dimostra nel dettaglio come la malagiustizia può nascere quando chi dovrebbe applicare le leggi si dimentica dei princìpi che stanno alla base del giusto processo, dalla presunzione d’innocenza all’onere della prova.

E se fossi tu l’imputato? Il caso del magistrato Mario Conte, scrive l'11 Giugno 2015 Luigi Amicone su "Tempi". La lettera del direttore di Tempi al Foglio a proposito del libro del «pm indagato, triturato e assolto dopo vent’anni». Sul Foglio di oggi appare una lettera del direttore di Tempi Luigi Amicone e relativa risposta di Claudio Cerasa. Le riproponiamo di seguito. Al direttore – C’è un volumetto appena uscito in libreria per i tipi della Guerini&Associati (E se fossi tu l’imputato?) che ben si potrebbe definire una esemplificazione della testimonianza di Piero Tony, con esposizione fin troppo minuziosa, tecnica e dettagliata di come si costruisce un “mostro” attraverso un lavorìo perfettamente rispettoso di tutte le regole del circo mediatico-giudiziario ma anche totalmente avulso dai dati, prove, riscontri fattuali. Il caso del magistrato (anch’egli appartenente a Md) Mario Conte è interessante. Dimostra che quando l’accusa si trasforma in epopea narrata dalla grancassa mediatico-scandalistica, solo un pm può avere gli strumenti per difendersi da altri pm. Oggi, dopo vent’anni di processi e il manifestarsi di un cancro come quello che uccise Tortora, Mario Conte è un magistrato a cui è stato restituito l’onore umano e professionale, completamente prosciolto dall’accusa di essere stato il regista di una organizzazione criminale strutturata in cellula deviata dei Ros che avrebbe trafficato e spacciato per “brillanti operazioni di polizia” il puro e semplice traffico e spaccio di stupefacenti in tutta Italia. Ma in tutta Italia però – ci conferma l’esperienza di questo magistrato democratico – un pm che rispetti le leggi dello scandalismo mediatico può violare le leggi, farla franca e uccidere per via giudiziaria anche un collega, se necessario. Come? Cito ad esempio un episodio riferito nel libro. «Dagli atti risulta che il Goa (Gruppo operativo antidroga della Guardia di Finanza ndr) aveva inviato il 19 maggio 2004 al pm di Milano, in risposta alla sua richiesta di acquisizione dei nastri delle registrazioni, una nota18 nella quale c’era scritto qualcosa di ben diverso da quanto dichiarato dalla pubblica accusa: “È d’obbligo precisare – si legge – che l’operazione di registrazione venne effettuata per soli scopi operativi. Non essendoci alcuna autorizzazione formale dell’A.G. … Come già specificato, la registrazione non era stata oggetto di alcuna autorizzazione del pm [di Roma], il quale, verbalmente, al momento del coordinamento con gli operanti circa le attività da esperire, aveva con gli stessi convenuto di effettuare tale registrazione”. Non vi era alcun provvedimento di autorizzazione per quelle intercettazioni. Era stata eseguita un’intercettazione abusiva! Fa, poi, quasi sorridere, se come al solito non si giocasse con il destino delle persone, il fatto che la Guardia di Finanza parli di intercettazioni “per soli scopi operativi”, categoria che sicuramente mi manca non trovando un riscontro normativo. Il pm di Milano, in conclusione, apprende di un’intercettazione abusiva, ma non prende nessuna iniziativa a riguardo».

Il problema definitivo è che nessun cittadino italiano può mettersi al posto di Conte. Pm indagato, triturato e assolto dopo vent’anni. Perché nessun cittadino italiano può permettersi collegi di difesa come quelli di Andreotti o di Berlusconi. Oppure, in alternativa, difendersi come si è difeso il pm Conte, sapendo letteralmente dove “mettere le mani” (munito per altro di un programmino informatico capace di vivisezionare e individuare gli elementi cruciali nella montagna di atti processuali, nel caso: 100 mila file). Perciò, per rispondere all’interrogativo del libro, se fossi stato tu l’imputato Mario, ma Laqualunque e non un Conte pm, avresti potuto semplicemente rassegnarti. Cominciare a scrivere le tue memorie dal carcere e imparare a morire di cancro. Luigi Amicone. Grazie della lettera. Sul tema garantismo e sulla lotta dura e pura e senza paura alla repubblica delle manette le confesso però che la partita più appassionante in questi giorni si gioca fuori da Roma. Si gioca a Venezia, secondo me. Dove vincerà l’ex magistrato Felice Casson, tanti auguri sinceri, ma se per una qualsiasi ragione dovesse vincere il suo rivale, Luigi Brugnaro, siamo pronti a farci un bel selfie con una buona bottiglia di champagne. Cin cin.

Beniamino Zappia. Tre anni di ingiusta detenzione per mafia. Ma era solo un’omonimia. Per essere un esponente di spicco della mafia può attendersi, gli era anche andata bene: 3 anni di carcere più 11 mesi agli arresti domiciliari. Il fatto è, però, che Beniamino Zappia non era affatto quello che gli inquirenti pensavano che fosse: non era un boss della mafia italo-canadese. I giudici se ne sono accorti in ritardo, assolvendolo con formula piena. E il suo legale, l’avvocato Luis Eduardo Vaghi, ha subito pensato di presentare un’istanza di riparazione per ingiusta detenzione. Ma procediamo per gradi. Come e quando comincia questa storia? Tutto inizia il 22 ottobre 2007, con il blitz della Dia di Roma ribattezzato “Orso Bruno”. Beniamino Gioiello Zappia – questo il nome del protagonista della vicenda – viene arrestato con un’accusa pesantissima: associazione a delinquere di stampo mafioso. I magistrati della Capitale lo indicano come l’uomo di collegamento, a Milano, tra le cosche agrigentine e quelle italo-canadesi legate al clan dei fratelli Rizzuto di Montreal. Nel capo di imputazione, lo descrivono come “personaggio storicamente legato all’associazione mafiosa Rizzuto”, di cui “è da sempre suo referente in Italia e in particolare a Milano ed in Svizzera”. Un uomo, insomma, “dedito alle più disparate attività delinquenziali” di cui, sempre stando all’ipotesi accusatoria, i Rizzuto si sarebbero serviti per infiltrarsi negli appalti milionari per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Insieme a lui, che ha ammesso davanti ai magistrati di conoscere alcuni membri della famiglia Rizzuto solo “per nome”, finiscono dietro le sbarre altri 18 presunti esponenti del clan italo-canadese dei Rizzuto. Diciamolo subito: Beniamino Zappia non è uno stinco di santo, la sua fedina penale non è immacolata. Ma di qui ad accusarlo di essere un boss ce ne corre. Il giorno del suo arresto viene portato nel carcere milanese di San Vittore. Poi viene trasferito a Roma e quindi spostato ancora, prima a Benevento e poi a Secondigliano. Poco più di un anno dopo essere stato arrestato, Zappia vive il suo periodo più difficile. Da fine novembre 2008, a 70 anni compiuti (Zappia è del 1938) scatta per lui la sorveglianza speciale: è il cosiddetto regime di “carcere duro”, previsto dal 41 bis per i mafiosi. Un incubo che finisce il 25 maggio 2010, con la concessione degli arresti domiciliari. La fine del calvario giudiziario arriva il 23 novembre 2012, a 5 anni, un mese e un giorno dall’operazione che lo aveva portato in carcere. La sentenza di assoluzione è di totale proscioglimento: “perché il fatto non sussiste”. Una volta tornato libero il suo assistito, l’avvocato Vaghi decide di andare a fondo: è convinto che gli inquirenti romani abbiano fatto un errore macroscopico: uno scambio di persona dovuto a un’omonimia. Ha studiato con la massima cura tutte le carte processuali. Nel capo di imputazione dell’operazione “Orso Bruno”, si legge che “Robert Papalia (presunto boss delle cosche di Montereal) ha coadiuvato Giuseppe Zappia nell’attività finalizzata all’aggiudicazione dell’appalto per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina”. Si parla di Giuseppe, non Beniamino, Zappia. Ma le anomalie non finiscono qui. Un’altra anomalia emerge dalle motivazioni della sentenza dove è citata la testimonianza del vicequestore Alessandro Mosca, ufficiale della Dia di Roma che ha coordinato l’inchiesta Orso Bruno. Nel corso del dibattimento, il funzionario ha dichiarato che “l’indagine è nata nel 2003 presso la procura della Repubblica di Roma a seguito di una segnalazione pervenuta alla Dia della Polizia Canadese, nella quale si segnalava la presenza in Roma di un personaggio, Giuseppe Zappia, soprannominato in Canada il ‘Commendatore’, che veniva indicato come fortemente legato ad un’organizzazione criminale che operava a Montreal, denominata famiglia Rizzuto”. Sempre in quel’occasione, si legge nel provvedimento, “il vice questore Mosca ha chiarito che Giuseppe Zappia è persona diversa dall’imputato medesimo, né suo parente”. La stessa tesi viene sostenuta nel corso del processo da Lorie Mcdougall, un ufficiale della polizia canadese. È lo stesso investigatore che ha seguito le indagini sulla famiglia di Vito Rizzuto dal settembre 2002 e che ha affermato di essere consapevole che l’imputato era persona diversa da tale Giuseppe Zappia, soggetto questo coinvolto nei traffici e nei rapporti con il Rizzuto in particolare nella procedura per l’appalto per la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. Per l’avvocato Vaghi non ci sono dubbi: Beniamino Zappia è stato vittima di “un caso di mera omonimia”. Quel che è peggio, secondo il legale, è che la difesa ha tentato in ogni modo di portare alla luce l’equivoco, ma tutti gli elementi raccolti “sono stati sistematicamente ignorati, sia in sede di indagine che in sede di udienza preliminare”. Lo dimostra proprio l’esame dell’ufficiale Mcdougall, citato come testimone dalla Procura, che durante la fase dibattimentale “rammostrava al giudicante l’errore in cui era corsa la pubblica accusa. E a questa stessa conclusione si poteva arrivare con maggiore tempestività”. (fonte: Askanews, 7 marzo 2015).

Marco Savini, otto anni per dimostrare di essere innocente. “Assolto perché il fatto non sussiste”: una formula di cui l’avvocato Marco Savini conosce perfettamente il valore e non soltanto per via della sua professione. È grazie a questa frase, pronunciata per tutti i capi di imputazione, infatti, che l’ex vicesindaco di Montesilvano (in provincia di Pescara) è uscito a testa alta dall’inchiesta Ciclone, che a luglio 2007 cambiò per sempre la sua vita costringendolo, all’età di 32 anni, a 98 giorni di arresti domiciliari. Un’avventura giudiziaria lunga otto anni che Savini ora ha deciso di portare fino in fondo attraverso una richiesta di un risarcimento danni in grado, se non di cancellare la sofferenza di essere stato accusato ingiustamente di una lunga serie di reati che vanno dall’associazione a delinquere, al falso, dalla truffa alla corruzione, almeno di poter dimostrare che la giustizia ha compiuto correttamente tutto il suo percorso. “Ho sempre avuto fiducia nel sistema giudiziario”, rivela Savini, “e pur ritenendomi una persona assolutamente estranea a tutti i capi di imputazione, in maniera rispettosa e silente, mi sono fatto i miei processi e mi sono difeso. Ma proprio perché credo molto nel sistema, adesso il sistema prevede che chi come me ha subito ingiuste detenzioni o, come nel mio caso, un danno alla propria immagine, possa ottenere un risarcimento. Non voglio gridare al complotto e non lo faccio in un’ottica di rivincita, ma è solo un modo per compensare le opportunità personali perse e che credo siano state perdute anche dalla città. E non perché Marco Savini era il più bravo di tutti”, chiarisce l’ex vicesindaco, “ma perché erano stati attivati dei processi amministrativi che poi sono stati tranciati e messi nel tritacarne”. A detta di Savini, l’inchiesta Ciclone ha creato dei grandi danni soprattutto alla città. “In questi anni, non si è lavorato per l’affermazione di un nuovo progetto”, prosegue, “ma soltanto per differenziarsi da un passato con il quale non si è mai fatto il conto. L’inchiesta ha rappresentato un alibi per molti, un’opportunità per altri, ma il dato oggettivo è che Montesilvano in 8 anni ha perso tante occasioni e soprattutto la reputazione. Mi auguro che la politica montesilvanese di centrosinistra recuperi il tempo perso”. Per Savini è importante, però, non commettere gli stessi errori del passato. “L’errore finora è stato consentire agli interessi privati di entrare nelle istituzioni”, prosegue, «sia ben chiaro in maniera legittima attraverso le elezioni. Ma dobbiamo fare in modo che i partiti fungano da filtro. I cittadini devono poter scegliere tra persone lontane da interessi economici”. L’ex vicesindaco, già assessore nella giunta Gallerati, torna a quel 2007 e alla domanda se «rifarebbe quanto fatto finora» non ha dubbi: «È facile con il senno di poi dire non rifarei il vicesindaco, ma forse non è neanche vero questo. Dopotutto, senza questa esperienza non sarei quello che sono oggi ed è stata utile anche per la mia professione di avvocato, perché ha confermato la mia fiducia nei confronti della giustizia. Certo ho commesso degli errori, ma non mi sono mai nacchiato di reati, e questo è un dato oggettivo”. Sull’importo della richiesta di risarcimento danni, attualmente al vaglio dei suoi colleghi avvocati, spiega: “La richiesta non è stata ancora quantificata, aspettiamo prima le motivazioni della sentenza”. (fonte: Antonella Luccitti, il Centro, 2 gennaio 2015)

Oscar Milanetto, niente scommesse: la sua fu ingiusta detenzione. Coinvolto in una brutta storia legata al calcioscommesse, ne è uscito fuori completamente scagionato. Ma sull’ingiusta detenzione subita, ben 17 giorni in carcere da innocente con la pesante accusa di associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva, Omar Milanetto (ex calciatore e oggi dirigente del Genoa) non vuole passarci sopra come se nulla fosse accaduto. E, acclarata con sentenza definitiva la sua innocenza, ha dato mandato ai suoi avvocati di richiedere ciò che la legge prevede espressamente nei casi come il suo: una riparazione per l’ingiusta detenzione subita, quei giorni in custodia cautelare che gli hanno distrutto la reputazione e portato via la serenità. Ci sono voluti quattro anni e mezzo per escludere ogni coinvolgimento di Milanetto in una presunta – ma mai accaduta – combine della partita Genoa-Lazio del 2011. E oggi l’ex centrocampista vuole andare fino in fondo. Dopo aver rifiutato assieme al suo Genoa patteggiamenti in ambito sportivo e subito quattro anni e mezzo di persecuzione giudiziaria culminata con 17 giorni di ingiusta detenzione, Omar Milanetto e con lui (moralmente) tanti genoani che l’hanno sempre difeso, è passato al contrattacco. Il dirigente RossoBlu ha atteso la fine della vicenda innanzi alla Caf(di cui abbiamo dato conto) con la definitiva conclusione dell’affaire Lazio-Genoa, per chiedere un cospicuo risarcimento danni allo Stato. In più circostanze ci siamo occupati di vicende carcerarie, di innocenti in galera e di ‘piccoli’ Enzo Tortora o nomi noti prima adorati e poi gettati nella polvere con tanto di tv, siti e giornali non bramanti di meglio, che ogni tanto fanno capolino nelle cronache giudiziarie. Quella di Milanetto, infatti, è ormai questione di civiltà e non più sportiva. Ma ricordiamo brevemente i fatti: il 28 maggio 2012 Milanetto, all’epoca centrocampista del Padova, fu tirato giù dal letto in piena notte, trascinato in carcere davanti ai figli attoniti e caricato di accuse pesanti come l’associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva. Tutto ciò per le dichiarazioni false di improbabili collaboratori come Ilievsky o per le intercettazioni mal trascritte o interpretate in modo errato. Su tutte, quella in cui il calciatore spiegava di volersi recare ad Albaro per degli acquisti, trascritta come se Milanetto avesse detto di voler andare ‘dal baro’ per truccare qualche partita. 17 giorni di ingiusta carcerazione preventiva per accuse sgretolatesi fino all’assoluzione finale, che porrebbero sul banco degli imputati in un paese progredito a livello giuridico il Pm cremonese (e sampdoriano) Roberto Di Martino che si è intestardito nel portare avanti iniziative (fra cui questa) fondate sul nulla e quei giudici che di volta in volta permettono arresti in stile tangentopoli, ovvero finalizzati a ottenere confessioni o nomi. La testardaggine con cui Milanetto (e con lui il Genoa) ha fatto emergere dopo quattro anni e mezzo la sua innocenza per la presunta ma inesistente combine con Lazio nel 2011,vedrà ora un’ulteriore coda dopo l’annuncio dato a Primo Canale dall’avvocato dell’ex calciatore, Maurizio Mascia. Come già preannunciato alcuni mesi fa, a luglio, ora è giunta la conferma che l’azione legale contro lo Stato sarà intrapresa e la cifra richiesta sarà di 516.546 euro, ovvero l’equivalente di un miliardo di lire. Somma che forse non ripaga della gogna, della sofferenza, dell’umiliazione e dell’ingiusta detenzione subite ma che può – se riconosciutagli – servire a ribadire ancora una volta quanto costino sulla pelle dei cittadini e sulle finanze pubbliche certi errori giudiziari pagati da tutti i cittadini, in assenza di una vera responsabilità civile dei magistrati in Italia. (fonte: Fabrizio Ferrante, Blastingnews, 11 ottobre 2015)

Diallo, 2 mesi in carcere per un “disguido d’ufficio”. La burocrazia è uno dei problemi fondamentali della giustizia italiana. E, nel caso che vi stiamo per raccontare, anche la causa prima di un’ingiusta detenzione, se non di un vero e proprio errore giudiziario. Proprio così: in Italia può accadere che, per quello che in burocratese viene ridotto a un banale “disguido d’ufficio”, un uomo sia costretto a passare in carcere senza motivo più di due mesi. E’ l’ennesima storia di malagiustizia: per colpa di un incredibile intreccio di coincidenze, unito a un pasticcio di competenze tra commissariato e questura, una comunicazione importantissima – perché certificherebbe che un condannato sta effettivamente rispettando l’obbligo di firma che gli è stato comminato – si perde nei meandri della burocrazia. Con il pessimo risultato di far risultare il protagonista di questa vicenda (Diallo A., un ventottenne immigrato regolare, originario della Guinea) responsabile di un reato che in realtà non ha mai commesso: “renitente all’obbligo di firma”, per usare l’arido linguaggio della polizia. Un errore, dunque. Non proprio un errore giudiziario nel significato che il codice penale dà a questa locuzione, ma uno sbaglio che causa un danno non da poco a chi invece, avendo già sbagliato di suo e volendo regolare i propri conti con la giustizia, si ritrova invece a vestire un ruolo che non vorrebbe: quello di chi ricasca nell’errore di commettere un reato. Nell’articolo del quotidiano milanese “Il Giorno” che riportiamo, viene ricostruita nei dettagli questa vicenda paradossale e per certi versi sintomatica dello stato della giustizia italiana. Tutta colpa di una firma, e di dove la metti. Se in questura o se in un commissariato di zona. E, nel secondo caso, c’è il rischio che quella firma si perda, si vanifichi e vanifichi anche il suo effetto. E il firmatario torni spedito a San Vittore. Per due mesi e un tot, dove è tuttora: per un «disguido d’ufficio». Un errore. Non suo. Il suo, quello di spacciare piccole dosi, lo ha pagato con un patteggiamento a un anno di reclusione: per cui la pena di Diallo A. – 28enne della Guinea, lingua francese e poco italiano – l’1 luglio è stata commutata dal giudice Micaela Curami in obbligo di firma trisettimanale. Ma un «disguido d’ufficio» – come viene definito dal dirigente della Divisione anticrimine della questura, Maurizio Azzolina, in una nota di chiarimenti a Procura, direttissime, e legale che Diallo è riuscito finalmente a nominare, Antonio Nebuloni – lo ha rinfilato a San Vittore, dal 30 luglio fino a tuttora. E il tuttora comprende un pasticcio di competenze su chi ha titolo, allo stato degli atti, sul detenuto, per cui la sua posizione potrebbe rimbalzare tra giudice del procedimento (nel frattempo divenuto definitivo), ufficio esecuzione della Procura e Tribunale di sorveglianza. A tutti i quali saranno destinate carte per la scarcerazione del ragazzo, che poi sarà in grado di valutare con il legale una causa per ingiusta detenzione. La prima colpa di Diallo – regolare sul territorio italiano – è il piccolo spaccio, la seconda è di non avere una dimora certa. Questo sarebbe, stando alla ricostruzione imbarazzata fatta dalla questura, il motivo dell’equivoco. Lui infatti, arrestato in flagranza il 24 maggio, condannato l’1 luglio a un anno e 1.200 euro di multa, ottiene la commutazione della pena in obbligo di firma, lunedì mercoledì e venerdì presso uffici della polizia giudiziaria. Dove regolarmente si presenta dall’1 al 6 luglio: nel commissariato di Porta Genova ma a insaputa degli uffici centrali. Così su Diallo, già il 6 luglio piomba la segnalazione della divisione anticrimine come renitente all’obbligo. Ragione per cui il tribunale il 10 luglio ripristina la custodia in carcere, e il 30 luglio – nel corso di un controllo – Diallo torna a San Vittore. Il giovane africano impiega oltre due mesi a capire e a trovare un legale che lo capisca. Quando l’avvocato Nebuloni ricostruisce che Diallo si è «presentato alla firma presso il commissariato Milano Porta Genova dall’1.7 al 30.7» e che «non ha mai saltato neppure un giorno del suo obbligo», la questura avvia una verifica interna. Da cui: «Effettivamente il Diallo in data 1.7.2015 si presentava» al commissariato Porta Genova; mentre «non risulta che si sia mai presentato negli uffici della questura dove era stato invitato…». La trasgressione delle prescrizioni è segnalata «in quanto dalla interrogazione allo Sdi non risultava essere stato sottoposto agli obblighi di nessun ufficio di polizia…». E, non avendo il ragazzo eletto alcun domicilio certo, «l’ufficio» era nell’«impossibilità di avere uno specifico commissariato come riferimento», così unico strumento utile all’accertamento restava la banca dati che lo aveva invece obliato. Solo «dalla successiva consultazione degli atti dell’Archivio generale è stata rinvenuta la nota del commissariato di Porta Genova, diretta anche alla Divisione anticrimine per conoscenza». Ma «la citata nota per un mero disguido d’ufficio sfuggiva all’attenzione degli operatori e quindi veniva trattata alla stregua di tutta la corrispondenza che perviene per conoscenza all’ufficio arrestati ai soli fini dell’archiviazione». E fu così che Diallo – Guinea – fu archiviato a San Vittore. (fonte: Marinella Rossi, Il Giorno, 9 ottobre 2015). Altro che errori giudiziari. Giustizia in Italia, dove tutto può accadere. Gli orrori e le ingiustizie del nostro sistema, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Molti lo ricordano certamente Un giorno in pretura: il film di Steno con un grande Alberto Sordi, un altrettanto bravo Peppino De Filippo; e Sophia LorenSilvana PampaniniWalter ChiariLeopoldo Trieste; ambientato nella seconda sezione della pretura di Roma, davanti al giudice Salomone Lo Russo, si presentano gli imputati di diversi, piccoli reati. Un film che parla, in chiave leggera, ma al tempo stesso serissima, della giustizia cosiddetta minore: quella chiamata a confrontarsi quotidianamente con le vicende umane più comuni e disparate. Qui mancano De Filippo, Sordi, Chiari; ma sono comunque episodi che possono far parte di quella galleria, una sorta di Un giorno in pretura due; e rivelano più di qualsiasi convegno o trattato giuridico, lo stato della giustizia in Italia. Per esempio: un detenutoriconosciuto innocente, e nonostante ciò in carcere. Non per un giorno, una settimana, che può capitare, anche se non dovrebbe. In carcere per ben 72 giorni: oltre due mesi. Non tanto per il classico ‘errore giudiziario’; perché non c’è giudice competente sul suo caso. Incredibile? Bene, vediamola, la storia di Diallo A., 28 anni, originario della Guinea, piccolo spacciatore. Per questo viene condannato; patteggia, e si vede commutata in obbligo di firma. A questo punto viene – si fa per dire – il bello. Diallo è in carcere; per svista amministrativa, per burocrazia inerte, per quel che si vuole, resta in cella, non viene liberato. Finalmente si accorgono che non dovrebbe starci; a questo punto i portoni del carcere si aprono? Proprio no. Nessuno firma l’ordine di scarcerazione, e Diallo continua a stare in quella cella dove, per ‘disguido’ (giustificazione della questura) è stato rinchiuso. L’avvocato difensore si rivolge al giudice, per ottenere lo sblocco della situazione; il giudice, pur comprensivo, risponde con un non luogo a provvedere: ha ammesso il patteggiamento, commutato la pena in obbligo di firma tri-settimanale; lui a questo punto esce di scena. L’inghippo sta nel fatto che a causa di quel disguido, gli atti sono stati trasmessi alla Procura. Il Pubblico Ministero competente, qui entra in campo Franz Kafka, dovrebbe concedere la sospensione dell’esecuzione della penama il provvedimento si applica a chi è in libertà, proprio per evitargli la galera. Ma in questo caso, Diallo in galera già c’è… Potrebbe intervenire il Giudice di sorveglianzaperò la cosa non è ancora nella fase delle sue competenze, la sentenza definitiva non è a sua disposizione; solo dopo quella, il difensore può proporre istanza di misure alternative. Ora tutta questa labirintica e tortuosa situazione ci si augura di averla raccontata come si è verificata; non si esclude di aver commesso qualche imprecisione; come si può immaginare, capire, e spiegare, come sia potuto accadere quello che è accaduto, è complicato. Prima o poi la vicenda si risolverà, se già in queste ore non si è risolta. Non è questo il problema; il problema è che è potuto accadere. Un caso interessante è quello del Tribunale di Prato. Un caso che diventa un caso perché c’è un giudice gran lavoratore, colpevole appunto di lavorare troppo. Di udienza in udienza, riesce a smaltire una quantità di procedimenti: questo singolare magistrato, una donna, spiega che “proprio non riesco a fare rinvii su certe questioni, mi sento come un medico o un’infermiera che stanno soccorrendo un moribondo e non se ne vanno se suona la campanella di fine lavoro”. Vallo a dire a cancellieri e al personale del tribunale che lavora oltre l’orario previsto senza essere retribuito… In Tribunale raccontano che la pianta organica è sotto-dimensionata, che il personale è stato ridotto del 35 per cento. A Prato, raccontano, convivono 127 etnie, la falsificazione dei marchi è ormai un qualcosa di cronico e storico; e una quantità enorme di micro, ma anche macro reati. “Dovremmo essere almeno un centinaio come a Lucca o Pisa invece siamo una quarantina”, dice Sergio Arpaia, cancelliere e sindacalista dell’Unsa. Non ha torto, beninteso. Lo riconosce anche il magistrato iper-attivo, il potenziamento del personale è necessario. Al tempo stesso, ragiona, “qui decidiamo della vita delle persone e non si può ascoltare la campanella di fine lavoro”… Della serie: c’è sempre qualcuno che sta peggio di quanto si sta noi. La disegnatrice e attivista iraniana Atena Farghadani, 29 anni, è detenuta nel famigerato carcere di Evin a Teheran, condannata a 12 anni e nove mesi per oltraggio; ma anche per attentato alla sicurezza nazionale e diffusione di propaganda a ostile alle istituzioni; in realtà è colpevole di pensare come non pensano gli ayatollah, e di aver disegnato alcune vignette che hanno preso di mira esponenti del regime, perfino e la guida suprema, Alì Khamenei. Prelevata in casa nell’agosto 2014 dai pasdaran della Guardia rivoluzionaria, Atena viene malmenata e trascinata in carcere. Rilasciata a novembre, è di nuovo arrestata, dopo aver denunciato in un video i maltrattamenti in cella. Nuovo rilascio, quindi l’ultima incarcerazione a gennaio; altre denunce di percosse, uno sciopero della fame di protesta, il peggioramento delle condizioni di salute. Un giorno incontra l’avvocato difensore; alla fine del colloquio, si congeda con una stretta di mano. L’avvocato, Mohammad Moghimi, per questa stretta di mano arrestato: il gesto viene bollato come ‘al limite dell’adulterio’; lo liberano dopo tre giorni, paga una cauzione di 60.000 dollari, resta comunque sotto accusa. Atena, è accusata di condotta indecente e relazione sessuale inappropriata; deve perfino a subire un test di verginità e gravidanza nel carcere in cui è rinchiusa.

Luciano Conte, 54 giorni in carcere per un latitante in casa ma a sua insaputa. C’era una volta la casa a sua insaputa, e persino la tangente a sua insaputa. Ma il latitante a sua insaputa è un brivido che, in casa propria, ha sperimentato solo un barista: che ne avrebbe volentieri fatto a meno, visto che l’equivoco da incubo gli è costato 54 giorni per sbaglio a San Vittore e altri 86 giorni per errore agli arresti domiciliari. Custodia cautelare prima di essere scagionato dall’accusa di aver nascosto a casa il latitante Gioacchino Matranga, fuggito il 26 ottobre 2009 dalla prospettiva di 30 anni per traffico di droga. La serrata caccia datagli dal pm Paolo Storari aveva riacciuffato Matranga il 31 dicembre e individuato anche la casa in cui era stato a Natale: casa del barista Luciano Conte, dunque arrestato dal gip Giulia Turri insieme al cognato di cui il latitante parlava intercettato con la moglie. Inutilmente il barista si sgolò dalla cella: mai conosciuto Matranga, non sapevo stesse nel mio appartamento e non me ne sono accorto, è mio ma ci vado poco perché vivo a casa della mia compagna, ed ecco le foto che provano che dal 24 al 28 dicembre non ero a Milano ma in vacanza con lei in Svizzera. Tutto inutile. Fin quando in Tribunale la verità riflessa si impone alla giudice Marina Zelante che assolve Conte per non aver commesso il fatto: è stato il cognato, a sua insaputa, a dare per 4.000 euro a un basista del latitante le chiavi di casa prese alla moglie (sorella del barista) che ogni tanto andava a farvi le pulizie. E ora, «per la “beffa” di essere assolto sulla base degli stessi elementi indicati sin dall’inizio», con l’avvocato Francesca Galli il barista chiede allo Stato 70.000 euro di risarcimento per ingiusta detenzione. (Fonte: Luigi Ferrrarella, Corriere della sera, 3 aprile 2013)

Marco Santese.Gli nascondono polvere bianca nell’auto, parrucchiere passa 26 giorni in carcere. Trascorse ventisei lunghi giorni fra carcere e arresti domiciliari con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio di cocaina, erano invece poco più di 23 grammi di zucchero. Dopo un lungo anno di indagini, gli investigatori hanno scovato i presunti registi della messinscena ordita ai danni del parrucchiere brindisino Marco Santese, 30 anni. Secondo l’accusa del pm Giuseppe De Nozza, che ha chiesto per entrambi il rinvio a giudizio per calunnia aggravata in concorso, si tratta della ex moglie Monica Biasi, 25 anni e Antonio Sanasi, 40 anni, il nuovo compagno di lei. Il movente? Pare che Sanasi temesse un ritorno di fiamma fra i due ex e che, con la complicità di un confidente storico dei carabinieri, avesse soffiato la calunnia nelle orecchie dei militari. Il prologo di questa incredibile vicenda risale a poco più di un anno fa. Il parrucchiere brindisino, incensurato, viene arrestato dai carabinieri il 29 marzo scorso. Quella mattina stessa una telefonata avverte i militari che sotto il copri cerchio della sua auto l’artigiano nasconde lo stupefacente. Alle 7,30 scatta il blitz, in sei piombano nella bottega del rione Santa Chiara, e la perquisizione conferma le informazioni dello spione. Non è tutto. Ancora più incredibile è il fatto che, da lì a poco, il narcotest sulla sostanza conferma che si tratta di cocaina. L’uomo viene arrestato di fronte ai clienti increduli e al datore di lavoro, allibito. Il legale difensore, Gianvito Lillo, non si arrende e ostinatamente chiede una seconda perizia che viene infine disposta dal pubblico ministero. I risultati confermarono l’innocenza proclamata per ventisei lunghi giorni dalla vittima: è zucchero, comune disaccaride saccarosio in polvere. Il gip Alcide Maritati dispose l’immediata scarcerazione dell’artigiano mentre l’avvocato Lillo sporse per conto del proprio assistito denuncia contro ignoti. Gli investigatori si misero immediatamente a caccia dei calunniatori. La coppia è stata stanata dagli stessi militari della compagnia francavillese, indagini coordinate dal maresciallo Antonino Farrugia, impianto accusatorio corroborato da un massiccio carico di intercettazioni.  E’ lo stesso Marco Santese, nel corso dell’interrogatorio di garanzia, a suggerire la pista agli inquirenti, sa bene che non sono molte le persone che possono nutrire motivi di rancore nei suoi confronti. La traccia si rivela assai puntuale e i carabinieri, con una motivazione in più del solito, arrivano presto e bene al punto, i registi della storia sono la ex moglie e il nuovo compagno. Il movente? Un insano desiderio di vendetta. A ordire il piano contro il parrucchiere, suggerendo il nascondiglio dello stupefacente posticcio a un confidente dei carabinieri, fu Santese, il nuovo compagno della ex moglie, con l’obiettivo di eliminare il rivale dalla circolazione. Letteralmente. Le intercettazioni confermano le prime intuizioni degli investigatori, tanto che la prima ipotesi di reato a carico dei due, ossia falso per induzione, muta in calunnia aggravata in concorso per aver fatto ingiustamente rischiare all’artigiano una pena da otto a venti anni di carcere. Fissata per il 28 maggio l’udienza preliminare che deciderà per il rinvio a giudizio o l’archiviazione del caso, mentre pende di fronte alla Corte d’appello di Lecce la richiesta risarcitoria per ingiusta detenzione. (Fonte: Sonia Gioia, Brindisi Report, 10 aprile 2011)

Francesco Fusco. “I pm mi hanno rovinato la vita in cambio di 8 mila euro”. “Signor Presidente, faccia qualcosa per gli italiani, eviti che finiscano nelle mani di persone che possono rovinare la loro vita come hanno fatto con me, eviti che la magistratura abbia a spargere tanta sofferenza”: con queste parole, il 13 luglio del 2008, Francesco Fusco, ex dirigente dell’Agusta – arrestato due volte e processato tre per reati mai commessi, prosciolto da ogni accusa, ma solo dopo dieci anni di persecuzione giudiziaria – concludeva una lettera al Presidente Napolitano, destinata a non ricevere risposte. L’aveva scritta con la sola mano destra, dal letto dell’istituto Redaelli di Milano, dove l’aveva inchiodato un ictus paralizzandogli il lato sinistro e lo tormentava un cancro alle ghiandole salivari. Fusco è morto a Milano l’altro giorno, e questa mattina – venerdì 27 luglio – avrà le sue esequie. Vittima di una giustizia approssimativa e occasionale, sbadata quanto spietata nei suoi carsici accanimenti. Una storia da Giobbe, la sua, la storia di un giovane benestante, apolitico, che dopo una bella carriera da giornalista, a 53 anni, nell’89, viene assunto all’Agusta dall’allora presidente Roberto D’Alessandro, craxiano, come direttore delle relazioni esterne. Nel settembre del ’92 i pm Antonio Vinci e Francesco Misiani lo arrestano (il primo morirà d’infarto nel ’98 mentre era agli arresti domiciliari per corruzione; e il secondo sarà incriminato nel ’96 per favoreggiamento e assolto solo dopo essersi dimesso dalla magistratura: un sinistro contrappasso). I pm pensano che Fusco sappia tutto delle tangenti intermediate da D’Alessandro, che invece faceva da sé. Lo sbattono in prigione senza neanche interrogarlo: vogliono nomi. Lui non ne sa, alla fine il gip lo scarcera. Riprende a lavorare, nel privato, ma nel ’94 lo riarrestano negli Usa per “corruzione di persone ancora da identificare”. Stessa trafila, altri tre mesi bruciati tra carcere e domiciliari, un altro lavoro perduto, e poi una trafila estenuante fino al 2001 – 2 milioni di euro per difendersi e mantenere e curare se stesso e la famiglia – quando arriva l’assoluzione definitiva. Nel frattempo un’altra incriminazione, a Milano, che in tre anni evapora, con lo stesso pm Gherardo Colombo che ne propone il proscioglimento per l’evidente estraneità ai fatti. Fusco chiede l’indennizzo per l’ingiusta detenzione: lo stato valuta la sua via crucis 8 mila euro. Vale la pena ricordare tutto questo nel giorno del suo ultimo viaggio. Perché i giornali di solito raccontano le inchieste e le condanne: molto più raramente gli errori giudiziari e il calvario di chi ne subisce le devastanti conseguenze. (fonte: Sergio Luciano, Italia Oggi, 27 luglio 2012).

Andrea Marcon, ingiusto il suo arresto. La vita distrutta di un maresciallo dei carabinieri. «L’arresto? Uno choc. Io arrestavo i delinquenti, non sarebbe dovuto succedere il contrario». Il maresciallo maggiore Andrea Marcon viene catturato nell’ottobre 2005 in caserma, mentre comanda ad interim la stazione dei carabinieri di Montecchio Maggiore. «Fu terribile», ricorda. Dieci giorni di detenzione e poi la sospensione dal servizio. «Quasi trent’anni di carriera cancellati, perché la maggior parte di colleghi e superiori mi voltarono le spalle, come fossi appestato, eppure ero sicuro di non avere violato la legge», aggiunge angosciato e sconsolato. Il tempo non ha lenito la ferita che dice durerà per il resto della sua esistenza. Poi il rientro in servizio e il trasferimento al battaglione di Bologna in attesa del processo. «Sono ripartito da capo, poi la seconda tegola, perché col rinvio a giudizio ci fu la seconda sospensione, mi sentivo finito perché con lo stipendio ridotto a 700 euro non potevo più mantenere la famiglia», rammenta la pagina più umiliante della sua vita. Quindi due processi conclusisi allo stesso modo: la pubblica accusa che chiede la condanna, i giudici che lo assolvono con formula piena. Un arresto del tutto ingiusto. La Corte d’Appello menziona poche volte il suo nome nelle 42 pagine della sentenza con la quale sono stati invece condannati a 5 anni di reclusione gli ex colleghi Francesco Menolascina e Ignazio Mirigliani. L’inchiesta è quella nota delle operazioni antidroga dei carabinieri di Valdagno, tra il 2004 e 2005, giudicate in secondo grado illegali nell’utilizzo degli agenti provocatori. Per Marcon una vicenda anche straziante, perché nelle stesse ore in cui veniva assolto a Venezia definitivamente – la procura generale non ha presentato ricorso in Cassazione – il padre moriva a Torri di Quartesolo. Intanto, una decisione il maresciallo l’aveva presa. «Sono andato in pensione, nonostante avessi 52 anni, e in teoria pensassi di avere davanti a me ancora una decina d’anni di carriera. Ma con 700 euro al mese non si può vivere, avendo famiglia». Già, la famiglia. Con l’arresto è andata a pezzi. Tanto che nei momenti più bui, quando «la depressione ti assale e pensi perché un servizio fatto come mille altre volte stavolta è giudicato illegale, per giunta arrestando spacciatori», Marcon ha pensato «di farla finita». «Non mi vergogno a dire di essere andato a comprare la gomma per attaccarla al gas di scarico della macchina – insiste senza alcun velo d’infingimento – e se mi sono fermato all’ultimo è stato per mio figlio. Perché se sei innocente, come poi i giudici hanno per due volte stabilito, non te ne fai una ragione di essere invischiato in una storia allucinante». Marcon racconta di quando per andare a compiere le operazione antidroga usava la propria macchina, per non gravare sullo Stato. «Avevo sempre lavorato così e io non c’entravo davvero nulla con gli eventuali illeciti commessi – dice -, perché io comandavo il radiomobile, le indagini erano imbastite dai colleghi del nucleo e io intervenivo nella fase conclusiva, a supporto. Invece, sono stato preso in mezzo». Il maresciallo in pensione sottolinea con amarezza che non tutti sono uguali. «Io senza essere mai condannato – osserva – sono stato sospeso due volte dal servizio e in pratica costretto ad andarmene dall’Arma nonostante il mio stato di servizio fosse ineccepibile, mentre il generale dei carabinieri Ganzer, per indagini antidroga di ben altra dimensione e gravità, è stato condannato a 14 anni di carcere e non è mai stato sospeso. Io constato il trattamento diverso. Ci sono militari di seria A e serie B». La «grande famiglia» dell’Arma quando Marcon venne arrestato nei fatti «mi espulse». «Sono stato abbandonato da tutti – conclude – in particolare dall’Arma, nonostante una vita spesa a correre dietro ai banditi. Ne sono uscito a pezzi, perché a costo di sembrare retorico, io gli alamari li avevo cuciti sulla pelle. Adesso chiederò i danni allo Stato per l’ingiusta detenzione e per le spese che ho dovuto sostenere di avvocato, Lucio Zarantonello, che ringrazio perché mi ha sostenuto come un fratello. Ma per il resto…». (Fonte: Ivano Tolettini, Il Giornale di Vicenza, 5 febbraio 2012).

Chiara Baratteri. Era al bar a lavorare, altro che rubare: con quella banda di truffatori non c’entra. E’ notte fonda a Niella Tanaro, in provincia di Cuneo. A casa Baratteri, Chiara, la madre, dorme nella sua camera, nell’altra stanza c’è Jodie, il figlio adolescente, che è andato a letto presto perché domani c’è la scuola. Il silenzio ovattato viene interrotto dal campanello della porta: “Aprite, Carabinieri!”. Chiara, senza rendersene conto, si ritrova con le manette ai polsi, circondata da uomini dell’Arma, davanti al figlio che trema di paura. La donna crede di sognare, di trovarsi in un orrendo incubo. E’ invece è tutto vero. Chiara viene fatta salire sulla gazzella con il lampeggiante acceso e condotta prima nella stazione dei Carabinieri di Mondovì, poi nel carcere di Cuneo. Solo all’arrivo nel penitenziario piemontese viene messa al corrente dell’accusa di far parte di una banda di nomadi Sinti responsabile di una sessantina di truffe e raggiri ai danni di anziani della zona. E’ l’11 ottobre del 2007. Cinque giorni e cinque notti in una cella prima di dimostrare che lei, con quei due episodi, tentato furto e furto, commessi il 26 ottobre e il 24 novembre 2006, in due case di anziani di Carcare, non c’entrava nulla. Chiara, come sempre, era al lavoro dietro il bancone del bar “Caffè Le Olle”, lungo la statale 28 tra San Michele Mondovì e Vicoforte. “Sono stata arrestata sulla base di un riconoscimento fotografico, ma nei giorni in cui avrei tentato la truffa e il raggiro a Carcare, in provincia di Savona, ero a lavorare al bar, a Niella Tanaro, come ho dimostrato dai registri del locale. E’ stata un’esperienza allucinante che non auguro a nessuno”, ha spiegato la signora, 35 anni, assistita dall’avvocato Mario Almondo di Torino, che ne ha ottenuto la scarcerazione dopo l’interrogatorio di garanzia, “vista l’infondatezza delle notizie di reato”, come affermato dal Gip di Savona Emilio Fois. “Durante l’interrogatorio è emerso in maniera incontrovertibile che lei non aveva nulla a che fare con quei fatti. E anche le fattezze fisiche della mia assistita sono ben diverse da quelle riconosciute dall’anziana”, ha sottolineato il legale. Dopo due anni la posizione di Chiara Baratteri è stata archiviata e la donna, assistita dall’avvocato Gabriella Turco, del foro di Mondovì, ha chiesto un indennizzo per l’ingiusta detenzione. “Per il coinvolgimento in questa vicenda, la mia assistita ha subito danni all’integrità psico-fisica, patrimoniali, di immagine e morali, non soltanto per la privazione della libertà, ma anche per il discredito su di lei gettato dalle notizie di cronaca che la dipingevano come una persona costantemente dedita a reati odiosi, tanto più odiosi quanto deboli ed indifese sono le vittime”, ha precisato l’avvocato. Il 1 marzo 2012 la terza sezione penale d’Appello di Genova, presidente Paolo Galizia, relatore Vincenzo Papillo, consigliere Maurizio De Matteis, ha accolto la domanda di risarcimento riconoscendo alla Baratteri la somma di 6.180 euro, oltre agli interessi e alle spese legali.

Franco Moceri. Altro che trafficante di droga, doveva solo costruire un muro. Era rimasto coinvolto nell’operazione antidroga “El Dorado” nel 2008. Rimasto in carcere sei mesi, era stato poi rilasciato e prosciolto da ogni accusa. Un imprenditore di Mazara, Franco Moceri, rimasto coinvolto nell’operazione antidroga “El Dorado” del 2008 ha ottenuto, da parte della Corte di appello di Palermo, un risarcimento di 41 mila euro per l’ingiusta detenzione. Moceri, dopo avere subito una lunga detenzione cautelare, nel corso della quale si era sempre proclamato innocente, era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione, con l’accusa di associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti. E questo nonostante “anche gli altri imputati, durante gli interrogatori, abbiano più volte ricordato che l’operaio era una persona estranea ai fatti”, spiega il suo avvocato, Giuseppe Pinella. Ma in appello il verdetto della corte d’assise si è capovolto: Franco Moceri fu assolto per non aver commesso il fatto e riconosciuto come “un semplice operaio a cui era stato dato l’incarico di costruire un muro proprio nel luogo in cui, mesi dopo, sarebbero state sequestrate le piantagioni-bunker di cannabis”, dice ancora l’avvocato Pinella. Che immediatamente aveva presentato una richiesta di risarcimento danni collegata all’ingiusta detenzione (6 mesi in carcere) subita dal suo assistito. Ora, a risarcimento ottenuto, l’avvocato Pinella attacca: “Questo risarcimento è comunque inadeguato, pur essendo un ristoro per la carcerazione subita ingiustamente, perché certamente non potrà elidere il pregiudizio che si è formato a carico di Moceri, il quale da quella data non ha quasi più lavorato a causa del grave pregiudizio che la notizia del suo arresto e della lunga detenzione gli ha causato”. L’operazione “El Dorado” risale al febbraio 2008, quando i carabinieri di Trapani insieme alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, arrestarono dodici persone con l’accusa di traffico internazionale di sostanze stupefacenti. L’organizzazione criminale, operante tra Mazara, Campobello, Marsala e Petrosino, avrebbe goduto del sostegno di indiziati mafiosi imparentanti con boss di Cosa Nostra. Gli affiliati avevano inizialmente aperto dei canali di traffico di cocaina con la Spagna e il Marocco e, in seguito, avevano avviato la produzione di due piantagioni di cannabis, nelle campagne di Mazara del Vallo, per un totale di oltre 2 mila piante destinate a produrre più di 120 milioni di dosi. L’operazione portò alla condanna di 112 anni di carcere per nove persone. (fonte: il Giornale di Sicilia, 26 gennaio 2013).

Salvatore Ramella. Una vita devastata. E i giudici aumentano il risarcimento. Quanto valgono nove giorni in carcere da innocente? Quale risarcimento per ingiusta detenzione potrà mai soddisfare la vittima di un errore giudiziario grossolano, che sconvolge una vita in tutti i suoi aspetti: lavorativi, personali, privati? Stando ai parametri ufficiali previsti dalla legge, poco più di duemila euro dovrebbero rappresentare il giusto indennizzo per un dramma così grande come quello di finire in prigione senza colpa per più di una settimana. Ma talvolta anche i giudici capiscono che è il caso di andare oltre le fredde tabelle che impongono i parametri di calcolo della riparazione per ingiusta detenzione. E si rendono conto che è il caso di aumentare l’importo, perché pur nella consapevolezza che nessuna somma potrà mai risarcire una tragedia come questa, c’è un limite a tutto. E’ quello che è accaduto a Salvatore Ramella, funzionario di banca coinvolto in una storia di riciclaggio con cui non aveva nulla a che fare. In questo articolo, la sua storia. Il puro calcolo matematico per i nove giorni passati in carcere ingiustamente porterebbe a liquidare come indennizzo per l’ingiusta detenzione 2.122 euro, più 38 centesimi. Ma i giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria chiamati a pronunciarsi sull’istanza di risarcimento presentata dal funzionario di banca Salvatore Ramella, prima indagato e poi pienamente scagionato nell’ambito dell’inchiesta “Gioco d’azzardo”, nei giorni scorsi hanno deciso di innalzare l’entità del risarcimento a 15 mila euro. Ramella, che in questa vicenda è stato assistito dall’avvocato Bonaventura Candido, all’epoca quando scattò il blitz – siamo nel maggio del 2005 –, era direttore di una filiale della banca Unicredit e per nove giorni fu ristretto in carcere; successivamente lo stesso gip dispose la misura meno afflittiva dell’obbligo di dimora, e pochi giorni dopo il Tribunale del Riesame ne dispose la liberazione totale con annullamento dell’ordinanza di custodia in quanto «non sorrette le accuse di riciclaggio dal requisito della gravità indiziaria». E si arrivò fino all’ottobre del 2007 con l’archiviazione dell’inchiesta disposta dal gip di Reggio Calabria. Eppure, dopo l’arresto, il funzionario di banca, fino a quel momento con un posto di alta responsabilità nell’ambito del suo istituto di credito, fu sospeso cautelativamente dal datore di lavoro dal 12 maggio al 5 settembre del 2005, successivamente fu trasferito in una sede bancaria a Roma presso il Servizio crediti della Direzione regionale Centro Sud. I giudici d’appello nell’argomentare la decisione con cui hanno stabilito di concedere un indennizzo molto più alto rispetto al “freddo” calcolo matematico da effettuare in questi casi, scrivono che «…nella liquidazione dell’indennizzo, il giudice deve procedere in via equitativa, essendogli riconosciuta – entro i confini della ragionevolezza e coerenza –, ampia libertà di apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, avendo riguardo non solo alla durata della custodia cautelare ma anche e non marginalmente alle concrete conseguenze sociali, personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà».

E i giudici della Corte d’appello hanno riconosciuto che la vita di Ramella fu letteralmente “devastata” da questa vicenda. (fonte: Enrico Di Giacomo, Stampalibera.it, 14 gennaio 2011).

Salvatore Grasso. Undici anni in carcere per omicidio. Ma quel giorno lui era a centinaia di chilometri. Undici anni passati in carcere da innocente, fino all’arrivo di una lettera che lo scagiona da un omicidio mai compiuto. Ora Salvatore Grasso, 53 anni, è tornato a Giarre, il paese in provincia di Catania dove vive l’anziana madre. Ma nel frattempo ha perduto tutto: due figli, il lavoro, tutti i suoi progetti, i soldi che aveva messo da parte come agente immobiliare. “Ti chiedo scusa per non aver parlato prima ma tu e Iuculano siete innocenti ed io ora sono pronto a dirlo ai giudici”. Poche righe scritte di pugno da Agatino Di Bella, detenuto nel carcere di Porto Azzurro e reo confesso dell’omicidio di Salvatore Calì, siciliano emigrato in Germania, sono state decisive per la scarcerazione di Salvatore Grasso. “Quella busta è arrivata come un fulmine a ciel sereno – racconta l’uomo – ed è stata decisiva per la fine del mio incubo”. E’ un uomo provato Salvatore Grasso, dai problemi di salute, dall’ingiusta detenzione e dal travagliato iter giudiziario che va avanti dall’agosto dell’86, quando Salvatore Calì, un siciliano emigrato come lui in Germania viene misteriosamente ucciso in un boschetto alla porte di Haltberg. Dell’omicidio viene accusato, oltre a Grasso, un altro suo amico, Francesco Iuculano Cunga, anche lui condannato per omicidio dalla corte d’assise di Catania. Grasso, che si costituisce una prima volta in Francia, inutilmente cerca di dimostrare la sua innocenza. Così trascorre tre anni in carcere, fino al ’90 quando viene prosciolto in appello e torna in libertà. Un anno dopo però la corte di Cassazione annulla con rinvio la sentenza ed il nuovo verdetto, che lo condanna a 26 anni, gli fa crollare il mondo addosso. Per 5 anni Salvatore Grasso vive da latitante. “Certo – dice – avrei potuto restare dov’ero, probabilmente non avrei avuto problemi, ma non mi davo per vinto e poi, come si fa a difendersi se si è lontani?”. Nel giro di qualche mese Grasso perde i due figli, uno dei quali scompare in circostanze tragiche. “Nessuno potrà mai cancellare il sospetto terribile che su quella morte – ricorda con un filo di voce l’uomo – non pesi anche la mia tragedia personale, una vicenda che i miei figli vivevano come una macchia terribile che non si è fatto in tempo a cancellare…”. L’ emozione più grande, tanto intensa da essersi tradotta in un malore, è arrivata l’altro ieri quando Salvatore Grasso è stato convocato dal direttore del carcere di Brucoli. “Mi ha chiesto come mi sentissi – racconta Grasso – e poi mi ha dato un foglio su cui c’era scritto “Provvisoria sospensione dell’esecuzione della pena in attesa della revisione del processo”. Ho avuto bisogno di sedermi, poi mi sono sentito male e sono stato portato in infermeria”. E’ stata la corte d’assise d’appello di Messina, che a fine mese pronuncerà la sentenza al processo di revisione chiesto da Grasso, a disporre la sua scarcerazione. Oltre alla lettera inviata dal vero assassino, agli atti del processo c’è ora anche la testimonianza di un uomo che aveva telefonato a Grasso poco prima che venisse ucciso Salvatore Calì e che afferma che Grasso si trovava a centinaia di chilometri di distanza dal luogo dell’omicidio. (fonte: Michela Giuffrida, la Repubblica, 3 febbraio 2005).

Quindici anni di morti e suicidi nelle nostre carceri, scrive Barbara Alessandrini su “L’Opinione” del 21 ottobre 2015. Mancano solo due mesi al termine degli Stati Generali dell’esecuzione penale, il semestre di lavoro e confronto tra operatori penitenziari, magistrati, avvocati, docenti, esperti, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile inaugurato a maggio per volontà del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. È ovviamente presto per verificare se i 18 tavoli tematici impegnati in un’imponente mole di lavoro approderanno alla definizione di un nuovo e organico modello di esecuzione della pena individuando soluzioni materialmente utili al reinserimento, della tutela della dignità e del recupero dei detenuti e ad abbattere il muro culturale e politico contro cui regolarmente si schianta il disegno ed il senso che la Costituzione ha assegnato alla detenzione. Intanto, però, gli istituti di pena italiani seguitano ad inghiottirsi vite umane: 2459 decessi di cui 877 suicidi dal 2000 al 5 ottobre 2015. Sono i dati aggiornati contenuti nel dossier “Morire di carcere, dossier 2000-2015. Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose” curato dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, di cui pubblichiamo i dati, indegni per un paese civile. Numeri che dovrebbe dare la misura della prova cui sono chiamati gli Stati Generali delle carceri e delle ciclopiche dimensioni della sfida cui sono chiamati: riuscire a dare un decisiva spinta a capovolgere le tendenze attuali della politica nei confronti della pena detentiva e ricondurre l’esecuzione penale entro l’alveo dei principi sanciti dal dettato costituzionale e della giurisprudenza europea, di restituirle quel fine rieducativo e quella funzione risocializzante e di ricostruzione e proiezione del detenuto verso il reinserimento, insomma quel rispetto della dignità umana che i passati decenni pervasi di giustizialismo e di pulsioni punitive nei confronti di indagati e detenuti tanto hanno contribuito ad erodere. Non ci si deve stancare di ripetere che si tratta di un traguardo operativo e culturale insieme, che sarà raggiunto soltanto quando l’opinione pubblica si avvicinerà al mondo della detenzione e comprenderà che la certezza della pena significa innanzitutto riconoscerle le finalità rieducative ed eliminare dalla sua dimensione quello che già Platone nel “Protagora” definiva con efficacia il “desiderio di vendicarsi come una belva”. Tanto più alla luce delle ‘utilitaristiche’ ricadute virtuose che una pena volta al rispetto della dignità ed al reinserimento comporta in termini di sicurezza collettiva e calo delle recidive (il 68 per cento dei ristretti in condizioni meramente afflittive commette nuovi reati una volta fuori dal carcere mentre solo il 19% di chi ha avuto accesso a percorsi riabilitativi e formativi torna a delinquere). Solo quando gli elementari principi costituzionali e della civiltà giuridica, quindi della civiltà, faranno parte del bagaglio comune e verrà ritrovato e riconosciuto il senso reale dell’esecuzione penale la prospettiva dell’appuntamento elettorale cesserà progressivamente di premiare politiche intrise di quel populismo penale responsabile di irrigidimenti sanzionatori e di una visione della pena tiranneggiata dal carattere meramente afflittivo, punitivo e retributivo. Gli Stati Generali rappresentano dunque il primo faro acceso da decenni sulle storture del nostro sistema penitenziario per portare all’attenzione del dibattito pubblico e politico in modo maturo lo stato di illegalità in cui versa il nostro sistema carcerario e le condizioni disumane e degradanti a cui sono costretti i detenuti. “Sei mesi di ampio e approfondito confronto - spiega da mesi Orlando - che dovrà portare certamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto”. Che riescano ad aprire una breccia nell’imperante cultura e non si risolvano in una sfilata ad effetto che ha tenuto impegnati molti addetti ai lavori per una manciata di mesi, grossomodo gli stessi che è durato quell’Expò situato proprio accanto al carcere di Opera dove gli Stati Generali sono stati inaugurati, questo rimane, per adesso, soltanto un auspicio. L’immagine e la realtà del nostro sistema carcerario rimane, nel frattempo, spettrale e sebbene la minaccia delle sanzioni della Cedu abbia agito da propulsore per la presa in carico di un’emergenza che non era più differibile, i metodi con cui la si è fronteggiata hanno molto il segno dell’improvvisazione e della disumanità. Alcune misure come l’aver dato attuazione alla legge 67/2014 che regola la depenalizzazione e le pene detentive non carcerarie favoriscono senz’altro lo sfollamento degli istituti di pena. Ma ricordiamo che il contributo decisivo alla deflazione del sovraffollamento carcerario è stato dato dalla sentenza di incostituzionalità da parte della Consulta sulla Legge Fini- Giovanardi che ha decriminalizzato le droghe leggere e di conseguenza dato il via allo sfoltimento progressivo (le pene non superano i sei anni di detenzione) delle carceri di una buona parte di quel 40% di detenuti accalcati per anni per detenzione di sostanze stupefacenti leggere. Quel che si è invece fatto per affrontare l’emergenza illegalità/sovraffollamento delle nostre carceri, sempre sotto i riflettori della Cedu, è stato ricorrere ad inumani trasferimenti forzati, con la “deterritorializzazione” di molti detenuti dal loro istituto carcerario al fine di ottenere per ciascun ristretto lo spazio individuale minimo (3mq al netto degli arredi) stabilito dagli standard della Cedu: Una mera redistribuzione contabile lungo le carceri dello stivale realizzata a costo di amputare dignità, relazioni affettive e percorsi riabilitativi avviati nell’istituto di pena di origine. Sono solo alcune delle criticità che investono ancora il nostro sistema detentivo ed è di tutta evidenza che l’emergenza, che pone sul tavolo la razionalizzazione degli spazi detentivi, l’accesso ad attività lavorative, l’effettivo diritto alla salute, il disagio psichico, il miglioramento delle condizioni degli operatori penitenziari, le donne ed i minori con le loro esigenze di psicologiche e pedagogiche, il processo di reinserimento del condannato, è tutt’altro che superata. La pena rimarrà sempre, come è giusto che sia, l’aspetto più rigido e duro della giustizia, ma non le si deve permettere di uscire dal dettato costituzionale mortificando i diritti del singolo fino a spingerlo al suicidio o portandolo a morire in carcere nell’indifferenza politica, come accade invece nel nostro sistema penitenziario. I dati sullo stillicidio di morti e di suicidi all’interno degli istituti di pena dal 2000 ad oggi sono l’eloquente prova che al momento lo Stato merita soltanto un’inappellabile condanna.

Anno 2000, Suicidi 61, Totale morti 165;

Anno 2001, Suicidi 69, Totale morti 177;

Anno 2002, Suicidi 52, Totale morti 160;

Anno 2003, Suicidi 56, Totale morti 157;

Anno 2004, Suicidi 52, Totale morti 156;

Anno 2005, Suicidi 57, Totale morti 172;

Anno 2006, Suicidi 50, Totale morti 134;

Anno 2007, Suicidi 45, Totale morti 123;

Anno 2008, Suicidi 46, Totale morti 142;

Anno 2009, Suicidi 72, Totale morti 177;

Anno 2010, Suicidi 66, Totale morti 184;

Anno 2011, Suicidi 66, Totale morti 186;

Anno 2012, Suicidi 60, Totale morti 154;

Anno 2013, Suicidi 49, Totale morti 153;

Anno 2014, Suicidi 44, Totale morti 132;

Anno 2015 (*), Suicidi 34, Totale morti 88; Per un totale di 877 suicidi e 2.459 morti

(*) Aggiornamento al 5 ottobre 2015

Dossier “Morire di Carcere” 2015 (Aggiornamento al 5 ottobre 2015) 

Non li uccise la morte ma due guardie bigotte. Aldrovandi, Bianzino, Sandri, Uva, Cucchi...scrive di Davide Falcioni venerdì 22 giugno 2012. "Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte mi cercarono l'anima a forza di botte". Fabrizio De André - Un Blasfemo (dietro ogni blasfemo c'è un giardino incantato) Non al denaro, non all'amore né al cielo (1971). Per cercare l'anima a Federico Aldrovandi ci si misero in 4. Luca Pollastri, Enzo Pontani, Paolo Forlani e Monica Segatto. Quattro poliziotti. C'era chi teneva e chi picchiava. Chi picchiava lo fece talmente forte che due manganelli si spezzarono sul corpo di Federico, che ostinatamente resisteva a quelle sferzate e tentava di ribellarsi, finché non venne immobilizzato. Morì verso l'alba per asfissia da posizione, con il torace schiacciato sull'asfalto dalle ginocchia dei poliziotti. Successivamente i quattro poliziotti descrissero Federico come un "invasato violento in evidente stato di agitazione". Da ieri quello che per anni è stato chiamato "Caso Aldrovandi" potrà essere chiamato "omicidio Aldrovandi". La Corte di Cassazione di Roma ha confermato le condanne a 3 anni e 6 mesi di reclusione a Pollastri, Pontani, Forlani e Segatto, responsabili di omicidio colposo per aver ecceduto nell'uso della forza. La vita di un ragazzo di 18 anni vale 3 anni e 6 mesi di reclusione. Comprensibilmente in molti hanno giudicato la pena troppo tenera, ma va considerata anche la verità storica che finalmente è stata definita. Una sentenza stabilisce che un ragazzo è stato ammazzato da alcuni poliziotti. Per un paese come l'Italia, dove queste cose vengono spesso occultate, è un fatto importante. Ma il caso di Federico Aldrovandi non è isolato. Come documentato dall'Osservatorio Repressione dal 1945 sono decine i cittadini uccisi per mano delle forze dell'ordine, che spesso hanno represso nel sangue manifestazioni di protesta. Senza considerare la repressione giudiziaria: oltre 15mila sono i denunciati dai fatti del G8 di Genova ad oggi: un tentativo, evidentemente, di trasformare lotte politiche in fatti di comune delinquenza. Per ragioni di spazio ci concentreremo sugli uomini morti a seguito di un fermo di polizia. Se siano stati uccisi, o se la morte sia sopraggiunta per altre ragioni, a noi non è dato saperlo con certezza. Nel caso di Aldrovandi possiamo, sentenza alla mano, parlare di omicidio: la stessa cosa non si può dire (almeno, non con rigore giornalistico) per altre situazioni che però destano preoccupazione, tra tentativi di depistaggio e insabbiamenti. Sempre per ragioni di sintesi, partiremo da Genova 2001, dai giorni torridi del luglio di 11 anni fa che videro la morte del giovane Carlo Giuliani. Carlo aveva 23 anni. Manifestava, insieme a migliaia di compagni, all'assemblea del G8 di Genova, in una città blindata e ferita da disordini e scontri continui. Carlo morì a Piazza Alimonda, ucciso da un colpo sparato dal carabiniere Mario Placanica, che si trovava all'interno di un Land Rover di servizio. Carlo venne colpito subito dopo aver afferrato da terra un estintore. Una ricostruzione affidabile della vicenda, con immagini da punti di vista differenti, è stata effettuata da Lucarelli nella trasmissione Blu Notte. Dopo aver esploso il colpo, diretto allo zigomi di Giuliani, il mezzo dei Carabinieri passò ben due volte sul corpo del ragazzo. Il carabiniere Placanica è stato prosciolto dall'accusa di omicidio colposo: avrebbe sparato, secondo i giudici, per legittima difesa. L'11 luglio del 2003 all'interno del carcere Le Sugheri di Livorno venne ritrovato il corpo di Marcello Lonzi, 29 anni, in un lago di sangue. Secondo la giustizia italiana il ragazzo sarebbe morto per cause naturali (il caso è stato archiviato) ma le foto del carcere e all'obitorio mostrerebbero chiarissimi segni di pestaggio. La madre di Marcello, Maria Ciuffi, ha condotto per anni una battaglia per la verità sulla morte del figlio. Riccardo Rasman morì il 27 ottobre del 2006 a Trieste. Nella sua casa di via Grego fecero irruzione le forze dell'ordine. Il ragazzo, affetto da sindrome schizofrenica paranoide, dovuta a episodi di nonnismo subìti durante il servizio militare, era in uno stato di particolare felicità: il giorno dopo avrebbe iniziato a lavorare come operatore ecologico. Ascoltava musica ad alto volume, lanciando un paio di petardi dal balcone. Qualcuno chiamò il 113 denunciando il baccano, arrivarono due volanti, gli agenti entrarono a casa dell'uomo, lo immobilizzarono e ammanettarono a seguito di una colluttazione. Come per Aldrovandi, Riccardo Rasman sarebbe morto per asfissia: benché fosse ancora ammanettato i poliziotti continuarono a schiacchiargli la schiena impedendogli la respirazione. Il 14 ottobre del 2007 fu la volta di Aldo Bianzino, falegname, in una cella del carcere di Perugia. Venne arrestato due giorni prima insieme alla compagna per coltivazione e detenzione di piantine di canapa indiana. Aldo era in buona salute: morì, ufficialmente, per cause naturali (a seguito di una malattia cardiaca). Una perizia medico legale effettuata dal dottor Lalli e richiesta dalla famiglia rivelerà, invece, la presenza di 4 ematomi cerebrali, fegato e milza rotte, 2 costole fratturate. Ne seguì un processo conclusosi con l'archiviazione ma, grazie all'insistenza di amici e familiari e all'apertura di un blog, negli ultimi mesi si sta tentando di riaprire le indagini. Neanche un mese dopo, l'11 ottobre 2007, nell'autogrill di Badia al Pino verrà ucciso Gabriele Sandri, tifoso della Lazio. Ad ammazzarlo un colpo di pistola esploso dall'agente di polizia Luigi Spaccarotella, che in quel momento si trovava dall'altra parte della carreggiata. Il poliziotto verrà condannato in tutti e tre i gradi di giudizio per omicidio volontario. Giuseppe Uva morirà il 15 giugno del 2008. Venne fermato dai Carabinieri insieme ad un amico, che raccontò: “Avevamo bevuto. Mettemmo le transenne in mezzo alla strada. Una bravata”. Li portarono via, li misero in due stanze diverse. L'amico sente le grida di Giuseppe nell’altra stanza. Chiama il 118. Chiede aiuto. Poi sono gli stessi carabinieri a chiamare i sanitari e richiedono il trattamento sanitario obbligatorio per Uva. Giuseppe muore in ospedale dopo essere rimasto oltre tre ore in caserma. Sotto processo è un medico accusato di avergli somministrato un farmaco che avrebbe fatto reazione con l’alcool che aveva in corpo. La sorella Lucia disse: "Era pieno di lividi. Aveva bruciature di sigaretta dietro il collo e i testicoli tumefatti”. “Mi hanno spiegato che Pino ha dato in escandescenze, che è andato a sbattere contro i muri, ma quelle ferite non si spiegano così”. “Giuseppe – rivela la sorella – aveva anche sangue nell’ano”. Venne violentato? Il 24 giugno del 2008 Niki Aprile Gatti, 26 anni, muore nel carcere di massima sicurezza di Sollicciano (Firenze). Era stato arrestato a seguito di un'indagine su una società di San Marino responsabile di una truffa informatica. Venne trovato impiccato a un laccio nel bagno del carcere. Tutto avrebbe fatto pensare a un suicidio, ma la mamma di Niki non ci sta e, ancora una volta, scrive su un blog: "L’utilizzo di un solo laccio è di per sé idoneo a causare la morte per strangolamento di una persona. Ma certamente non idoneo a sorreggere il corpo di Niki, del peso di 92 chili. Inoltre non si comprende come possa essere stata consumata l’impiccagione quando nel bagno non vi era sufficiente altezza tra i jeans e il piano di calpestio del pavimento". Il 25 luglio del 2008 muore nel carcere Marassi di Genova Manuel Eliantonio, 22 anni. Era stato in discoteca e, a seguito di un controllo di Polizia, gli rilevarono tracce di alcol e stupefacenti. Per questo venne fermano, tentò la fuga ma venne acciuffato e incarcerato. Dopo sette mesi de detenzione per resistenza a pubblico ufficiale e a meno di un mese dal rilascio muore. L'autopsia parla di intossicazione da butano ma non spiega i lividi sul suo corpo. Carmelo Castro è morto in carcere il 28 marzo del 2009, a soli 19 anni. Era stato arrestato per aver fatto il palo in una rapina. Tre giorni dopo aver varcato il portone del carcere di Piazza Lanza si è suicidato legando un lenzuolo allo spigolo della sua branda. Così è stato scritto nella relazione di servizio e questo ha confermato anche il gip Alfredo Gari che ha già respinto una prima richiesta di riapertura delle indagini presentata dalla famiglia del ragazzo. Ma la madre Grazia La Venia non ci sta: "Mio figlio non può essersi suicidato, non era in grado nemmeno di allacciarsi le scarpe da solo, figuriamoci attaccare un lenzuolo alla branda e impiccarsi". Al suo fianco ora si schiera l’associazione Antigone, che ha denunciato: "Nel corso delle indagini preliminari non è stato disposto il sequestro della cella, né del lenzuolo con il quale Castro si sarebbe impiccato a questo, si aggiunga che non è stato sentito nessuno del personale di polizia penitenziaria intervenuto, né il detenuto che avrebbe portato il pranzo a Castro e che sarebbe l’ultima persona ad averlo visto ancora da vivo". Il 21 luglio del 2009, Stefano Frapporti, operaio di 48 anni, sta tornando da lavoro in sella alla sua bicicletta quando viene fermato da due carabinieri in borghese per un'infrazione stradale. Portato in carcere perché sospettato di spaccio non uscirà mai vivo dalla cella. Ufficialmente morirà suicida, ma tra gli amici da anni è in vigore una battaglia per chiedere chiarezza. Il 58enne Franco Mastrogiovanni morirà il 4 agosto del 2009 dopo 4 giorni di trattamento sanitario obbligatorio e dopo essere rimasto legato più di 80 ore a un lettino, alimentato solo di flebo e sedato con farmaci antipsicotici. Il video della sua agonia fece il giro del mondo. Tutti conoscono la storia di Stefano Cucchi, geometra di 31 anni morto nel reparto carcerario dell'Ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009. Stefano era accusato di detenzione di stupefacenti. Morì di edema polmonare dopo 8 giorni di agonia, nei quali perse 7 chili. Sul suo corpo, le cui foto sconvolsero l'Italia, venne rilevata una vertebra fratturata, la rottura del coccige, sangue nello stomaco e altri traumi sparsi ovunque. Gli agenti di polizia penitenziaria che lo ebbero in custodia sono tuttora indagati per lesioni e percosse (è caduta l'accusa di omicidio colposo), mentre i medici sono indagati per abbandono di incapace. E la lista potrebbe essere ancora lunga, se contenesse anche i nomi dei detenuti che si sono tolti la vita negli ultimi anni, spesso a causa delle condizioni disumane in cui versano le carceri. La soluzione del caso Aldrovandi dovrebbe indurre a far chiarezza anche su tutti gli altri. Verso i quali, come abbiamo visto, troppo spesso è prevalsa la superficialità di giudizio quando non un assurdo spirito cameratesco. Si ringrazia l'Osservatorio sulla Repressione.

Botte dietro le sbarre, i troppi casi Uva nelle carceri italiane. Da Lucera a Siracusa, da Pordenone a Ivrea. Molti i casi controversi di morte o lesioni in carcere. Un detenuto: «La mia faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile», scrive Carmine Gazzanni il 20 Aprile 2016 su “L’Inchiesta”. Due assoluzioni per una brutta faccenda che ancora non risulta affatto chiara. Lucia Uva, sorella di Giuseppe, assolta dall'accusa di aver diffamato poliziotti e carabinieri che lo avevano in custodia. Questi ultimi a loro volta assolti venerdì 15 aprile dall'accusa di aver seviziato l'operaio 40 enne. Rimane un enorme cono d’ombra: gli ematomi e le tumefazioni sul corpo di Giuseppe Uva rimangono, almeno per ora, senza una concreta spiegazione. «Non si può che pensare tutto il male del mondo sulla vicenda Uva. Non siamo ciechi: è evidente che la verità sia un’altra. Ne vanno di mezzo anche le istituzioni, che perdono la credibilità» dice a Linkiesta Giuseppe Rotundo, uno che ha rischiato di finire esattamente come Uva, Stefano Cucchi e tanti altri che sono morti dietro le sbarre. «Sono un miracolato. Io quella notte dovevo morire», ricorda ancora. È il 2011 e Giuseppe è detenuto al carcere di Lucera, in provincia di Foggia. Quel giorno ha un diverbio con alcuni agenti della polizia penitenziaria. «Sapevo – racconta a Linkiesta – che sarei andato incontro ad un rapporto disciplinare. Mai però avrei immaginato che mi avrebbero pestato». Il giorno dopo due dottoresse con le quali aveva fissato da tempo una visita medica, addirittura non lo riconosceranno. «La faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile» dirà una delle due dottoresse al pm che ha indagato e ottenuto il rinvio a giudizio degli agenti, grazie alla sua tempestività di inviare subito in carcere qualcuno che fotografasse Rotundo. Foto inequivocabili: lividi su braccia, gambe e schiena, tagli sulla faccia, piede gonfio, occhio sanguinante. Ora il processo è in fase dibattimentale e tutti, sia guardie che detenuto, sono imputati e persone offese. Ma gli agenti non sono a giudizio per tortura. Impossibile, dato che in Italia non esiste una legge che punisca questa tipologia di reato. Meno “fortunato” è stato Alfredo Liotta, sulla cui storia pure aleggiano pesanti ombre che purtroppo, visti i tempi giudiziari e la prescrizione che si avvicina per gli imputati, rischiano di non essere mai più diradate. È il 26 luglio 2012 quando il suo corpo viene ritrovato ormai senza vita in una cella del carcere di Siracusa. All’inizio si dirà che Alfredo è morto per un presunto sciopero della fame. Peccato però che di tale sciopero non ci sia alcuna traccia nel diario clinico. Tanto che il legale di Antigone, l’associazione che si occupa della tutela dei diritti umani in carcere, presenta un esposto. Più di qualcosa infatti non torna. Perché, ad esempio, di fronte al grave dimagrimento di Alfredo, che già da un mese prima «non riusciva più a stare in posizione eretta», non sono stati disposti neanche quei minimi accertamenti come la misurazione del peso o il monitoraggio dei parametri vitali? Arriviamo così a novembre 2013: la Procura di Siracusa iscrive ben dieci persone nel registro degli indagati tra direttrice del carcere, medici, infermieri e perito nominato dallo stesso tribunale. Sono passati quasi quattro anni dalla morte di Liotta, ma la Procura non ha ancora provveduto alla chiusura delle indagini. Indagini che, invece, forse verranno presto archiviate per Stefano Borriello, un caso di cui Linkiesta si è già occupata. Una morte improvvisa, senza alcuna ragione. Tanto che, anche qui, la Procura di Pordenone ha deciso di aprire un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Aveva dunque nominato un perito medico per accertare le «cause della morte» e «eventuali lesioni interne o esterne» riportate dal giovane. Dopo un silenzio durato ben otto mesi, il consulente del pm ha reso noto che Stefano sarebbe morto per una banale polmonite batterica e che, a fronte di questa patologia, in modo inspiegabile, nessuna cura poteva essere apprestata. Ma è possibile – si chiedono da Antigone – che un ragazzo muoia in carcere per una semplice polmonite batterica e che dinanzi a questo evento non si decida di individuarne i responsabili? Anche perché, ovviamente, la polmonite non nasce dal nulla: ha sintomi ben precisi, ha un decorso di diversi giorni e, soprattutto, se correttamente diagnosticata ci sono terapie risolutive. Non è un caso allora che per un fatto analogo, ci dicono ancora da Antigone, lo scorso mese di marzo a Roma è stata chiesta la condanna per omicidio colposo per il medico del carcere ritenuto responsabile della morte di un giovane, avvenuta nel carcere romano di Rebibbia proprio per polmonite: «una diagnosi tempestiva gli avrebbe salvato la vita». Ma non è finita qui. Perché accanto a episodi più noti saliti alla ribalta delle cronache, ci sono casi di violenza dietro le sbarre di cui spesso poco o nulla si sa. È gennaio quando alla sede del Difensore civico del Piemonte arriva una lettera a firma «R.A.» in cui viene denunciato un episodio di violenza che si sarebbe verificato presso la Casa circondariale di Ivrea e di cui l’autore della missiva sarebbe stato teste oculare. «Il giorno sabato 7 novembre scorso – si legge nella lettera – ho assistito al maltrattamento di un giovane detenuto, probabilmente nordafricano di cui non conosco il nome. Verso le ore 20.15 sono stato attratto da urla di dolore e di richieste di aiuto e sono uscito dalla mia cella nel corridoio che consente di vedere la “rotonda” del piano terra. Ho visto tre agenti picchiare con schiaffi e pugni il giovane che continuava a gridare chiedendo aiuto e cercava di proteggersi senza reagire. Alla scena assistevano altri agenti e un operatore sanitario che restavano passivi ad osservare. Il giovane veniva trascinato verso i locali dell’infermeria mentre continuava a gridare». R.A., a questo punto, segnala il fatto al magistrato di sorveglianza di Vercelli e alla direttrice della Casa circondariale. Una denuncia importante, quella di R.A., cui è seguito un esposto presentato dallo stesso Difensore civico, e un procedimento aperto alla Procura di Ivrea. Per ora contro ignoti. Ignoti che, si spera, un giorno abbiano un volto, un nome e un cognome.

IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.

Giustizia, 13 anni per arrivare in appello. Ex procuratore capo, cancelliere e altri 9 imputati prescritti. Gli imputati erano accusati del saccheggio del Palazzo di Giustizia di Torre Annunziata: 20 milioni di euro depredati, attraverso un gioco di falsi mandati di pagamento di rimborsi e consulenze di giustizia, orchestrato da un cancelliere con la responsabilità del procuratore capo, Alfredo Ormani, scrive Vincenzo Iurillo il 6 maggio 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. Ci volevano 13 anni per far estinguere i reati di cui erano accusati i principali imputati del saccheggio del Palazzo di Giustizia di Torre Annunziata: 20 milioni di euro depredati, secondo l’accusa, attraverso un gioco di falsi mandati di pagamento di rimborsi e consulenze di giustizia, orchestrato da un cancelliere con la responsabilità del procuratore capo. Ci volevano 13 anni eppure è successo: il colpo di spugna della prescrizione ha cancellato in appello le condanne a sei e cinque anni in primo grado dell’ex capo della Procura di Torre Annunziata Alfredo Ormanni e dell’ex supercancelliere Domenico Vernola. Entrambi erano alla sbarra a Roma – competente quando è implicato un magistrato del napoletano – in un processo con 21 imputati per reati che spaziavano dall’associazione a delinquere al peculato, falso e riciclaggio. La Corte d’Appello ha sentenziato 11 prescrizioni, 8 condanne per riciclaggio e 2 assoluzioni nel merito. Colpa dei tempi biblici di un processo di primo grado durante il quale il collegio giudicante è cambiato dieci volte. Spiega un avvocato: “Anche le accuse di riciclaggio aggravato dovrebbero prescriversi tra un mese, non faranno nemmeno in tempo a depositare le motivazioni: i giudici si sono presi 90 giorni di tempo per redigerle”. Basterà presentare un ricorso in Cassazione, e la prescrizione scatterà anche per molti dei condannati in appello. E così tanti saluti alle responsabilità penali di uno dei più colossali scandali della provincia napoletana del decennio scorso. Esplose violentissimo nel 2004, al termine di una ispezione ministeriale, che contestò a Vernola un giro fraudolento di rimborsi per spese di giustizia. Il cancelliere fu sospeso e allontanato, si aprì una indagine che coinvolse il procuratore Ormanni, firmatario di centinaia di mandati di pagamenti ritenuti fasulli, e i parenti di Vernola, sospettati di essersi fatti girare i soldi raccolti dal cancelliere tramite finti ‘mandati a se stesso’ per trasformarli in auto, case e beni di lusso. Nel mirino le spese di giustizia di alcune importanti indagini di Torre Annunziata: così finiscono sotto inchiesta a Roma anche alcuni esponenti delle forze di polizia giudiziaria che materialmente le condussero, presentando note spese ritenute anch’esse finte o gonfiate. Il Gup decreta il rinvio a giudizio il 25 maggio 2006. Ma il processo parte al rallentatore perché il collegio giudicante cambia in continuazione. Ed ogni volta si riparte da capo. Udienze celebrate solo per fissare rinvii. Senza istruttorie. Senza testimonianze. Un processo fermo. Partito in pratica solo nel 2012, quando finalmente il collegio si stabilizza. Quindi due anni di udienze per la sentenza di primo grado. E due per la fissazione dell’appello. Tempi normali, sui quali però ha pesato il lungo stop iniziale. Allora si stagliano come due eroi gli unici imputati che hanno rinunciato alla prescrizione per ottenere un’assoluzione piena. Si chiamano Emilia Salomone e Sergio Profeta, rispettivamente cancelliere a Torre Annunziata ed ispettore di polizia del commissariato di Sorrento. Assistiti dagli avvocati Francesco Matrone e Giuseppe Ferraro, il cancelliere e il poliziotto erano stati condannati in primo grado e licenziati in tronco. Ora avranno diritto al reintegro e alle spettanze perse. Gli anni smarriti nel lungo tunnel della giustizia, quelli no: sono persi per sempre.

Appello contro i Giustizialisti Giacobini (e invito alla sollevazione contro il Klan delle tre G). Come si sa, i Giustizialisti Giacobini dormono, la notte, adagiati fra le teste mozzate dei nemici uccisi. Di essi hanno bevuto il sangue. Delle loro carni si sono saziati. Non c’è nulla di più detestabile di un Giustizialista Giacobino. In lui infatti convergono, tautologicamente, due orribili vizi: l’essere giustizialista, e l’essere giacobino. E’, come si sa, una combinazione devastante ed esiziale. Da essa proviene ogni male della terra. Si pensa che anche Eva, quella di Adamo, fosse malata di questa malattia. Non parliamo di Giuda. Si nutrono cauti sospetti anche su Robespierre. Data la gravità dei loro crimini, siamo tutti in grado di riconoscere i Giustizialisti Giacobini, tutti conosciamo le loro malefatte. Appare dunque superfluo definirli. Si sa quello che sono. Nomina sunt consequentia rerum. Dunque parliamo di fatti e bando alle ciance:

1) Il Giustizialista Giacobino è colui che non evoca la giustizia come risoluzione di alcuni problemi giudiziari, ma vorrebbe perversamente che essa li risolvesse tutti. Tutti ovviamente vogliamo la giustizia e tutti, socraticamente, sappiamo che la “giustizia è giusta”. Quello che è ingiusto ovviamente è l’uso giacobino e giustizialista della giustizia. Tale uso si caratterizza per la pretesa, assolutamente ignobile, di processare coloro che sono indiziati, e di condannare coloro che sono risultati colpevoli dagli atti processuali, quando quei reati ci riguardano e riguardano i nostri interessi. I Giudici Giustizialisti e Giacobini (l’orribile Klan delle Tre G) se ne fregano della micro o macro criminalità quotidiana e di strada. Come se un criminale abituale e seriale, ad esempio il ladruncolo di strada extra comunitario, fosse ladro tanto quanto (forse meno!) di finanzieri e politici corrotti e corruttori, di falsificatori di bilanci e dispensatori di mazzette, di evasori fiscali. Come se il gioielliere che spara al ladro che l’ha privato di tutti i suoi averi, fosse colpevole come il ladro stesso!

2) Si dirà che tale idea della differenziazione della giustizia ha un che di antiquato, di classista, distingue ricchi da poveri, privilegiati e non, potenti e miserabili. Ma questa, ovviamente, è la tipica obiezione del Giustizialista Giacobino. Questa ignobile creatura sa infatti molto bene, ma finge di non sapere, che se la giustizia è sempre giusta non sempre lo sono i giudici. Essi si dividono in Giudici Giustizialisti Giacobini e Giudici Non Giustizialisti e Non Giacobini. I primi condannano per scopi politici, per rancori personali, per invidia sociale. I secondi sono animati da giustizia, saggezza e santità. Per riconoscere una sentenza come Giustizialista basta individuare chi è stato colpito da essa. Se è qualcuno che ha sparato a zero sul Giustizialismo Giacobino, potete stare certi che la sentenza sarà il prodotto del medesimo. E’ un circolo da cui non si sfugge.  Ne consegue che, chi denuncia il Giustizialismo Giacobino, verrà preferibilmente condannato dai Giudici Giustizialisti. La denuncia del Giustizialismo causa la vendetta dei Giustizialisti. Qualcuno forse obietterà che spesso i giudici vengono definiti Giustizialisti Giacobini a sentenza di condanna avvenuta. Ma a questo è facile rispondere che, fino ad allora, l’imputato ingiustamente condannato non si era reso conto di quando il suo giudice fosse Giustizialista e Giacobino. Certo i cittadini sono troppo onesti e hanno un troppo elevato senso della giustizia per concepire che un giudice possa essere così perverso. E quando lo scoprono sulla loro pelle, perché vengono condannati, sentono il dovere morale di denunciarlo.

3) Altra cosa del Giustizialismo Giacobino è invocare una giustizia rapida, inflessibile, con inasprimento delle pene e accelerazione dell’iter processuale, incarcerazione preventiva prolungata e cancellazione delle attenuanti e dell’habeas corpus per i reati commessi dai nemici giurati della comunità civica e dunque della giustizia giusta. Neri, maghrebini, rumeni ed albanesi, frange estremiste e disperate, vagabondi che insozzano le nostre strade, devastatori e disturbatori dell’ordine pubblico di qualsiasi etnia, debbono patire la giustizia giusta, severa e spietata, e questo ovviamente non è Giustizialismo. Il Giustizialismo Giacobino è infatti l’uso politico, ingiusto ed abusivo della giustizia. In questo caso si tratta invece di eque pene (anche troppo morbide, diciamola tutta) che dimostrano che lo Stato ha forte e coerente il senso della giustizia giusta.

Riassumiamo dunque. La giustizia è sempre giusta, ma i giudici possono essere giusti ed ingiusti. I giudici ingiusti sono i Giustizialisti Giacobini, che condannano animati da sete di vendetta politica. Il cittadino che denuncia un giudice come Giustizialista Giacobino lo fa perché capisce, presto o tardi e sulla sua pelle, che tale giudice lo odia e vuole condannarlo. Su di lui piove crudele la vendetta dei Giustizialisti. Pertanto, alla fine della sua giornata, il Giudice Giustizialista può aver condannato anche moltissimi innocenti. E’ dunque opportuno costituire un Partito degli Innocenti (P.d.I.) che ribatta colpo su colpo all’offensiva dei Giudici Giustizialisti e Giacobini. Il Klan delle tre Gdeve essere colpito e affondato. Trattiamo finalmente da esuli i latitanti e da innocenti i colpevoli. Distinguiamo fra colpevoli-colpevoli, innocenti-innocenti, innocenti-colpevoli e colpevoli-innocenti. Rendiamo un utile servizio all’umanità e al nostro paese. Diciamo basta al Giustizialismo Giacobino e ai giudici che perversamente lo praticano! Viva la libertà! Viva la giustizia giusta! Abbasso la giustizia ingiusta! Prescrizione per tutti!

Glossario (nel caso ci fosse ancora qualcuno che non sappia del Klan delle Tre G)

Giudici: Strane creature, in genere provenienti dai reparti neuropsichiatrici, la cui sindrome si manifesta attraverso la pretesa di giudicare altri esseri umani, in genere mentalmente molto più stabili di loro, mediante uno strano sistema di norme, astratte e sconclusionate, chiamate leggi. Si tratta di un comportamento evidentemente insolito, assurdo, e chiaramente inficiato da delirio paranoico e di onnipotenza. Si guardassero a casa loro e nel loro orto, invece di cercare la trave del vicino nel primo cammello che capita a tiro (forse non è così, non mi ricordo bene...). Questo non vuol dire che alcuni di questi strani individui non si comportino egregiamente e tendano ad assolvere le persone che noi vogliamo che assolvano (compresi noi stessi). Ma gli altri sono inguaribili strafottenti, che esercitano la giustizia come se brandissero una clava.

Giustizialismo: Il temine in sé è neutrale e vorrebbe indicare, immaginiamo, l’esercizio della giustizia tramite la condanna dei colpevoli. In realtà il termine tende ad evidenziare il comportamento della maggior parte dei giudici, che condannano tutti quelli che ritengono colpevoli e non solo quelli che noi onesti cittadini vorremmo che fossero giudicati tali. Il Giustizialismo è quindi definibile come l’attitudine ad esercitare la giustizia in modo abusivo. Questo ovviamente comporta il problema di chi possa giudicare i giudici riguardo a tali abusi. La risposta è quanto mai ovvia e scontata: coloro che si oppongono al giustizialismo!

Giacobini: Esseri dalle apparenti sembianze umane (o che assumono ingannevoli sembianze umane), ma probabilmente provenienti da altri pianeti e comunque non dalle comunità occidentali progredite del nostro pianeta. Coloro i quali affermano che i giacobini nascano in Occidente, e affondino le loro radici culturali nella tradizione occidentale, sono probabilmente giacobini essi stessi. I giacobini sono esseri talmente crudeli che spesso si divorano tra di loro. Sono dotati di una doppia fila di zanne e secernono liquidi urticanti dai pori delle loro pelle squamosa. Quando sorridono, si vede che non lo sanno fare. Né si divertono mai, perché passano il loro tempo a tramare contro l’umanità. Si riuniscono in luoghi oscuri e fangosi dove praticano l’accoppiamento fra coppie non sposate (e spesso dello stesso sesso) e il sacrificio umano (bambini soprattutto). Quando si travestono da uomini e popolano le nostre città, vivono spesso anche nei quartieri alti. In tal caso si riuniscono in salotti bene e firmano petizioni allo scopo di epurare l’umanità dai suoi elementi migliori. Tendono naturalmente a diventare giudici (per natura e per attitudine, data la loro devastata biologia e la loro perversione innata) o a influenzare i giudici, probabilmente per mezzo di facoltà telepatiche e di controllo della mente.

“I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo e nel presentare il loro programma di governo si affrettano a sottolineare che tra i primi punti ci sarebbe l’abolizione della prescrizione. Prescrizione che, tra l’altro, è stata allungata nei tempi dal Governo Renzi. Anziché voler lavorare per una giustizia vera e per garantire tempi certi nei processi ai cittadini, così come sancito dalla nostra Costituzione, i grillini optano per procedimenti giudiziari infiniti che paralizzerebbero la vita delle persone, anche di quelle innocenti. Se malauguratamente diventassero forza di governo ci sarebbe davvero di che preoccuparsi”. Così Gabriella Giammanco, parlamentare di Forza Italia. 18 ottobre 2015.

Quali saranno i primi punti di un governo a 5 Stelle? “La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l’onesta, mettere mano alla giustizia, eliminare la prescrizione, mettere persone oneste nelle amministrazioni”. Lo sostiene Gianroberto Casaleggio, che ha risposto così ai giornalisti che, a Italia 5 Stelle, gli chiedevano i primi punti del programma.  Il primo criterio sarà “la fedina penale”, i sospettabili non sarà possibile sceglierli. La piattaforma è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi, il problema sarà fare una sintesi. “Fra i primi punti del programma dell’ipotetico governo del Movimento 5 stelle c’è l’abolizione della prescrizione, il che vuol dire la possibilità di tenere sotto processo un innocente per tutta la vita. I grillini si dimostrano sempre più funzionali alla retorica giustizialista che tanti danni ha provocato in questi anni, non avendo mai nascosto del resto la loro avversione verso il Parlamento e le Istituzioni rappresentative”. Lo afferma Deborah Bergamini, responsabile Comunicazione di Forza Italia.  18 ottobre 2015

LA PRESCRIZIONE. Dissertazione di Giovanni Ciri, sabato 18 maggio 2013. "Detesto il fanatismo, la faziosità e le mode pseudo culturali. Amo la ragionevolezza, il buon senso e la vera profondità di pensiero". La Prescizione. E' l'istituto più odiato dai giustizialisti, sto parlando della prescrizione del reato. Vorrebbero tempi di prescrizione lunghissimi, praticamente infiniti. Non conta quando hai commesso un reato, dicono, conta se lo hai commesso, e se lo hai commesso devi essere punito, punto e basta. E non va loro giù che la prescrizione intervenga dopo che il processo ha avuto inizio. Citano addirittura gli Stati Uniti d'America, dove i termini di prescrizione si interrompono appena è stata emessa la sentenza di rinvio a giudizio. Si, è proprio così, negli Usa la prescrizione si interrompe dal momento in cui il sospettato è rinviato a giudizio, ma, quali sono i termini di prescrizione negli Stati uniti d'America? Un delitto che comporta la pena dell'ergastolo è sempre perseguibile. Ogni altro delitto grave (rapine, furti, stupri, sequestri di persona) è perseguibile entro CINQUE ANNI. I delitti meno gravi sono perseguibili entro DUE ANNI, quelli minimi entro UN ANNO. Esclusi i delitti gravissimi, sempre perseguibili, negli Usa ogni crimine deve essere perseguito entro termini temporali abbastanza ristretti. Nel momento in cui inizia il processo però i termini di prescrizione si interrompono, e si evitano in questo modo eventuali manovre dilatorie. Questo non fa sì che l'imputato debba passare lunghi periodi nella “zona di nessuno” in cui necessariamente vive chi è sottoposto a procedimento penale. Negli Usa infatti i processi sono piuttosto rapidi. Le udienze sono quotidiane, i giurati vivono praticamente da reclusi, impossibilitati addirittura a leggere i giornali o a guardare la TV, questo perché chi è chiamato a giudicare della vita di un essere umano deve formarsi la propria convinzione in base a ciò che emerge dal dibattimento, non dai talk show televisivi o dai predicozzi di giornalisti alla Travaglio. La differenza con quanto avviene in Italia è lampante. Un giudice popolare italiano ascolta oggi un teste, fra due mesi un altro, fra sei mesi la requisitoria del PM e fra otto l'arringa del difensore. Se tutto va bene fra un anno entrerà in camera di consiglio (fanno eccezione i processi a carico di Berlusconi che sono di solito rapidissimi). E' difficile pensare che in questo modo il giudice popolare italiano possa maturare una convinzione ponderata sulla base di quanto emerge dal dibattimento. Si aggiunga che negli Usa il pubblico accusatore non è, come in Italia, un collega del giudice, che la difesa contribuisce alla selezione della corte giudicante, che i giurati devono decidere alla unanimità e ci si renderà conto che in quel paese il processo penale, anche se esclude i tre gradi di giudizio automatici, è molto più garantista che nel nostro. E' interessante mettere in evidenza una cosa: se nel nostro paese fosse in vigore la normativa americana molti procedimenti a carico di Berlusconi non avrebbero neppure potuto iniziare. Come hanno agito infatti i magistrati col cavaliere? Non appena è entrato in politica hanno iniziato inchieste riguardanti vecchie storie sulle quali sino a quel momento nessuno aveva indagato o, se indagini c'erano state le loro risultanze giacevano da tempo sotto montagne di pratiche inevase. Nel processo All Iberian il cavaliere è stato rinviato a giudizio nel 1996 per finanziamento illecito ai partiti, reato che è avvenuto (se è avvenuto) fra il 1991 ed il 1992, e di certo non è un reato grave (negli Usa non è neppure previsto come reato). La prima inchiesta a carico di Berlusconi, quella per le famose tangenti alla guardia di finanza, riguarda diverse tangenti, corrisposte a diversi soggetti, la prima della quali risalente al 1989, l'ultima al 1994. Il rinvio a giudizio è del 1995, quanto meno le prime tangenti non avrebbero quindi dovuto rientrare nel procedimento che, come si sa, si concluse con la piena assoluzione dell'imputato. Una indagine a carico di Berlusconi per traffico di droga si è conclusa nel 1991 con una archiviazione, i fatti risalgono al 1983. Non voglio continuare perché non sono e non mi interessa essere uno specialista in Belusconismo giudiziario (ho preso i dati dalla rete). Mi va solo di sottolineare che i termini americani di perseguibilità avrebbero reso assai più difficile il lavoro di magistrati assolutamente imparziali e privi di pregiudizi come Antonio Di Pietro o Ilda Boccassini. Ma, a parte ogni tecnicismo, quale è la filosofia che sta dietro l'istituto della prescrizione, che i forcaioli di ogni tipo odiano? La risposta è semplicissima, la si può riassumere in una sola parola: garantismo. Garantismo che vale a tre livelli. In primo luogo, una persona non può essere indagata a vita. Se sei indagato vivi in una situazione di estrema provvisorietà. Se cerchi lavoro tutto diventa più difficile se è in corso un procedimento giudiziario a tuo carico, se il lavoro lo hai già le prospettive di carriera si complicano terribilmente. Chi è indagato ha diritto che in tempi ragionevolmente brevi il suo caso si chiuda. Ha diritto a questo anche chi è stato offeso dall'eventuale azione criminosa dell'indagato. Insomma, una giustizia rapida è nell'interesse di tutti, meno che dei criminali e dei calunniatori di professione. In secondo luogo, a meno che non si tratti di reati gravissimi, nessuno può essere chiamato a rispondere di cose avvenute molto tempo prima, con tutte le difficoltà di ricordare eventi, nomi, situazioni. Infine, ed è la cosa più importante di tutte, i termini di perseguibilità tendono ad impedire che qualche solerte magistrato possa perseguitare un cittadino andando a spulciare nella sua vita passata in cerca di qualche reato. Questa in particolare è la filosofia che sta dietro alla normativa americana. Tizio può essere indagato solo se esiste una specifica ipotesi di reato a suo carico e se c'è il ragionevole sospetto che possa essere implicato in quel reato. I magistrati insomma devono indagare su reati accertati, non andare alla ricerca di reati, meno che mai lo devono fare concentrandosi su una persona, ancora meno andando a spulciare tutta la sua esistenza per appurare se per caso ci sia in essa qualcosa di poco regolare. L'istituto della prescrizione è inoltre collegato teoricamente con il principio della presunzione di innocenza. Non è vero che la assoluzione per prescrizione equivale ad una condanna. I termini di prescrizione fissano dei limiti alla azione del magistrato: questi deve riuscire a far condannare il sospettato da lui ritenuto colpevole entro quei limiti, se non ci riesce il sospettato è innocente perché nei paesi civili la innocenza è presunta. Da quanto si è detto emerge che non è affatto un caso che i giustizialisti forcaioli di tutte le risme abbiano profondamente in odio la prescrizione. Il loro ideale è una società in cui tutti si sia indagati, tutti si viva sempre sotto sorveglianza. Un “magistrato” come Ingroia è arrivato addirittura a proporre, in campagna elettorale, la inversione dell'onere della prova nei processi per reati finanziari: se Tizio è sospettato di evasione gli si confischino i beni, ha detto, poi lui avrà sei mesi di tempo per dimostrare la sua innocenza... magnifico! A Tizio sono concessi sei mesi per provare la sua innocenza, ma dieci anni per prescrivere un reato sono pochi, per il dottor Ingroia! E ora questo signore è di nuovo magistrato, non invidio valdostani. La cosa grave è che simili idee forcaiole sono molto diffuse nel paese. Molta, troppa gente è convinta che il garantismo sia quasi un lusso, che tutto sia lecito pur di mettere dentro un presunto corrotto. Non si capisce che ogni arbitrio è possibile se vengono meno le fondamentali garanzie a tutela della libertà dei singoli, ogni arbitrio ed anche ogni corruzione.

Se La Repubblica vuole ancora più processi, scrive Giovanni Torelli su “L’Intraprendente” il 15 febbraio 2016. No, alla sinistra non basta la quantità abnorme di processi penali che si celebrano ogni anno in Italia e di quelli ancora pendenti (sono circa 3 milioni e mezzo). Ne vuole ancora di più, perché desidera un sacco alimentare sia la macchina della Burocrazia che quella del Giustizialismo. E così, in un dossier pubblicato lo scorso sabato, la Repubblica lamenta il fatto che, per colpa della prescrizione troppo breve voluta dalla legge ex Cirielli del 2005, nel nostro Paese vengano cancellati ogni anno circa 130mila reati. E che quindi altrettanti presunti colpevoli restino inevitabilmente impuniti…Insomma, alla macchina già ingolfata della giustizia italiana (la cui inefficacia non è certo colpa della prescrizione troppo breve, semmai della lentezza di certi magistrati) la Repubblica vorrebbe aggiungere un ulteriore carico, appoggiando l’ipotesi di riforma voluta dal ministro della Giustizia Orlando, che intende allungare di tre anni per tutti i processi penali i tempi della prescrizione. Il sovraccarico potrebbe essere facilmente calcolabile: “riabilitando” 130mila processi annui è verosimile che in un decennio i processi ancora pendenti in Italia diventino circa 5 milioni. Che dire, un’ideona…E vabbè, uno dirà, non è giusto che 80mila fascicoli non arrivino neppure in sede di dibattimento ma vengano bloccati dalla scure della prescrizione già in fase di indagini preliminari; ed è ingiusto che la giustizia non faccia il suo pieno corso, “costringendo” oltre 23mila processi a fermarsi in primo grado per raggiunti limiti di tempo e altri 24mila a bloccarsi in Appello per la stessa ragione. La giustizia piena vuole che siano affrontati tutti i tre gradi di giudizio, dicono loro. È una forma di garanzia verso l’imputato ma anche di sicurezza che il colpevole ottenga la giusta pena, dicono loro. Il punto vero però è che molte di quelle indagini preliminari muoiono ancor prima di addivenire a giudizio perché vengono aperte in ritardo rispetto al reato, sono fondate su prove inconsistenti, non hanno riscontri concreti e tergiversano fino a concludersi in un nulla di fatto: altroché prescrizione, molte di quelle indagini non dovevano neppure essere aperte. Se poi in fase di dibattimento quei processi si arenano fino a interrompersi, la colpa spesso è oltre che dell’oggettiva lentezza della giustizia italiana (che ha scambiato il garantismo con una dilazione immotivata di tutti i passaggi processuali) anche di una mancata operosità di chi dovrebbe invece favorire l’accelerazione di quei processi. Il fardello pendente dei processi mai portati a compimento, per capirci, grava non solo sulle spalle dell’imputato, ma soprattutto sulle coscienze di dipendenti (non sempre efficienti) dello Stato che si chiamano magistrati. E non vorremmo che la riforma della prescrizione voluta da Orlando e difesa da la Repubblica diventi una scusa per prolungare ulteriormente i tempi di lavoro dei giudici. Avranno pure le ferie più corte, adesso, ma hanno anche tre anni in più per trastullarsi con le carte di un processo…

"Troppo potere mediatico ai pm. La giustizia italiana è una follia". Piero Sansonetti, direttore del nuovo quotidiano "il Dubbio", in edicola da martedì: "Le toghe fanno politica, riforma necessaria", scrive Anna Maria Greco, Giovedì 07/04/2016, su "Il Giornale". Si chiama il Dubbio, esce in edicola martedì e per 5 giorni la settimana, ha 16 pagine, full color, una redazione di 13 professionisti: è il nuovo quotidiano diretto da Piero Sansonetti. Che ha come editore la Fondazione del Consiglio nazionale forense.

Insomma, sarà il giornale degli avvocati. Con quale obiettivo?

«La linea politico-editoriale sarà quella dell'avvocatura, che si riassume così: i diritti avanti a tutto. Si propone di spezzare il predominio di un pezzo della magistratura sul mondo dell'informazione italiana e così anche la supremazia del potere giudiziario su quello politico».

E questo nome, Il dubbio?

«Fa riferimento al ragionevole dubbio verso ogni accusato. Ai diritti della difesa, che sono il fondamento dello stato di diritto. Da noi gran parte della stampa è giustizialista, amplifica le accuse, gli avvisi di garanzia, gli arresti e quando poi gran parte dei processi finisce con l'assoluzione, si scrive che è stata negata la giustizia e non c'è un colpevole. Se si sostengono le ragioni della difesa si passa per complici, così spesso vengono considerati gli avvocati di un accusato. Questa etica della colpevolezza va contrastata».

Sarà un nuovo Garantista?

«Sarà un quotidiano apertissimo, in cui parleranno tutti. Non sarà né con il governo né con l'opposizione, né di destra né di sinistra, né con Renzi né con Berlusconi. Aperto al dialogo, su tutto e con tutti».

Però, diciamolo, sarà un giornale contro le toghe.

«No, perché ce ne sono di ottime e noi vogliamo fare un giornalismo senza risse e insulti, beneducato. Contro il giustizialismo, sì. Contro quella parte forcaiola dei magistrati e della stampa, sì. Contro quel potere politico in ginocchio davanti alla magistratura, sì».

Che ne dici dell'uscita critica di Renzi sulle lentezze dei magistrati, dopo il caso Guidi, cui ha replicato l'Anm Basilicata?

«Un'uscita coraggiosa, perché è raro che un politico osi sfidare le toghe. È vero che si comincia con le accuse e non si arriva mai ai processi. Non hanno interesse a celebrarli i magistrati stessi. Altro che accuse agli avvocati sulla prescrizione: nel 70 per cento dei casi interviene in fase di indagini preliminari, quando la difesa non ha certo potuto ritardare l'iter. I guai dipendono dai tempi lunghi della giustizia. Ma quando Renzi l'ha detto, immediatamente l'Anm ha reagito. Perché è una forza politica, polemizza col governo, interviene sulle leggi da fare e come, mette in discussione continuamente l'equilibrio tra i poteri. È impressionante. In questo scambio di battute c'è il riassunto della follia che è oggi la giustizia».

Serve la famosa riforma.

«Non la fa nessuno. Non l'ha fatta Berlusconi, non la fa Renzi. E l'opinione pubblica viene spinta dal sistema dell'informazione sempre dalla parte della pena e della forca. Così, anche i diritti alla privacy scompaiono».

In prima pagina ci sono Panama papers e intercettazioni dello scandalo petrolio.

«E qualcuno si chiede se la fuga di notizie sui conti off-shore sia legale? Nessuno. O se lo siano le intercettazioni della Guidi (che ha fatto benissimo a dimettersi, beninteso) e degli altri? Nessuno. Chi si pone la questione che in Italia ci siano mille volte più intercettazioni che in Gran Bretagna? Il rispetto delle regole, il diritto alla difesa, non interessa nessuno».

Piero Sansonetti lancia "Il Dubbio": "Non è un giornale contro i magistrati ma contro il giustizialismo e per i diritti", scrive Laura Eduati su L'Huffington Post il 07/04/2016. Un giornale garantista e battagliero in difesa dei diritti, senza padroni politici. Piero Sansonetti lancia "Il Dubbio", il quotidiano che ha come editrice unica la Fondazione dell'Avvocatura Italiana del Consiglio Nazionale Forense e che sarà in edicola e online dal 12 aprile. "Saremo la testata di riferimento per coloro che vorranno comprendere le ragioni della difesa e non soltanto quelle dell'accusa, ma non per questo saremo ossessionati dalla perfidia dei magistrati. Tanto è vero che ho invitato all'inaugurazione anche il procuratore Pignatone", spiega un po' scherzosamente l'ex cronista politico dell'Unità, già direttore di Liberazione, di Calabria Ora e del Garantista con la parentesi del settimanale Gli Altri. La squadra dei giornalisti è pronta. Le firme del politico e della cronaca giudiziaria comprendono l'ex notista storico del Messaggero Carlo Fusi, Davide Varì (ex vicedirettore di Calabria Ora) ed Enrico Novi (Indipendente, Liberal). Per il momento non esiste un vicedirettore, il ruolo di caporedattore centrale è affidato ad Angela Azzaro che dai tempi di Liberazione fa parte dei cronisti di fiducia di Sansonetti. Sono già 45mila gli abbonamenti attivati dagli avvocati in tutta Italia. Dodici le città dove sarà possibile trovare la versione cartacea: Roma, Milano, Torino, Genova, Padova, Venezia, Bologna, Bari, Napoli, Firenze, Pescara, Ancona. Un progetto ambizioso: 16 pagine a colori e un contenuto generalista che troverà nella politica e nella giustizia l'osso da mordere. L'obiettivo, spiega Sansonetti, non è tanto criticare l'operato della magistratura quanto "mettere in discussione la mentalità di un'Italia giustizialista che ritiene l'indagato immediatamente colpevole, trova giusta la pubblicazione delle intercettazioni private di Federica Guidi e scende in piazza per manifestare contro i giudici che hanno assolto i geologi processati per il terremoto dell'Aquila". "Perché agli italiani piacciono i processi di piazza", argomenta, "ma dimenticano che dei 4500 politici indagati per Tangentopoli ne sono stati condannati 800: moltissimi, anzi, troppi. Dobbiamo ricordare però che gli altri 3700 sono innocenti". C'è un altro esempio che Sansonetti ama citare per spiegare il clima contro il quale vorrebbe scrivere e fare cultura: il processo Cucchi. Gli agenti della polizia penitenziaria assolti in Cassazione eppure per anni additati come colpevoli: "Ora sono sotto inchiesta dei carabinieri per pestaggio. E' evidente che qualcuno dovrebbe chiedere scusa ai poliziotti". "La colpa di questa mentalità è più dei giornali che dei pubblici ministeri", osserva Sansonetti. "Il numero delle assoluzioni in realtà è altissimo e sono sicuro che molti magistrati la pensano come noi". A proposito della percezione che in realtà la macchina della giustizia sia lenta e non vi sia la certezza della pena, il direttore del "Dubbio" si trova quasi d'accordo ma con una precisazione statistica che rovescia in parte la credenza popolare: "Spesso si dice che per colpa della prescrizione i colpevoli non sono condannati. La verità è che il 70% delle prescrizioni avviene durante le indagini preliminari perciò non possiamo addossare la colpa della mancanza di giustizia agli avvocati, come se facessero di tutto per allungare i tempi". Da anni la battaglia di Sansonetti si concentra sulle storture dei processi. Non a caso il suo nuovo quotidiano prende il nome dall'articolo del codice penale secondo il quale il giudice deve condannare se ritiene l'imputato colpevole "oltre ogni ragionevole dubbio". Purtroppo, osserva, le condanne arrivano anche quando questo dubbio esiste ed è fondato: "Prendiamo Alberto Stasi. Il fatto che fosse stato assolto due volte doveva scalfire la certezza della sua colpevolezza. E invece si trova in prigione dopo l'ultimo passo alla Cassazione". Perché il pallino è la riforma della giustizia: "Sarei per eliminare l'appello se in primo grado ti assolvono. E naturalmente per la riforma delle carriere e in generale uno sveltimento dei procedimenti giudiziari per evitare di celebrare un processo anche otto anni dopo il fatto". Ma il governo è "timoroso": "Purtroppo nessuno è riuscito a far passare questa riforma e penso che nemmeno Andrea Orlando ce la farà, il potere della magistratura è ancora troppo forte. Matteo Renzi è un garantista timoroso. Ricordiamoci che è probabilmente il primo premier a non godere dell'immunità parlamentare, ciò significa che potrebbero arrestarlo senza passare dal Parlamento". Dopo la politica e la giustizia, "Il Dubbio" avrà una seconda missione: i diritti. "La nostra idea è che i diritti sociali e civili non possono essere influenzati dal mercato". A chi pensa che Sansonetti stia tornando al suo alveo politico originario (il Pci), arriva immediata la precisazione: "Il Dubbio non sarà un quotidiano anti-mercato, così come nemmeno io lo sono. Ma il mercato non può governare la società, a meno che non si vogliano schiacciare i diritti fondamentali e quelli acquisiti negli ultimi decenni in Occidente".

Poi ci sono i media giustizialisti che i garantisti non li possono sopportare ed ogni occasione è buona per infangare la loro reputazione.

Il Garantista, giornale di Sansonetti già in crisi. “Da cinque mesi non paga stipendi”. In un comunicato l'assemblea dei giornalisti e il comitato di redazione hanno annunciato lo sciopero delle firme, scattato il primo aprile contro la “Società Cooperativa Giornalisti Indipendenti”, rappresentata dall'imprenditore Andrea Cuzzocrea, che edita il quotidiano nato appena nove mesi fa, scrive Lucio Musolino il 6 aprile 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Neanche un anno ed è già crisi per il quotidiano calabrese Cronache del Garantista. Da alcuni giorni è sciopero delle firme per i giornalisti assunti che lamentano 5 mesi di stipendio arretrato. Mentre i collaboratori esterni non vengono pagati da novembre, quando hanno ricevuto l’unico compenso dal giorno in cui il Garantista è in edicola. La protesta è scattata il primo aprile quando l’assemblea dei giornalisti e il comitato di redazione hanno fatto pubblicare un comunicato sindacale contro chi amministra la “Società Cooperativa Giornalisti Indipendenti” che edita il giornale diretto da Piero Sansonetti, ex direttore di Calabria Ora, il quotidiano fallito dopo la “storia dei cinghiali” e le pressioni subite da direttore Luciano Regolo, ma soprattutto dopo una bancarotta fraudolenta per la quale l’editore Piero Citrigno sarà presto processato davanti al tribunale di Cosenza. Giornali che falliscono, editori che non pagano e giornalisti costretti a prostituire la loro firma per miseri stipendi che poi non riescono a recuperare neanche se si rivolgono ai giudici del lavoro. È la storia della stampa calabrese che, da quasi 10 anni a questa parte, fa i conti con giornali in crisi che ricorrono ad ammortizzatori sociali, che licenziano senza preavviso o che costringono i loro giornalisti a firmare contratti capestri puntualmente denunciati dal sindacato Fnsi. Ritornando al Garantista, che ha debuttato lo scorso 18 giugno, i giornalisti assunti dopo essersi visti congelare le spettanze di novembre, dicembre, tredicesima mensilità e gennaio, per mancanza di liquidità, avrebbero dovuto ricevere quelle di febbraio e marzo grazie alla sottoscrizione del contratto di solidarietà difensiva nella misura del 40 per cento della riduzione dell’orario di lavoro. In questo modo sarebbe stato scongiurato il licenziamento collettivo di 23 lavoratori dichiarati in esubero su un organico di 57. Così non è stato. La Cooperativa, rappresentata dall’imprenditore Andrea Cuzzocrea (che è anche presidente di Confindustria Reggio Calabria) non ha pagato gli stipendi. D’altronde, il segretario regionale del sindacato Fnsi Carlo Parisi, prima dell’uscita del Garantista aveva espresso le sue perplessità sul progetto editoriale. Parisi, infatti, si dice “fortemente preoccupato dal precipitare degli eventi in una realtà editoriale nei confronti della quale, purtroppo, ancor prima del debutto, il sindacato dei giornalisti è stato facile profeta esprimendo serie riserve in materia di sostenibilità dell’impresa”. Anche il contratto di solidarietà non sta salvando il giornale di Sansonetti. “L’applicazione dell’ammortizzatore sociale – spiega ancora il segretario del sindacato – si è rivelata insufficiente a fronteggiare la crisi del giornale che, il 16 gennaio, aveva indotto la cooperativa ad avviare la procedura di licenziamento collettivo per riduzione di personale per 19 giornalisti dei 49 assunti con contratto nazionale Fnsi-Fieg e 4 poligrafici su 8. Dopo un mese di incontri e trattative la vertenza sembrava chiusa. Ma i giornalisti del “Garantista” hanno dovuto amaramente constatare che nulla è cambiato”. Da mesi circolano voci di nuovi soci in grado di mettere soldi freschi per scongiurare il blocco del giornale. Soci che non ci sono mentre quelli vecchi non intendono ricapitalizzare la cooperativa. Per descrivere il Garantista, infine, il sindacato ricorda le parole utilizzate dallo stesso Sansonetti in occasione della presentazione avvenuta a Roma, sul Tevere, a bordo del Barcone della Romana Nuoto: “Un’impresa folle e temeraria”. Il senso però è diverso per Parisi. Se da una parte in Calabria, per quanto riguarda le vendite, ilGarantista è riuscito ad avere “apprezzabili risconti con le circa 3500 copie in edicola, non è riuscito a raggiungere gli obiettivi anche minimi, di vendita e distribuzione, soprattutto a livello nazionale”. Già, perché il Garantista è un giornale nazionale, ma fuori dalla Calabria il quotidiano diretto da Sansonetti non supera qualche centinaio di copie pur avendo una redazione a Roma con costi esorbitanti che oggi rischiano di fare affondare il progetto editoriale.

Piero Sansonetti, nuovo giornale edito da fondazione Avvocatura. Ma i legali si spaccano e scrivono a Orlando. E' battaglia nella categoria sul nuovo quotidiano. Edito da una srl della Fai, la fondazione dell'Avvocatura. E avversato dall'Associazione nazionale forense. Che contesta opportunità e legittimità della pubblicazione. Scrivendo anche al ministro Orlando: "Faccia rispettare la legge", scrive Ilaria Proietti l'11 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Se si farà largo nelle edicole è presto per dirlo. Sicuramente si è già fatto strada tra i membri autorevoli dell’avvocatura italiana e in particolare dell’Anf, l’associazione guidata da Luigi Pansini, tra le più rappresentative degli avvocati. I quali, presi dal dubbio, il nome del nuovo quotidiano che il Consiglio nazionale forense (Cnf) sta tenendo a battesimo e da domani in edicola, si sono rivolti (vedere immagini in basso), con grande preoccupazione, prima al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. E, poi, direttamente all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom). Chiedendo di essere ascoltati con urgenza e stoppare l’iniziativa. A creare così tanti problemi agli avvocati dell’Anf, è l’uscita della nuova testata ‘Il Dubbio’, diretta da Piero Sansonetti e patrocinata come editore dalla srl Edizioni Diritto e Ragione (Edr), società partecipata al 100 per cento dalla Fondazione dell’Avvocatura Italiana (Fai), ente costituito dal Cnf per la “promozione” e “l’aggiornamento della cultura giuridica e forense”, la “valorizzazione dell’avvocatura” e la “divulgazione dei diritti di difesa della persona”. Ma non solo. Può anche “pubblicare, diffondere e commercializzare articoli, riviste, giornali e dispense”. Ma non certo, almeno questa è la linea degli avvocati che sono sul piede di guerra, “un giornale di informazione, di discussione e di cultura”, “capace di informare su tutti gli argomenti di politica, di esteri, di cronaca, di spettacoli e di cultura”. E con l’ambizione di essere “competitivo su questi terreni con gli altri quotidiani” nelle “edicole delle principali città italiane”, come è stato spiegato dal presidente del Cnf Andrea Mascherin, che è anche presidente di Fai. Insomma un quotidiano generalista, ma soprattutto, fanno capire gli interessati, un giornale a carico delle casse degli stessi avvocati. Un’iniziativa ad alto rischio, che non solo non sarebbe in linea con i compiti che spettano al Fai per conto del Cnf, ma che starebbe già provocando guasti nel bilancio della categoria. Con un disavanzo preventivato per il2016 di quasi 1,6 milioni di euro. Da qui l’accorato grido di allarme che potrebbe stroncare sul nascere le ambizione del direttore designato Sansonetti. Rivolto dapprima il 10 febbraio scorso all’indirizzo del ministro Orlando, nella sua qualità “di soggetto preposto alla vigilanza sul Consiglio nazionale forense e sugli ordini circondariali”. E nel quale si sottolinea la necessità di “riflettere sull’opportunità e forse anche sulla legittimità dell’iniziativa editoriale del Consiglio nazionale forense”. Chiedendo poi “al ministro vigilante se un ente istituzionale, per di più con funzioni giurisdizionali e con sede presso il ministero della Giustizia, possa assumere, sia pure tramite una delle tante fondazioni facente capo al Cnf, l’iniziativa editoriale annunciata”. E auspicando da parte del Guardasigilli un “Suo intervento diretto al richiamo del rispetto della legge e delle funzioni istituzionali da parte del Cnf”, nonché a “ristabilire compiti e ruoli alla stregua della legge ordinamentale forense”.  Da Orlando nessuna risposta. Almeno sinora. E da qui l’ulteriore iniziativa dell’Anf rivolta all’Agcom. Di cui si chiede l’intervento. All’Autorità Pansini chiede di essere ascoltato al più presto. E che soprattutto l’Agcom si attivi immediatamente affinchè “al fine della vigilanza sul settore, sia verificata l’effettiva idoneità dell’assetto proprietario e di controllo, all’esercizio dell’impresa editoriale, allo scopo di condizionarne l’effettivo svolgimento al pieno rispetto delle norme di legge”. Insomma, una stroncatura. E senza alcun dubbio.

Così il "metodo Travaglio" diventa un corso a pagamento. In cattedra un gip che spiega come trasformare un verbale in un articolo, scrive Felice Manti, Giovedì 21/04/2016, su “Il Giornale”. La parabola si è compiuta. Il «metodo Travaglio» diventa materia di studio (a pagamento), i magistrati salgono in cattedra e diventano docenti di giornalismo. Sabato 30 aprile nella redazione del Fatto Quotidiano alla modica cifra di 85 euro ci si potrà finalmente abbeverare alla fonte di quella barbarie giustizialista di cui (finalmente) si sono accorti il premier Matteo Renzi e l'ex capo dello Stato Giorgio Napolitano dopo che le procure hanno dichiarato guerra a Palazzo Chigi. C'è bisogno di nuovi adepti, e la missione apostolare tocca ai giornalisti del quotidiano diretto da Marco Travaglio. Sei un giornalista di giudiziaria e hai tra le mani delle intercettazioni scottanti (anche se penalmente irrilevanti) ma non sai come scrivere il pezzo? Beh, succede anche nei migliori quotidiani. Ma non ti preoccupare. Te lo spiega un giudice come fare. Al corso di giornalismo interverrà anche Stefano Aprile, Gip del Tribunale di Roma, che dalle 10 alle 11 terrà il modulo «Come usare le intercettazioni», subito dopo la lezione «Avvocati, magistrati, investigatori: i rapporti con le fonti». Aprile, dice il sito del Fatto sul corso a pagamento, si è occupato di importanti indagini. Quelle riportate sul sito, curiosamente, sono tutte contro il centrodestra. Come quella su Franco Fiorito detto Batman, ex capogruppo Pdl condannato per peculato, o quella sull'ex sindaco di Roma Gianni Alemanni e la «contestata tangente da 500 mila euro pagata per una commessa di 45 filobus», per finire alle indagini che portarono alla chiusura del sito Stormfront, quello dei cattivoni neofascisti. La lectio magistralis tocca invece alla cronista di giudiziaria del Fatto Valeria Pacelli, dal croccante titolo «Dai tribunali agli studi degli avvocati agli incontri con poliziotti e finanzieri: costruire e mantenere i rapporti giusti». Ma la teoria non basta, ci vuole esercizio. E dunque, compresa nel prezzo, c'è anche l'esercitazione pratica «Come trasformare un verbale in una notizia». È l'ultima metamorfosi del giornalismo giudiziario: non bastava aver trasformato i giornali in ciclostile delle Procure, adesso a scrivere gli articoli ci pensano direttamente i magistrati...

Renzi è tornato a parlare al Senato prima del voto di sfiducia del 19 aprile 2016. A parlato della magistratura e delle inchieste di Potenza che non sono mai arrivate a sentenza: «Io sono per la giustizia, ma non giustizialista. Per i tribunali, non per i tribuni. Io rispetto le sentenze dei giudici, non le veline che rompono il segreto istruttorio. Quando auspico che si arrivi a sentenza, non attacco la magistratura ma rispetto la Costituzione: un avviso di garanzia è stato per oltre 20 anni come una condanna definitiva. Vite di persone perbene sono state distrutte, ma un avviso di garanzia non è mai una condanna ed è per questo che non chiederemo le dimissioni del consigliere del Movimento 5 Stelle di Livorno, perché crediamo nella presunzione di innocenza. Questo paese ha conosciuto figure di giudici eroi che hanno perso la vita ma anche, negli ultimi 25 anni, pagine di autentica barbarie legata al giustizialismo dove l’avviso di garanzia è stata una sentenza mediatica definitiva. Io sono per la giustizia - è il distinguo del capo del governo - e non per i giustizialisti. L’avviso di garanzia in passato è stata una sentenza mediatica definitiva, vite di persone perbene sono state distrutte mentre i delinquenti avevano il loro guadagno nell’atteggiamento populista di chi faceva di tutta un’erba un fascio. L’avviso garanzia non è mai condanna».

Lo spettro di nuove inchieste dietro l'attacco di Renzi ai pm. L'affondo del premier in Senato è frutto di una strategia chiara: quando sente il fiato sul collo assume un atteggiamento di sfida. Quei presagi di un'estate calda, scrive Fabrizio De Feo, Giovedì 21/04/2016, su “Il Giornale”. Il giorno dopo il sonante «no alla barbarie giustizialista» conosciuta dal Paese negli ultimi venti anni, frase che di certo ha scosso le coscienze e fatto arricciare il naso a tanta parte della sinistra allevata a pane a manette, gli interrogativi sull'affondo pronunciato da Matteo Renzi nel suo discorso al Senato non mancano. E si muovono su un filo sottile che oscilla tra motivazioni politiche, sospetti di timori giudiziari e aspetti caratteriali e psicologici legati al personaggio. Sui social network si assiste alla prevedibile spaccatura tra difese d'ufficio della magistratura, applausi renziani e ironie sul neo-garantismo di convenienza. «Bravi a denunciare la barbarie giustizialista quando sono loro a farne le spese. Prima, dal '92 compreso, silenzio. Meglio tardi che mai», scrive su Twitter Pierluigi Battista. Contrapposizioni prevedibili in un Paese che sulla rivendicazione giustizialista ha visto fiorire prima formazioni minori come La Rete e l'Italia dei Valori, poi il Movimento 5 Stelle, capace di raccogliere un quarto dei consensi dell'elettorato. Nei palazzi, invece, ci si interroga sulla genesi di un attacco che come ha giustamente scritto su La Stampa, Fabio Martini, non è figlio di un accesso di ira o una frase dal sen fuggita, ma di una precisa volontà di pronunciare quelle parole.

Renzi e la tecnica del tergicristallo tra garantismo e giustizialismo, scrive il 21 aprile 2016 Emanuele Boffi su “Tempi”. Dice di credere «nelle sentenze, non nelle veline che violano il segreto istruttorio». Ma mica sempre, dipende. Dipende da cosa gli conviene in quel momento. «Questo paese ha conosciuto anche negli ultimi venti, venticinque anni, pagine di autentica barbarie legate al giustizialismo». Come non essere d’accordo con le parole pronunciate martedì 19 aprile da Matteo Renzi? Respingendo la mozione di sfiducia in Senato, il presidente del Consiglio ha dato prova di autentico garantismo: «Un avviso di garanzia è stato per oltre vent’anni una sentenza mediatica definitiva (…). Io sono per la giustizia sempre, non per i giustizialisti. Credo nei tribunali, non nei tribuni. Credo nelle sentenze, non nelle veline che violano il segreto istruttorio». Come non essere d’accordo? D’altronde Renzi si è sempre proclamato un garantista ed è questo uno degli aspetti che meno piace ai suoi avversari, come si poteva facilmente constatare ieri dando uno sguardo alla prima pagina del Fatto quotidiano: “Renzi come B.”, dove B. da quelle parti sta per Berlusconi, l’apogeo dell’insulto. E, giusto per ribadire la linea, sempre in prima pagina compariva una lunga e dura intervista del direttore Marco Travaglio a Piercamillo Davigo, uno degli eroi di Mani Pulite, fresco presidente dell’Anm, a certificare la continuità tra i governi precedenti e l’attuale: «Qualche differenza di linguaggio, ma niente più: nella sostanza, una certa allergia al controllo di legalità accomuna un po’ tutti». Ma la verità è che Renzi è un garantista a targhe alterne. Ha sempre ondeggiato tra gli opposti come un tergicristallo: giustizialista quando gli faceva comodo, innocentista quando desiderava tirare l’applauso senza pagarne il fio. Non che sia l’unico, per carità. A parte qualche raro caso, è un doppiopesismo che caratterizza l’intera classe politica italiana. Il lettore ricorderà facilmente gli ultimi casi. Col ministro Federica Guidi, Renzi ha adottato una tattica simile a quella usata con Maurizio Lupi. Nessuna pressione ufficiale per le dimissioni, ma nemmeno una pubblica parola in loro difesa. Gli è stato sufficiente “non dire” per ottenere, pilatescamente, il doppio risultato di non contrariare la piazza né apparire un despota giacobino. Diverso è il caso se si tratta del ministro Maria Elena Boschi, e non occorre aggiungere altro. Quando non gli costa nulla, al garantista Renzi piace fare la ruota come un pavone. Alla Leopolda del 2013 disse che «la storia di Silvio ci dimostra in modo chiaro che dobbiamo fare la riforma della giustizia». Si riferiva a Silvio Scaglia, fondatore di Fastweb, ingiustamente accusato e finito in carcere; certamente, come scandì Renzi, un caso che dimostrava che «la riforma della giustizia è i-ne-lu-di-bi-le». Non che prima di Scaglia non ci fossero stati episodi che dimostrassero la medesima urgenza, il problema è che riguardavano “l’altro Silvio”. E, soprattutto, non è che quando Scaglia era nel mezzo della bufera mediatica e giudiziaria, Renzi si fosse speso in un’eroica battaglia a difesa delle garanzie a tutela dell’indagato. Facile essere garantisti dopo la sentenza d’assoluzione, il problema è esserlo prima. E su questo Renzi traccheggia a seconda della convenienze. In modo clamoroso lo si notò sul caso del ministro degli Interni del governo Letta, Annamaria Cancellieri, sbrigativamente invitata da Renzi a togliere il disturbo in base a un’intercettazione. E, caso forse di cui si è persa memoria, accade anche col suo predecessore a Palazzo Vecchio a Firenze, Leonardo Domenici. Vittima di un uso “disinvolto” (eufemismo) del materiale d’inchiesta da parte di magistrati e giornalisti, fu additato dall’Espresso come esempio di connubio (a sinistra) tra affari e politica. Domenici arrivò a incatenarsi davanti alla sede del giornale per denunciare il trattamento riservatogli. Era il 2008, il primo cittadino era a fine mandato e un certo Matteo Renzi sedeva sulla poltrona di presidente della Provincia. Non si ricordano sue battaglie garantiste in favore del compagno di partito, anzi. Quel che sappiamo è che Renzi diventò sindaco della città nel 2009 e segretario del Pd nel dicembre 2013, giusto un mese dopo che erano state rese note le motivazioni della sentenza d’assoluzione di Domenici.

Ecco la "barbarie giustizialista" che non ha indignato Re Giorgio. Napolitano oggi denuncia la malagiustizia, ma quante indagini flop sono passate sotto il suo silenzio, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 21/04/2016, su “Il Giornale”. Il suo cruccio si chiama Loris D'Ambrosio. «Non posso dimenticare», ha scandito Giorgio Napolitano in Senato. Non si può archiviare la tragedia di un magistrato colto e preparato, morto di crepacuore dopo la pubblicazione delle sue conversazioni. Ora re Giorgio punta il dito accusatore. «C'è chi ha pagato prezzi altissimi al giustizialismo, grazie anche alla pubblicazione di intercettazioni manipolate. Come è successo al mio consigliere D'Ambrosio che ci ha rimesso la pelle». Oggi è tutto chiaro. Senza ombre e silenzi. Ma ieri non era così. Napolitano, Renzi e tanti altri tacevano, assecondavano, nascondevano dubbi e timori. Anzi, partecipavano, puntata dopo puntata, alla grande fiction giudiziaria e al rotolare di tante teste e dignità. Sì, meglio ricordare. Ecco Vittorio Emanuele. Le sue frasi, non proprio regali, hanno fatto il giro d'Italia. E così la storia gloriosa dei Savoia è diventata cronaca sporca, in un diluvio di intercettazioni. Per giorni e giorni le gesta del principe si sono trasformate in un penoso fumetto popolare, con un capitolo sui sardi e un altro sulle prostitute. L'opinione pubblica si è rimpinzata di dialoghi imbarazzanti, ma alla fine, nel frastuono generale, anche le accuse sono evaporate. Via i reati gravissimi, via le contestazioni e le tangenti, via l'associazione a delinquere e tante scuse per gli arresti. È il malcostume tricolore: sempre uguale da anni e anni. Arresti fra squilli di tromba, frasi a effetto atterrate al momento giusto sui giornali, capi d'imputazione chilometrici. Poi, col tempo, le nebbie della giustizia si diradano lasciando un paesaggio di rovine. Un copione che si rinnova maledettamente uguale. Roberto Salmoiraghi, sindaco forzista di Campione d'Italia, finisce nella rete stesa dall'allora pm di Potenza Henry John Woodcock intorno all'onnipresente Vittorio Emanuele. E segue la stessa umiliante trafila: le manette per, nientemeno, associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e allo sfruttamento della prostituzione. Intanto, mentre lo portano a Potenza ascolta i giornali radio che ripetono il suo nome in una litania di presunti traditori del bene pubblico. Nessuno prova a ricordare che la presunzione di innocenza «non è un velo d'ipocrisia, ma un richiamo forte alla realtà concreta». E la realtà reclama la sua innocenza. Addirittura non deve nemmeno passare in aula per il processo perché il dibattimento si affloscia ancora prima di cominciare. Salmoiraghi si dimette da sindaco, il tempo gli restituisce l'onore. Del resto, in Italia hanno gettato la spugna primi cittadini e ministri, sgambettati da insidiosi avvisi di garanzia, vocaboli velenosi usciti da qualche faldone, contestazioni imponenti svanite nel nulla. Nel silenzio assordante dei tanti garantisti di oggi. Sempre pronti per troppi anni a battere le mani ad ogni stormire della magistratura, sempre alieni da critiche, sempre rapidi nel giustificare qualunque ricamo sulle vite degli indagati. Del resto il 16 gennaio 2008 lascia la sua scrivania di Guardasigilli Clemente Mastella, assediato dalle indagini, dai sospetti, dai pregiudizi. La moglie Sandra Lonardo va ai domiciliari, lui scappa da via Arenula e una settimana dopo è il governo Prodi a saltare: il già gracile esecutivo viene travolto: il solito partito trasversale mette al primo posto la questione morale. Non c'è spazio per altre considerazioni: l'indagato è colpevole a priori, anche se poi risulterà estraneo, e il marito condanna, con la sua vicinanza, la moglie e viceversa. Non c'è scampo e i vertici dello Stato dirigono il traffico senza se e senza ma. Oggi di quel groviglio di accuse non è rimasto nulla, ma ormai è andata così. I conti si fanno alla fine, ma le carriere vengono stroncate prima, ora il pm chiede l'assoluzione per il governatore Vincenzo De Luca, inquisito per l'indagine sul Sea Park di Salerno. Solo ieri De Luca era esposto ala gogna dell'Antimafia e passava per impresentabile. Dal Quirinale, e non solo, nemmeno l'accenno di un'obiezione.

GIUSTIZIALISTI: COME LA METTIAMO CON GLI ERRORI GIUDIZIARI?

Spiato più di Riina. Storia di un'inchiesta fondata sul nulla, scrive Errico Novi il 24 settembre 2016 su "Il Dubbio". Un milione di euro per intercettare il nostro Jacobazzi. Dopo 7 anni di stillicidio, l'udienza svela l'inconsistenza delle accuse. Con un retroscena kafkiano: se il collegio lo riconosce, è la pm che rischia di finire a giudizio. Guardo Giovanni e mi chiedo: ma come fa? Da quasi 7 anni un procedimento penale gli tiene sequestrata la vita eppure ne parla col sorriso. Penso: è stato un servitore dello Stato, un militare dell'Arma, ha fiducia cieca nella giustizia. Però 6 anni sono tanti, uno stillicidio, iniziato con 40 giorni di carcere. Ascolto i suoi racconti e capisco che solo la fede aiuta a credere anche nel diritto. Almeno quando l'attesa di vedersi riconosciuti innocenti dura tanto da spezzarti il respiro. Giovanni Maria Jacobazzi è una delle più importanti firme di questo giornale, fino al 24 giugno 2011 è stato il comandante della polizia municipale di Parma. Quel giorno lo arrestano sulla base di accuse che a leggerle sembra di trovarsi davanti al caso del secolo: corruzione, tentata concussione, peculato, abuso d'ufficio. Ieri dopo sette anni, Giovanni per la prima volta parla in udienza davanti al giudice, ancora al primo grado del processo. E per la prima volta si scoprono le carte delle accuse a suo carico: e il gelo cala ancora più pesante. Perché a un orecchio appena addestrato si capisce che la consistenza degli addebiti è invisibile. È chiaro dall'esame del teste chiave, il generale della Guardia di Finanza Guido Geremia. Incalzato dalle domande di un difensore del calibro di Roberto Lassini, il generale ammette che i suoi uomini neppure verificarono se sui conti correnti risultava l'assegno con cui Giovanni aveva regolarmente pagato dei lavori edili segnalati dall'accusa come contropartita di una presunta corruttela. Nonostante si tratti dell'investigatore che aveva coordinato le indagini, al controesame viene pronunciata una quantità impressionante di "non ricordo". Emerge che secondo i capi d'imputazione Giovanni da capo dei vigili avrebbe indotto un presunto correo a una sovrafatturazione, ma che in realtà non poteva essere lui a stabilire l'importo della commessa. Al pm Lucia Russo, Geremia dichiara che le sue verifiche avrebbero accertato come l'indagato avesse annullato alcune multe a proprio carico nonostante l'auto privata in questione fosse sicuramente utilizzata al di fuori delle funzioni d'ufficio. Ma quando l'avvocato Lassini gli chiede se in quel periodo Giovanni fosse già intercettato, viene fuori che no, che il telefono sarebbe stato messo sotto controllo solo un anno dopo, e che dunque «non siamo in grado di dire dove fosse l'auto in questione al momento delle contravvenzioni». A proposito di intercettazioni, i telefoni del nostro giornalista sono stati sotto controllo per oltre dieci mesi ininterrotti, per l'astronomico costo di un milione di euro, già notificato in fattura all'imputato. Sette anni di vita, un milione di euro, un arresto in diretta e la perdita dell'incarico, per questo, per accuse che alla prova del dibattimento evaporano in un istante. In un clima non surreale, ma kafkiano. Perché nel retropalco di questa storia c'è una pm, Paola Dal Monte, che secondo la Procura di Ancona avrebbe dovuto astenersi dall'inchiesta, e che potrebbe essere chiamata addirittura a rispondere di abuso di ufficio. Il marito della inquirente, Alberto Cigliano, dirigente di polizia, è esaminato e bocciato da Giovanni a fine 2009, a un concorso per assumere un ruolo semidirigenziale all'interno dell'ufficio di Parma da lui guidato. Pochi giorni dopo Dal Monte indaga Giovanni. E, nel giugno successivo, Cigliano fa domanda per il posto ancora occupato da Jacobazzi. Il quale guarda caso due settimane dopo è in manette. Secondo i magistrati di Ancona, il fascicolo per abuso a carico della pm Dal Monte potrebbe riaprirsi, se le accuse a Jacobazzi si rivelassero inconsistenti. Lei ha lasciato l'indagine, ma i pm che le sono subentrati e lo stesso collegio giudicante sanno che se Giovanni esce assolto la loro collega rischia il processo. Uno stillicidio, appunto. Che solo la fede, non quella nella giustizia, può aiutarti a reggere.

Condannato all'ergastolo senza una prova storica, scrive Giuseppe Scuderi su "Il Dubbio" il 16 settembre 2016. "Il mio alibi si basa sul registro penitenziario di Val Militello, ma non si trova. Egregio direttore, sono il condannato all'ergastolo Scuderi Giuseppe, attualmente ristretto presso la Casa Circondariale del Nuovo Complesso maschile di Rebibbia e con la presente intendo portare a Sua conoscenza che sono stato condannato per omicidio volontario aggravato soltanto sulla base di dichiarazioni di collaboratori di giustizia e senza alcuna prova storica di reità. Ho proposto due richieste di revisione che sono state rigettate e ritenute infondate dalla Corte di Appello di Messina e dalla Procura Generale di Catania. Nel mese di marzo di quest'anno ho dato incarico ai miei difensori di fiducia di formulare al Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria-Provveditorato Regionale per la Sicilia una richiesta per l'acquisizione della copia del registro Penitenziario della casa mandamentale di Val Militello di Catania del 1989 riguarda l'entrata e l'uscita dei detenuti sottoposti al regime di semilibertà, in quanto era tale la mia condizione di condannato per reati bagatellari. Intendevo acquisire il sopra citato documento per ripresentare una nuova istanza di revisione del giudicato di condanna, ed in tal senso, ho dato mandato ai miei legali di avanzare tale richiesta per provare l'alibi in quanto nel giorno e nell'ora del fatto 16.02.1989 stavo rientrando con la mia autovettura da Catania alla Casa mandamentale di Val Militello e, quindi, non potevo compartecipare all'esecuzione dell'omicidio. Dopo pochi giorni il Dap per la Sicilia comunicava che non vi era traccia dei registri di entrata e di uscita dei detenuti, probabilmente a seguito del trasloco dal vecchio al nuovo istituto penitenziario. e per questa carenza mi trovo nella impossibilità oggettiva di formulare la nuova istanza di revisione. Le sembra legittimo che in uno Stato Costituzionale di diritto un condannato innocente non possa comprovare il suo alibi a causa di un "non ritrovamento" di un importante Registro che doveva essere custodito dall'istituzione stessa e che è fondamentale per dimostrare l'innocenza di un uomo? Conoscendo le sue battaglie sui problemi della giustizia in Italia ed anche la sensibilità etico-culturale del quotidiano da Lei diretto La prego di voler pubblicare questa missiva che dimostra ancora di più come le contraddizioni dell'apparato amministrativo dello Stato non mettano in grado un condannato innocente di poter esercitare il diritto costituzionalmente garantito dalla revisione della sentenza penale di condanna, e quindi di permanere nello stato infernale della pena perpetua dell'ergastolo ostativo del "fine pena mai". 

Accadde nel 600. Ma sembrano le cronache di oggi, scrive Piero Sansonetti il 10 ago 2016 su “Il Dubbio”. Ecco perchè sul giornale pubblichiamo la "Storia della Colonna infame" di Alessandro Manzoni. Iniziamo la pubblicazione a puntate di una delle principali opere letterarie di Alessandro Manzoni: "Storia della Colonna Infame", pubblicata come appendice nell'ultima edizione, quella definitiva, dei Promessi Sposi. E' il racconto, commentato, di un avvenimento vero, accaduto nel 1630 ma - purtroppo - mai realmente concluso. Sette capitoli, più un'introduzione. Perché dico: mai realmente conclusa? Perché assomiglia maledettamente a tante storie di malagiustizia di oggi. La trama, riassunta in due righe, è questa: alcuni testimoni accusano un signore di avere sparso sui muri degli unguenti che diffondevano la peste. Questo signore viene arrestato e torturato e infine indotto ad accusare un secondo signore, un barbiere. I due vengono condannati a morte e prima al supplizio. Naturalmente sono innocenti, anche perché gli untori (cioè dei presunti mascalzoni che diffondevano la peste ungendo i muri) non esistono, non sono esistiti mai. Le testimonianze che hanno inchiodato i due poveretti, assomigliano tremendamente alle deposizioni dei pentiti moderni. O alle famose intercettazioni per sentito dire. La tortura, usata per estorcere confessioni assurde, assomiglia invece al carcere preventivo e all'uso che se ne fa oggi come strumento di indagine. La smania dei giudici del seicento di assecondare le credenze popolari sembra uguale alle smanie che oggi hanno i giudici di soddisfare lo spettacolo di massa. E Alessandro Manzoni, quando scriveva la sua furia per queste ignominie, era isolato e sbeffeggiato dalle classi dominanti dell'epoca, come succede oggi a chiunque voglia esprimere un punto di vista garantista. Untori, roba del seicento? E allora - chiedo - il processo agli scienziati che non seppero prevedere il terremoto dell'Aquila? E quello alla scienziata - Ilaria Capua - accusata di aver diffuso il morbo dell'aviaria per arricchirsi? "Storia della Colonna infame", ci è sembrato - più che una vecchia opera di letteratura - una riflessione, pacata e attualissima, sulla giustizia di oggi. Per questo vi consigliamo di leggerla.

Quando gli eredi di Don Camillo misero in carcere Guareschi. Fu recluso per 409 giorni nel carcere di Parma per aver pubblicato due lettere, attribuite a De Gasperi. La sua difesa presentò una perizia calligrafica, ma non fu ammessa. Condannato per diffamazione a 12 mesi rifiutò di fare ricorso: «Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume», scrive Luciano Lanna il 26 ago 2016 su “Il Dubbio”. Quando nel 1967 Luciano Secchi, più noto col nom de plume di Max Bunker e come creatore di Alan Ford, fonda la rivista Eureka ha l'idea di arruolare nello staff Giovannino Guareschi, uno scrittore e un vignettista che nei decenni precedenti aveva fatto epoca. Era stato una delle firme e delle matite del Bertoldo, aveva fondato e diretto Candido, i suoi romanzi su Don Camillo e Peppone erano stati tradotti in quasi tutte le lingue. Guareschi, prima di morire, nel 1968, pubblica infatti in esclusiva su Eureka - la rivista che lanciò in Italia Andy Capp e le Sturmtruppen - il suo bel racconto "Gerda". Tanto che Secchi, successivamente, ebbe modo di esprimere tutta la sua riconoscenza: «Guareschi non era di sinistra. Ma la sua colpa agli occhi di tanti intellettuali di elezione, e questa è una colpa anche maggiore e imperdonabile agli occhi dell'élite della jet-society della letteratura è quella di aver venduto parecchie migliaia e migliaia di copie dei suoi Don Camillo, tradotti praticamente in tutte le lingue politicamente occidentali ma anche in quelle che non rientrano in tale definizione. Uno scrittore lo si valuta per quello che ha dato e conveniamo - concludeva Secchi - che parte della critica si è invece lasciata deviare dalla sua obiettività proprio per una questione politica?». Una cosa è certa: Guareschi è stato uno degli scrittori italiani del '900 più venduti nel mondo: oltre 20 milioni di copie, nonché lo scrittore italiano più tradotto in assoluto in tutte le parti del globo. Certo, quando Giovannino morì d'infarto a soli 60 anni, in una mattina di luglio del '68, l'indomani L'Unità titolò: "È morto lo scrittore che non era mai sorto". Si trattava, senza tema di dubbio, dell'uomo che con le sue vignette anticomuniste sul Candido era stato determinante - sul piano propagandistico - per il risultato del '48. Eppure, paradossalmente, Guareschi dovette scontare tredici mesi di carcere per un eccesso di polemica antidemocristiana: «Giovannino - ha rievocato Carlo della Corte - si lasciò impegolare, nel trasporto polemico verso la Dc, persino nella persona di Alcide De Gasperi, in una vicenda di lettere apocrife, che egli pubblicò, attribuendo a De Gasperi varie colpe: tra cui quella di avere invocato sull'Italia i bombardamenti alleati per disfarsi di Mussolini». Insomma, in questo caso i comunisti non c'entrano proprio nulla. Fu infatti per via dei democristiani che Guareschi è stato l'unico giornalista nella storia dell'Italia repubblicana a finire in galera per avere attaccato il potere politico. Mai, infatti, si è arrivati da parte di un direttore di giornale agli oltre 400 giorni di carcere che l'autore di Don Camillo dovette scontare all'apice del successo. Giovannino entra nel carcere San Francesco di Parma il 26 maggio '54 per uscirne solo il 4 luglio dell'anno successivo, dopo ben 409 trascorsi sotto la più stretta sorveglianza. Cosa era successo? Sul Candido il 24 e il 31 gennaio '54 Guareschi aveva fatto pubblicare due lettere risalenti a dieci anni prima, in piena Seconda guerra mondiale, e che risultavano firmate da De Gasperi, il quale ai tempi aveva trovato rifugio in Vaticano. Si trattava di due missive dirette al generale britannico Harold Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, chiedendo il bombardamento di alcuni punti nevralgici di Roma, "per infrangere l'ultima resistenza morale del popolo romano" nei confronti di fascisti e tedeschi. Il 15 aprile il processo arrivò alla sentenza, davvero a tempo di record e con un'intensa attività diplomatica parallela di cui solo recentemente abbiamo appreso. Al termine, Guareschi, a cui non fu concesso di mettere agli atti la perizia prodotta da quella che all'epoca era un'autorità della grafologia, Umberto Focaccia, venne dichiarato colpevole di diffamazione. Il giornalista rifiutò di fare ricorso o di chiedere la grazia: «No, niente appello. Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume. Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia: non mi interessa dimostrare che mi è stato dato ingiustamente». Molti dei risvolti di quella vicenda restano ancora misteriosi, a partire dall'origine delle lettere che appartenevano a uno strano faldone nascosto in Svizzera da un ex tenente della Rsi, Enrico De Toma, legato ad ambienti dei servizi segreti, così come recentemente è stato raccontato dallo storico Mimmo Franzinelli in Bombardate Roma! Indagine su un giallo della Prima Repubblica (Mondadori). Indro Montanelli, grande amico di Guareschi, era scettico su quelle lettere: «Io sapevo - ha raccontato - che non erano vere, e mi buttai in ginocchio da lui, e a un certo punto commisi anche una scorrettezza per cercare di impedirne la pubblicazione di cui prevedevo gli effetti nefasti. Andai da Rizzoli, che era il suo editore, ma anche l'editore dei miei libri, e glielo spiegai». Ma Rizzoli non si frappose: «Il direttore del giornale è lui, se lui lo ha deciso, pubblichi». E al riferimento delle conseguenze, aggiunse: «Pagheremo le conseguenze!». D'altra parte, Montanelli confermava la totale buona fede di Guareschi: «Lui era convinto dell'autenticità di quelle lettere. Ci voleva credere perché lui non poteva perdonare alla Dc l'ingratitudine. Guareschi era infatti un uomo assolutamente disinteressato, ma almeno un ringraziamento lo avrebbe meritato per la campagna del '48, gli spettava perché la vittoria si doveva in gran parte a lui?». Franzinelli ha spiegato alcuni retroscena di tutta quell'operazione: «Per De Gasperi la questione era fondamentale, di fronte ad un attacco del genere non aveva altra via che la querela. Appunti e riflessioni coeve al processo dimostrano che sul tema ci fu una sua intima sofferenza». E Franzinelli non ha dubbi sull'esistenza di manovratori occulti che misero la "polpetta avvelenata" nelle mani di Guareschi: «I servizi non erano un corpo omogeneo, c'erano cordate concorrenziali. Una di queste usò Guareschi per colpire De Gasperi». I due documenti, che il leader democristiano dichiarò falsi, facevano infatti parte di un voluminoso corpus di carteggi che comprendeva il famoso epistolario tra il Duce e Churchill. Fatto sta che gli inizi del febbraio '54 De Gasperi sporge querela. Istituito il processo, il 13 e il 14 aprile ebbero luogo la seconda e la terza udienza e il 15 giunse la condanna a 12 mesi di carcere per diffamazione. Invano, nelle quattro udienze del processo, il direttore di Candido presenta una perizia calligrafica che dichiara autentiche le lettere, e chiede al tribunale di ordinarne pure un'altra d'ufficio. I giudici rispondono che non c'è n'è bisogno. «Mi hanno negato - protesterà lo scrittore - ogni prova che potesse servire a dimostrare che non avevo agito con premeditazione, con dolo. Non è per la condanna, ma per il modo con cui sono stato condannato». Perché in tribunale, la perizia calligrafica avanzata dalla difesa sulle due lettere non venne mai ammessa. Le lettere saranno dichiarate ufficialmente false solo nel 1959, al termine di un altro processo contro alcuni ex ufficiali della Rsi. Il 15 aprile '54 comunque Guareschi viene condannato a dodici mesi di carcere ma si trova costretto a doverne scontare venti per l'aggiunta di un'altra diffamazione che ci riporta indietro di altri quattro anni. Sul numero 25 di Candido del '50 era infatti apparsa una vignetta che ritraeva il presidente della Repubblica Luigi Einaudi mentre sfila tra due ali di corazzieri molto particolari: sono bottiglie di vino che recano un'etichetta con scritto "Nebiolo - Poderi del Senatore Luigi Einaudi". Si procedette per vilipendio del Presidente della Repubblica contro Carletto Manzoni, autore della vignetta, e Guareschi, direttore responsabile della testata. I due erano stati assolti in primo grado ma poi condannati in appello a otto mesi con la condizionale, che veniva annullata dalla nuova sentenza. Cominciano, certo, le pressioni perché Guareschi vada in appello, dove la faccenda si potrebbe forse accomodare. Lui però è un uomo che non scende a compromessi e risponde sul Candido: "No, niente appello". Il 26 maggio 1954 prepara lo zaino, lo stesso che aveva nel lager tedesco in cui era stato deportato ed entra nel carcere di Parma. Ne uscirà il 4 luglio '55 con una carta precettiva che gli impone di non allontanarsi per altri sei mesi dai comuni di Busseto, San Secondo, Soragna, Polesine Parmense, Zibello e Roccabianca. Guareschi vittima in buona fede di una manovra ordita da altri? Molti ne sono convinti. Anche se Guareschi restò persuaso fino alla fine che le lettere erano autentiche. Di certo pagò un prezzo altissimo. «Il Guareschi, uscito dalla galera - ammetterà Montanelli - non era più lui. Il suo fisico era già minato dal lungo campo di concentramento subito in Germania. In prigione era popolarissimo, gli offrivano qualche alleggerimento di pena. Ma lui no, non ne volle nessuno, volle essere trattato come il peggiore dei delinquenti rinchiusi lì dentro. Andò così, lui non fu più lo stesso dopo?». Tutti lo abbandonarono, solo su La Notte di Nino Nutrizio e sul Borghese di Leo Longanesi riuscì a scrivere qualche articolo. D'altra parte, come apprendiamo dai documenti desecretati e studiati da Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella in Colonia Italia (Chiarelettere, 2015), De Gasperi dovette rivolgersi direttamente a Churchill per ottenere la certificazione dell'inautenticità di quelle lettere in un momento assai critico della sua parabola politica. Il 16 febbraio 1954, infatti, un suo emissario, il funzionario della Farnesina Paolo Canali, raggiunge subito la capitale britannica. Ma gli inglesi temporeggiano e fanno perdere tempo: «La loro tattica - si legge in Colonia Italia - è chiara: non potendo sbattere la porta in faccia al leader del maggior partito italiano, cercano di tenerlo sulla corda il più a lungo possibile. Forse sperano che si logori, nell'attesa che a Roma maturino le condizioni per una sua definitiva uscita di scena". A Londra Canali aspetta e aspetta. Solo a fine febbraio potrà rientrare a Roma con la documentazione che consentirà all'ex premier italiano De Gasperi di affrontare serenamente il processo contro Guareschi. Prima, però, Churchill ha convocato Canali al numero 10 di Downing Street, all'improvviso, a quattrocchi, lontano da occhi indiscreti: «Ma cosa? Alla data, gli archivi di Kew Gardens non conservano traccia alcuna sui contenuti di quel misterioso colloquio tra l'ottantenne Sir Winston e il giovane diplomatico della Farnesina. Sappiamo invece che qualche giorno dopo, il 3 marzo '54, da piazza del Gesù, De Gasperi invia una calorosa lettera di ringraziamento a Churchill». L'affaire si avvia comunque a conclusione solo dopo questi incontri: il 15 aprile, come abbiamo visto, a Milano, Guareschi viene condannato e l'onore del leader democristiano è salvo. «Ma la sua definitiva uscita di scena - è la conclusione del capitolo sul "processo Guareschi" di Colonia Italia - è ormai imminente. Prima dalla politica: sconfitto in giugno al Congresso della Dc, a Napoli, deve lasciare ad Amintore Fanfani la segreteria del partito. Poi dalla vita: in agosto muore per un attacco d'asma, malattia insorta qualche tempo prima. De Gasperi se ne va il 19 agosto, lo stesso giorno in cui, un anno prima, era stato deposto Mossadeq a Teheran».

Laura Antonelli. Il boom dell'erotismo, poi la caduta..., scrive Lanfranco Caminiti il 2 set 2016 su “Il Dubbio”. Con il film "Malizia" diventa il simbolo della libertà sessuale, del desiderio, della rivoluzione dei costumi. Nel 1991 l'arresto per detenzione e spaccio di cocaina. Assolta dopo nove anni, chiede e ottiene un risarcimento mai incassato. Muore nel 2015. Il 26 aprile 1991, nella sua casa di Cerveteri, Laura Antonelli viene arrestata. L'accusa: detenzione e spaccio di cocaina. Carcere femminile di Rebibbia, isolamento. Versione ufficiale: «La nota attrice Laura Antonelli è stata tratta in arresto dai militi della Legione Roma dell'Arma, nel corso di una più complessa operazione ancora in via di svolgimento e su cui nulla può esser detto». Come di prammatica, si mostrano le prove del crimine: su un tavolo, due sacchettini. Quanto pesano? Versione ufficiale: «Fate un po' voi». Presto, della "complessa operazione" si perdono le tracce: l'Antonelli era stata arrestata a casa sua, da sola, da un uomo che aveva accolto come amico e si era rivelato un carabiniere - Altolà. Fermi tutti. La cocaina era in una ciotola del salotto, l'ora tarda, l'Antonelli aveva accennato a qualche passo di danza, insomma una cosa privata. Macché: tre giorni di Rebibbia, poi gli arresti domiciliari. Passano cinque anni per arrivare al processo di primo grado, il 9 maggio 1996: condanna a tre anni e mezzo di carcere per illecita detenzione di stupefacenti e 24 milioni di lire di multa. Un milione per ogni grammo di cocaina, che alla fine questo era il peso del sacchetto a casa Antonelli. «Sono bassina, tondetta e con le gambe un po' corte. Chissà perché piaccio?» - chiedeva civettuola la Laura nazionale, quando sfolgorava. E come piaceva. «Per concludere: se qualcuno avesse da fare, qui a Milano, una rivoluzione, io ho un'idea da proporgli... Mi occorrono mille uomini spregiudicati, decisi, ben addestrati... Mille uomini disposti a scendere dal tram in corsa, a passare col rosso, a cantare nei giorni feriali, a far capannello nelle vie del centro. Disposti ad attraversare via Manzoni in canottiera, a entrare in ditta con mezzora di ritardo, a uscire dopo l'orario... Mille uomini, dico, disposti a far all'amore la notte del lunedì, verso l'alba... Datemi questi mille spericolati, e vi prometto che in mezza giornata la città sarà nostra: bloccata, congelata, esterrefatta, intasata, allibita, come se dagli spazi celesti fossero calati i marziani». È un articolo di Luciano Bianciardi, del 1956, per l'Unità. E si intitola Rivoluzione a Milano. Bianciardi, anarchico spericolato, straordinario intellettuale e scrittore, non aveva ancora pubblicato La vita agra, che è del 1962, in cui si scagliava contro l'oppressione sociale di una vita regolata dalla dedizione e dall'ossessione del lavoro. Ma tutte le sue idee stanno già in quest'articolo. Anche quelle sul sesso, come via della liberazione - ne scriverà anche nella Vita agra. «Mille uomini, dico, disposti a far all'amore la notte del lunedì, verso l'alba...». Nell'articolo, per tornare sulla questione, citava - una delle sue paradossali invenzioni del momento, dette come fossero cose provate: «So di una giovane signora che al marito troppo espansivo un mercoledì sera, ebbe a dire: Ehilà, giovanotto, impazzisci? Siamo appena a mercoledì e domattina ho la nota di cassa!». Se si è schiavi del lavoro si uccide la vitalità, e la sessualità che la rappresenta, in nome della produttività economica. Lo stretto rapporto tra sessualità e rivolta venne sviluppato anche in Aprire il fuoco, che è il suo ultimo romanzo, in cui rivisita l'insurrezione antiaustriaca delle Cinque giornate di Milano, situandola però nel marzo 1959, e mescolando realtà e finzione, passato e presente. Per dire: «Pare che vi fossero pubblici accoppiamenti nei giardini e nei parchi, verso mezzogiorno, ma questo non è del tutto sicuro, può anche essere che il Bianciardi abbia raccontato qualche balla». Per dire: «Secondo le statistiche del comune di Milano, approssimative per difetto, i casi di gravidanza salirono in quei giorni del settantadue per cento». Perché vi parlo di Luciano Bianciardi? Perché Il merlo maschio, film di Pasquale Festa Campanile, in cui Laura Antonelli appare per la prima volta nella sua sfolgorante bellezza, è tratto da un suo racconto, Il complesso di Loth. Siamo a Verona, e c'è un violoncellista, Niccolò Vivaldi, che si sente frustrato. Inizia a fotografare la moglie in pose sempre più audaci. Ne prova piacere. Mostra le foto della moglie ai colleghi. Lei ne è partecipe. Finché, in un'esibizione all'Arena, lei non appare sul palco, nuda, a suonare il violoncello. Vennero giù i cinema. La Antonelli era meravigliosa. Bianciardi volle fare una piccola particina nel film, e Lando Buzzanca - che era il protagonista maschile - lo ricorda sempre ubriaco e ossessionato dalle giovani fanciulle. Fedele alla linea. È vedendo Il merlo maschio che Samperi decide di affidare all'Antonelli - e alle sue generose forme - la parte della serva di casa in Malizia. Erano due anni che andava in giro con il copione pronto, ma non c'erano produttori convinti. Poi, uno decide di accettare ma vuole la Melato. Samperi non molla: Angela La Barbera - la serva che arriva il giorno del funerale della signora, e fa perdere la testa a tutti i maschi di casa, il padre e i due figli, e diventa, lei, "la signora" - è l'Antonelli. Samperi veniva da una buona e ricca famiglia, ma aveva incontrato il '68 e il movimento studentesco. Molla tutto e fa il regista. E il suo primo film è Grazie zia, con Lou Castel e Lisa Gastoni. Uno scandalo. Il film è del '68 e va a Cannes. Ma scoppia il maggio francese e il festival viene annullato. Magari avrebbe vinto la Palma d'oro, chissà. La famiglia, le sue ipocrisie, le sue viltà, i suoi rancori, i suoi tabù, sono al centro dei racconti di Samperi. Lo aveva già fatto con Grazie zia, lo ripete con Malizia. Sono al centro della vita di quegli anni. Sesso, famiglia, rivolta. È un'Italia ipocrita e piccola quella di quegli anni. Gli anni del boom e del miracolo economico, anni di lavatrici e di frigoriferi, di migrazioni e di vita agra, sono immediatamente alle spalle. Siamo diventati ricchi, col duro lavoro, con le miniere e non si affitta ai meridionali. Ma la testa è meschina. Forse è tempo di riposare. Forse è tempo di svariare. Forse è tempo di riprendersi la vita. E per magia tutte queste cose si incarnano in un volto e in un corpo: Laura Antonelli. È l'oggetto del desiderio degli italiani. Malizia si svolge nella Catania degli anni Cinquanta - la Milano del sud - ma potrebbe essere un posto qualunque della provincia italiana, un posto qualunque d'Italia. Non solo i siciliani sono affamati di sesso. Non solo i siciliani sono affamati di trasgressione. Non solo i siciliani sono affamati di rivolta - è da Avola che partì tutto. «È una prospera cittadina, a pochi chilometri da Siracusa, al centro di una ricchissima zona di orti e di agrumeti. Fino a ieri era noto come il "posto delle mandorle", le buone, dolcissime, tenere mandorle di Avola. Da oggi non si potrà più nominare senza venir colti da un senso di sgomento e di profonda amarezza». Inizia così Volevano solo trecento lire in più, il pezzo di Mauro De Mauro - il giornalista che scomparirà a Palermo nel 1970 inaugurando la stagione dei misteri mai risolti - sui "fatti di Avola". C'era stato uno sciopero dei braccianti contro le gabbie salariali. Solo che non protestavano contro il fatto che ci fosse una differenza di salario tra Milano e Siracusa, ma contro il fatto che a Avola venissero pagati meno che a Lentini. C'era una Zona A e una Zona B. Avola era Zona B. E allora, sciopero. I grandi latifondisti non ne vogliono sapere di incontrare i rappresentanti dei braccianti. Lo sciopero continua. Si fanno i blocchi stradali. I latifondisti chiamano la polizia. La polizia arriva da Catania con le camionette. Hanno i candelotti fumogeni, hanno i mitra. Lunedì 2 dicembre, tutta Avola è bloccata. La strada statale è bloccata. Ci sono le motociclette e le biciclette dei braccianti. C'è un mucchio di pietre. I braccianti lanciano pietre contro la Celere. I poliziotti sparano i candelotti. Solo che il vento è contrario. E i fumogeni vanno verso la polizia. Non vedono nulla. Le pietre arrivano dal cielo. I poliziotti sparano. Due morti, quasi cinquanta feriti. Due chili di bossoli - qualcuno li raccolse e li pesò. È così che comincia il 1968. In Sicilia. In Sicilia, a Acireale, Samperi gira il suo Malizia. Chissà se lo ha fatto perché era a uno sputo da Avola. La Antonelli - un'istriana, nata a Pola, di cognome era Antonaz - recita in siciliano. Chi ci faceva caso? La sua parabola di vita - il desiderio collettivo, l'immaginazione accesa, l'erotismo come forma di democrazia popolare, e poi il lento declino, i disastri, i guai, il ritiro, il silenzio - sembra un po' la parabola di quegli anni e dell'Italia tutta. Era bella l'Italia tra la fine degli Sessanta e l'inizio dei Settanta. Era bella e desiderabile. Mai volgare. Bella e desiderabile come non lo è stata mai più. Mai volgare come è diventata poi. Nove anni dopo quella notte dell'arresto, il 16 marzo 2000 la Corte d'appello di Roma assolve l'attrice perché il fatto non era più previsto come reato. Niente spaccio, consumo privato - non ci voleva Sherlock Holmes per capirlo, ma. Gli avvocati allora chiedono un risarcimento: la vita della loro assistita era stata stravolta, la sua carriera professionale non ne parliamo. Certo, non era più l'attrice desiderata da tutti, ma ancora lavorava, faceva qualche particina. La Corte d'Appello di Perugia, nel 2006, considera effettivamente un po' troppini nove anni (dall'arresto del 1991 alla sentenza definitiva del 2000) perché la matassa si sbrogliasse. Le riconoscono un risarcimento di diecimila euro. Gli avvocati non ci stanno, ricorrono ancora. La Corte di Cassazione di Roma riconosce, nel 2007, che c'era stato un rapporto di causa/effetto tra l'arresto e il piano inclinato di vita e lavoro della Antonelli: nel 2003 era stata ordinata una perizia psichiatrica per stabilire se lo stato dell'attrice, all'epoca alle prese con deliri mistici e voci nella testa, fosse dovuto all'assunzione di cocaina nel periodo culminato con il suo arresto o se fosse configurabile un nesso di causalità con la durata del processo penale. Lo psichiatra dichiarò che la lunghezza della vicenda giudiziaria aveva «senz'altro influito in modo determinante sulla destabilizzazione psichica dell'Antonelli». La Cassazione stabilisce una nuova cifra: centomila euro. «Sono contenta, non me l'aspettavo», commentò l'Antonelli. E i suoi legali mostravano soddisfazione per la sentenza che stabiliva un importante precedente alla luce della cronica lunghezza dei procedimenti giudiziari italiani. Qualche anno dopo, nel 2010, l'amico Lino Banfi si fece avanti per chiedere per l'Antonelli la legge Bacchelli, che riconosce un vitalizio a artisti italiani in stato di necessità. Banfi accennò pure al risarcimento stabilito dalla Cassazione: non s'era visto nulla.

Serena Grandi: «Pensavo di stare su Scherzi a parte e mi hanno rovinata», scrive Franco Insardà il 23 agosto 2016 su "Il Dubbio". «Roma non la reggevo più. Non sopportavo più il cinismo, il traffico, gli odori. Sono tornata a Rimini dopo aver girato il film di Sorrentino, che sono orgogliosa d'aver fatto, mi ha reso consapevole di tanta inutilità». «E' un'ex soubrette televisiva in completo disfacimento psicofisico». «E che cosa fa ora?». «Niente, che deve fare». Quante attrici avrebbero accettato un ruolo simile? Serena Grandi, invece l'ha interpretata alla "grande", come ha fatto con tutti i ruoli che le sono stati proposti nella sua carriera. «È stato un modo per liberarmi dai fantasmi della mia vita - ha dichiarato recentemente -. Ho voluto esorcizzare quella vicenda. E ci sono riuscita». Era il 2003 quando finì ai domiciliari per una storia di cocaina. Paolo Sorrentino ne La Grande Bellezza la dipinge in modo impietoso: è la festa di compleanno del personaggio di Toni Servillo, Jepp Gambardella, e lei, Serena Grandi-Lorena, esce da una torta di due metri, vestita con un mini abito di pietre preziose. Sui seni ha scritto 6 e 5, gli anni del protagonista, il re della mondanità perso in tristi baldorie. Quell'immagine decadente della Roma mondana extracafonal dalla quale Serena Grandi si è voluta allontanare per ritrovare se stessa e i suoi affetti più cari: su tutti suo figlio Edoardo («Il mio successo più bello. È il mio Oscar», ripete a ogni intervista). Si è ritirata, lei di Bologna ma romagnola nel modo di essere, a Rimini, dove ha gestito per qualche anno un ristorante "La Locanda di Miranda". Quel personaggio che Brass le ha costruito addosso le è rimasto incollato per sempre e per tutti lei è rimasta la generosa sensuale e ironica locandiera. Così spiega la sua fuga da Roma: «Roma non la reggevo più. Non sopportavo più il cinismo, il traffico, gli odori. Sono tornata a Rimini dopo aver girato il film di Sorrentino, che sono orgogliosa d'aver fatto, mi ha reso consapevole di tanta inutilità». Dalla Miranda di Tinto Brass alla Lorena di Paolo Sorrentino. E in mezzo tanti film, un amore tormentato, un figlio e quasi dieci anni di "Cleopatra". Purtroppo per lei non si tratta della messa in scena della storia della famosa regina egiziana, resa famosa dall'interpretazione di Liz Taylor, ma è solo il nome fantasioso che gli investigatori romani, coordinati dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, diedero all'inchiesta, con 19 ordini di custodia cautelare e 35 perquisizioni tra cinema, politica, imprenditoria. Tra loro anche lei, Serena Faggioli all'anagrafe, accusata di spaccio di droga. In manette finì anche un'altra scoperta di Tinto Brass: Lyudmila Derkach, ex Miss Ucraina, 26 anni, che avrebbe organizzato numerosi festini a base di sesso e cocaina. In quell'inchiesta "Cleopatra", ci finirono pure due finanzieri, Rocco Russillo e Stefano Donno, in servizio di scorta al senatore a vita Emilio Colombo. E altri due politici, Giuseppe Galati, Udc, sottosegretario alle Attività produttive e Bruno Petrella, An, vicepresidente del consiglio provinciale di Roma, vennero sfiorati, ma i due, così come Emilio Colombo, furono considerati solo consumatori di cocaina e non vennero accusati di alcun reato. L'elenco degli indagati si arricchì di altri nomi molto noti nei salotti romani: Alberto Quinzi 51 anni, contitolare di uno dei templi della gastronomia romana, il ristorante "Quinzi e Gabrieli", Armando De Bonis, direttore di divisione del ministero delle Attività produttive, l'avvocato Maurizio Tiberi, gli imprenditori Stefano Barbis, (edilizia), Francesco Ippolito (moda) e Maurizio Bigelli (opere pubbliche). Le accuse erano, a vario titolo, spaccio e favoreggiamento della prostituzione. In un attimo Serena Grandi venne trascinata in una storia che non le apparteneva. «Appena ho avuto modo di leggere il provvedimento mi resi subito che contro di lei non c'era nulla di penalmente rilevante», racconta a Il Dubbio l'avvocato Valerio Spigarelli, difensore dell'attrice. Serena Grandi qualche anno dopo raccontò: «Quando arrivò la polizia a casa mia, alle 5 del mattino, pensai di essere su Scherzi a parte. Ero innocente, mi sono ritrovata al centro di una congiura incredibile». Purtroppo non si trattava di uno scherzo: rimase 157 giorni agli arresti domiciliari. «L'hanno tenuta per circa sei mesi reclusa in casa - continua l'avvocato Spigarelli - sulla base di intercettazioni dalle quali non emergeva nulla. Colloqui tra amici per organizzare una colletta, con 50 euro a testa, per comprare della cocaina per uso personale. Cose che succedono spesso ancora oggi e a ogni livello: i famosi consumatori del sabato. Intanto la Grandi fu sbattuta in prima pagina, con tanto di foto segnaletiche. Presentammo varie istanze alle procura di Roma per la scarcerazione, anche il Riesame rigettò le nostre richieste. Fu necessaria la Cassazione per ottenere un provvedimento che era nelle carte, di fronte al quale il Riesame non potette fare altro che prendere atto. Non solo non c'era alcun bisogno della misura restrittiva, ma non esisteva alcun reato attribuibile alla mia assistita. Ci fu negata persino l'istanza per una visita ginecologica, come se si trattasse di una pericolosissima criminale». L'attrice più volte dichiarò: «Se non fossi Serena Grandi, ma Maria Rossi tutto questo non sarebbe successo». Ma l'avvocato Spigarelli, sempre in prima linea per la difesa dei diritti di tutti, amaramente commenta: «Purtroppo queste vicende non sono così rare e le tante Maria Rossi restano in carcere per mesi, con accuse che si basano sul nulla, senza che qualcuno si prenda la briga di valutare serenamente gli atti. Nella vicenda di Serena Grandi fummo noi a presentare un'istanza alla procura per farci ascoltare, dal momento che era così evidente l'insussistenza delle accuse». Finalmente gli stessi pm, Giancarlo Capaldo e Carlo Lasperanza, si convinsero delle ragioni esposte dall'avvocato Spigarelli e chiesero al gip l'archiviazione della posizione della Grandi. Non si arrivò mai a processo, ma ci vollero circa otto anni. Poi, ad aprile di quest'anno, dopo dodici anni e cinque mesi, il tribunale di Roma ha emesso la sentenza per gli altri indagati: tutti assolti per non aver commesso il fatto, ad eccezione di Giuseppe Martello, condannato a 5 anni di reclusione per spaccio di sostanze stupefacenti, e di Lyudmyla Derkach, 4 anni e 6 mesi per sfruttamento della prostituzione. La famosa inchiesta "Cleopatra", quindi, è crollata, lasciando però un danno di immagine incalcolabile alle persone coinvolte. Serena Grandi nel 2011 è stata risarcita per ingiusta detenzione con 60mila euro. L'avvocato Valerio Spigarelli nella sua istanza aveva richiesto un risarcimento di 500 mila euro per le conseguenze patite dalla sua assistita. I giudici hanno condiviso l'argomentazione del legale nella parte in cui evidenziava che la «detenzione ai domiciliari ha prodotto nell'attrice danni morali e materiali ingenti» e tra questi «danni psicofisici costituiti da uno scompenso ormonale di rilevante gravità e da uno stato di depressione acuta» oltre a danni conseguenti alla «lesione dell'immagine e della rispettabilità sociale nonché professionale, con riferimento particolare al mancato perfezionamento di numerose trattative, tra cui quella relativa alla partecipazione all'Isola dei famos». Secondo i giudici della quarta Sezione penale della Corte d'appello di Roma appaiono «rilevanti i danni morali conseguenti all'ingiusta detenzione, avuto soprattutto riguardo all'assoluta incensuratezza di Serena Grandi e alla gravità delle accuse», così come sono «altrettanto rilevanti i danni conseguiti alla lesione dell'immagine, anche per la notorietà acquisita dalla vicenda finita sugli organi di informazione». Sempre per i giudici «le intercettazioni telefoniche, su cui unicamente si fondavano le accuse a carico di Serena Grandi, hanno un contenuto inidoneo a supportare quel quadro indiziario necessario per l'emissione della misura cautelare». Peccato che la quantificazione del danno abbia differito di molto rispetto a quanto chiesto dal legale di Serena Grandi per quei 157 giorni di arresto. Un momento davvero difficile dopo una carriera piena di successi, prime pagine da protagonista delle feste e dei salotti romani, il matrimonio con il playboy e antiquario Beppe Ercole (ancora oggi, il 19 agosto, Serena Grandi lo definisce sulla pagina Facebook «un grande uomo il più simpatico di tutti...spero che faccia ridere tutti come hai sempre fatto nella tua vita»). Una storia finita, dopo una decina di anni, con il tombeur de femmes che conquista Corinne Clery, l'indimenticabile interprete di Historie d'O peraltro amica di Serena.  Se fino ad allora tutto sembrava aver girato per il verso giusto, ecco che il mondo sembra esploderle intorno. Quel mondo che l'aveva consacrata negli anni 80 come una icona della bellezza italica: sensuale e affascinante. Nata a Bologna, classe 1958, Serena ha sempre desiderato recitare e così, appena le è stato possibile, si è trasferita a Roma. L'inizio della sua carriera è fatta di piccole parti (Tranquille donne di campagna, La compagna di viaggio, Teste di quoio), poi comincia a farsi conoscere e arrivano altri film (Pierino colpisce ancora, Pierino la peste alla riscossa), nei quali è già tra i protagonisti (Sturmtruppen 2 - Tutti al fronte, Acapulco, prima spiaggia... a sinistra e nell'episodio L'imbiancone della serie tv Sogni e bisogni di Sergio Citti in onda su Rai 2 in cui recita con Carlo Verdone).  E ancora "Le avventure dell'incredibile Ercole" di Luigi Cozzi con Lou Ferrigno e l'horror Antropophagus di Joe D'Amato, divenuto un cult del genere horror. Serena Grandi con il suo fisico prorompente non passa inosservata e arriva in tv su Rai2 (Il cappello sulle ventitré), dove con i suoi striptease diventa il sogno proibito di tanti italiani. È ormai al top e, come ha raccontato, a lei si interessano in molti fino a ricevere le attenzioni e le telefonate di Gianni Agnelli e Silvio Berlusconi. Arrivano i film di qualità, Tu mi turbi dove interpreta una cameriera e recita accanto a Benigni, e Malamore, dove diretta da Eriprando Visconti ha il piccolo ruolo di una prostituta di alto bordo. Ma è l'incontro con Tinto Brass nel 1985 a consacrala definitivamente. In Miranda è la locandiera che fa sognare gli italiani. Dino Risi vuole che sia Teresa, con l'esordiente Luca Barbareschi. Sergio Corbucci le scrive addosso Roba da ricchi e Rimini Rimini, in cui Serena è affiancata da Paolo Villaggio, e mostra la sua capacità di far sorridere e di essere perfetta per ruoli brillanti nelle commedie.  Ma anche quando Lamberto Bava la fa recitare in un thriller, Le foto di Gioia, il suo personaggio lascia il segno. Luigi Magni le affida una parte accanto ad Alberto Sordi, nel film In nome del popolo sovrano. Cinema e tv la consacrano come una delle donne più ammirate degli anni 80, piace ed è simpatica anche alle donne che scoprono la sua genuina sensualità. E così sul piccolo schermo inanella una serie di successi: Donna d'Onore, per la quale vince pure un Telegatto, Piazza di Spagna, Il Prezzo della Vita, Pazza Famiglia, Anni '50, Ladri si nasce e Le ragazze di Piazza di Spagna. Nel 1998 Tinto Brass la richiama nel suo nuovo film Monella e Luciano Ligabue le fa interpretare la madre di Stefano Accoprsi in Radiofreccia. Purtroppo la parabola del successo subisce lo stop della vicenda "Cleopatra" Serena Grandi non è più l'attrice che i registi cercano e le sue curve sono diventate più abbondanti. «Sono stata risarcita dallo Stato - dichiara qualche anno dopo - ma era impossibile quantificare la mia disperazione, ho fatto una donazione. Dopo Miranda, non volevo cadere nel viale del tramonto, avevo paura di diventare la Laura Antonelli di turno. Non è facile volersi bene. Mi punivo mangiando. Ingrassavo, non mi curavo». Sulla sua strada, per fortuna, incontra un altro maestro del cinema italiano, Pupi Avati, bolognese come lei, che riesce a tirare fuori un lato dell'attrice poco conosciuto: la sua umanità. Ed eccola ne Il papà di Giovanna, e con esso arriva anche la scrittura nel cast della produzione televisiva Una madre per Rai1. Poi, due anni dopo, nel 2010, torna sul grande schermo con Una sconfinata giovinezza, sempre di Pupi Avati.  Non è più l'icona sexy, ironica e sensuale che Tinto Brass le aveva cucito addosso, ma dopo tutto quello che le è accaduto, Serena ci ha fatto scoprire un lato artistico nuovo, quello della caratterista che ce l'ha riportata alla grande bellezza del cinema. Delle sua traversie giudiziarie, pagate a caro prezzo, Serena preferisce non parlare, abbiamo provato a contattarla, ma ha preferito chiudersi nel riserbo. E in fondo è giusto così. Lei, una delle poche sopravvissute tra le stelle a processo che vi abbiamo raccontato, è riuscita ad andare avanti lo stesso. A testimonianza di un grande carattere, e di uno spirito, nonostante tutto, ancora indomito.

Il cardiochirurgo Marcelletti: le accuse, il suicidio e un romanzo che lo riscatta, scrive Angela Azzaro il 30 ago 2016 su “Il Dubbio”. Per la serie estiva "Processo alle stelle" il caso del celebre medico dei bambini che accusato di pedofilia si toglie la vita La sua storia gloriosa e controversa finisce a Roma un 6 maggio qualsiasi del 2009 all'ospedale San Carlo di Nancy. La diagnosi iniziale è pacifica: morto per un malore al cuore. Ma a poco a poco emerge la verità. Una tristissima verità. Il più famoso cardiochirurgo italiano per l'infanzia, uno dei più famosi al mondo, si è tolto la vita ingerendo farmaci per il cuore in dose massiccia. Carlo Marcelletti si è suicidato dopo mesi di profonda depressione. Un anno prima era stato arrestato con l'accusa di truffa, peculato e concussione, ma soprattutto con l'accusa ancora più infamante di pedopornografia. Il Tribunale del Riesame gli permette di uscire di prigione e di tornare la lavoro, ma per lui è finita. Fino a quel giorno del 2008, quando su di lui si abbatté la mannaia mediatico-giudiziaria, era stata una sfilza di successi. Cardiochirurgo pediatra, aveva dalla sua numeri impressionanti: 25 mila bambini curati, 10 mila operati. È il 1986, quando in Italia, grazie a lui, si effettua il primo trapianto su un bambino. Le sue mani d'oro, assicurate per tre miliardi quando ancora c'erano le lire, erano il frutto di studio, fatica, coraggio che lo avevano portato a frequentare le più importanti università e i migliori ospedali del mondo. Lui era uno dei migliori, forse il migliore. Fino a quel maledetto giorno in cui, di fronte ad accuse così infamanti, non riuscì ad affrontare la vita con lo stesso coraggio. La forza che aveva messo in gioco per gli altri, non la trovò per se stesso. Lui, che aveva affrontato polemiche e liti, si chiuse nel suo mondo. Quando si uccise, erano lontani i giorni in cui senza tentennamenti difendeva la decisione di operare due gemelline siamesi per tentare di separarle. Sapeva che non sarebbero sopravvissute entrambe, ma almeno una la voleva salvare. Dopo qualche mese morirono tutte e due. Ma lui ci credeva, lo faceva per amore della medicina e della vita. Di quell'amore a maggio del 2009 non restava più niente. Era accusato dalla procura di Palermo di farsi dare i soldi per favorire i genitori dei bambini che dovevano essere operati. In cambio di denaro, secondo l'accusa, garantiva una corsia privilegiata. In tutto gli venivano contestati 5000 euro. Sommati con quelli che rientravano nel capitolo truffa, si arrivava a ventimila euro. Difficile credere che un uomo brillante e pieno di successo potesse rovinarsi la vita per questa cifra, ma il processo - che ragionevolmente lo avrebbe scagionato - non si tenne mai. L'arresto per molti era sufficiente a decretare che era colpevole. L'accusa peggiore era quella di pedofilia. Il cardiochirurgo, che all'epoca aveva 64 anni, ammise di aver avuto uno scambio di messaggi hard con la figlia tredicenne di una sua amante, ma sosteneva di non avere avuto con lei altro tipo di rapporti. Ma la macchina del fango era ormai scattata, la sentenza era stata emessa. E Marcelletti dimagrì 40 chili in pochi mesi. La storia però non finisce il 6 maggio del 2009. Questa volta no. Il fango non insabbia tutto, la gogna mediatica non cancella ogni traccia. Al posto di un giornalista si trova uno scrittore, uno dei migliori che c'è in circolazione. E la discesa agli inferi del cardiochirurgo, l'infamia che lo colpisce e che gli rovina la vita fino a spingerlo al suicidio, viene presa come spunto per pubblicare nel 2010 un grande romanzo dal titolo che non lascia scampo: Persecuzione, prima parte del dittico Fuoco amico dei ricordi. Lo scrive Alessandro Piperno che due anni dopo, con la seconda parte Inseparabili, vince meritatamente il Premio Strega. Persecuzione è la storia di Leo Pontecorvo, oncologo pediatra di successo che viene accusato di pedofilia. Per fuggire alla gogna mediatica e al giudizio dei famigliari - la moglie non gli parla più - si rifugia nella parte inferiore della casa. Non lo vedrà più nessuno. Gli lasciano il cibo là dove lui può andarlo a prendere senza essere avvistato e senza dare disturbo. Pur non avendo fatto niente, se non aver ceduto per un momento alle lusinghe di una ragazza molto giovane, si sente in colpa. Anche per Marcelletti è stato così. Oppresso dal senso di colpa, devastato dal giudizio che tutti ormai avevano su di lui, diceva: «Non trovo né giustificazioni, né attenuanti verso me stesso. Vorrei farmi perdonare dalle persone che ho deluso, prima di tutto dai bimbi che adesso non potrò più curare». Ma né lui, né il suo doppio letterario saranno perdonati. Pontecorvo uscirà dal sottosuolo della sua casa, solo quando a causa di un malore smetterà di vivere. Piperno con Persecuzione fa una cosa rarissima nella letteratura contemporanea italiana: prova a raccontare il presente. E lo racconta nel punto più dolente: il bivio che ogni giorno ci troviamo davanti tra civiltà e barbarie. La civiltà è lo Stato di diritto. La barbarie è il giustizialismo: quel combinato di gogna mediatica e giudizio anticipato che da anni sta minacciando il tessuto sociale e politico del Paese. Piperno lo racconta e fa anche un passaggio in più: lo fa diventare letteratura, grande letteratura. Quasi un classico, in un'epoca dove niente sembra poter assurgere a questa definizione. Persecuzione sì: è un romanzo che mette le mani in pasta nella storia dei nostri giorni facendola diventare lingua, immaginario, simbolico. Marcelletti forse non troverà mai il riscatto che merita. Non basterà un libro a salvare la sua memoria. Ma noi leggendo Persecuzione ci ricordiamo di lui, ci ricordiamo di noi: del tempo così complesso che stiamo attraversando spesso privi di guide e strumenti che ci conducano in salvo. Piperno per dare forza alla sua costruzione letteraria ha una trovata geniale: la discesa nella parte bassa della casa, trasforma Pontecorvo in Gregor Samsa, il protagonista de Le metamorfosi. Nel racconto di Franz Kafka la trasformazione è da umano a scarafaggio. Gregor è un grigio commesso viaggiatore che persa la sua identità, il desiderio di vivere, perde anche la sua umanità. Solo da insetto, quando tutti hanno paura di lui e si augurano la sua morte, capisce di essere importante, recupera se stesso. Pontecorvo si trasforma sotto i colpi dell'ingiustizia subìta. Perde la sua umanità per le mazzate di coloro che hanno decretato la sua condanna. Striscia, si nutre recuperando di nascosto il cibo che gli viene lasciato quando la porta è chiusa. Pontecorvo è Gregor Samsa, è Marcelletti. E' chi, perdendo tutto, ci racconta quanto ingiustamente possa soffrire un essere umano. Nel passaggio dalla cronaca alla letteratura, chi ci resta in mezzo è il lavoro dei giornalisti. Sono i primi che spesso non hanno pietà, sono i primi che scagliano la prima pietra contro chi viene accusato, più o meno ingiustamente, di qualcosa. Sono i primi che pretendono di sostituirsi ai giudici e che non consentono appelli o cassazioni. La letteratura, almeno una certa letteratura che ancora per fortuna sopravvive, conserva la pietà. Usa la lingua non per condannare, ma per capire. Usa la narrazione non per mettere alla gogna, ma per farci identificare con chi sbaglia, impedendoci di sentirci perfetti o migliori. Ma oggi la buona letteratura la leggono in pochi. 

Arrestato, umiliato e messo al bando: l'infarto fu casuale? Scrive Franco Insardà il 10 ago 2016 su “Il Dubbio”. Le accuse per Gigi Sabani furono archiviate, ma lo scandalo distrusse la sua carriera. Tra la sua ex e il pm Chionna, che lo indagava, scoppiò il classico colpo di fulmine e lui commentò: "Beffa nella beffa. Sono proprio una bella coppia e Anita ha saputo scegliere bene: è passata dall'accusato all'accusatore". «Che mi hanno combinato! Così mi diceva Gigi da quella finestra, in quella casa dove era ai domiciliari, quando mi vedeva passare in strada. Io cercavo di rincuorarlo dicendogli di stare tranquillo, che presto sarebbe finito tutto. Tredici giorni in casa che, per uno come lui abituato a stare sempre in mezzo alla gente, sono stati una vera sofferenza». Edy, gestore dal 1990 con la moglie Francesca di un bar in largo Tassoni, ricorda bene quei giorni che hanno segnato per sempre la vita del suo amico Gigi Sabani, che viveva nell'appartamento a pochi passi dalla sua attività in via dei Banchi Nuovi. Alla cassa del bar fa bella mostra di sé una foto con Gigi sorridente come al solito, che lo abbraccia, più piccoli altri due scatti: uno sempre con Sabani e un altro che ritrae un arzillo vecchietto. «È Aristide, aveva un'osteria qui a fianco. Quando chiudeva veniva qui e cantava stornelli e canzoni romanesche e Gigi si divertiva tanto», ricorda Edy. Quando furono revocati gli arresti domiciliari per il quartiere fu una festa. «Tutti si riunirono qui in piazza Tassoni, ognuno portava una bottiglia per brindare, per Gigi fu un'iniezione di vita. Io cercavo di stemperare l'entusiasmo, anche nei giorni successivi, ma lui mi diceva: lasciali fare». Aveva bisogno dell'affetto del suo pubblico per riprendersi da quella brutta avventura. La sua era una carriera che fino a quel momento non aveva conosciuto stop: tanti spettacoli, programmi televisivi anche da conduttore, premi. Una vita sulla cresta dell'onda che viene bruscamente interrotta con un danno di immagine incalcolabile. In poche ore Sabani si ritrovò nella polvere, travolto da un'accusa falsa e infamante. La prima Vallettopoli - la seconda è legata al pm di Napoli, all'epoca a Potenza, Henry John Woodcock - era partita da Biella con l'inchiesta sulla scuola per modelle "Celebrità", che avrebbe ospitato incontri privati fra le ragazze e uomini di spettacolo con l'obiettivo di ottenere contratti al cinema o in tv. L'accusa per Gigi Sabani fu di truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione e per questo il 18 giugno del 1996 fu arrestato. A metterlo nei guai furono le dichiarazioni dell'allora minorenne Katia Duso, aspirante showgirl, che raccontò al pm Alessandro Chionna di approcci sessuali con Sabani, a Roma, nell'estate 1995, in cambio della promessa di un aiuto per lavorare nello spettacolo. Edy ricorda bene quel giorno: «Gigi stava sempre qui da noi. Mi disse di far mangiare una ragazza che avrebbe dovuto accompagnare a fare un provino. Era andata a prenderla alla stazione Beppe Pagano (ex factotum e autista di Sabani per anni, diventato uno degli accusatori) la portò al bar, poi arrivò Gigi e insieme andarono all'Hilton per i provini. In serata mi telefonò e mi disse che stava facendo fare un giro in macchina alla ragazza, prima di accompagnarla a prendere il treno. Tutto qui». In quella vicenda insieme a Sabani furono coinvolti anche Valerio Merola e Raffaella Zardo. Il primo diventato per tutti il "Merolone", perché la difesa dell'avvocato si basò anche sulle presunte "grandi dimensioni" del pene del suo assistito che non avrebbero potuto rendere possibile la violenza di cui era accusato (induzione alla prostituzione, atti di libidine violenta e violenza carnale) fu rinchiuso per dieci giorni nel carcere a Regina Coeli. La Zardo fu indagata e messa agli arresti domiciliari durante le indagini, con l'accusa di aver indotto tre ragazze alla prostituzione. L'indagine del pm Chionna si allargò anche a Gianni Boncompagni, al quale venne notificato un avviso di garanzia con la contestazione da parte del pm biellese dell'accusa di induzione alla prostituzione. Per tutta l'estate i pm Chionna e Serianni interrogarono decine di ragazze che in quegli anni avevano avuto un ruolo nella trasmissione Non è la Rai, poi chiesero l'archiviazione per l'inventore di Alto gradimento e di tante altre trasmissioni di successo. Gigi Sabani, difeso dall'avvocato Vincenzo Siniscalchi, venne scarcerato il 1 luglio e presentò una denuncia per abuso d'ufficio nei confronti di Chionna. L'inchiesta fu trasferita a Roma per "incompetenza territoriale" del foro di Biella e il 13 febbraio 1997 arrivò la richiesta di archiviazione del pm Pasquale Lapadura, accolta dal gip il 18 febbraio 1997. Per l'ingiusta detenzione Sabani ottenne il risarcimento di 24 milioni di lire. La quarta sezione della Corte di appello di Roma sentenziò: «Posto che la detenzione si riferisce al giugno sembra che il calo degli introiti netti del '97 (154 milioni di lire rispetto ai 400 dell'anno precedente) non sia ad essa correlata direttamente e che dipenda da altre ragioni: esistenza del procedimento penale a carico, che non è produttiva di diritti alla riparazione; e diffusione, tramite i mezzi di comunicazione, delle notizie circa la posizione di Sabani con riferimento a suoi interrogatori». «Il discredito sociale riparabile - hanno rilevato i giudici - è solo quello dipendente dalla detenzione e non dalla imputazione», e «la detenzione si svolse tutta agli arresti domiciliari, regime meno afflittivo di quello della custodia cautelare in carcere». Ma Sabani più volte commentò amaramente: «I giudici sono gli unici che non pagano mai anche se sbagliano». Vittorio Sgarbi, un personaggio che non le manda a dire, sulla figura di Sabani tombeur de femmes espresse all'epoca un'opinione molto precisa: «È un'accusa ridicola. Si tratta del tipico non trombatore. Sabani che molesta? Andiamo. Lo incontravo sempre al ristorante Matriciano, verso l'una di notte, circondato da un codazzo di semi gorilla e altri personaggi... ». Un ruolo confermato anche dall'amico del cuore di Gigi: «Dopo la separazione dalla moglie comprò l'appartamento di via dei Banchi Nuovi da Amy Stewart e, se non era in giro per fare spettacoli, stava sempre qui al bar. Eravamo la sua famiglia. Quando aveva qualche lieve malanno mia moglie gli preparava una semplice minestrina, ma per lui era una cosa eccezionale. Spesso veniva suo figlio Simone che è diventato amico di mio figlio: un rapporto che continua anche oggi». Quello di Gigi e le donne è un capitolo particolare perché dalle cronache e dai racconti emerge il ritratto di un uomo semplice, al quale piaceva stare in mezzo alla gente, farsi fotografare con i suoi fan, ma che è stato nella sua vita spesso solo. Dopo la separazione dalla moglie, Rita Imperi, dalla quale ha avuto il figlio Simone, Gigi ha avuto altre donne che, ognuna a suo modo, hanno segnato la sua vita. Anita Ceccariglia, sua fidanzata per quattro anni, ex di Non è la Rai, fu convocata alla procura di Biella come testimone dal pm Chionna, all'epoca 29enne. Quell'incontro fu galeotto. Tra la ragazza e il pm, appassionato anche di motori tanto da disputare gare del Campionato italiano velocità turismo, scoccò la scintilla. Il dottor Chionna lasciò l'inchiesta, ma Gigi Sabani chiosò: «Beffa nella beffa. Sono proprio una bella coppia e Anita ha saputo scegliere bene: è passata dall'accusato all'accusatore». E Valerio Merola aggiunse amaramente: «Se i primi incontri fra i due si fossero svolti mentre l'inchiesta era ancora nelle mani di Chionna, ci sarebbe da meditare». Alla fine della vicenda biellese Gigi si fidanzò con Fabiana Savi e decise di andare via dall'appartamento di via dei Banchi Nuovi. «Per me e per tutti noi che gli siamo stati vicini in questi anni - racconta oggi Edy - è stato quasi un tradimento. Gigi mi diede tutte le targhe e i Telegatto che aveva vinto nella sua carriera: "Tienili tu mi disse, so che ti fa piacere". E io li conservo come fossero reliquie del mio amico. Queste sono le chiavi dell'appartamento di via dei Banchi Nuovi e questi i doppioni di una delle sue macchine, una Mercedes decappottabile. Dopo il trasferimento è venuto sempre qui al bar, ma spesso era triste, soprattutto per quel marchio che si portava addosso, nonostante fosse tutto finito». Dopo sei anni anche quella storia giunse all'epilogo. Poi ci fu l'ultimo amore della sua vita, scoppiato un anno prima della morte. È Gabriella Ponzo, un'attrice che dopo un inizio nel cinema (Il corpo dell'anima e Quartetto di Salvatore Piscicelli, un piccolo ruolo in Gangs of New York di Martin Scorsese, protagonista con Tinto Brass in Fallo), ha continuato la sua carriera anche in teatro. Qualche giorno dopo la morte di Gigi, Gabriella Ponzo ha scoperto di aspettare un bambino: il 19 maggio 2008 nacque Gabriele Sabani. Gigi Sabani non amava ricordare quella vicenda che gli aveva sconvolto la vita e per la quale tanti che riteneva amici lo avevano tradito o gli avevano girato le spalle. Nel libro di Antonello Sarno Al cuor non si comanda - Vallettopoli 1 si sfogò: «Come morire a occhi aperti. Vedi quello che ti succede e non puoi farci niente. Anzi, una cosa la puoi fare: conti i buoni, pochissimi. La famiglia, poi Lino Banfi, Gianni Morandi, Arbore, Celentano, Cutugno e Maurizio, sì Costanzo, più degli altri. Poi i cattivi, cioè quasi tutti. Perché l'ambiente è una merda». Poi una sera, dopo dieci anni da quella brutta storia, Gigi è casa della sorella Isabella, nel quartiere Prenestino dove è cresciuto. Ha bisogno di stare un po' in famiglia, ha ritrovato l'amore di una donna, non ha mai perso l'affetto del suo pubblico, ma stenta a rientrare nel giro grosso della tv. Addirittura alcune trasmissioni ideate e nate per lui vengono affidate ad altri che neanche lo invitano. Quella sera, il 4 settembre 2007, verso le 20 non si sente bene, chiamano il medico di famiglia che lo visita ed esclude complicazioni. Ma dopo qualche ora di dura lotta, purtroppo, il suo cuore non ce la fa. Ai suoi funerali ci sono tante persone semplici che lo hanno conosciuto e gli amici e i colleghi più cari. Merola, l'amico coinvolto insieme a lui nell'inchiesta ha parole durissime: «Questa morte ha una firma. Le ingiustizie alla fine danno questi risultati». Maurizio Costanzo ribadisce: «Il mio ricordo va a quando, con il Maurizio Costanzo Show, cercai di ridargli forza perché fu travolto da uno scandalo finto, che non lo riguardava». Un altro che lo conosceva bene, Pippo Baudo, di Sabani disse: «Ha avuto un grande, meritato successo. Era un buono e ha sofferto tantissimo quando è stato accusato ingiustamente. Quella cosa lo ha ferito, non se lo era mai dimenticato». Un giudizio simile lo diede anche Giancarlo Magalli: «La vicenda lo aveva danneggiato umanamente e artisticamente. Aveva un forte senso dell'amicizia, vide molti sparire e ci rimase male, io gli restai vicino, ma chi fa questo lavoro vive anche dell'amore e della fiducia del pubblico. Chissà se quello che è successo non sia la conseguenza di tante angosce che si è tenuto dentro». 

Tortora, storia di un perseguitato senza pace. Trent'anni fa veniva scarcerato Tortora. Ma il suo incubo prosegue ancora oggi. Tra giudici che rifiutano di pentirsi e mascalzoni che si paragonano a lui, scrive Massimo Del Papa il 15 Settembre 2016 su "Lettera 43". Enzo Tortora, stella di prima grandezza del giornalismo e dell'intrattenimento televisivo, diventa di colpo un criminale mafioso per la giustizia e per l'opinione pubblica: la sua storia impossibile (guarda le foto) diventerà un modo di dire, usurpato da fior di mascalzoni che, appena inchiodati, puntualmente proclamano: «Sono come Tortora, il mio è un nuovo caso Tortora». Non è quello che avrebbe voluto la vittima del «più grande esempio di macelleria giudiziaria all'ingrosso del nostro Paese», come lo definì uno dei suoi rari sostenitori, Giorgio Bocca. Poche grandi firme – lo stesso Bocca, Biagi, Montanelli pur tra qualche caduta di stile - proveranno a non perdere la testa di fronte ai furori di una opinione pubblica che invoca il crucifige, col solo Partito radicale di Marco Pannella coinvolto in una durissima battaglia per opporsi alla marea montante di una magistratura i cui protagonisti, lungi dal pagare in alcun modo, faranno tutti clamorosi balzi in carriera, fino a conquistare i massimi ermellini oppure nella pubblica amministrazione. Dal canto loro, i pentiti menzogneri avranno sorte altrettanto benevola, uno addirittura insignito del “premio della libertà”. Era una buona compagnia: dare addosso a Tortora è facile, la stampa si scatena, moltissimi opinionisti, come la radical chic Camilla Cederna, dimostreranno carognesca superficialità: «Se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto». E sono gli stessi che non credono per princìpio alla magistratura e alle istituzioni, che firmano appelli contro lo Stato e i suoi 'commissari torturatori'. È difficile, in quella temperie, considerare Tortora innocente, e scriverlo. Si rischia di venire contagiati dalle accuse che lo travolgono. Il calvario: 1.768 giorni dall'arresto alla morte. Il conduttore ha due avvocati di prestigio, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall'Ora, che nel difenderlo si identificano nel dramma del loro assistito oltre i limiti del mandato professionale: quando Tortora verrà riabilitato, saranno visti piangere come lui, insieme a lui. Il calvario di Enzo Tortora dura 1.768 giorni, dal quello dell'arresto (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all'Hotel Plaza di Roma) alla fine della sua vita (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8). Gli italiani scopriranno che possono venire svegliati in qualsiasi momento da un battere alla porta in piena notte, come nei regimi di polizia e portati via, in un incubo senza fondo dove le spirali della vergogna e dell'impotenza sembrano non avere mai fine. Alla vigilia dell'arresto di Tortora, circola tra i cronisti di nera la voce di una retata imminente, con tanto di nome forte, uno della televisione. Uno grosso. Chi? «Uno che sta nelle ultime lettere dell'alfabeto». Quella giusta è la “T”. Rintracciano “mister T.”, lo avvertono: lui ironizza, ci ride sopra, attacca e non ci pensa più. Lo andranno a prendere poche ore dopo. È tutto predisposto, giornalisti e fotografi sono stati avvertiti. Gli mettono le manette, ad effetto; ma ne fa di più la sua faccia stupefatta e sfatta. Fioccano i “pentiti” che lo azzannano in un delirio di accuse folli: ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell'Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Titola il Messaggero: «Tortora ha confessato». Quando, dove? L'accusa: una partita di droga che il presentatore si sarebbe intascato. Nessuno difende Tortora, specie a sinistra: è considerato un reazionario, un rompicoglioni moralista. Un antipatico. Più avanti si sarebbe detto: un nazionapopolare, col suo Portobello strappalacrime e stracciapalle. Scriveva su la Nazione del petroliere Attilio Monti in odor di fascismo, ce n'è abbastanza per scordarsi il garantismo, che con gli amici si osserva, coi nemici si cancella. Quando la madre Silvia si reca in chiesa, trova sempre lo stesso bigliettino, grondante carità cristiana: «Tuo figlio spaccia la droga». E dire che tutto nasce da una meschinità infantile, come si racconta nel bel libro di Vittorio Pizzuto Applausi e sputi. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, spedisce alcuni centrini alla redazione di Portobello nella speranza di venderli. Non li vede mai e allora comincia a perseguitare il presentatore con letteracce scritte dal killer Pandico, perché lui è analfabeta. Un bel giorno Tortora si scoccia: «Se lei continua ad insistere», risponde, «passerò la faccenda all'ufficio legale della Rai». I centrini non si trovano, il detenuto riceve dalla Rai un assegno di 800 mila lire più per pietà che per altro. Barbaro e Pandico si “sdebiteranno” raccontando ai giudici, per bocca del secondo, che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni che il presentatore si sarebbe intascato imbrogliando i compari. Sarebbe la prima prova d'accusa: i legali a difesa producono le lettere minatorie del galeotto, ma per i magistrati «a scrivere è un altro Barbaro», un omonimo. Altra prova considerata definitiva: si trova il nome di Tortora nell'agendina di Giuseppe Puca, detto "o Giappone", sicario tra i preferiti di Cutolo. Ma l'agendina è della donna di Puca, il nome, scarabocchiato a mano è "Tortosa" non "Tortora", e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora. Il prefisso è 0823, «Provate a chiamà, dottore...». Cinque mesi ci mettono, i giudici, a "provare". Gli accusatori: da un serial killer all'altro. Chi sono gli accusatori di Tortora? Il principale è il citato Giovanni Pandico, killer di professione, segretario di Cutolo, il capo della camorra: ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ha tentato senza successo di annientare i parenti: padre, madre e fidanzata. «Schizoide e paranoico» per i medici, bocca della verità per i giudici. È il primo, il più meschino, quello che eccita e contagia altri degni compari. Dal 2012 torna libero cittadino. Non migliore è Pasquale Barra, detto 'o "animale", serial killer delle galere, 67 omicidi in carriera tra cui lo squartamento di Francis Turatello al quale mangia pezzi di cuore: è morto in carcere, sotto regime privilegiato, con uno speciale programma di protezione. Il più appariscente però è Gianni Melluso, detto "il bello" o "cha cha cha", aspetto di cialtronesca, volgare ricercatezza, da cantante da crociera. Già libero, è tornato in galera qualche anno fa per sfruttamento della prostituzione. Da accusatore di Tortora, in carcere viveva come un pascià, amava quando voleva la fidanzata, puntualmente messa incinta e sposata con due giornalisti come testimoni e un meraviglioso completo sartoriale di Valentino. Dirà Melluso, ma solo nel 2010, in una intervista all'Espresso: «Lui non c'entrava nulla, di nulla, di nulla, l'ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l'unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie». Replicherà Gaia, la terzogenita: «Resti pure in piedi». Un altro che lo accusa di spacciare negli studi di Antenna 3 Lombardia è il pittore fallito Giuseppe Margutti: anche lui, a giochi fatti, ammetterà di essersi inventato tutto per mitomania finalizzata a raccogliere qualche soldo. Il primo grado: condanna a 10 anni e 50 milioni di multa. Tortora passa per sodale del boss dei boss Raffaele Cutolo. Accusa risibile, che infatti suscita ironia allo stesso supercriminale: nel carcere dell'Asinara, dove sconta l'ergastolo, don Rafaé incontra il presunto colpevole Tortora, nel frattempo diventato europarlamentare. Il breve dialogo che ne consegue, è surreale: «Dunque, io sarei il suo luogotenente». Poi porge la destra: «Sono onorato di stringere la mano a un innocente». La cosa non turba i magistrati, che non si scomodano a disporre alcun controllo, verifica, riscontro bancario (cosa che Tortora li invita espressamente a fare), appostamento, pedinamento, intercettazione (non sono ancora di moda), e, inchiodati alle versioni dei pentiti, tutte tra l'altro discordanti fra loro, costruiscono il loro castello accusatorio. I sostituti procuratori titolari delle indagini a Napoli sono Lucio Di Pietro, definito il Maradona del diritto, e Felice Di Persia. Ottengono dal giudice istruttore Giorgio Fontana 857 ordini di cattura, con 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (in appello, le assoluzioni saranno 114 su 191). Il processo di primo grado, sempre a Napoli, si apre nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l'arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985 con il conduttore condannato a 10 anni e 50 milioni di multa, ma nel frattempo divenuto deputato radicale al Parlamento europeo. Il presidente Luigi Sansone scrive una omerica sentenza di 2 mila pagine, in sei tomi, uno dei quali appositamente su Tortora, per il quale ribalta ogni logica di diritto: «L'imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui», quanto a dire l'inversione dell'onere della prova. Da parte sua, il pubblico ministero Diego Marmo definisce Tortora «un uomo della notte, ben diverso da come appariva a Portobello»; poi insinua che sia stato votato dai camorristi. Ma ammette: «Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l'istruttoria». L'appello: la Corte di Napoli smonta il castello accusatorio. Non sia mai: Tortora riceve una condanna inevitabile. Già eletto a Strasburgo per i Radicali, prontamente si dimette da eurodeputato, rinuncia all'immunità e torna in Italia per farsi arrestare. Nel frattempo è cambiato, ha maturato una consapevolezza nuova, l'impegno totale in favore dei carcerati: «Ero liberale perché ho studiato, sono radicale perché ho capito». Passa ai domiciliari, ricorre in appello, non smette di combattere, fino alla fine. «Io sono innocente», dice ai giudici. «Spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi». Gli credono, finalmente. Il 15 settembre 1986 la Corte d'Appello di Napoli sfascia mattone per mattone il castello accusatorio del primo grado, ma lui è già minato. Torna davanti agli italiani venerdì 20 febbraio 1987, con quelle pochissime, memorabili parole, «Dove eravamo rimasti?». Ma non è più lui, la voce è incrinata, il volto segnato, le lacrime sempre in agguato: salgono dagli incubi che, la notte, lo scaricano ancora in cella. Lo hanno spezzato. Racconterà la figlia Silvia: «Ricordo che Manganelli, il capo della Polizia, incontrandomi mi disse: quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia. Hanno fatto una commissione parlamentare su tutto, persino su Mitrokhin: su Tortora no». I giudici coinvolti: «Ma di cosa ci dovremmo vergognare?» Già malato terminale, Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire. Il Csm archivia. Archiviato anche il referendum del 1987, nato sulle ceneri del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65%, i sì sono l'80%, arriva la legge Vassalli e lo disinnesca. Nel frattempo la Cassazione ha confermato l'assoluzione in appello, il 13 giugno 1987, quattro anni dopo la notte delle manette. L'ultima intervista, al programma Il Testimone di Giuliano Ferrara (che poi rimedierà una querela da tre giudici), è atroce. Tortora, rantolando, ansimando, rinfaccia al magistrato Alessandro Olivares la condotta processuale: «Mi disse allora: "Ma sììì, facciamo sei anni. Da dieci facciamone sei...". E io dissi: 'Guardi che non siamo al mobilificio Aiazzone. Lei ha una mentalità da barcaiolo giuridico veramente ripugnante. Lei ha una mentalità da barcaiolo...'». Poi non riesce più a parlare, stava già morendo. «Ma di che cosa ci dovremmo scusare, noi?», ha ringhiato ancora di recente uno dei giudici coinvolti - e premiati - in questo splatter giudiziario. «CHE NON SIA UN'ILLUSIONE». Restano le lettere di Tortora, strazianti, alla compagna Francesca Scopelliti, che recentemente le ha raccolte in un libro di cui si è stati molto attenti a non parlare. Resta l'impegno di Tortora per i detenuti, per condizioni carcerarie umane, impegno che non è sopravvissuto né a lui, né al suo più grande sostegno, Pannella. Se volete andare a trovare Tortora, sta al cimitero Monumentale di Milano, dentro una colonna di marmo. Qualcuno ha infilato l'immaginetta di un Cristo in croce con la scritta: «Uno che ti chiede scusa». Sotto l'urna, che dietro il vetro sembra ricordare a tutti un uomo ridotto in cenere prima ancora di morire, una frase urla la sua muta disperazione: «Che non sia un'illusione».

Tortora dalla prigione: «L'uomo qui è niente, ricordatevelo», scrive Valter Vecellio il 14 set 2016 su "Il Dubbio". Il presentatore viene arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri. Lo fanno uscire solo quando si era ben sicuri della presenza di tv e giornali. Muore il 18 maggio del 1988, stroncato da un tumore. Dopo sette mesi di ingiusto carcere e arresti domiciliari Enzo Tortora viene definitivamente assolto dalle accuse di associazione di stampo camorristico e traffico di stupefacenti. È il 15 settembre di trent'anni fa. Un calvario che lo segna in modo indelebile. Il 18 maggio del 1988 muore, stroncato da un tumore, conseguenza - non è arbitrario sostenerlo - anche del lungo e ingiusto calvario patito. Chi scrive fu tra i primi a denunciare che in quell'operazione che aveva portato Enzo in carcere assieme a centinaia di altre persone, c'era molto che non andava; e fin dalle prime ore. Tortora viene arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata. Lo fanno uscire solo quando si era ben sicuri che televisioni e giornalisti fossero accorsi per poterlo mostrare in manette. Sarebbe interessante sapere chi dà quell'ordine che porta alla prima di una infinita serie di mascalzonate. Rileggo ancora con emozione, indignazione, sgomento le lettere che Enzo mi invia dal carcere; e ancora corre un brivido lungo la schiena. Credo sia utile, necessarie, rileggerle, in giorni in cui tanti, mostrano di aver smarrito la memoria di quello che è stato.

16 settembre 1983 «Da tempo volevo dirti grazie? Hai "scommesso" su di me, subito: con una purezza e un entusiasmo civile che mi commossero immensamente. Vincerai, naturalmente, la tua "puntata". Ma a prezzo di mie sofferenze inutili e infinite. Io sono stato il primo a dire che il "caso Tortora è il caso Italia". Non intendo avere trattamenti di favore, o fruire di scorciatoie non "onorevoli"? Se dal mio male può venire un po' di bene per la muta, dolente popolazione dei 40mila sepolti vivi nei lager della democrazia, e va bene, mi consolerà questo».

2 maggio 1984 «Che si faccia strame della libertà di un uomo, della sua salute, della sua vita, come può esser sentito come offesa alla libertà, alla vita, alla salute di tutti in un Paese che non ha assolutamente il senso sacro, della propria dignità e delle libertà civili? Non è vero che l'Italia "ha abolito la pena di morte". Abbiamo un boia in esercizio quotidiano, atroce, instancabile. Ma non vogliamo vederlo. La sua scure si abbatte, ogni minuto, sul corpo di uomini e di donne, e li squarta vivi, in "attesa" di un giudizio che non arriva mai. L'uomo qui è niente, ricordatevelo. L'uomo qui può, anzi deve attendere. L'uomo qui è una "pratica" che va "evasa" con i tempi, ignobili, della crudeltà nazionale?».

15 luglio 1985 «In questa gara, tra chi pianta più in fretta i chiodi, come al luna park dell'obbrobrio giudiziario, e i pochi che si ribellano, sta tutta la mostruosa partita. Vedere a che lurido livello s'è ridotta la dignità di questo Paese è cosa che mi annienta più d'ogni altra. So che sei coi pochi. Da sempre. Te ne ringrazio, fraternamente».

7 ottobre 1985 «Sono stato condannato e processato dalla Ngo, Nuova giustizia organizzata. Io spero che questa fogna, che ormai nessun tombino può contenere, trabocchi e travolga chi lo merita?».

2 aprile 1986 «Diffamatori è poco: sapevano quel che facevano. Ma per pura voluttà scandalistica, per pura, stolida ferocia, qui si getta fango sino all'estremo. Ho paura di questi cannibali. Ho soprattutto vergogna di essere italiano?».

17 agosto 1987 «Siamo molti? Ma troppo pochi per spezzare la crosta di ottusa indifferenza che copre e fascia la rendita di alcuni farabutti mascherati da Magistrati. Tanto più importante e notevole il vostro impegno. Tenteremo, sul caso Melluso, quel che si potrà. Ho inviato al ministro Vassalli l'incredibile servizio, gli ho anche detto che i responsabili hanno nome e cognome: Felice Di Persia, Lucio Di Pietro, Giorgio Fontana, Achille Farina, Carlo Spirito? Sono ancora lì, al loro posto? Staremo a vedere?».

Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: perché? Alla ricerca di una soddisfacente risposta, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell'Italia di questi anni: il rapimento dell'assessore all'urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo.

Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21.45 del 27 aprile 1981 quando le Brigate Rosse sequestrano Cirillo. Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della Dc, Cutolo, uomini dei servizi segreti per "riscattarlo". Viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova. Durante la strada parte è "stornato", non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c'è chi si prende la "stecca". A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c'è un "ritorno". Il "ritorno" si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati, da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, «mai più ritrovato». Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora "brucia". Cominciamo col dire che: Tortora era un uomo perbene, vittima di un mostruoso errore giudiziario. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. «Cinico mercante di morte», lo definisce il Pubblico Ministero Diego Marmo; e aggiunge: «Più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza». Le "prove" erano la parola di Giovanni Pandico, un camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Pasquale Barra detto 'o nimale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l'intestino? Con le loro dichiarazioni, Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti "pentiti": curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Arriviamo ora al nostro "perché? " e al "contesto". A legare il riscatto per Cirillo raccolto ai costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, fatta anni fa, della Direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati "pentiti a orologeria"; per distogliere l'attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. E' in questo contesto che nasce "il venerdì nero della camorra", che in realtà si rivelerà il "venerdì nero della giustizia": 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104? Documenti ufficiali, non congetture. Candidato al Parlamento europeo nelle liste radicali, eletto, chiede sia concessa l'autorizzazione a procedere, che invece all'unanimità viene negata. A questo punto, Tortora si dimette e si consegna all'autorità, finendo agli arresti domiciliari. Diventa presidente del Partito Radicale e i temi della giustizia e del carcere diventano la "sua" ossessione. Nessuno dei "pentiti" che lo accusa è chiamato a rispondere delle sue calunnie. I magistrati dell'inchiesta fanno tutti carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Un errore, ed insieme un orrore, l'affaire Tortora. Un orrore per quello che è stato, che implica, fa intuire; e definirlo un errore è forse troppo semplice, perfino assolutorio; che quella patita da Tortora è stata un'ingiustizia che, manzonianamente, poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano, «un trasgredir le regole ammesso anche da loro». E si torna al punto di partenza: perché è accaduto, perché si è voluto accadesse. Né si possono assolvere dicendo che non sapevano quello che facevano: se davvero non sapevano è perché decisero consapevolmente, di non sapere. Insomma, una colpa, se possibile, ancora più grave. Ora tutti riconoscono che l'intero castello accusatorio era più fragile di un castello di sabbia; e che Tortora era una persona perbene. Enzo diceva sempre che non era, il "suo" il "caso Tortora", ma "il caso Italia"; che resta, rimane, a cominciare dalla situazione delle carceri, e dall'irragionevole durata dei processi. Lo avevano ben compreso Marco Pannella, suo amico di sempre, che per lui si batte come un leone; e Leonardo Sciascia, che fin da subito si dichiara certo della sua innocenza? Sarà per questo che assistiamo a tante celebrazioni post mortem e alla memoria, molte certo in buona fede (altre se ne però lecitamente dubitare), senza che i radicali vengano mai invitati, tacitati, esclusi?

Enzo Tortora, trentatré anni fa l’arresto a “orologeria”, scrive Valter Vecellio il 16 giugno 2016 su “Il Dubbio”. Ventotto anni fa, stroncato da un tumore che forse ci sarebbe stato ugualmente, ma che certamente è esploso per via del calvario patito, Enzo Tortora ci lasciava. Tortora lo incrocio a Bologna, quando ancora pasticcio di giornalismo, e divido il mio tempo tra esami di legge e in quello che ancora oggi credo sia chiamato angòl di cretén o cantàn d’inbezéll a raccogliere firme per referendum radicali che i bolognesi sottoscrivono a migliaia, in barba al Pci di allora che li boicotta. Tra i giornali, allora come ora, Il Resto del Carlino e per un po’ Il Foglio, che non è quello di Giuliano Ferrara, ma lo sfortunato tentativo editoriale di Luigi Pedrazzi ed Ermanno Gorrieri, per rompere appunto il monopolio del Carlino; e contemporaneamente nasce Il Nuovo Quotidiano, anch’esso effimero; e diretto appunto da Tortora. Un periodo di schermaglie e polemiche, perché Il Nuovo Quotidiano è addirittura più conservatore del Carlino. Poi altre storie ed esperienze, fino al giorno dell’arresto, con quelle accuse infamanti: affiliazione alla camorra, spaccio di cocaina. Di quell’“affaire” mi sono occupato fin dal primo momento; e fin dal primo momento, senza dubbi ed esitazioni, innocentista, con pochissimi altri: Piero Angela, Giacomo Ascheri, Massimo Fini… “Affaire Tortora”, ma non solo: che in realtà si tratta di centinaia di persone arrestate (il “venerdì nero della camorra”, siamo nel giugno del 1983), per poi scoprire che sono finite in carcere per omonimia o altro tipo di “errore” facilmente rilevabile prima di commetterlo; ma no: si è voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ‘o animale, Gianni Melluso. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per “montare” i miei servizi per il Tg2, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del Pubblico Ministero che a un certo punto pone una retorica domanda: «…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?». E quali gli elementi di colpevolezza che emergevano durante il paziente lavoro di ricerca delle prove di innocenza? N-E-S-S-U-N-O. E per capirci: nessuno significa nessuno. Che fosse qualcosa di simile allo scespiriano regno di Danimarca lo si capisce fin dalle prime ore: lo arrestano nel cuore della notte, lo trattengono nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata, lo fanno uscire solo quando sono ben sicuri che televisioni e giornalisti sono accorsi per poterlo mostrare in manette. Già quel modo di fare è sufficiente per insinuare qualche dubbio, qualche perplessità. Ancora oggi non sappiamo chi diede quell’ordine che porta alla prima di una infinita serie di mascalzonate.  E veniamo al perché tutto ciò è accaduto, si è voluto accadesse. Forse una possibile risposta sono riuscito a trovarla, e a suo tempo, sempre per il Tg2, riuscii a realizzare dei servizi che non sono mai stati smentiti, e ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Per la vita di Cirillo viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta è costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo, sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ha un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, mai più ritrovato. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Lo si sia fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le “prove”, per esempio, erano la parola di Giovanni Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo interrogano diciotto volte, solo al quinto si ricorda che Tortora è un cumpariello; e Pasquale Barra: un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino. Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. C’è poi un numero di telefono trovato in un’agendina di una convivente di un capo clan. Sotto la T, leggono Tortora; in realtà quel nome corrisponde a Tortona, riscontrarlo è facile, basta comporre il numero. Non lo fa nessuno. C’è poi un documento importante che rivela come vennero fatte le indagini, ed è nelle parole di Silvia Tortora, la figlia. Le chiedo di rispondere con un sì o con un no alle mie domande. Quando suo padre viene arrestato oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra c’era altro? «No». Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? «No, mai». Intercettazioni telefoniche? «Nessuna». Ispezioni patrimoniali, bancarie? «Nessuna». Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? «Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri». Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? «Nessuna». Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia, con che prove? «Nessuna». Chi lo ha scritto è stato poi condannato? Qualcuno ha chiesto scusa per quello che è accaduto? «No». A legare il riscatto raccolto per Cirillo, i costruttori, compensati poi con gli appalti, e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. È in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Anni dopo il pubblico ministero accusatore di Tortora dice di aver agito in buona fede e chiede scusa. Diamo pure credito alla “buona fede”, anche se subito viene in mente quella terrificante figura di magistrato magistralmente descritta da Leonardo Sciascia in Una storia semplice; forse, quel pubblico ministero è ferrato in italiano come il magistrato di Sciascia. La questione, comunque, va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”. Sta a noi fare in modo che non lo sia.

Pezzuto: «Enzo, la condanna e quel giorno nero che non è mai finito», scrive Errico Novi il 16 set 2016 su "Il Dubbio". Parla il biografo di Tortora: «Il 17 settembre 1985 il Tribunale pronunciò la sentenza di primo grado: dieci anni di carcere. Da allora altri 25mila italiani innocenti sono finiti in galera. E a pagare sono stati, in tutto, 7 magistrati» «Quel 17 settembre nero della giustizia non finisce mai». Quel giorno di 31 anni fa il Tribunale di Napoli condannò Enzo Tortora in primo grado a dieci anni di carcere. È una data che fa parte di una tragica cronologia cabalistica ricostruita dal giornalista Vittorio Pezzuto nel suo Applausi e sputi, per diversi anni l'unico libro ad aver esplorato la mostruosa vicenda giudiziaria che travolse il presentatore».

Pezzuto, perché l'ingiustizia di quel giorno non è mai finita?

«Dal '92 a oggi si sono contati altri 25mila casi Tortora: è il numero dei cittadini innocenti sbattuti in carcere, per i quali hanno pagato solo sette magistrati, quelli per i quali si sono chiuse azioni di responsabilità civile. Vicende come quella di Tortora si verificano ancora e nel frattempo si è ridotta di molto la cultura garantista».

Davvero quel processo non ha cambiato nulla nella giustizia italiana?

«Se qualcosa è cambiato, rispetto all'idea di giustizia prevalente nel Paese, è cambiato in peggio. Davvero possiamo dire che la maggioranza degli italiani crede nella presunzione di non colpevolezza? Non scherziamo. Oggi l'opinione pubblica che finge di commuoversi per la vicenda Tortora considera sicuro colpevole chi ha ricevuto un avviso di garanzia. Ed è evidente come riflessi di questo atteggiamento si irradino anche sulle scelte normative».

A cosa si riferisce?

«Al fatto che chi mormora 'ah, povero Tortora' spesso poi approva l'ipotesi di allungare i tempi della prescrizione. Senza rendersi conto che così facendo si condannerebbero decine di migliaia di imputati a una sorta di limbo giudiziario in cui dopo un eventuale condanna in primo grado devi aspettare anni prima di una sentenza definitiva».

Probabilmente nemmeno all'epoca delle deliranti tesi accusatorie contro Tortora c'era il furore giustizialista di oggi.

«Tortora condannato in primo grado per associazione mafiosa e spaccio di droga oggi sarebbe massacrato sul web con decine di migliaia di insulti e con decine di articoli che istigherebbero a insultare ancora».

Perché i pentiti scelsero Tortora?

«A dare l'innesco è una scintilla di follia. I primi due camorristi a fare il nome di Tortora sono Pasquale Barra e Giovanni Pandico, entrambi noti per gli impressionanti risultati delle perizie psichiatriche effettuate a loro carico. Il primo aveva addentato le viscere ancora calde del boss milanese Francis Turatello dopo averlo ucciso, il secondo aveva ammazzato tre impiegati del comune di Nola perché tardavano a rilasciargli un certificato. Entrambi fanno il nome di Tortora come affiliato alla Nuova camorra, ma collocandolo nelle retrovie».

Da lì l'ordine di arresto.

«Quella è la parte della mostruosa vicenda che ancora può essere rubricata come clamoroso errore professionale e non, come è invece doveroso per le fasi successive, sotto la voce dolo e colpa grave. Il punto di svolta è nella cosiddetta prova, il numero telefonico di Tortora trovato nell'agendina di un camorrista ucciso, Salvatore Puca. Si scopre che era di un certo Enzo Tortona. È lì che Tortora commenta: non sono vittima di un errore giudiziario, sono un refuso».

Sarebbe dovuta finire lì.

«Il presidente del Tribunale prova a non arrendersi all'evidenza. A questo Tortona, che è in Aula, dice: 'E dov'è la prova che il numero appartiene proprio a lei? '. E quello risponde: 'Facite 'o nummero... '. Gli inquirenti nemmeno avevano verificato con una semplice telefonata se davvero quell'utenza fosse di Tortora».

Da lì si scivola nel dolo.

«Da lì inizia il il tiro a Tortora, agevolato da alcuni, diciamo così, accorgimenti. Diversi camorristi si rendono conto che chiamare in causa il presentatore significa essere trasferiti dal carcere alla caserma Pastrengo di Napoli, dove si può avere vitto migliore, donnine compiacenti, e la sera ci si può riunire per meglio concordare le dichiarazioni da rendere al processo».

Che si chiude appunto con una sentenza di condanna pronunciata il 17 settembre 1985.

«La tesi accusatoria accolta dal Tribunale ha un carattere quantitativo: ci si richiama non alla consistenza delle accuse ma al numero di persone da cui le accuse provengono. Che è appunto elevatissimo. Quella data, quel numero non irrilevante nella smorfia napoletana, il 17, non risuonò solo alla condanna di primo grado».

A cosa si riferisce?

«Il 17 è la data che ha segnato le tappe più importanti di quella che in Applausi e sputi definisco la seconda vita di Enzo Tortora. Il 17 giugno 1983 c'è l'arresto. Il 17 gennaio 1984 la concessione molto faticosa e a lungo ostacolata degli arresti domiciliari. Il 17 giugno 1984 l'elezione al Parlamento europeo con il Partito radicale. Il 17 luglio 1984 il deposito dell'ordinanza di rinvio a giudizio. Fino appunto alla condanna in primo grado, emessa alle ore 17 del 17 settembre 1985».

Perché i giudici non si fermarono?

«Perché Tortora era diventato il simbolo del maxiblitz contro la Nco, e il sacco delle accuse che ogni volta veniva svuotato dai suoi avvocati doveva essere necessariamente riempito con nuove incredibili altre accuse. Se cadeva l'imputazione contro Tortora crollava tutta l'impalcatura processuale».

E perché la sua posizione divenne così determinante?

«Nello stesso giorno in cui arrestarono Tortora finirono in manette 856 persone. Di queste, 117 finirono dentro per omonimia. L'impalcatura scricchiolava fin dall'inizio, tanto che alla fine dei tre gradi di giudizio gran parte degli imputati venne riconosciuta innocente. I magistrati si resero conto presto che l'unica era puntare tutto sul clamore assicurato dalle accuse a Tortora».

Pensa ci sia chi crede in quelle accuse ancora oggi?

«No. Il caso Tortora serve oggi ad alcuni come pretesto per dire che quella vicenda è stata unica e irripetibile. E per negare così la verità: ovvero che continua a esserci strage di giustizia e ancora nuovi Enzo Tortora».

E l’accusatore di Tortora disse: anche il Califfo è un camorrista, scrive Valter Vecellio il 2 agosto 2016 su "Il Duggio”. Una villetta a Primavalle a Roma, lui in giardino passeggia e gesticola. Parla a un telefono cellulare, con la mano fa cenno di entrare… Con qualcuno parla di canzoni, di un disco da fare, di come farlo; e intanto fa cenno di entrare in casa. C’è un salone, divani immacolati, poltrone, su un lungo tavolo riviste, giornali; alle pareti quadri astratti, dischi d’oro incorniciati, fotografie in abbondanza, piante ben curate. «Scusate, ma era una telefonata di lavoro, bisogna pur campare, non si vive d’aria…». Indica il cellulare, e ride: «Pensa che coglioni. Sono agli arresti domiciliari, e va bene; non posso uscire, al massimo passeggio in giardino, e va bene; una volta al giorno passa la polizia per un controllo, sempre alla stessa ora. Mi hanno disattivato il telefono, perché non devo avere contatti con l’esterno, vai a capire che pericolo pensano sia, e va bene anche questo. E poi mi lasciano il cellulare? ». Eccolo, Franco Califano. Fino a qualche mese fa, solo un cantante e a volte un attore con qualche disavventura giudiziaria, anche il carcere, per uscirne comunque sempre assolto, pulito. Alla radio ascolti le sue canzoni, sui giornali dei suoi tanti amori… Poi arriva uno che dice di essere un pentito di camorra, che lo accusa di essere un “cumpariello”. Lo arrestano, un filone della stessa mega-inchiesta napoletana definita “il venerdì nero della camorra”, che ha già portato in carcere Enzo Tortora, e con lui centinaia di altre persone (tantissime poi dichiarate innocenti, arrestati per omonimia o assolti per non aver commesso il fatto imputato). Quando è in carcere, prima a Poggioreale a Napoli, poi a Rebibbia a Roma, gli scrivo per capire meglio in che pasticcio si è venuto a trovare. In quelle lettere si sfoga con amara ironia; a volte inveisce, e puntiglioso spiega che sì, in passato ha consumato cocaina, non l’ha mai nascosto; non ha neppure ha mai nascosto la sua amicizia con il gangster milanese Francis Turatello, ma che con la camorra non ha niente a che fare… «Vuoi bere qualcosa? ». Coca Cola. «Astemio?». Birra e pochissimo vino, balbetto. «E allora meglio la birra; che poi la Coca Cola non ce l’ho neppure…Io mi faccio un caffè, stanotte voglio lavorare sui testi di alcune canzoni». Lo osservo mentre traffica in cucina con la moka, spiega che è sua madre ad avergli insegnato come farlo. La madre che lo ha fatto nascere per caso a Tripoli di Libia: incinta, era partita da Johannesburg per Roma, «ma le acque si sono rotte prima, atterraggio d’emergenza, così nasco a Tripoli. Ma a me della Libia non me ne importa nulla». Mi blocco: stavo per dirgli che anch’io faccio parte dei “tripolini”. Parla come se ci si conosca da sempre; al contrario, è la prima volta che ci si vede: «Sai, non sono tanti ad aver avuto il coraggio di difendermi, non sono cose che si dimenticano…». Ti sei fatta un’idea di come sei finito in questo tritacarne? «Secondo me hanno fatto una specie di cambio: hanno cominciato con Tortora, però più andavano avanti, più si infognavano, si rendevano conto che il teorema non reggeva, e allora mettono in mezzo me. Come colpevole sono molto più credibile. Altrimenti non si spiega perché vengo arrestato dopo un anno dall’apertura dell’istruttoria. Ma ti pare che questi pentiti si ricordano di me dopo un anno? Ahò, non sono mica Mario Rossi… Franco Califano camorrista te lo ricordi dopo un anno, e non lo dici subito? Dopo un anno mi hanno tirato in ballo…». Mentre parla, penso che c’è una logica: il Tortora alle vette del suo successo professionale, ascolti record con il suo Portobello, è l’immagine dell’Italia “buona” e “per bene”, “l’insospettabile”; e c’è chi comincia a chiedersi con troppa insistenza che Tortora non sia il “mostro” che si dice sia. In tanti cominciano a domandarsi perplessi: «E se fosse innocente?». Così entra in scena “il Califfo”: lui ha quella che si dice la faccia del colpevole; lui sì, in quel giro di “cumparielli” ci può stare; Califano insomma può rendere credibile il teorema che comincia a traballare. Fantasie da inguaribile sospettoso che non si fida neppure della sua ombra e ogni volta che un magistrato o un poliziotto ti fa un “favore” si chiede: qual è il suo guadagno? Chissà. Restiamo ai fatti…L’imputazione è grave: associazione per delinquere di stampo camorristico, traffico di droga; già che ci sono ci mettono anche detenzione di armi. Ride amaro: «Mi trovo dichiarato camorrista da un giorno all’altro. Una follia. Non conosco nessuno dei miei coimputati o accusatori. Ho fatto spettacoli ovunque, non posso escludere di averne fatto uno anche per dei camorristi. Vai a capire con quali prestanome, magari in qualche locale di proprietà di camorristi, ma come pensi che lo possa sapere? Io bado soltanto ai contratti, ai soldi, e canto». Che mi dici delle accuse di Gianni Melluso che dopo aver calunniato Tortora racconta di vostri mirabolanti incontri… «Questo Melluso che mi accusa l’ho visto per la prima volta quando hanno organizzato un confronto. Io lo guardo e dico: “Ma chi è questo, che vuole?”, e lui: “Franchino, dì la verità, che è meglio…”. Franchino a me… Dice di avermi consegnato non so quanti chili di “roba” a casa mia, a corso Francia, nel sottoscala del numero 84. Io a corso Francia non ci ho mai abitato, e all’84 non esiste alcun sottoscala. Ma vuoi fare una verifica, prima di mettere uno in galera? Vuoi vedere le carte? Tre pagine di istruttoria, che non stanno né in cielo né in terra. Almeno a Tortora hanno riservato centocinquanta pagine…». Non avertene a male, l’hai detto anche tu: come colpevole di queste cose ci stai tutto: amico di Turatello…la droga che non hai mai negato di aver usato, i precedenti arresti… «I precedenti arresti si sono conclusi con proscioglimenti. La cocaina l’ho usata. Ma farsi di cocaina non significa spacciarla, significa che parte dei miei soldi li ho buttati via in quel modo lì, come tanti altri li ho usato per beneficenza; chiedi alla gente di questa borgata, che mi vuole bene e te lo può raccontare. Di Turatello e della nostra amicizia si sa tutto da sempre, sai certo che suo figlio l’ho messo nella copertina di un mio disco, “Tutto il resto è noia”». Come nasce questa tua amicizia con Turatello? «A Milano. Ero stato in carcere, mi ero comportato da uomo, senza rompe li cojoni, non mi lamentavo. Mi stimava per questo, diventiamo amici. Voleva aprire una società di produzione cinematografica intestata proprio al figlio e a me, ma poi morì e nun se ne fece nulla. Lo sai, vero, chi ha ucciso Turatello in carcere?». Pasquale Barra, detto ‘o animale. Per sfregio gli ha addentato le viscere… «Quello era un camorrista. E ti pare che io posso essere affiliato personaggi come quella bestia?». Dillo ai magistrati, non a me… «Uno schifo di paese, quello in cui ti puoi trovare in queste macellerie… Davvero è incredibile che possano aver creduto a uno come Melluso». E in carcere? «Se non dai fastidio, ti lasciano in pace. Vivi e lascia vivere. Poi certo, io sono sempre “il Califfo”…». C’è chi ne è uscito schiantato: Lelio Luttazzi, hai voglia a dirgli dopo che ci si è sbagliati, intanto il mondo ti crolla addosso… «Ognuno reagisce a modo suo. Io la mia rabbia e la mia amarezza l’ho trasferita in alcune canzoni per un nuovo disco, si intitola “Impronte digitali”». Prende la chitarra, la voce è quella roca di sempre, impasto di whisky e mille sigarette fumate; canta e strimpella: «Impronte digitali sulla stessa carta. / E il cuore ricucito un po’ così così, trapasso quella porta. / M’hanno stracciato i pensieri. / Non certo uomini seri. / Sono solo da tempo e la mia vita mi costa tanto. / Ma non rallento il passo, continuo la salita. /Vedo innocenze ferite con le lacrime agli occhi. / Che tristezza la vita. /Io cerco amore da sempre, vendo solo canzoni. / Non spaccio altro e in ciò che vendo non trovi che emozioni / difficile spiegare che sei uno pulito / quelli che non sanno bene come hai sempre vissuto / se la legano al dito. / Il cuore mio sta pagando chi l’ha colpito nell’ombra. / Vorrei portarlo più in alto / e certe leggi sbagliate scavalcare in un salto. / Io volto pagina e cammino. / E anche se alle volte sono andato contromano. / Non ho ferito mai nessuno. / Voglio anch’io una donna che mi sappia amare / e con i miei amici andare a farmi un avvenire. / Io volto pagina e cammino. / Cosa devo fare non vedere più nessuno / andare sempre più lontano. / Sono ancora solo con il mio destino / vado sempre dritto / ma questo sembra sia un delitto. / Impronte digitali, foto contro il muro. / Un numero sul petto ed i colori addio, diventa tutto nero. / Quando comincia è finita, si paga tutta la vita. / Sei in alto mare e non hai niente nemmeno un salvagente. / Io volto pagina e cammino / e anche se alle volte sono andato contromano / non ho ferito mai nessuno. / Voglio anch’io una donna che mi sappia amare / e con i miei amici andare a farmi un avvenire. / Io volto pagina e cammino. / Cosa devo fare non vedere più nessuno / Andare sempre più lontano / sono ancora solo con il mio destino. / Vado sempre dritto / Ma questo sembra sia un delitto…». Quando finalmente si celebra il processo, come Tortora, come tanti altri, anche Califano viene assolto: si riconosce che è assolutamente estraneo ai fatti che gli sono stati addebitati. Esce a testa alta dal carcere, è vero. Il problema è che ci entri a testa bassa, e passano settimane, mesi, prima che riconoscano di essersi sbagliati… E dopo averlo fatto, come il magistrato di Detenuto in attesa di giudizio, il vecchio film di Nanni Loy con Alberto Sordi, ti guardano aspettandosi che gli dici «grazie». Grazie per aver riconosciuto che si sono sbagliati…Finora mi sono limitato a trascrivere “in bella” frettolosi appunti presi su taccuini ingialliti dal tempo. Il ricordo però è ben vivo. Fummo davvero in pochi, all’epoca, a osservare che anche per quel che riguardava “il Califfo” i conti non tornavano. Il primo è Gino Paoli: scrive un accorato appello al presidente della Repubblica, per richiamare l’attenzione su Califano, detenuto da mesi, e malato. Scrivo i primi articoli nei quali esprimo qualche dubbio, qualche perplessità; convinco un deputato del Partito Radicale ad accompagnarmi nel carcere di Rebibbia in visita. La consegna, ferrea, è guardare, ma non parlare con nessuno. L’unica cosa che si può fare è lasciare un recapito per chi eventualmente ci vuole scrivere. Qualche giorno dopo arriva una lettera di Califano: «Sono frastornato e distrutto, perché un uomo non è un diamante, non ha il dovere di essere infrangibile… Ho in testa brutte cose…venitemi a salvare, sono innocente, e non è giusto che muoia, che mi spenga così…». Califano racconta che le accuse vengono soprattutto da due “pentiti”, Pasquale D’Amico e Melluso. D’Amico poi ritratta. Melluso rincara le accuse. Una fantasia galoppante: Califano, in compagnia di camorristi avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen, ma forse era una Maserati, comunque era di sua proprietà. Peccato che Califano in vita sua non abbia mai avuto una Citroen, e neppure una Maserati. Per accertarlo non bisogna essere Sherlock Holmes o Hercule Poirot, ma nessuno si prende la briga di farlo. Queste le indagini; per come state condotte non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, per tanti altri. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Furono pochi a vedere per tempo quello che poteva essere visto da tutti; magra consolazione aver fatto parte di quei “pochi”.

Il Pm accusatore di Tortora perseguita un altro innocente, scrive Errico Novi il 5 ago 2016 su “Il Dubbio”. È il 25 febbraio dell'anno scorso. «Sono innocente signor giudice, sono finito in un incubo da quattro anni, mi accusano di spaccio di droga ma io non ho mai commesso un reato, tutto per l'assurda interpretazione data ad alcune cose che ho detto al telefono». Francesco Raiola quel giorno ha 34 anni. È nel tunnel dal 21 settembre 2011, giorno dell'arresto per spaccio di droga. Parla con passione, si difende davanti al gup di Nocera Inferiore senza che i suoi avvocati aprano bocca. Dice una cosa forse decisiva nell'indurre il magistrato a credergli: «Finalmente ho l'onore di parlare con un giudice che abbia effettiva competenza sul mio caso». Fino a quel momento coincidenze, carambole e difetti di giurisdizione lo hanno trascinato in una gimkana di sostituti e interrogatori a vuoto. Alla fine dell'esame in udienza Francesco legge negli occhi del gup e dei cancellieri «il rammarico di chi crede alla mia innocenza e vede la tortura che ho passato». L'avvocato Andrea Castaldo lo guarda e gli dice: «Come hai fatto a non piangere?». Non lo sa nemmeno lui. Verrà prosciolto a poco più di un mese di distanza «perché il fatto non sussiste». «Le mie parole hanno suscitato l'attenzione del giudice, quel mio incipit gli ha spalancato gli occhi». Peccato non sia avvenuto lo stesso quattro anni prima, con la Procura di Torre Annunziata. Da lì è partita l'indagine, operazione su un traffico di stupefacenti denominata "Alieno". Al vertice dell'ufficio inquirente di Torre Annunziata non c'è un magistrato qualsiasi: il procuratore della Repubblica è Diego Marmo. Sì, proprio lui, l'accusatore di Tortora. La toga che diede a Enzo del «cinico mercante di morte». E che trent'anni dopo si sarebbe cosparso il capo di cenere in un'intervista a Francesco Lo Dico sul Garantista: «Chiedo scusa ai familiari di Tortora», disse. Tre anni prima di quell'ammissione Marmo non si era accorto del caso di Francesco Raiola. Da capo della Procura di Torre Annunziata non si era reso conto che nelle maglie dell'indagine affidata ai suoi sostituti era finito anche questo caporal maggiore dell'esercito, allora 30enne, originario di Scafati, provincia di Salerno, e di stanza a Barletta. Una ragazzo di valore: due missioni in Kossovo, una in Afghanistan con l'82esimo reggimento fanteria. Pilota di mezzi corazzati e, quando ancora non aveva ottenuto l'arruolamento definitivo nelle forze armate, già esperto nella guida dei carrarmati di ultima generazione. Prima della folle vicenda giudiziaria Francesco seguiva la specializzazione per i Vbm, i mezzi per i quali la Difesa aveva speso decine di milioni di euro e che si era deciso di sperimentare proprio nell'area di crisi afghana. Un uomo forte, integro, con la passione per la vita militare, accusato - forse giustamente in questo caso - dalla moglie di «aver sacrificato troppo per le forze armate», tanto da rinviare tre volte la data delle nozze pur di rispondere alla chiamata per le missioni. Tutto precipita per una telefonata in cui Francesco parla di televisioni. «Allora non preoccuparti, te la porto io in caserma, la prendo dalle mie parti». Si tratta di una tv full hd che Filippo, l'interlocutore, commilitone della stessa caserma a Barletta, non troverebbe dalle sue parti. Non a un prezzo competitivo: ad Altamura non ci sono grossi centri commerciali. A Scafati sì e si risparmia. Ma invece che di hi-tech, i carabinieri incaricati dalla Procura di Torre pensano che Francesco parli di carichi di droga. E che faccia da intermediario con i trafficanti campani finiti nell'inchiesta per portare grosse quantità di stupefacenti in Puglia, dove svolge l'attività di militare. In una delle conversazioni il caporal maggiore parla di una «partita». È quella che l'amico vorrebbe vedere su uno schermo piatto con inserimento diretto della scheda pay tv. I carabinieri che trascrivono i brogliacci pensano che la «partita» sia una partita di droga: cocaina e marijuana. Ci sarebbe da ridere se non fosse una tragedia. Arriva l'alba del 21 settembre, l'arresto per spaccio. Francesco viene prelevato a Barletta, direttamente in caserma. Tre settimane in carcere a Santa Maria Capua Vetere, in isolamento, poi gli arresti domiciliari, revocati dal gip di Napoli oltre quattro mesi dopo. L'avvocato Guido Sciacca comincia ad andare in processione periodica dal pm di Torre a cui Marmo ha chiesto di condurre le indagini. L'errore è chiaro. Le certezze del magistrato trascolorano in dubbi. Ma né lui né il suo capo, Diego Marmo, hanno il coraggio di confutare il teorema dei carabinieri. Ci vorrà un'istanza per incompetenza territoriale e il passaggio del procedimento al Tribunale di Nocera Inferiore. C'è un'altra Procura, un altro gup. In mezzo anche molti rinvii, perché l'inchiesta è grossa, 73 indagati, una sessantina di misure cautelari, e la Dia di Salerno chiede gli atti. Francesco è - parole sue - «in un tritacarne che non finisce mai». Fino a quella mattina davanti al giudice per l'udienza preliminare di Nocera, «allo sfogo in cui ho tirato fuori tutto, anni di sofferenze». Pochi giorni dopo l'udienza e prima della sentenza di proscioglimento, al militare di Scafati viene diagnosticato un melanoma. Operazione d'urgenza al Pascale, mesi con l'incubo delle metastasi. Che per fortuna non ci sono, ma intanto Francesco neppure pensa più alla fine dell'incubo giudiziario, non si scrolla di dosso l'angoscia per la malattia. La moglie, i due figli piccoli, il padre in questi mesi riescono a scuoterlo. A spingerlo ad occuparsi delle istanze per essere reintegrato nell'esercito, che avranno esito forse in autunno. «Sono stati più di cinque anni, cominciati prima dell'arresto, con appostamenti, perquisizioni improvvise, che nemmeno capivo da dove venissero: andavo a comprare giubbotti al mercatino di via Irno, a Salerno, e le gazzelle mi fermavano armi in pugno, con i carabinieri convinti che dentro la borsa nascondessi chili di droga». Verifiche andate tutte a vuoto: neppure questo ha scalfito l'atarassia dei pm e del loro capo Marmo, contagiati da un'ostinazione che ricorda purtroppo quella terribile sfoderata dallo stesso magistrato trent'anni prima contro Enzo Tortora. Il Tribunale di Nocera ha riconosciuto 41mila euro d'indennizzo per errore giudiziario, «ma io ne ho spesi 32mila per gli avvocati e il resto». Il vicepresidente del Copasir Peppe Esposito, senatore campano di lungo corso, ha presentato un'interrogazione ai ministri della Giustizia e della Difesa, oltre che a Renzi. Francesco Raiola, soldato, marito, padre, e uomo ancora in piedi dopo il calvario dice di credere ancora nella giustizia: «Perché ho trovato magistrati che mi hanno ascoltato, creduto e si sono messi a cercare nelle carte riscontri della mia innocenza che io non avevo tirato fuori. Agli innocenti come me dico di non mollare». Altri magistrati sono distratti. Qualcuno che se ne accorge, corregge e fa giustizia, prima o poi arriva.

"Io, messo in croce dai pm che si sentono come Dio". Il francescano condannato ingiustamente per lo stupro di una suora: "Dopo 10 anni di incubo la Cassazione mi ha assolto. Ma ora chi pagherà?", scrive Nino Materi, Lunedì 8/08/2016 su "Il Giornale".  Il suo è l'assessorato col nome più lungo nella storia degli assessorati italiani: Contrasto alle povertà, al disagio, alla miseria umana e materiale, al pregiudizio razziale e religioso, alla discriminazione sociale degli invisibili e degli ultimi. In sintesi: assessorato alla povertà. Per ricoprire la pauperistica carica nella nuova Giunta comunale di Cosenza il sindaco Mario Occhiuto (lungimirante primo cittadino del capoluogo calabrese), ha scelto padre Fedele Bisceglia. L'anno prossimo il frate compirà 80 anni, gli ultimi dieci li ha trascorsi difendendosi da un'accusa infamante: aver violentato una suora. Accusa infondata, considerato che due mesi fa la Cassazione ha sancito la piena innocenza di padre Fedele. Ma prima di arrivare al lieto fine, fra' Bisceglia ne ha passate di tutte i colori: prima il carcere, poi gli arresti domiciliari in uno sperduto monastero. Per lui un curriculum giudiziario movimentatissimo: condanna in primo grado a 9 anni, confermata in appello; verdetto annullato dalla Suprema corte che dispone un appello bis; assolto nel nuovo processo d'appello, ma questa volta a ricorrere in Cassazione è la Procura di Cosenza, cui gli ermellini danno definitivamente torto. Sentenza passata in giudicato: assolto per non aver commesso il fatto.

Padre Fedele, ci sono voluti 10 anni. Ma oggi la sua innocenza è stata accertata. È più felice o amareggiato?

"Avrei preferito morire con un colpo di lupara piuttosto che essere vittima di una tortura psicologica durata dal 2006 al 2016. Un vero martirio, considerato che la mia estraneità ai fatti poteva - e doveva - emergere fin dall'inizio".

E perché questo non è avvenuto?

"Me lo sono chiesto ogni giorno per dieci anni. Ma senza trovare risposta".

Un'idea, però, se la sarà fatta.

"Quella povera suora che mi ha accusato era sicuramente manovrata da qualcuno".

Da chi?

"Dalla chiesa. Dai giudici. E da chissà chi altro".

E perché la chiesa dovrebbe avercela con lei?

"Chi come me intende il sacerdozio come missione al servizio dei poveri, non sempre è visto di buon occhio".

Tanto da organizzare un complotto contro di lei, accusandola di aver stuprato una suora?

"Non ho prove per sostenerlo".

E le prove del complotto dei giudici, ce le ha?

"No".

Definisce la sua accusatrice "povera suora". Quindi non le serba rancore?

"L'ho perdonata. Ma spero che anche lei chieda perdono alla Madonna per quanto ha fatto. Per le sofferenze che mi ha inflitto senza motivo".

Ha perdonato anche i giudici?

"No, loro non li perdono. Dovevano scagionarmi subito. Contro di me non c'era nulla. Ma i giudici si sentivano Dio. Ora chi pagherà per i loro sbagli?".

Nel 2006 mass media e opinione pubblica si schierarono contro di lei dopo la diffusione di intercettazioni con varie donne. Se lo ricorda, vero?

"Eccome se me lo ricordo. Fu uno sbaglio parlare al telefono in quel modo. Mi pentii subito. Ma quelle frasi non c'entravano nulla con le accuse assurde che mi furono poi rivolte e per le quali ho pagato un prezzo indicibile".

Cosa l'ha aiutata a superare i momenti più difficili?

"Il ricordo di mia madre. L'ho persa quando avevo poco più di 5 anni e lei appena 33. Era una donna molto religiosa".

Con lei ha imparato le prime preghiere?

"Mi baciava sulla guancia e mi diceva che così avrei sentito l'alito dell'amore di Gesù".

Cosa l'ha fatta più soffrire nella sua odissea giudiziaria?

"Tante cose. Ma la pugnalata più sanguinosa l'ha inferta il tribunale della chiesa, proibendomi di dire messa e di impartire i sacramenti. Ho scritto anche al Papa, per supplicarlo di restituirmi la gioia di celebrare l'eucarestia".

È stato costretto ad appendere il saio al chiodo.

"No. Il saio è la mia pelle. Non potranno togliermelo neppure quando sarò morto".

Continua la sua battaglia per essere riaccolto in quella "sacra famiglia" che seguita a considerarla un reprobo.

"È una sensazione terribile. Mi sento come un pesce che boccheggia in riva al mare".

Un pesce che boccheggia, ma che intanto è stato promosso "assessore".

"Macché assessore. Resto solo padre Fedele. Non mi sono mai montato la testa io".

Neppure quando era un habitué dei salotti televisivi?

"Ogni strumento è buono, se il fine è aiutare il prossimo".

Da oggi dovrà occuparsi, "istituzionalmente", dell'assessorato alla povertà.

"Ma sono 60 anni che io mi occupo dei poveri. La mia vita non cambia dopo questa nomina".

Una nomina che si aspettava?

"No, non me l'aspettavo. Si figuri che il sindaco è di centrodestra, mentre io alle ultime amministrative ho votato per la sinistra".

E, nonostante questo, il sindaco l'ha voluta in giunta?

"Sì, una scelta che ha sorpreso anche me".

Quali sono le sue priorità "politiche"?

"Non voglio più vedere gente che rovista tra i rifiuti per cercare qualcosa da mangiare. E tutti devono avere un letto al coperto, nessuno deve dormire sotto i ponti. Io l'ho fatto per mesi e so cosa si prova".

Ha dormito sotto i ponti?

"Sì, insieme ai barboni. Ero il loro confessore. Mi consideravano un amico".

Quanto guadagnerà da assessore?

"Neanche un euro. Se mi daranno qualcosa la devolverò ai poveri. Anche loro hanno diritto a un reddito minimo di cittadinanza".

Che fa, copia i Cinque stelle?

"I Cinque che?".

I Cinque stelle, il partito di Grillo.

"Io di stelle conosco solo quelle che compongono la corona della Madonna".

È ancora capo ultrà dei tifosi del Cosenza Calcio?

"Certo. La fede calcistica fa parte della mia vita. Inoltre tanti giovani conosciuti nelle curve degli stadi si sono trasformati in meravigliosi assistenti che mi accompagnano e mi sostengono nelle mie missioni in varie parti del mondo".

Ultrà che usano le mani non per picchiare i tifosi avversari, ma per soccorrere i più bisognosi. Praticamente un miracolo.

"È la conferma che i miracoli si compiono davvero. In Africa con questi ragazzi ci siamo ammalati insieme di malaria. Insieme siamo guariti e insieme abbiamo alleviato le sofferenze dei più bisognosi. Ma sa qual è il mio orgoglio più grande?".

Quale?

"Sapere che quei ragazzi che sono venuti con me in Africa, oggi continuano a fare volontariato a fianco degli ultimi, dei diseredati. Giovani che non hanno paura di sacrificarsi e che continuano ad andare nel Terzo mondo anche senza di me".

Lei è riuscito a redimere perfino la pornostar Luana Borgia.

"Se è per quello ho frequentato anche i festival erotici per raccogliere fondi per i bambini africani".

Pornostar e festival erotici. Non proprio ambienti adeguati a un sant'uomo.

"Gli ambienti raffinati non fanno per me. Preferisco le prostitute per salvarle dalla strada; i black bloc per convincerli a non essere violenti; i drogati per aiutarli a uscire dalla schiavitù del buco. Da medico (padre Fedele è laureato, oltre che in Teologia, anche in Medicina, ndr) sono rimasto a fianco delle donne che volevano abortire, cercando di far capire loro che avevano in grembo il più grande dono di Dio. Quanto poi al sant'uomo...".

Ora a quale progetto sta lavorando?

"Alla costruzione di un piccolo ospedale pediatrico in Madagascar. Chiunque voglia darmi una mano può fare un versamento, anche di pochi euro, sul conto corrente postale 87615076 intestato a Il paradiso dei poveri".

Quando l'ospedale sarà terminato ci mandi una fotografia.

"Promesso. Parola di collega".

In che senso "collega"?

"Anch'io sono giornalista. E i giornalisti sono missionari".

"Missionari" di cosa?

"Missionari della verità".

E lei la verità l'ha detta sempre?

"Quasi sempre".

Luttazzi, la vita distrutta per una telefonata sbagliata, scrive Valter Vecellio il 27 luglio 2016 su “Il Dubbio”. È un caldo giorno di giugno di quarantasei anni fa; un poliedrico artista di successo, attore, cantante, direttore di orchestra, musicista, regista, scrittore, showman, conduttore televisivo e radiofonico senza sapere neppure perché si trova ammanettato e gettato in galera. Quell’artista si chiama Lelio Luttazzi; viene arrestato assieme a un altro attore all’apice del suo successo, Walter Chiari. Le accuse parlano di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Poi si saprà che tutto si regge su un qualcosa di incredibile: un giorno, non si ricorda neppure quando, si è limitato a “girare” a uno sconosciuto, che poi si scopre essere uno spacciatore, un messaggio che gli ha affidato l’amico Walter Chiari. Non ha fatto altro: qualcosa tipo: «Walter dice che…». Per quel “messaggio” trascorre trentatré giorni in carcere; poi, finalmente lo rilasciano: la sua posizione chiarita. Si rendono conto che è innocente, colpevole di nulla, estraneo a tutto. Insomma, un clamoroso errore giudiziario; nel frattempo qualcosa “dentro” si rompe, nulla più è come prima. Luttazzi si ritira: quello che patisce non si sana, è irrisarcibile, quello che si è incrinato, è incrinato per sempre. Ne deve passare del tempo, prima che riesca a trovare la forza e la voglia per apparire in qualche rara trasmissione televisiva, di incidere qualche cd con musiche come l’amato swing. Perché ricordare questa vicenda? Intanto perché è sempre serbarne la memoria, il nostro è un paese dal facile crucifige, dove spesso colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio, poi si rivelano innocenti. Quei trentatré giorni di prigione, quel macroscopico errore giudiziario, per concludere che le accuse sono senza fondamento per Luttazzi sono una ferita irrimarginabile, la vita cambia e nulla è più come prima. «Pesa. Ci faccio i conti in continuazione», racconta. Parte di quel trauma è raccontato in un libro, Operazione Montecristo (Mursia editore). Lo definisce «uno sfogo e un modo per sopravvivere. Stavo in galera, chiuso in una celletta d’isolamento piccolissima, bugliolo, secchio. Come le bestie. Avevo ottenuto dei quaderni e delle matite. Uno sfogo e un passatempo». Uno sfogo e un passatempo… Il tempo, si dice, placa e attutisce. Luttazzi conferma e insieme smentisce: «Il rancore si è stemperato negli anni. Però per l’ingiustizia subita ho ancora parecchio fastidio. Proprio io che sono sempre stato contrario alle droghe, mai una prova che l’avessi presa perché non l’ho mai presa in vita mia. E poi, Walter. Tutti lo dicevano, ma io lo difendevo, non l’ho mai visto fare queste cose. E stavamo sempre insieme. Certo era sfrenato, sempre sopra le righe anche in casa, avrei dovuto capire…». Il pensiero poi corre a Enzo Tortora: «Poveraccio, l’hanno assassinato. Andai a trovarlo in ospedale, e ho pianto. Ecco se con qualcuno devo ancora avercela, è con i giudici che neanche nel caso Tortora capirono…». Capirono… Più propriamente non vollero capire: perché capire si poteva e doveva subito; e in particolare avrebbero dovuto e potuto capire proprio i magistrati. Una vita cambiata, stravolta: «Per tanto tempo mi sono portato dentro una rabbia senza fine contro il Pubblico Ministero che mi aveva interrogato, e non mi aveva creduto». Luttazzi non viene creduto. Irrilevante ci siano o no delle prove, lo si sbatte in carcere perché, “semplicemente”, non viene creduto…Uscito dal carcere. Luttazzi si ritira. La tempra del tenace triestino gli consente di resistere, in qualche modo aiuta; e infatti, ogni tanto, lo si ritrova: una serie di concerti jazz di cui è grande appassionato; uno, al Teatro all’aperto a Villa Margherita, è memorabile, gli viene conferito il premio “Una vita per il Jazz”. Dopo un lungo silenzio, nel 2005 esce il cd “Lelio Luttazzi and Rai Orchestra 1954”: sono le registrazioni storiche della radio degli anni ‘50, trasmesse dalla radio appunto nel 1954; sono brani suoi, ma anche interpretazioni di Parlami d’amore Mariù, di Vittorio De Sica, un omaggio a Cole Porter, e un duetto con Gorni Kramer. Poi, eccolo ospite d’onore, nell’ottobre 2006, di Fiorello Viva Radio2, che in quell’occasione va in onda contemporaneamente alla radio e in televisione. Due anni dopo va da Fabio Fazio, a Che tempo che fa; e il 19 febbraio del 2009 partecipa al Festival di Sanremo condotto da Paolo Bonolis; in quell’occasione accompagna al pianoforte Arisa, che canta Sincerità. Da un anno è tornato a vivere, definitivamente, a Trieste assieme alla moglie Rossana. Per l’occasione Pupi Avati gira un film-documentario, Rai5 lo manda in onda il 30 ottobre 2011. Luttazzi, “El can de Trieste”, è già morto. Una lunga malattia, l’8 luglio 2010, lo stronca. Ha 87 anni. Stile impeccabile, colto, elegante e scanzonato conduttore di una storica trasmissione radio, Hit Parade, ma anche tantissime altre cose… Per dire: è lui che scrive le colonne sonore di alcuni film che sono “classici”, come Totò, Peppino e la Malafemmina; e forse non tutti sanno che ha avuto anche esperienze di attore. Per esempio ne L’Ombrellone di Dino Risi; ma anche L’avventura di Michelangelo Antonioni; Oggi, domani, dopodomani di Marco Ferreri, Luciano Salce, Eduardo De Filippo; L’illazione che anche dirige. E l’impegno politico? C’è stato anche questo. Rigorosamente laico con venature anticlericali, gli si accredita una fama di craxiano. «Tutto cominciò - spiega - perché portavo un garofano all’occhiello come Cole Porter, e allora mi avvicinai a quel partito». Certo non di destra, “senza fanatismi”; e diffidente d’istinto quando sente parlare di “patria”: «Io mi sono fatto tutto il fascismo, con quella parola usata come scusa per uccidere la libertà». Si iscrive anche al Partito Radicale. Marco Pannella lancia la campagna: “Diecimila iscritti entro il 31 dicembre del 1986”, pena lo scioglimento. In quell’occasione, per restare ai soli personaggi dello spettacolo, si iscrivono, “perché il Partito Radicale viva”, Dario Argento e Liliana Cavani, Damiano Damiani e Giorgio Albertazzi; Pino Caruso e Carlo Giuffré, Enrico Maria Salerno e Mario Scaccia, Ugo Tognazzi Roberto Herlitza, Domenico Modugno, Claudio Villa, Rita Pavone e Teddy Reno… e tra loro, appunto, Luttazzi.

Errori giudiziari, in 24 anni 24 mila innocenti in cella. Costa: «Numeri patologici». Docufilm dall’idea di due giornalisti e un avvocato. Cifre sconcertanti: dal 1992 lo Stato ha pagato 630 milioni per ingiusta detenzione. A Napoli record-indennizzi: 144 casi nel 2015. A Torino «solo» 26. Le disavventure di gente famosa e cittadini sconosciuti, scrive Alessandro Fulloni il 30 giugno 2016 su "Il Corriere della Sera". Nomi e cognomi. Condanne. Poi il dietrofront: ci siamo sbagliati, siete liberi. In Italia è successo 24 mila volte a partire dal 1992, quando venne introdotto l’istituto per la riparazione per ingiusta detenzione. In cella tanti sconosciuti: Fabrizio Bottaro, designer di moda, accusato di rapina, un mese in carcere, 9 ai domiciliari: assolto perché il fatto non sussiste. Daniela Candeloro, commercialista, 4 mesi e mezzo in carcere, 7 e mezzo ai domiciliari per bancarotta fraudolenta: assolta con formula piena dopo un processo di 6 anni. Lucia Fiumberti, dipendente provinciale, arrestata per falso in atto pubblico, 22 giorni di custodia cautelare: assolta per non aver commesso il fatto. Vittorio Raffaele Gallo, dipendente delle Poste, 5 mesi di carcere, 7 ai domiciliari per rapina: assolto per non aver commesso il fatto dopo 13 anni. Antonio Lattanzi, assessore comunale, arrestato per tentata concussione e abuso d’ufficio 4 volte nel giro di due mesi, 83 giorni di carcere: sempre assolto. Non mancano volti noti, se non celeberrimi: Enzo Tortora, Lelio Luttazzi, le attrici Serena Grandi e Gioia Scola. Bisogna partire da questo sconfinato elenco per inquadrare «Non voltarti indietro», un docufilm presentato ai festival di Pesaro e di Ischia, incentrato sulle storie di 5 vittime di errori giudiziari, scelte fra le centinaia e centinaia di casi che ogni anno si verificano in Italia. «Numeri patologici» li definisce il ministro agli Affari Regionali Enrico Costa che li ha resi noti annualmente, sin da quando era vice ministro alla Giustizia sempre nel governo Renzi. I loro nomi e le accuse compaiono alla fine, prima dei titoli di coda. Perché in fondo la sostanza di quelle accuse è falsa, non esiste. Esiste, invece, il viaggio materiale, psicologico e umano che una persona che sa di essere innocente compie quando è privata della libertà. Un’esperienza che chiede di non voltarsi indietro, appunto, anche se certi segni - l’ansia per gli spazi chiusi, alla vista di un furgone della penitenziaria o del lampeggiante di una sirena - non si possono cancellare. Storie che sono tratte dal sito errorigiudiziari.com curato da due giornalisti, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, e un avvocato, Stefano Oliva. Tutte e tre romani. Tutti e tre sulla cinquantina. E tutti liceali negli stessi anni nello stesso classico, il Giulio Cesare di Roma: amici che si appassionarono al caso che vide ingiustamente arrestato per la violenza nei confronti della figlia, una bimbetta di anni, un professore di matematica, Lanfranco Schillaci. Era il 23 aprile 1989. Si scoprì poi che quei lividi sul corpicino della piccola erano dovuti a una patologia tumorale che ne causò la morte tempo dopo. E non ad abusi. Una vicenda di cui si parlò nelle case di tutta Italia. Prima per il delitto commesso dal presunto mostro. Poi per le conseguenze del clamoroso abbaglio giudiziario. Lattanzi e Maimone successivamente raccolsero le storie in un saggio edito da Mursia - «Cento volte ingiustizia» - poi «aggiornato» nel sito, divenuto un imponente e aggiornatissimo database che non ha eguali in Europa. Ma prima del film ci sono i numeri. Sconcertanti. Il dato complessivo lascia senza parole. Il risarcimento complessivo versato alle vittime della «mala-giustizia» ammonta a 630 milioni di euro. Indennizzi previsti dall’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, introdotto con il codice di procedura penale del 1988, ma i primi pagamenti – spiegano dal Ministero – sono avvenuti solo nel 1991 e contabilizzati l’anno successivo: in 24 anni, dunque, circa 24 mila persone sono state vittima di errore giudiziario o di ingiusta detenzione. L’errore giudiziario vero e proprio è il caso in cui un presunto colpevole, magari condannato in giudicato, viene finalmente scagionato dalle accuse perché viene identificato il vero autore del reato. Situazioni che sono circa il 10 per cento del totale. Il resto è alla voce di chi in carcere non dovrebbe starci: custodie cautelari oltre i termini, per accuse che magari decadono davanti al Gip o al Riesame. In questo caso sono previsti indennizzi, richiesti «automaticamente» - usiamo questo termine perché la prassi è divenuta inevitabile - dagli avvocati che si accorgono dell’ingiusta detenzione. Il Guardasigilli ha fissato una tabella, per questi risarcimenti: 270 euro per ogni giorno ingiustamente trascorso in gattabuia e 135 ai domiciliari. Indennizzi comunque in calo: se nel 2015 lo Stato ha versato 37 milioni di euro, nel 2011 sono stati 47. Mentre nel 2004 furono 56. Ridimensionamento - in linea con una sorta di «spendig review» - che viene dall’orientamento della Cassazione che applica in maniera restrittiva un codicillo per cui se l’imputato ha in qualche modo concorso all’esito della sentenza a lui sfavorevole - poniamo facendo scena muta all’interrogatorio - non viene rimborsato. In termini assoluti e relativi, gli errori giudiziari si concentrano soprattutto a Napoli: 144 casi nel 2015 con 3,7 milioni di euro di indennizzi. A Roma 106 casi (2 milioni). Bari: 105 casi (3,4 milioni). Palermo: 80 casi (2,4 milioni). La situazione pare migliorare al Nord: per Torino e Milano rispettivamente 26 e 52 casi per 500 mila e 995 mila euro di indennizzi. Alla detenzione si accompagna il processo, che può durare anni. Quando l’errore subito viene accertato, la vita ormai è cambiata per sempre. C’è chi riesce a rialzarsi, magari realizzando un obiettivo rimasto per tanto tempo inespresso. E chi resta imbrigliato nell’abbandono dei familiari, nella perdita del lavoro, nella necessità di tirare a campare con la pensione. Il docufilm, attraverso le storie dei protagonisti, racconta tutte e due le facce della medaglia. Dove non arrivano le immagini 8girate da Francesco Del Grosso che ha diretto il docufilm) nelle carceri e le interviste, scelte e montate con ritmo narrativo e supportate dalle musiche originali di Emanuele Arnone, sono i disegni di Luca Esposito a ricostruire le vicende di malagiustizia.

Gli errori giudiziari, da Enzo Tortora a Giuseppe Gulotta.

Giuseppe Gulotta. Il più clamoroso errore giudiziario della storia repubblicana: 22 anni in carcere da innocente con l’accusa di aver ucciso due carabinieri ad Alcamo Marina, nel 1976. Aveva confessato sotto tortura. E’ stato risarcito con 6,5 milioni ad aprile di quest’anno. Ma i suoi avvocati, Pardo Cellini e Baldassarre Lauria, hanno fatto ricorso perché i giudici non hanno calcolato i danni morali ed esistenziali: chiedono 56 milioni di euro.

Daniele Barillà. Scambiato nel ’92 per un trafficante internazionale di droga per il semplice fatto che aveva un’auto e una targa molto simili a quelle di un narcotrafficante pedinato dai carabinieri. Sette anni e mezzo in carcere. Risarcito con 4,6 milioni di euro.

Domenico Morrone. Accusato nel 1991 dell’omicidio di due minorenni, in realtà uccisi dal figlio di una donna che i ragazzi avevano scippato pochi giorni prima. Sconta 15 anni di ingiusta detenzione (di cui 11 e mezzo in carcere e il resto in regime di semilibertà). Risarcito con 4,5 milioni di euro.

Melchiorre Contena. Passa quasi trent’anni in carcere con l’accusa di sequestro di persona e omicidio del rapito che risale al 1977. Incastrato da un presunto testimone (con 30 denunce per falsa testimonianza, furto e simulazione), in realtà è innocente. Ma sconterà tutta la pena, prima di essere prosciolto dopo un processo di revisione nel 2008.

Giancarlo Noto. Un testimone oculare giura di averlo riconosciuto come autore di una rapina ai danni di un’anziana. Ma il test del Dna su indumenti e passamontagna lasciati dai banditi sul luogo del reato lo scagiona completamente. Dopo aver passato un anno e tre giorni in carcere da innocente, viene risarcito nel 2014 con 85 mila euro.

Claudio Ribelli. Accusato di essere stato il complice di una rapina nel 2010 da una donna che prima lo scagiona e poi ci ripensa. Assolto grazie a una telecamera di sorveglianza: aveva solo incontrato il bandito la mattina al bar. Risarcito con 91 mila euro.

Serena Grandi. Nel 2003 è costretta agli arresti domiciliari per quasi sei mesi, coinvolta in un’inchiesta su un giro di droga e prostituzione. «Mi hanno rovinato la vita, annientato la carriera. Ho passato mesi a letto», dirà in seguito. Nel 2009 la sua posizione viene archiviata. Ha avuto 60 mila euro per ingiusta detenzione.

Gigi Sabani. Accusato di induzione alla prostituzione nei confronti di due aspiranti soubrette, nel 1996 viene messo agli arresti domiciliari per 13 giorni. Sette mesi dopo, viene disposta l’archiviazione nei suoi confronti. Ottiene 24 milioni di lire come riparazione per ingiusta detenzione. Dieci anni dopo morirà per un infarto.

Gioia Scola. «Mi arrestarono sulla base dei racconti di un pentito il 7 giugno ’95. Mi contestavano di essere la mente di un traffico internazionale di stupefacenti fra il Brasile e l’Italia». Lei era davvero stata a Rio de Janeiro, nel ’92, per un intervento di chirurgia estetica nella celeberrima clinica di Ivo Pitanguy, e lì aveva avuto un fugace flirt con Vincenzo Buondonno, poi ammanettato perché trafficante. Nient’altro. Per dimostrarlo ci sono voluti 12 anni. Ha avuto 62 mila euro per ingiusta detenzione.

Lelio Luttazzi. Nel giugno del ’70, all’apice del successo, viene arrestato con Walter Chiari per spaccio di droga. Tutto per colpa dell’intercettazione di una telefonata in cui si era limitato a girare a uno sconosciuto, che si rivelò poi uno spacciatore, un messaggio di Chiari. Dopo 27 giorni in cella viene rilasciato, la sua posizione processuale stralciata.

Enzo Tortora. Errore giudiziario epocale. Fu accusato di gravi reati, ai quali in seguito risultò totalmente estraneo, sulla base di accuse formulate da soggetti provenienti da contesti criminali; fu per questo arrestato e imputato di associazione camorristica e traffico di droga. Dopo 7 mesi di reclusione la sua innocenza fu dimostrata e riconosciuta e venne infine definitivamente assolto. Durante questo periodo, Tortora fu eletto eurodeputato per il Partito Radicale, di cui divenne anche presidente. Tortora morì poco dopo la sentenza che metteva fine al suo calvario.

Lo sfregio dell'ex pm Grasso: negato il Senato per Tortora. Il presidente vieta l'incontro: fuori da fini istituzionali Poi tira fuori la par condicio: la compagna di Tortora è candidata, scrive Patricia Tagliaferri, Sabato, 18/06/2016, su "Il Giornale". La vicenda del protagonista di uno degli errori giudiziari più clamorosi della nostra storia, di un uomo che ha saputo trasformare la sua sofferenza di innocente stritolato da una giustizia ferma al Medioevo e dall'assenza di diritto in una battaglia per una giustizia giusta, «non è collegata alle finalità istituzionali del Senato». Almeno non è lo per chi, da quando non è più magistrato, il Senato lo presiede, Pietro Grasso, il quale non ha concesso alla compagna di Tortora, Francesca Scopelliti, una delle sale di Palazzo Madama per presentare «Lettere a Francesca», il libro che raccoglie una selezione delle struggenti missive scritte in carcere dal conduttore Tv ammanettato nel giugno del 1983 e divenute ora testimonianza della battaglia politica che Tortora ha combattuto fino all'ultimo insieme al partito Radicale per l'affermazione della responsabilità civile dei magistrati, della terzietà del giudice e della separazione delle carriere. A 33 anni dal suo arresto sulla base di false accuse per associazione camorristica e spaccio di droga, Tortora fa ancora discutere. La polemica la solleva la stessa Scopelliti presentando il libro insieme al presidente dell'Unione delle Camere penali, Beniamino Migliucci. Presentazione che dopo l'illustre «sfratto» è avvenuta al Tempio di Adriano, con Emma Bonino e Giuliano Ferrara. È lei a raccontare che l'incontro si sarebbe dovuto tenere nel Palazzo della Minerva, nella biblioteca del Senato, sede che aveva chiesto come ex senatrice e che le era stata concessa, tanto che erano già partiti i primi inviti con quell'indicazione. Mancava solo il sigillo della presidenza. Ma gli uffici di Grasso hanno detto no, anche se ora corrono ai ripari ponendo una questione di par condicio: per il portavoce del presidente la sala è stata negata perché la Scopelliti è candidata al consiglio comunale di Milano e l'evento di ieri era troppo a ridosso del ballottaggio. È del 7 giugno la lettera in cui la coordinatrice della segreteria del presidente Grasso scrive che «la presentazione del libro non è collegata alle finalità istituzionali del Senato». La Scopelliti legge e non riesce a credere che esuli dalle finalità del Senato il racconto di un uomo che ha trasformato l'infamia subita in una battaglia non tanto per dimostrare la sua innocenza ma per parlare del «caso Italia». Un paese dove, come scriveva Tortora, «solo i bimbi, i pazzi e i magistrati non rispondono dei loro crimini» e dove un uomo onesto può diventare «bersaglio» della «miserabile vanità di due Autorevoli che non possono per definizione sbagliare». La risposta della Scopelliti arriva il 16 giugno. In essa elenca i motivi per i quali le lettere avrebbero dovuto avere la giusta attenzione del Senato. «Il libro - spiega a Grasso - parla di un uomo perbene, accusato da alcuni magistrati per male che nonostante questo hanno fatto carriera, denuncia il nostro sistema penale che abbisogna di una riforma non più rinviabile proprio perché non ci siano più innocenti in carcere e il nostro sistema carcerario più volte denunciato dall'Europa». La compagna di Tortora si chiede se tutto questo possa non rispecchiare le finalità istituzionali del Senato. «Spero che la decisione - gli dice - non sia stata dettata più dal suo passato di magistrato che dalla sua attuale veste di seconda carica del Paese». Nel motivare la sua assenza alla presentazione del libro il senatore Giorgio Napolitano parla del caso Tortora come «esemplare di indagini e sanzioni penali non fondate su basi probatorie adeguate né rispettose d garanzie basilari della libertà e dei diritti delle persone». «Problemi di sistema ancora aperti», ammette.

L'Italia umilia ancora Enzo Tortora: sfregio al Senato, scatta la denuncia, scrive di Roberta Catania il 18 giugno 2016 su “Libero Quotidiano”. L'ex procuratore Piero Grasso, nella veste di presidente del Senato, ha valutato il caso di Enzo Tortora «scollegato da finalità istituzionali» e ha negato al comitato organizzativo un'aula di Palazzo Madama per la presentazione di un libro sul presentatore televisivo vittima della magistratura. La vicenda che 33 anni fa portò in carcere il presentatore di Portobello è stata ripercorsa in un volume in cui la sua compagna dell'epoca, Francesca Scopelliti, ha dato voce a Enzo, rendendo note 45 lettere che Tortora le scrisse dal carcere. Missive «spietate», in cui il giornalista scriveva degli inquirenti: «Solo tre categorie di persone (ho scoperto) non rispondono dei loro crimini: i bambini, i pazzi e i magistrati». Dalle lettere viene fuori la rabbia per essere stato tradito dal suo Paese, dagli amici, dai colleghi: «Sto pensando di chiedere il cambio di cittadinanza. Questo Paese non è più il mio», e ancora: «Non mi parlare della Rai, della stampa, del giornalismo italiano. È merda pura». I 33 anni dall' arresto ricorrevano ieri e per allora era stata fissata la presentazione del libro Lettere a Francesca, ma Grasso ha negato il consenso. Eppure il suo via libera avrebbe dovuto essere un semplice proforma. «Tutti gli uffici mi avevano dato la disponibilità», racconta a Libero la Scopelliti, che aggiunge: «Sembrava cosa fatta, tanto che avevo già fatto preparare gli inviti con il logo del Senato. Oltretutto mi avevano concesso l'aula a titolo gratuito per "l'iniziativa meritevole", ma all' ultimo è arrivata la comunicazione del presidente Grasso che bloccava tutto». La presentazione c' è stata comunque, ma altrove: al Tempio di Adriano, nella centralissima piazza di Pietra, dove sono intervenuti - tra gli altri- Giuliano Ferrara e Emma Bonino. La vedova di Tortora non ha però rinunciato, con la stessa schiettezza dell'ex compagno, a rispondere alla lettera con cui Gabriella Persi, la segretaria del presidente del Senato, informava del diniego di Grasso a offrire il palazzo istituzionale come teatro della presentazione. «Il libro denuncia il nostro sistema penale», aveva quindi replicato la Scopelliti, «che abbisogna di una riforma non più rinviabile proprio perché non ci siano più innocenti in carcere, cosa che invece accade ancora. Così come denuncia il nostro sistema carcerario più volte e aspramente denunciato dall' Europa perché non corrispondente ai parametri di civiltà e di rispetto dell'uomo. Il libro parla di un uomo che, a dispetto di chi lo voleva vittima, si è fatto protagonista di una nobile battaglia per la giustizia diventando così un grande leader politico, in Italia e in Europa. Se tutti questi argomenti», ha concluso la donna, «non rispecchiano «le finalità istituzionali del Senato», allora mi deve spiegare quali sono e come giustifica tante altre iniziative che hanno invece ottenuto il «sigillo» senatoriale. Naturalmente rispetto la decisione del Presidente del Senato ma - mi si perdonerà la franchezza - spero non sia stata dettata più dal suo passato di magistrato che dalla attuale veste di seconda carica istituzionale del Paese. Sarebbe un'ulteriore ferita per Enzo Tortora. Una lesione per le nostre povere istituzioni. Un affronto». A cose fatte, la Scopelliti ha scoperto che come ex segretario del Senato avrebbe avuto diritto a fare la presentazione a Palazzo Madama, ma «alla fine sono stata felice di essere stata accolta nel Tempio di Adriano, che fu un grande imperatore».

PARLIAMO DI INTERCETTAZIONI: LECITE, AMBIGUE, SELVAGGE.

Vogliono rubarci la libertà di pensiero. Fermiamo le intercettazioni selvagge e la stampa spazzatura ...scrive Gennaro Ruggiero. «Il pensiero è il fiore, il linguaggio il boccio, l'azione il frutto dietro di esso.» (Ralph Waldo Emerson). Perchè dico no al comunismo, dico no al giustizialismo, dico no alle intercettazioni selvagge, dico no allo strapotere dei magistrati politicizzati, dico no alla stampa spazzatura di "Repubblica/L'Espresso/L'Unità/Il Fatto/Annozero/La7/RAI3 ed altri similari. Perchè voglio la libertà di pensiero, di essere libero di dire ciò che voglio al telefono, nel massimo rispetto delle persone. Oggi vige il "libertinaggio", l'abuso della libertà, l'anarchia e un sistema filosovietico all'interno di certa magistratura al soldo degli occulti registi di sinistra che inventano teoremi e gettano fango sulle persone perbene per meri interessi di potere. Essi non riuscendo a vincere sul terreno libero del consenso popolare, usano la manipolazione di pensiero. Il mio pensiero deve essere libero, perchè è pulito, ed è quello della stragrande maggioranza della popolazione. Nessuno si deve permettere di spiare la mia vita privata e rubare e manipolare il mio pensiero sbattendolo sulla stampa. Scientificamente, come dice Wikipedia, l'enciclopedia del web: Il pensiero è un processo mentale che consente agli esseri umani di farsi una certa raffigurazione del mondo, permettendo loro di conseguenza di agire secondo i propri obiettivi, piani, fini e desideri. Concetti collegati a questo sono: coscienza, idea ed immaginazione. Il pensiero implica la elaborazione di informazioni al fine di dar luogo a dei concetti, da utilizzare per prendere decisioni e per risolvere problemi. Quindi dobbiamo pensare a risolvere i problemi, di parlarne, di confrontarci, esprimere liberamente il nostro PENSIERO, e dare il nostro piccolo e modesto contributo. Non solo problemi, ma anche, il nostro pensiero deve legarsi a micro o macroeconomie che si vanno a collegare a tutta una serie di interessi su cui poi influiscono grandi movimenti di pensiero, che possono determinare, o meglio determinano le economie e di conseguenze le scelte politiche di un paese, o anche le manipolazioni politiche ed intellettuali di un paese, di una popolazione. Non restare chiuso qui pensiero riempiti di sole e vai nel cielo cerca la tua casa e poi sul muro scrivi tutto ciò che sai, che è vero (I POOH). Anche i Pooh avevano detto chiaramente che il pensiero si deve riempire di sole (di pulizia e chiarezza) e scrivere sul muro ciò che è vero, e non le "zozzerie" non vere e non utili che hanno sporcato questa stagione di veleni iniziata da una stampa sul libro paga della "Cricca De Benedetti-Di Pietro-Sinistra-Toghe Rosse-Grillo-M5S". Quindi è necessaria una stretta con la legge sulle intercettazioni e la limitazione di pubblicare sulla stampa bugie e falsità. Ciò che noi scriviamo deve essere vero e non frutto di una strategia politica al soldo di "poteri forti o occulti" e farla finita di ascoltare la vita privata dei cittadini che nulla hanno a che vedere con indagini per scovare crimini e criminali. La legge deve passare, e bisogna continuare sulla strada della libertà riformando la giustizia e una parte della costituzione che limita la libertà di pensiero e azione. Bisogna ricordare l'insegnamento: "La mia libertà finisce dove comincia la vostra (Martin Luther King) e "La libertà equivale alla mia vita" (Bettino Craxi). Ma evidentemente alcuni magistrati e giornalisti, non lo sanno. Ed essi sono tutti degni di essere arrestati.

Capriola di "Repubblica": tuonava contro il bavaglio adesso scopre la privacy. Centinaia di articoli contro la legge del Cav che doveva mettere un freno alla pubblicazione delle conversazioni Ora, con i ministri renziani coinvolti, invoca un filtro, scrive Luca Fazzo, Lunedì 11/04/2016, su "Il Giornale". Bastava una parola, una parolina soltanto: bavaglio. È la parola che da decenni faceva irruzione sulle pagine dei giornali, Repubblica in testa - commenti, titoloni, editoriali, retroscena - ogni qualvolta qualche sciagurato di politico si sognava di invocare un argine alla diffusione di intercettazioni che nulla avevano a che fare con le inchieste, e che invece venivano zelantemente trascritte, puntualmente depositate, immediatamente consegnate ai giornali e spudoratamente pubblicate. «Legge bavaglio», veniva definito qualunque tentativo di mettere argine alla gogna. Ecco, quella parola oggi è tabù. Adesso che alla gogna finiscono gli uomini di Matteo Renzi, gli stessi giornali e gli stessi giornalisti che fino all'altro ieri gridavano al bavaglio hanno rimosso la parola dal dizionario. Per rendersene conto basta dare un'occhiata alla rassegna stampa di questi giorni, e in particolare alla stampa più vicina al premier. Ieri sul tema si esibisce una cronista che alla parola bavaglio è affezionata: negli ultimi anni i suoi articoli hanno contenuto questa parola la bellezza di 360 volte, e sempre con riferimento ai tentativi di mettere argine alle intercettazioni irrilevanti. Quasi un tic lessicale, verrebbe da dire. Ebbene, adesso che si tratta di parlare dell'inchiesta di Potenza, e di come fatti privati siano finiti invano ai giornalisti, e di come si potrebbe combattere questo malcostume - e l'articolo lo fa, va detto, con precisione e buon senso - la parola «bavaglio» non compare mai, nemmeno una volta. Quando i brogliacci servivano a dileggiare i nemici, chi si opponeva era marchiato come il sicario di un nuovo Minculpop. Adesso che la stessa sorte tocca ai ministri renziani, della possibilità di imporre per legge un filtro al diluvio si parla laicamente, magari cautamente, un colpo al cerchio dei pm e uno alla botte dei politici amici. Ma quella parola-anatema, «bavaglio», non compare più. Sarebbe un esercizio quasi cinico, andare a spulciare negli archivi degli stessi giornali oggi folgorati sulla via della privacy per computare le volte in cui sulle loro pagine le intercettazioni sono state usate per guardare nel buco della serratura: basti per tutti il messaggio di Anna Falchi a Stefano Ricucci («Sono la donna più felice del mondo perché ho te amore mio grande ti amooo, capito? Sono tua per sempre ricordalo!») che segnò forse il punto più alto di queste incursioni nelle camere da letto: al punto che, caso più unico che raro, dovette intervenire il Garante per la privacy. Ma un libro che raccogliesse il peggio del peggio, di quanto in questi decenni è stato offerto alla curiosità un po' morbosa del pubblico sarebbe un tomo voluminoso. Si va dal cantante Gigi D'Alessio, trascritto e pubblicato per dare lustro a una inchiesta altrimenti di zero appeal mediatico, a Paola Barale infangata gratuitamente da un'intercettazione su due spacciatori. Però più recentemente i guai hanno toccato anche vertici della sinistra. Come Massimo D'Alema i cui vini vennero additati al pubblico ludibrio grazie a un brogliaccio dell'inchiesta Cpl Concordia; e nella stessa indagine vennero depositati «per errore» le intercettazioni in cui Renzi dava dell'«incapace» al suo predecessore Enrico Letta. Adesso insomma tocca al governo di centrosinistra assaggiare il fiele dei brogliacci: così delle opzioni per distruggere le conversazioni private, sui giornali di area si parla tranquillamente, senza impugnare il vessillo dell'articolo 21 della Costituzione. Certo, magari senza entusiasmo, perché certe passionacce sono dure a morire; e guardandosi bene dal chiedere al nuovo leader dei magistrati, Piercamillo Davigo, perché nel 1995 ritenne giusto depositare l'intercettazione in cui la giornalista Alda d'Eusanio diceva a Craxi, latitante ad Hammamet, «ti do un bacio sulla bua», rovinandole vita e carriera.

Legnini (Csm) sferza i Pm "basta dare ai giornali intercettazioni selvagge", scrive Errico Novi su "Il Dubbio" del 15 aprile 2016. In fondo si era capito che ci avrebbe pensato la magistratura. Che la riforma delle intercettazioni avrebbe continuato a galleggiare in Senato e che le circolari diramate dai capi delle Procure più importanti non potevano essere liquidate come eccessi di protagonismo. Da ieri c'è la conferma: a scrivere le nuove norme sugli ascolti sarà il Csm, non il Parlamento. Lo annuncia il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Un politico, certo, che però parla a nome delle toghe. Che si sia arrivati allo snodo decisivo lo si comprende da un particolare passaggio dell'intervento pronunciato ieri da Legnini: "Le frequenti indebite divulgazioni di conversazioni estranee ai temi d'indagine e relative alla vita privata di cittadini spesso neanche indagati rischiano di compromettere il prestigio e l'immagine dei titolari dell'azione penale e della polizia giudiziaria". Parole gravi, che dal vertice del Consiglio superiore non si erano mai sentite. Legnini sceglie l'incontro con i procuratori generali presso le Corti d'Appello, organizzato dalla Procura generale di Cassazione, in Aula magna. La sua è un'accusa, ma anche la premessa al programma operativo del Csm. Ecco di che si tratta: "La settima commissione, su impulso del comitato di presidenza, dopo aver acquisito le circolari adottate dalle Procure di Roma, Torino e Napoli ha già avviato il lavoro di definizione delle linee guida sul delicato tema delle intercettazioni telefoniche". Ci sarà dunque "un atto di regolamentazione" assunto non dai capi di singoli uffici ma dall'organo di autogoverno della magistratura. Certo saranno valorizzate le "positive e innovative misure organizzative adottate dai procuratori Pignatone, Spataro e Colangelo", spiega Legnini. Non fa in tempo a inserire nel "fascicolo" la circolare inviata nelle ultime ore anche da Giuseppe Creazzo, procuratore della Repubblica a Firenze: contenuti simili a quelli proposti dai colleghi. Il vicepresidente del Csm non entra nello specifico delle misure, si limita a dire che le iniziative assunte dai capi dei singoli uffici saranno portate a sintesi e integrate "con i contributi della commissione", la Settima di Palazzo dei Marescialli, appunto, "e dell'intero Csm". Una riforma vera e propria. Ma di quale portata? Le direttrici scelte a Milano, Roma, Napoli, e ora a Firenze, sono chiare: per la polizia giudiziaria che ascolta materialmente le telefonate, divieto di trascrizione per le conversazioni non rilevanti ai fini dell'individuazione della prova; per i pm, conseguente "divieto" di allegare alle richieste di misure cautelari le conversazioni penalmente irrilevanti. C'è poi una zona ibrida, quella relativa alle intercettazioni che non contengono riferimenti ai reati commessi ma che, per usare proprio le parole del procuratore di Firenze, sono comunque "pertinenti, utili per la verifica dibattimentale". Si tratta insomma della terra di nessuno, della categoria di intercettazioni più controversa: quella che i pm considerano utile a definire il "contesto", come dice Armando Spataro. Ecco, in quei casi, per il procuratore Creazzo, la "valutazione della pertinenza e della rilevanza" delle intercettazioni dovrà essere "maggiormente rigorosa". In particolare quando il contenuto sia "riferibile ai dati sensibili per i quali il codice della privacy disegna uno statuto di protezione più marcata". E si dovrà stare attenti, dice sempre il capo dei pm fiorentini, "nelle ipotesi di captazione di conversazioni nelle quali siano coinvolti soggetti estranei ai fatti di indagine". Quello che non serve, o che lede la privacy senza fornire elementi utili alla prova del reato, dovrà essere "distrutto", si legge nelle circolari diramate dai vertici delle Procure. Il vero punto è che tutte queste linee guida sono ispirate a un criterio: è sempre il pm l'autorità a cui spetta stabilire cosa può essere allegato alle richieste di arresto, e dunque alle ordinanze dei gip, e che quindi può essere messo a disposizione della difesa e diventare "pubblico". Salta quel passaggio chiave che due anni fa il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva immaginato: l'udienza filtro, in cui la rilevanza delle intercettazioni non viene stabilita in via esclusiva dall'inquirente ma da un esame congiunto delle parti, davanti al gip. Naturalmente le linee guida del Csm saranno un vademecum, non inderogabile. Ma Legnini ricorda: "Se le misure sono utili a realizzare il rispetto dei valori costituzionali coinvolti non vi è ragione di sottrarsi al dovere di mettere a disposizione di tutte le Procure un atto di autoregolamentazione uniforme cui ciascun magistrato inquirente potrà attenersi o ispirarsi". Non sarà dunque invaso il "potere" dei procuratori: ma il Consiglio, spiega Legnini ha il dovere di "contribuire a definire buone prassi applicative per individuare un possibile equilibrio tra l'impiego dell'irrinunciabile strumento investigativo delle intercettazioni e i valori costituzionali sottesi al diritto alla riservatezza, a una corretta informazione e al diritto di difesa". Intenzioni giustissime. Che però prefigurano un Parlamento di fatto esautorato su dossier chiave per la giustizia.

Intercettazioni i Pm si pentono dopo anni di buio, scrive Annalisa Chirico, Mercoledì 17/02/2016, su “Il Giornale”. Di colpo le procure d'Italia scoprono lo scandalo intercettazioni, e lo fanno in nome di un'autoregolamentazione che ha i tratti dell'autodenuncia. In gergo tribunalizio sarebbe una «confessione tardiva». L'apripista è Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, che lo scorso novembre impartisce a polizia giudiziaria e pm istruzioni dettagliate per «evitare» di inserire nei provvedimenti il «contenuto di conversazioni manifestamente irrilevanti e manifestamente non pertinenti rispetto ai fatti oggetto di indagine». Adesso la stretta arriva dall'omologo di Torino, Armando Spataro, che con una circolare interna raccomanda di non trascrivere nei brogliacci «eventuali intercettazioni e dati inutilizzabili perché riguardano conversazioni dell'imputato con il suo difensore, perché attengono agli 007, perché ricadono in quelle proibite dal codice del Garante della privacy». E va bene il riferimento ai servizi segreti (Spataro era pm nel processo Abu Omar, quello in cui conversazioni e utenze telefoniche di decine di agenti italiani e statunitensi furono squadernate sui giornali, caso unico al mondo). E passi pure il silenzio dei Travaglio e delle Guzzanti, neanche un tweet contro la circolare «ammazza intercettazioni». Come si cambia per non morire. Ma quel che colpisce al punto da lasciare increduli è che da Roma a Torino, da Firenze a Napoli, i capi delle procure si prendano la briga di ribadire quanto già oggi è espressamente vietato dalla legge. Che cos'è questa se non l'implicita ammissione delle violazioni di legge regolarmente coperte? Si riconosce così l'esistenza di una zona franca, coincidente con il perimetro di certi uffici giudiziari, dove la legge è di fatto sospesa in nome di superiori e improrogabili esigenze giurisdizionali. Mentre la politica si azzuffa attorno alla legge Orlando che verrà, forse sì forse no, chissà come, le procure si autoregolano, come fanno da sempre, e nessuno solleva una seppur lieve critica. Viene da chiedersi se i procuratori capi che oggi mettono in riga polizia e pm abbiano mai denunciato in passato presunti abusi e irregolarità. Viene da chiedersi quanti siano i procedimenti avviati a seguito delle fuoriuscite giornalistiche di notizie riservate. Non si ha memoria di magistrati condannati per violazione del segreto istruttorio. Reato per il quale invece è stato condannato Silvio Berlusconi. A proposito di paradossi, sentite le parole di Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo di Milano all'epoca del processo Ruby: «Sin dal 2010 abbiamo definito due punti: la polizia doveva impedire che già nei brogliacci si desse conto di intercettazioni private, poi invitai esplicitamente i pm a evitare riferimenti a conversazioni private irrilevanti». Vi ricordate le paginate sui giornaloni nazionali dense di dettagli anatomici e voluttà sensoriali? C'è da pensare che siano stati gli avvocati del Cav a trasmettere i contenuti a luci rosse alla stampa. Citofonare Ghedini.

Quando l'intercettazione è ambigua. Telefoniche o ambientali, sono sempre più un elemento chiave delle indagini. Grazie a loro sono stati scoperti scandali e sventati attentati, ma la storia giudiziaria è ricca purtroppo anche di clamorosi errori. L'importanza di avere analisi scientifiche su voci e suoni realizzate da esperti affidabili appare infatti sottovalutata e tutt'oggi manca ancora un albo ufficiale dei periti. Eppure decifrare i contenuti delle conversazioni "rubate" spesso non è affatto semplice: lingue straniere, dialetti e rumori di fondo mandano spesso gli investigatori fuori strada, come dimostra la sequenza di file audio che vi proponiamo, scrive il 13 aprile 2016 “La Repubblica”.

Un terzo dei periti non usa metodi scientifici, scrive Michele Catanzaro, Philipp Hummel, Elisabetta Tola ed Astrid Viciano. C'è il caso di un lavamacchine la cui voce viene confusa con quella di un narcotrafficante. O quello di un’imputata a cui viene attribuita una voce tre volte più acuta di quella della Callas. Ci sono perizie fatte da DJ o da fonici audio, realizzate su registrazioni di appena 3 secondi, o sotto l’influsso di "miraggi acustici collettivi". Le storie sull'uso della voce in tribunale assumono spesso toni grotteschi. Gli esperti in fonetica forense sono preoccupati per la qualità delle perizie usate nei processi, un problema aggravato dalla mancanza di un albo di esperti accreditati, combinato con i tagli alla giustizia. D’altro canto la domanda cresce sempre di più per il significativo aumento nell’uso delle intercettazioni. "La confusione regna sovrana: nei tribunali si vedono ipotesi di lavoro ridicole", denunciava mesi fa Andrea Paoloni, ricercatore presso la Fondazione Ugo Bordoni e patriarca della fonetica forense italiana, scomparso nel novembre 2015. Luciano Romito, professore di fonetica all’Università della Calabria e uno degli esperti più autorevoli in Italia, ricorda episodi sconcertanti. "In un’intercettazione, dei calabresi parlavano di granate: il perito pensava che fossero bombe, ma si riferivano a melograni, in dialetto", racconta. Le conseguenze degli errori possono essere gravi. Nel 2011 lo spagnolo Óscar Sánchez venne condannato a 15 anni in seguito all’identificazione della sua voce nelle intercettazioni di un narcotrafficante che ne aveva assunto fittiziamente l'identità. A eseguire la perizia era stato il tecnico Roberto Porto. Solo dopo due anni in carcere e mezza dozzina di perizie di altri esperti, il giudice riconobbe che la voce delle intercettazioni non era quella di Sánchez e che c'era macroscopica differenza fra il suo accento e quello del narco latinoamericano intercettato. Porto aveva ricevuto quell’incarico nonostante nel 2010 avesse presentato due perizie con misure identiche per le voci di un napoletano e di un albanese, in due processi senza alcuna relazione fra loro. Quando si scoprì, l’albanese venne assolto. “Ho commesso un errore di copia e incolla, in buona fede”, ha dichiarato Porto in un’intervista concessa a uno degli autori di quest’inchiesta nel 2013. Effettivamente, il procedimento contro di lui è stato archiviato. Gli errori in fonetica forense non sono aneddoti isolati. Un sondaggio realizzato dal professor Romito nel 2007 interpellando una cinquantina di periti italiani ha svelato che il 35% di loro utilizzava metodi non scientifici, secondo le linee guida fissate dalla International Association for Forensic Phonetics and Acoustics (IAFPA). Tra queste, il semplice ascolto, la screditata tecnica delvoiceprint (impronta digitale vocale o confronto di sonogrammi) e una serie di altri metodi bollati come "indefinibili". Il problema non è esclusivamente italiano. Un questionario realizzato dall’Interpol l’anno scorso su 44 periti appartenenti a corpi di polizia di tutto il mondo ha trovato che ben il 48% di loro utilizza, fra le altre tecniche, varianti del voiceprint (la percentuale è del 36% fra i 22 esperti Europei). Secondo le stime degli esperti (un registro delle perizie non esiste), i periti fonici intervengono in centinaia di processi l’anno. Si chiede loro d’identificare interlocutori anonimi intercettati o di verificare l’autenticità delle registrazioni. Molto più spesso viene richiesta anche la trascrizione delle intercettazioni. "La semplice trascrizione presenta problematiche enormi: dalla qualità del segnale (per esempio, la registrazione di una telefonata rumorosa, frammentaria, o vecchia di anni, ndr) agli aspetti dialettali", afferma Davide Zavattaro, comandante della sezione di fonica e grafica del Ris dei Carabinieri di Roma. Non mancano gli esempi di errori attribuibili a queste difficoltà. Nel 2014, nel processo alla cosiddetta "Lady Asl" in cui l’imputata era la ex direttrice sanitaria dell’Asl di Bari, Lea Cosentino, un perito scrisse la frase "li prendiamo per fessi a tutti e due" al posto di "li firmiamo per evitare tutti i problemi". Nel 2005, in un dibattimento contro svoltosi a Reggio Calabria, un gruppo di tecnici realizzò la trascrizione di un’intercettazione successivamente qualificata come "inintellegibile". Il Tribunale di Lucca, chiamato ad occuparsi del caso, concluse che questi "esperti" erano stati preda di un "miraggio acustico collettivo". "Il brogliaccio della polizia giudiziaria viene usato dal perito come base per la sua trascrizione, e questa a sua volta viene poi usata da altri periti e consulenti: così gli errori si amplificano”, spiegava ancora Paoloni. "Investiamo enormi risorse per intercettare, ma molto meno per lavorarci dopo", osserva Romito. Confrontare le voci è ancora più complicato. L'affidabilità di questa pratica in Italia è controversa fin dai suoi albori, quando il professore padovano Toni Negri, vicino all'area di Potere Operaio, fu in un primo momento identificato con il telefonista delle Br del caso Moro per mezzo della tecnica delvoiceprint ritenuta oggi priva di base scientifica. "La voce non è come il Dna o l'impronta digitale: basti pensare come cambia se si parla a un bambino o a un adulto", afferma Juana Gil, coordinatrice di un prestigioso master in fonetica forense a Madrid. Per questo, i periti più rigorosi parlano di similitudini fra parlatori, non d’identificazione. Ciò nonostante, in diversi casi di errore giudiziario le perizie presentano i risultati in termini d’identificazione positiva o negativa. In più, la similitudine non dimostra nulla di per sé. "Anche se trovassi due voci molto simili, dovrei domandarmi: quanto sono frequenti altre voci altrettanto simili?", spiega Geoffrey Morrison, professore di linguistica all’Università di Alberta (Canada) e portabandiera dell’uso di metodi più rigorosi nella fonetica forense. Nel luglio 2015, la European Network of Forensic Sciences Institutes (Enfsi) ha raccomandato di usare basi di dati di voci per rispondere a questa domanda, per mezzo di un metodo statistico chiamato “rapporto di verosimiglianza”. Ma secondo il sondaggio di Romito, solo il 13% degli tecnici italiani usa questo standard internazionale. Il sondaggio internazionale dell’Interpol, realizzato solo su esperti dei corpi di polizia, rivela che il 41% presenta i suoi risultati per mezzo di rapporti di verosimiglianza (oltre ad altri formati). “Il problema è che non esiste un albo di esperti, né un organismo che certifichi l’attività del perito fonico", denuncia Marco Zonaro, perito con sede a Roma. Il giudice nomina il perito in base ad un rapporto fiduciario. Ma il 43% dei periti del sondaggio di Romito non sono laureati, e il 6% ha solo la licenza media. "Questo è eclatante in una disciplina che richiede competenze molto elevate", commenta Romito. Il ricercatore cita ad esempio l’intervento di un perito, titolare di un’impresa dedicata alla formazione di DJ, nel processo a Pietro Paolo Melis, un pastore condannato per sequestro in base a una perizia che Romito considera sbagliata. Uno dei fattori che influisce sulla disponibilità di esperti per i tribunali è la scarsa retribuzione. Attualmente, un’ora di lavoro di un perito fonico viene pagata dallo stato 4,08 euro lordi (a fronte dei 60-90 euro che si pagano in Austria o dei 150-250 nel Regno Unito, secondo gli esperti consultati). "Chi pensa di vivere di questo deve lavorare per la difesa: a disposizione dei tribunali e delle procure rimangono persone o fortemente motivate o molto impreparate”, conclude Romito. "La qualità delle perizie è una delle questioni sistemiche segnalate dalle camere penali: denunce di problemi ne riceviamo in continuazione”, afferma l’avvocato Valerio Spigarelli, presidente fino al 2014 dell’Unione delle Camere Penali Italiane. "Non c’è dubbio - aggiunge - che la qualità delle trascrizioni lascia a desiderare". Rinunciarvi, secondo gli inquirenti, è però impensabile. "L’intercettazione telefonica è uno strumento indispensabile”, replica Maurizio Carbone, sostituto procuratore presso la procura di Taranto e segretario generale dell’Associazione Nazionale Magistrati. "Vanno usate però con la massima attenzione - mette in guardia il pm - l’attività dei periti è delicata e deve essere sottoposta a vaglio critico".

Effetto Csi, solo in tv basta la soluzione tecnica, scrive Michele Catanzaro, Philipp Hummel, Elisabetta Tola ed Astrid Viciano. I periti forensi delle serie televisive, come CSI, Bones o Criminal Minds, sono avvolti da un’aura di onnipotenza. Quest’immagine è penetrata nella mente degli inquirenti, creando quello che nel settore è noto come "effetto CSI". "Gli investigatori hanno aspettative eccessive rispetto al potere probatorio delle consulenze scientifico-tecniche”, spiega Juana Gil, coordinatrice di un prestigioso master di fonetica forense a Madrid. “Si tende a considerare la prova scientifica come una prova regina, ma questo può essere un rischio: è necessario corroborarla con altre prove", afferma Maurizio Carbone, pubblico ministero e segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati. "I giudici dovrebbero avere la consapevolezza della relatività degli strumenti forensi con cui operano: non bisogna pensare che si possa risolvere tutto sul piano tecnico”, concorda Livio Pepino, che è stato pubblico ministero, presidente di Magistratura Democratica e membro del Consiglio Superiore della Magistratura. Tuttavia, Pepino solleva un dubbio. "Un pericolo è che il magistrato si adagi sul giudizio del tecnico, e che correlativamente l’esperto possa forzare la tecnica per cercare di sostenere la tesi che convalida l’impianto accusatorio”, osserva. "Questo è più frequente di quanto si creda”, metteva in guardia Andrea Paoloni, patriarca della fonetica forense italiana. "Il pubblico ministero - ricordava - dice al suo consulente che sa chi è il colpevole e il consulente deve solo confermare. Un magistrato di Roma mi disse: faccia la perizia, ma non si preoccupi, che l'intercettato è stato visto col telefono in mano". "Il perito ci tiene a rimanere sul mercato, e quindi può arrivare ad agire così per far contento il pm”, concorda Romito. “Non deve essere assolutamente così”, risponde Carbone. “Sono pubblico ministero da vent’anni e prima di dare un incarico premetto che il lavoro serve per accertare una verità, non per confortare un’ipotesi. Non ne avrei l’interesse, perché ho tutte le motivazioni per evitare che si sostenga un’ipotesi che poi cadrebbe in fase dibattimentale”, conclude.

Da Bain a Pistorius, gli audio dei casi famosi. Gli esempi qui sotto permettono di verificare la complessità di operazioni apparentemente immediate come la trascrizione di un’intercettazione, il confronto fra due voci, o il riconoscimento di un rumore. In alcuni di questi casi, si verifica un fenomeno che gli esperti chiamano priming. È un processo mentale per cui il cervello si convince dell’esistenza di una frase che non c’è, o che è diversa da quella realmente pronunciata. È lo stesso fenomeno che si verifica, per esempio, in numerosi casi di supposti “messaggi satanici” nascosti nelle canzoni rock.

Una storia vera, il caso Bain. Nel giugno 1994, il neozelandese David Bain chiama la polizia sotto shock per comunicare che tutta la sua famiglia è stata uccisa. Ascolta un minuto della sua chiamata facendo click sul file audio. Nel 1995, Bain viene condannato per quella carneficina. Nel 2007, nel processo d’appello, la polizia presenta come prova questo frammento della telefonata originale. Ascoltalo facendo clic sul file audio.  Cosa dice Bain? La trascrizione proposta dalla polizia è "I shot the prick" ("ho ucciso quello stronzo"). Nel 2009, la corte suprema della Nuova Zelanda rifiuta questa prova e, grazie ad altre evidenze, assolve Bain, che ha comunque nel frattempo passato 13 anni in prigione. Una possibile trascrizione alternativa (non necessariamente quella autentica) è "I cannot breath" ("non riesco a respirare"). Puoi sentire questa frase nella registrazione? Se hai sentito queste frasi, il tuo cervello è stato vittima di un fenomeno di "priming". (Fonte: H. Fraser)

Dubbi anche nel processo Pistorius. Nel Febbraio 2013, l’alteta Oscar Pistiorius uccise con un’arma da fuoco la sua fidanzata, Reeva Steenkamp, in Sudafrica. Pistorius disse di averla scambiata per un intruso. Durante la sua dichiarazione nel processo, pronunciò la frase che puoi sentire facendo clic sul file audio. Cosa dice Pistorius fra le lacrime? I media pubblicarono una trascrizione della testimonianza che conteneva la seguente frase: "She wasn’t breathing" ("non respirava"). L’esperta australiana Helen Fraser ha proposto una trascrizione alternativa: "She was everything" ("lei era tutto"). Questo è un aspetto minore del processo di Pistorius. Tuttavia, la versione suggerita dalla stampa sarebbe contraddittoria con un’altra parte della dichiarazione di Pistorius, in cui l’atleta chiariva che quando riconobbe Steenkamp, questa era ancora viva. (Fonte: H. Fraser)

Urla la vittima o l'assassino? La vicenda Trayvon Martin. Nel Febbraio 2012, il vigilante George Zimmerman uccise con un colpo di pistola a Sanford, in Florida, un adolescente afroamericano chiamato Trayvon Martin. Il momento dello sparo è stato registrato in diverse chiamate di vicini ai servizi d’emergenza. Nelle chiamate, si sente il rumore di fondo del litigio fra il vigilante e Martin. Zimmerman disse che era lui che stava gridando, perché Martin lo stava aggredendo. La famiglia di Martin sostenne che chi gridava era il giovane, spaventato dalla pistola del vigilante. Dopo una polemica perizia che deduceva l’età e le parole pronunciate dalla persona che gridava, il giudice arrivò alla conclusione che era impossibile trarre conclusioni da una registrazione così confusa. (Fonte: H. Fraser)

Raffiche di mitra? Un esempio da manuale. Si tratta di un’intercettazione ambientale realizzata in un’automobile. Secondo la polizia giudiziaria, si trattava del caricamento di un’arma, seguito da una sventagliata di un mitra fuori dal finestrino. In realtà, il suono era l’apertura e chiusura del lettore CD dell’auto, e la "sventagliata" era probabilmente un passaggio della vettura su un terreno sconnesso, come i listelli di un passaggio a livello. (Fonte: D. Zavattaro)

Troppe zone grigie, è ora di investire, scrive Gianluca Di Feo. Sbiancato o sbancato? In Parlamento e sui giornali, il dibattito su quella i è andato avanti per mesi, perché intorno alla trascrizione di una singola parola intercettata ruotava gran parte dell'inchiesta che nel 1996 fece dimettere Antonio Di Pietro dal ministero dei Lavori pubblici. Il pm aveva “sbiancato” – ossia terrorizzato – un imputato o lo aveva “sbancato” facendosi consegnare mazzette? Da una sola lettera dipendeva il destino del magistrato più famoso – poi prosciolto dalle accuse – e in qualche maniera la credibilità di tutta la storica operazione Mani Pulite. Ma le frasi captate dalle microspie all'interno di uffici affollati di ogni rumore o di vetture che sobbalzano nel traffico sono sempre rebus di difficile interpretazione. E lo stesso accade con le registrazioni dei cellulari, dove anche senza l'uso del “vivavoce” finiscono spesso brandelli di altre conversazioni, in un intreccio corale ingarbugliato come un canto gregoriano. Oggi nessuno mette in dubbio il ruolo delle intercettazioni in tutti i settori di indagine, con stanziamenti cospicui per realizzare gli ascolti e tecnologie di spionaggio sempre più avanzate, ma le perizie che devono trasformare le voci in verbali e quindi in prove vengono gestite in una zona grigia che spesso assomiglia a un far west. Le cronache giudiziarie degli ultimi vent'anni sono popolate di trascrizioni approssimative, che snaturano il senso delle frasi captate dai microfoni. E se accade con i fili audio dei colletti bianchi, che parlano spesso in un italiano altrettanto immacolato, figuratevi cosa avviene con le trattative nei vernacoli meridionali delle mafie. Una situazione che può assumere connotati paradossali nelle inchieste sulla criminalità straniera - con ore di conversazioni in dialetto albanese, macedone, kosovaro, georgiano, cinese, nigeriano – o in quelle sul terrorismo jihadista. Proprio su quest'ultimo fronte negli anni immediatamente successivi all'11 settembre 2001 ci sono stati errori giudiziari clamorosi, dovuti alla fallace verbalizzazione degli audio. I problemi sono noti da vent'anni, ma le risposte tardano ad arrivare. Perché richiedono investimenti, non solo nei compensi ai periti e a gli interpreti in modo da rendere questa attività remunerativa anche per i veri professionisti, ma anche nello stabilire finalmente delle linee guida che introducano standard di qualità in tutte le perizie giudiziarie. Intercettazioni e prove "scientifiche" - dal Dna alle impronte digitali fino alle tracce informatiche - sono ormai protagoniste dei processi, ma sulle persone a cui viene affidata la formazione di questi elementi fondamentali non ci sono regole. Fino al paradosso. Come il superperito comparso in una fase dell'inchiesta sul delitto Cogne che aveva falsificato indizi, curriculum e persino il titolo nobiliare con cui si presentava ai clienti e ai giudici. 

La storia del Giornale e di Emma Marcegaglia, scrive Francesco Costa su “Il Post” l’8 ottobre 2010. Un guaio in cui persino le abituali fazioni si trovano spaesate. Come raccontano oggi tutti i quotidiani italiani, ieri mattina venti carabinieri del Nucleo operativo ecologico – sì, è strano, ci arriveremo – hanno perquisito le redazioni di Milano e Roma del Giornale, nonché le abitazioni private del condirettore del Giornale, Alessandro Sallusti, e del vicedirettore Nicola Porro. I due risultano sotto indagine per “concorso in violenza privata” ai danni di Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, e gli inquirenti hanno sequestrato gli hard disk dei loro computer. La storia ha varie sfaccettature, ve la raccontiamo dall’inizio. Cominciamo da una guida ai protagonisti della vicenda: alcuni sono piuttosto noti, altri lo sono molto meno. Vittorio Feltri è il direttore editoriale del Giornale, Alessandro Sallusti ne è il direttore responsabile, Nicola Porro il vicedirettore. Emma Marcegaglia è la presidente di Confindustria. Fin qui ci siamo. Gli altri protagonisti di questa storia sono Rinaldo Arpisella, portavoce e segretario particolare di Emma Marcegaglia, Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, e Mauro Crippa, responsabile comunicazione di Mediaset. I magistrati di Napoli che dirigono l’inchiesta sono Vincenzo Piscitelli e Henry John Woodcock. Giandomenico Lepore è il procuratore capo di Napoli. Nicola Porro ha 41 anni, per il Giornale scrive molto di economia, e si occupa spesso di Confindustria. I suoi editoriali sono spesso molto critici nei confronti degli industriali e della loro presidente, Emma Marcegaglia, che a sua volta da diversi mesi non perde occasione per criticare le politiche economiche del governo e implicitamente il Giornale stesso. Il 15 settembre Marcegaglia fa riferimento alla «politica brutta che parla di cognati, amanti, appartamenti che non interessano a nessuno», e al governo «che forse non ha più una maggioranza». La presidente di Confindustria rincara la dose il 24 settembre, a Viareggio: «Dalla crisi non usciremo meglio degli altri. Anzi». Il Giornale continua a criticare Emma Marcegaglia e il 27 settembre sul suo blog lo stesso Nicola Porro racconta che “un portavoce” di Marcegaglia si lamenta dei suoi attacchi. Lui gli aveva chiesto di intervistare Marcegaglia e quello aveva risposto che “non possiamo, perché altrimenti la Signora apparirebbe ancora più berlusconiana di quanto lo sia. Se parlasse con il Giornale il gioco diventerebbe scoperto”. Oggi sappiamo che il portavoce a cui fa riferimento Porro è Rinaldo Arpisella, che lo stesso Porro dice di “sentire regolarmente” da oltre dieci anni e col quale dice di avere sempre avuto “un rapporto amicale”. Il resto ce lo raccontano le intercettazioni delle loro comunicazioni, perché c’è di mezzo un’inchiesta che non riguarda direttamente loro. Spiega oggi Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera che i telefoni del Giornale non sarebbero mai stati sotto controllo (nei giorni scorsi Sallusti aveva scritto un editoriale protestando che il Giornale era sorvegliato da due procure). L’intercettato era Rinaldo Arpisella, il portavoce di Emma Marcegaglia, nell’ambito di un’indagine sul traffico di rifiuti: per questo ieri è intervenuta la procura di Napoli anche se i presunti reati sarebbero stati compiuti a Roma e Milano, per questo (i rifiuti) la perquisizione viene effettuata dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico. Sul cellulare di Arpisella, quindi, gli inquirenti leggono gli sms di Porro. È il 16 settembre, uno di questi recita: “Ciao Rinaldo domani super pezzo giudiziario sugli affaire della family Marcegaglia”. Dopo un’ora Arpisella telefona a Porro, che gli dice: “Spostati i segugi da Montecarlo a Mantova” (Mantova è la città di Emma Marcegaglia). Secondo i verbali delle intercettazioni Arpisella si mette a ridere. Poi Porro dice che “Adesso ci divertiamo, per venti giorni romperemo il cazzo alla Marcegaglia come pochi al mondo”. A quel punto Porro fa un’altra battuta, il cui tono si può decifrare solo ascoltando l’audio delle conversazioni. Ricorderete che Arpisella aveva detto a Porro che Marcegaglia non poteva farsi intervistare dal Giornale, per non “sembrare troppo berlusconiana”. Allora Porro dice che il Giornale sta per pubblicare il “super pezzo giudiziario” per farle “un favore”, “come dicevi tu”, così “non sembra berlusconiana”. Per quel che riguarda l’inchiesta in corso, la conversazione si chiude lì (c’è un altro passo su Riotta e i suoi rapporti col governo che non ha niente a che vedere con le indagini né con la storia, ma tutti i giornali lo pubblicano senza farsi troppi problemi). Se dalla trascrizione delle intercettazioni Arpisella non sembra affatto turbato (“ride”, dicono i verbali), la sua reazione invece sembra essere stata molto diversa. Arpisella dirà ai magistrati che aveva “paura questo avvertimento si realizzasse con la pubblicazione di un dossier che avrebbe potuto deturpare l’immagine di Emma Marcegaglia”. Solo che Arpisella non si rivolge alla magistratura, non denuncia Porro per violenza privata. Ma alza il telefono e chiama Mauro Crippa, responsabile comunicazione di Mediaset. Il quale gli dice di “chiamare Confalonieri adesso”. Emma Marcegaglia dirà ai magistrati di aver chiamato personalmente Confalonieri, raccontandogli della sua “preoccupazione” e del suo “allarme”. Confalonieri le disse che ci avrebbe pensato lui e infatti dopo pochi minuti la richiamò dicendo che aveva messo tutto a posto: Feltri non avrebbe scritto niente. Confalonieri le consigliò però di dare l’intervista al Giornale. Arpisella richiama Porro, che non è contento della scelta di far intervenire Confalonieri: “Secondo te è una cosa intelligente, dal punto di vista di Feltri, farlo chiamare da Confalonieri? Feltri è il padrone del suo giornale, finché non lo cacciano”. Poi il vice direttore del Giornale rilancia sull’intervista, dicendo ad Arpisella che “dobbiamo trovare un accordo, perché se no non si finisce più qui”. L’ipotesi di reato avanzata dai magistrati è violenza privata. Nel decreto di perquisizione, i pm scrivono che “il giornalista ha il diritto di criticare e di farlo in modo anche duro, pungente e veemente”, ma non può “utilizzare i propri scritti e le proprie pubblicazioni, o meglio la loro prospettazione, al solo scopo di coartare la volontà altrui”. Ed Emma Marcegaglia, parlando ai pm, ha utilizzato esattamente queste parole: “Non mi era mai capitata una cosa simile, e cioè che un quotidiano ovvero qualsivoglia altro giornale tentasse di coartare la mia volontà”. E poi: “Dopo il racconto che Arpisella mi fece, ho sicuramente percepito l’avvertimento di Porro come un rischio reale e concreto per la mia persona e la mia immagine”. Qui finiscono i fatti e cominciano le domande relative a questa storia. Il vicedirettore del Giornale, Nicola Porro, sostiene che il tono delle sue comunicazioni con Arpisella era innocuo e scherzoso. «Le frasi sono vere ma il tono era chiaramente di cazzeggio. Vorrei che Woodcock pubblicasse tutti gli audio. Chi parla di minacce non ha capito nulla. E comunque sì, ho detto una cazzata al telefono. Di Arpisella ho cancellato il numero». Ascoltare gli audio può essere utile a capire quale fosse il tono di Porro, che non è possibile evincere dai testi, per quanto sia evidente il sarcasmo del vice direttore del Giornale. Quel è che è certo è che Arpisella riferisce a Marcegaglia le conversazioni in un modo tale da allarmare la presidente di Confindustria e portarla a cercare aiuto in Fedele Confalonieri. Un’altra cosa non chiara, fino a questo momento, è l’oggetto dell’articolo la cui pubblicazione è annunciata ad Arpisella da Porro via sms. Marcegaglia ha detto ai magistrati di presumere che potesse riguardare “taluni problemi giudiziari” che suo fratello ha avuto nel 2004. Altri hanno ipotizzato un riferimento ai presunti conflitti di interesse esistenti tra l’azienda di famiglia di Emma Marcegaglia e il suo incarico in Confindustria. Oggi comunque il Fatto dedica una lunga inchiesta proprio ai “guai giudiziari” di Emma Marcegaglia e di suo fratello. Il Giornale ha annunciato che domani pubblicherà un’inchiesta di quattro pagine su Emma Marcegaglia. Altra cosa poco chiara: qual è la differenza tra un’inchiesta giornalistica e un’operazione di cosiddetto dossieraggio? Il giornalismo d’inchiesta è basato sulla ricerca di informazioni riservate, sui tentativi di reperire informazioni e documenti non pubblici, allo scopo di far venire alla luce fatti meritevoli di attenzione e visibilità: notizie. Alcuni dei giornalisti più celebrati e popolari in Italia si vantano di avere interminabili archivi su questo o quel personaggio politico, così da tenere traccia di ogni affermazione e documento che lo riguardi: è giornalismo o dossieraggio? Quello che fa Wikileaks è giornalismo o dossieraggio? Claudio Cerasa scrive sul Foglio che “se davvero il Giornale avesse avuto, o avesse trovato, delle notizie interessanti intorno alla famiglia Marcegaglia e avesse deciso di pubblicare queste notizie anche con una tempistica discutibile (ovvero giusto dopo le critiche della Marcegaglia al governo) io credo che Feltri avrebbe avuto tutto il diritto a mettere in pagina quelle notizie lì”. Abbiamo detto dell’inchiesta pubblicata oggi dal Fatto, che ripercorre i “guai giudiziari” di Emma Marcegaglia, del padre, del fratello: è giornalismo o dossieraggio? I problemi nel comportamento del Giornale possono essere la veridicità delle eventuali notizie, il miscuglio tra le opinioni dei giornalisti e gli interessi degli editori, la ricerca più approfondita verso i propri avversari politici e non verso i propri alleati: ma fosse così allora l’accusa di dossieraggio sarebbe da allargare alla quasi totalità dei giornali italiani, e sarebbe probabilmente più opportuno trovarle un altro nome. Il nodo è semmai l’utilizzo delle notizie come arma di ricatto, ed è su questa ipotesi di reato che indagano i magistrati. Come avrete notato, l’unica persona del Giornale coinvolta nei fatti a questo punto è Nicola Porro. Nonostante questo, anche Alessandro Sallusti è indagato per violenza privata. Il procuratore di Napoli Giandomenico Lepore, parlando della perquisizione, ha inizialmente dichiarato che i pm si sono resi conto “che i colloqui tra i giornalisti del Giornale Alessandro Sallusti e Nicola Porro con il segretario del presidente di Confindustria Emma Marcegaglia erano tesi a far cambiare atteggiamento al presidente degli industriali”. Solo che di colloqui di Sallusti con Arpisella non se ne trovano: Sallusti dice di non aver mai avuto alcun rapporto con nessun membro dello staff del presidente di Confindustria e ha querelato Lepore per diffamazione. Lepore ha poi rettificato: “Non mi riferivo alle telefonate di Sallusti con il segretario della Marcegaglia ma ad altre conversazioni”. Quali siano queste altre conversazioni non si sa. Quello che si sa è che nel decreto di perquisizione firmato da Woodcock non si menziona alcuna telefonata o conversazione di Sallusti – la cui abitazione è stata perquisita – bensì solo tre righe di un editoriale, in cui il condirettore del Giornale accenna alle posizioni di Marcegaglia sul caso di Montecarlo e scrive: “Con buona pace della Marcegaglia, i sondaggi dicono che i cittadini non si rassegnano ai silenzi e alle bugie sull’affaire monegasco”. Nient’altro. “Una minaccia, questa?”, scrive il Giornale, “eppure è l’unico elemento a carico di Sallusti evidenziato dal decreto dei pm”. Uno dei due pm che dirigono l’inchiesta è un nome particolarmente noto alle cronache giudiziarie degli ultimi anni, perché protagonista di inchieste di grande clamore e visibilità risoltesi poi quasi tutte con archiviazioni e assoluzioni. L’ultima delle tante è relativa a Vittorio Emanuele di Savoia e si è conclusa poche settimane fa. In quell’occasione il Giornale dedicò un articolo alla “lunga serie di inchieste fallimentari” del pm, riproposto poi stamattina. Nel 2006 Gianfranco Fini definì Woodcock “un signore che in un paese serio avrebbe già cambiato mestiere”. Felice Manti, del Comitato di redazione del Giornale, ha detto che la perquisizione è “un attacco alla nostra libertà”. Il direttore Vittorio Feltri ha detto che “non c’era in corso nessuna inchiesta sulla Marcegaglia e non abbiamo nulla da temere” e che “Confalonieri si informava ma mai si sarebbe sognato di intervenire”. Il segretario della Federazione nazionale della Stampa Franco Siddi ha parlato di “grave inquietudine” per le perquisizioni ai giornalisti, dicendo che “non vorremmo che gli interventi in atto assumessero i caratteri del controllo preventivo sulla stampa”. Giuseppe Giulietti, leader dell’associazione Articolo 21 e deputato dell’Italia dei Valori, ha detto che “non mi sono mai piaciute le perquisizioni ai giornali e non mi piace neanche questa”. Il centrodestra si è schierato compatto a difesa del Giornale, mentre nel centrosinistra lo scenario è più frastagliato. Molti hanno condannato l’operato del quotidiano diretto da Vittorio Feltri, parlando appunto di “dossieraggio” e facendo notare l’ennesima grave distorsione al sistema democratico apportata dal conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi. Altri hanno reagito diversamente. Concita De Gregorio sull’Unità di oggi scrive che “non ci piace affatto che la redazione di un giornale venga perquisita, che si cerchino prove delle intenzioni. Vale per il Giornale come per tutti”. Persino Antonio Di Pietro ha commentato con qualche cautela. “Non conosco i fatti ma non voglio tappare la bocca a nessuno, neanche ai miei avversari, neanche a chi come il Giornale mi ha diffamato tante volte ed è stato condannato”.

Clinton, Mastella, Berlusconi, Ricucci: se l’intercettazione fa scoppiare la coppia. Rotture, sofferenze, reputazioni distrutte. La pubblicazione di sms e telefonate, anche quelle senza «rilevanza penale», ha un effetto devastante, umano e sentimentale, scrive "Il Corriere della Sera" il 10 aprile 2016.

1. Quando l’inchiesta fa crollare la coppia. L’ultimo caso, quello alla ribalta mediatica, è quello di Federica Guidi. Ma prima di lei, c’erano stati altri nomi e volti illustri della politica e non solo a vedere la vita privata finire in pasto all’opinione pubblica per una telefonata, una battuta, un tradimento, una parola di troppo. Dal caso Clinton a Fini a Veronica Lario, quando l’intercettazione (e l’inchiesta) fa scoppiare la coppia.

2. Guidi - Gemelli. Al di là del rilievo penale della vicenda, le dinamiche interne al rapporto (del tutto privato) fra l’ex ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi e il compagno Gianluca Gemelli è diventato di dominio pubblico. Quello che resta, nell’immaginario di molti, è quell’intercettazione, e il ministro (ora ex) che dice «per te valgo meno di zero, mi tratti come una sguattera del Guatemala».

3. Falchi - Ricucci. Succede spesso così. Succede sempre più spesso così. Succede oramai quasi sempre così. Quando le inchieste, grazie alla formidabile narrativa invadente e oltraggiosa delle intercettazioni telefoniche, si fanno partitura verbale di rotture, scenate, dolori, allora cambia completamente lo scenario emotivo. Era inimmaginabile un sms d’amore di Anna Falchi a Stefano Ricucci pubblicato sui giornali e preso in prestito dalle carte giudiziarie: e invece è accaduto. Era il 2005 e i due erano sposati «Solo per dirti che sono la donna più felice del mondo perché ho te amore mio grande, ti amooo, capito? Sono tua per sempre ricordalo» scriveva la Falchi. E se l’inchiesta, seguita dal carcere, ha rotto quella coppia, ma quel messaggio telefonico è rimasto.

4.  Mastella-Lonardo. E una famiglia poteva disintegrarsi sotto il peso di un’inchiesta giudiziaria, quella dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, e con una dose di cinismo supplementare gli inquirenti avevano stabilito come misura cautelare per la signora Lonardo Mastella il divieto di dimora in Campania, vicino alla sua famiglia: lì la famiglia non si ruppe, ma il colpo fu micidiale. La vicenda era quella degli appalti dell’Arpac, l’Agenzia regionale campana per la protezione dell’ambiente.

5. Fini-Tulliani. E i giornali che attaccavano Gianfranco Fini per via della casa di Montecarlo data al cognato non risparmiarono nulla sul conto della compagna Elisabetta Tulliani e subito dalla pianta del gossip spuntarono voci di micidiali rinfacciamenti, urla, addirittura separazioni.

6. Salvo Sottile. Al portavoce di Fini, Salvatore Sottile, capitò anche di peggio nel corso dell’inchiesta Vallettopoli a Potenza, e la dimensione sentimentale venne messa a dura prova dalla propalazione di intercettazioni impudiche. Coinvolta anche quella che sarebbe poi diventata la moglie di Flavio Briatore, Elisabetta Gregoraci. «Vieni qua, poi ti faccio fare una trasmissione» diceva lui, che poi fu accusato di concussione sessuale.

7. Berlusconi - Lario. Con Veronica Lario lo schema si era addirittura rovesciato: furono le parole dell’allora moglie di Silvio Berlusconi contro il «drago» a cui venivano «offerte figure di vergini» a innescare le note vicende giudiziarie a carico del suo allora marito, ma quelle vicende giudiziarie, grazie alle intercettazioni, furono quelle con più successo di pubblico. «Aiutatelo, è malato e va curato» aveva scritto la Lario in una lettera, dopo che sui giornali erano rimbalzate le foto di lui al 18esimo compleanno di Noemi Letizia: giovane, bella, bionda, che lo chiamava «papi». E se Federica Guidi si lamentava con Gemelli che era diventato «marito a tutti gli effetti» di essere ridotta a «meno di zero», la Lario scelse l’allusione letteraria al titolo di un romanzo della scrittrice irlandese Catherine Dunne: La metà di niente.

8. Bill e Hillary Clinton. Ma ancora prima, e di là dall’Oceano, la vicenda che aveva fatto scuola era stata quella che aveva coinvolto (fino all’impeachment), il presidente americano Bill Clinton, la stagista Monica Lewinsky e la di lui moglie Hillary. Il «sexgate», così come è stato poi ribattezzato.

9. Strauss-Kahn e Sinclair. E se la signora Clinton ha dovuto fare i conti con i dettagli di quello che accadeva nello «Studio ovale», non è toccato compito più semplice alla (all’epoca) moglie di Dominique Strauss-Kahn di Annie Sinclair con le accuse di violenza sessuale da parte della cameriera Nafissatou Diallo. Lei lo difese pubblicamente dichiarandosi certa della sua innocenza. Un anno dopo però annunciò la separazione.

10. Il peso delle intercettazioni. Insomma, le intercettazioni, anche se non hanno «rilevanza penale», hanno una devastante rilevanza umana e sentimentale. Nel suo romanzo Persecuzione, lo scrittore Alessandro Piperno racconta di come Leo, messo sotto accusa e sentendosi un «paria della società», cominci a odiare la moglie «Rachel con tutto se stesso» perché lei non ascolta le sue ragioni, non è travolta dal fatto che suo marito «viene quotidianamente maciullato». Lo lascia solo. Vale meno di zero, la metà di niente. Il reato sta sullo sfondo, l’inchiesta giudiziaria parla di arresti e indagini, le vite degli altri parlano invece di rotture, sofferenze, reputazioni calpestate. La più crudele di tutte le sentenze.

Intercettazioni e privacy, in vent’anni meno di 20 casi di violazione. Ecco perché la nuova legge serve solo alla politica. Gli sms della Ferilli e quelli della Falchi, le avances di Alessandra Necci e quelle di Moggi junior, le telefonate dei sacerdoti fiorentini e la sentenza europea su Craxi: sono le cosiddette “intercettazioni selvagge”, che invadono la vita privata di persone coinvolte dalle inchieste della magistratura. Quelle che hanno sollecitato governi di ogni colore ad intervenire sulla questione. Eppure negli ultimi vent'anni emergono meno di 20 circostanze, una dozzina di momenti in cui fatti privati sono finiti sui giornali: un po' poco per sollecitare una riforma, scrive Giuseppe Pipitone il 18 settembre 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Gli sms di Sabrina Ferilli e quelli di Anna Falchi, le avances di Alessandra Necci e quelle di Alessandro Moggi, le intercettazioni dei sacerdoti fiorentini e la sentenza europea su Craxi, citata perfino in un tribunale di Nuova Delhi. Poi nient’altro, o poco più. Il totale? Meno di venti casi negli ultimi due decenni di storia italiana. Eccole qui le cosiddette “intercettazioni selvagge”, quelle che violano la privacy, invadendo ogni campo della vita privata di persone coinvolte dalle inchieste della magistratura e che poi finiscono pubblicate sui giornali senza che abbiano niente a che vedere con i reati contestati. Eccoli qui i casi in cui il garante della privacy è dovuto intervenire perché il limite era stato oltrepassato, ed occorreva mettere un freno a quotidiani e periodici che, con la scusa delle intercettazioni, “spiavano dal buco della serratura” di vip e personaggi pubblici. Ed è proprio per questi casi che, da quasi vent’anni, governi di ogni colore politico cercano di fabbricare una legge che vieti drasticamente la pubblicazione di quelle intercettazioni. E adesso che alla Camera è in discussione la riforma del processo penale, compreso l’emendamento Pagano (in calendario martedì prossimo), quello che nella filosofia del governo Renzi dovrebbe finalmente mettere un freno alla presunta violazione della privacy, una domanda è legittima: in quanti casi, davvero, i giornali hanno violato la sfera personale, pubblicando intercettazioni che nulla hanno a che vedere con i reati contestati, con le inchieste in corso, con l’interesse dell’opinione pubblica? Incrociando il database del garante per la protezione della privacy con le notizie pubblicate dai giornali emergono meno di 20 circostanze, per la precisione 12 casi, una dozzina di momenti in cui fatti privati, che a volte coinvolgevano persone estranee alle indagini, finivano pubblicati sui giornali perché contenute nelle intercettazioni ordinate dall‘autorità giudiziaria. Ovviamente si tratta solo dei casi rintracciati dal fattoquotidiano.it, ma anche a voler arrotondare per eccesso quella cifra, raddoppiandola o triplicandola, l’impressione è che siano davvero poche le fattispecie di violazione per giustificare il continuo allarme lanciato dalla classe politica, visto anche che, secondo l’Eurispes, sono ben 140 mila le utenze telefoniche intercettate dagli uffici giudiziari italiani ogni dodici mesi per un totale di 180 milioni di eventi telefonici (sms e chiamate). Ovviamente non si tratta del numero di persone sotto intercettazione, visto che in realtà ogni soggetto ha a sua disposizione più utenze, che vengono registrate solo per alcuni giorni.

Le baby squillo dei Parioli. Uno degli ultimi casi in cui il garante della privacy è dovuto intervenire per strigliare i media è quello delle baby squillo dei Parioli. Al centro dell’inchiesta il fotografo Furio Fusco, accusato di adescamento di minori, pornografia minorile aggravata e prostituzione minorile. I giornali rendono note le intercettazioni dell’inchiesta (che coinvolge anche Mauro Florani, marito di Alessandra Mussolini), ma il garante fa notare come siano stati pubblicati “dettagli che potrebbero rendere identificabili alcune delle ragazze coinvolte (che sono minorenni ndr) e ledere la loro dignità, in violazione della carta di Treviso e del codice deontologico dei giornalisti”.

Gli sms della Ferilli. Non violano i diritti di minorenni ma non andavano comunque pubblicati gli sms di Sabrina Ferilli all’ex amico Francesco Testi. L’attrice romana era stata querelata dall’ex partecipante del Grande Fratello, perché in un’intervista aveva negato l’esistenza di una liason, dandogli velatamente dell’omosessuale. Testi la trascinò in tribunale, producendo come presunta prova gli sms ricevuti dalla Ferilli. Il garante però intervenne ordinando a periodici e giornali di “astenersi dalla pubblicazione di sms eventualmente idonei a rivelare abitudini sessuali”.

I “ti amo” della Falchi a Ricucci. Erano intercettati dalla procura di Milano nell’ambito delle indagini sulla scalata Antonveneta. Nei brogliacci però finirono anche le effusioni telefoniche tra Anna Falchi e il marito, il “furbetto del quartierino” Stefano Ricucci. “Solo per dirti che sono la donna più felice del mondo, perché ho te amore mio grande, ti amo. Capito? Sono tua per sempre. Ricordalo”, scriveva in un sms la showgirl di origine finlandese. Un “evento telefonico” intercettato e finito poi agli atti dell’inchiesta che però nulla aveva a che vedere con l’interesse pubblico, come poi confermato dal garante. È anche vero, però, che all’epoca il rapporto tra Falchi e Ricucci era noto da tempo: i due si erano sposati un mese prima dell’intercettazione in questione. La privacy violata, in questo caso, non sarebbe altro che la pubblicazione di effusioni tra marito e moglie.

Il primo caso: Necci – Pacini Battaglia. Di tutt’altro tenore invece lo scambio tra Alessandra Necci, la figlia dell’ex numero uno delle Ferrovie dello Stato Lorenzo, e il banchiere Francesco Pacini Battaglia. “Hai visto come sono sexy? Mi trovi un lavoro?” chiede la Necci a Pacini Battaglia, indagato dai pm della procura di Milano: è forse uno dei primi casi in cui inchieste della magistratura hanno invaso la vita privata degli indagati. Siamo, infatti, nel 1996 e l’onorevole Enzo Fragalà di Alleanza Nazionale ha appena chiesto per la prima volta una legge sulla intercettazioni. Fragalà sarà assassinato a colpi di bastone 14 anni dopo, e le intercettazioni telefoniche saranno fondamentali per individuare i suoi presunti killer: questa però è un’altra storia.

Calciopoli e l’esempio D’Amico. Rappresenta un caso da manuale invece l’inchiesta su Calciopoli. Luciano Moggi aveva lamentato inutilmente (e senza alcun presupposto giuridico) l’invasione della sua privacy per le centinaia di intercettazioni che lo riguardavano. Nell’inchiesta sull’ex dg della Juventus, però, spunta anche il nome di Ilaria D’Amico. La giornalista era citata nell’indagine perché era l’oggetto delle avances di Alessandro Moggi, il figlio di Luciano. “Ho speso 10mila euro per portarla a Parigi, ho preso un aereo privato, albergo di lusso, ristorante favoloso”, diceva Moggi junior intercettato. Il nome della conduttrice Sky, dunque, era finito sui giornali senza che fosse minimamente coinvolta in alcun filone dell’indagine: che l’emendamento Pagano arrivi dunque per tutelare i casi come quello della D’Amico? La diretta interessata ha già smentito con il suo commento in diretta televisiva. “Certo, mi ha dato fastidio – ha detto – ma non per questo chiedo il bavaglio alle intercettazioni”. Chapeau.

Il caso di padre Bisceglia e le minacce all’arcivescovo di Firenze. Repentino l’intervento del garante dopo l’arresto di padre Fedele Bisceglia, accusato di aver violentato una suora: “l’Autorità – scrivono i garanti – richiama gli organi di informazione alla necessità di evitare la divulgazione di elementi non indispensabili. La vicenda in questione, in particolare, vede coinvolte oltre all’interessato altre persone e la stessa presunta vittima della violenza sessuale, la quale potrebbe risultare lesa nella sua dignità dalla diffusione di particolari e dettagli sui fatti che la riguardano”. Dopo l’annullamento della condanna a 9 anni e 3 mesi da parte della Cassazione il francescano è stato assolto nel secondo processo d’appello. Lamentavano la violazione della privacy anche all’arcidiocesi di Firenze, dopo che vennero pubblicate alcune conversazioni telefoniche in cui l’arcivescovo Giuseppe Betori parlava di un incontro con il Papa. Intercettazioni realizzate durante l’inchiesta della procura aperta per fare luce sul ferimento a colpi di pistola di un sacerdote, don Paolo Brogi, e sulla conseguente minaccia, con l’arma puntata alla testa, dello stesso arcivescovo.

Le chiamate di Bettino e gli indiani. Nel 2003, invece, era arrivata addirittura da Strasburgo la condanna per l’Italia, colpevole di aver violato l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che sancisce il diritto al rispetto della vita privata. Il motivo? Le intercettazioni eseguite dalla procura di Milano nei confronti di Bettino Craxi. L’ex leader socialista aveva fatto ricorso alla Corte di Strasburgo per la pubblicazione sui giornali delle registrazioni telefoniche di carattere privato operate nell’inchiesta sulla “Metropolitana Milanese” sulla sua utenza di Hammamet, in Tunisia, dove era latitante. La sentenza di Strasburgo fece talmente scalpore che dieci anni dopo, nel 2013, l’uomo d’affari indiano Ratan Tata è comparso davanti alla Corte Suprema di New Delhi, durante un’udienza su intercettazioni telefoniche a carico di personalità del Paese, invocando la difesa della sua privacy citando proprio il caso Craxi.

“Non pubblicate quelle mail”. Ma erano utili: il caso Garlasco. Non erano intercettazioni ma avevano attirato l’attenzione del garante le e-mail tra Alberto Stasi e la fidanzata Chiara Poggi. “La pubblicazione delle e-mail una inutile lesione della sfera più intima dei due giovani”. Quelle mail però erano importanti per gli inquirenti, che accusavano Stasi di aver ucciso la fidanzata. E dopo la cancellazione da parte della Cassazione di due assoluzioni, il 16 dicembre 2014 la corte d’Assise d’Appello di Milano ha inflitto una condanna a 16 anni di carcere a Stasi.

Vallettopoli, il caso Sottile e le intercettazioni di Potenza. Hanno lamentato la violazione della privacy anche le varie showgirl coinvolte in Vallettopoli l’inchiesta che ha travolto Salvatore Sottile, ex potentissimo portavoce di Gianfranco Fini ai tempi della Farnesina, poi condannato a 8 mesi di detenzione per peculato. Le prestazioni sessuali in cambio di lavori in televisione, però, erano una parte importante dell’inchiesta. Addirittura nel caso del verbale d’interrogatorio di Elisabetta Gregoraci, è lo stesso legale della futura moglie di Flavio Briatore ad auspicare che “la fonoregistrazione venga resa pubblica in modo da accertare modalità e contenuti dell’interrogatorio”. Furono bollate come “inutilizzabili”, invece le intercettazioni disposte dall’allora pm di Potenza Henry John Woodcock nell’ambito dell’inchiesta sulle tangenti della Federconsorzi, una costola del filone “holding del malaffare” nel quale finirono indagati personaggi eccellenti come Franco Marini, Sergio D’Antoni, Flavio Briatore, Tony Renis, Emilio Colombo, Luciano Gaucci, l’ambasciatore Umberto Vattani. Per la Cassazione si era in presenza di “assoluta mancanza di motivazione, in un contesto caratterizzato da un coacervo di iniziative investigative coinvolgenti un grande numero di indagabili per fatti diversi e scollegati tra loro”.

Gli inutili allarmi di B, il caso Ruby. Silvio Berlusconi detiene probabilmente il record degli allarmi lanciati a difesa della privacy. Ma invece che invadere la sua sfera privata, quelle registrazioni servivano soltanto ad accertare fattispecie di reato. Impossibile fare l’elenco degli inutili strilli dell’ex cavaliere negli ultimi vent’anni. Il caso Ruby fa però da cartina di tornasole: per l’ex premier quello che succedeva ad Arcore erano solo cene eleganti e private: gli inquirenti però indagavano su un caso di favoreggiamento e induzione prostituzione minorile. E anche se alla fine il leader di Forza Italia è uscito assolto dal primo processo Ruby (dopo la condanna in primo grado), quell’inchiesta è costata una condanna in appello perEmilio Fede, Nicole Minetti e Lele Mora, mentre alle battute iniziali il terzo processo nato da quell’inchiesta con 33 persone indagate più lo stesso ex premier, accusati di reati che vanno dalla corruzione in atti giudiziari alla falsa testimonianza.

La raccomandazione in Rai? Non parlatene. L’ex cavaliere aveva lamentato una presunta violazione della sua privacy anche per le intercettazioni con Agostino Saccà: gli segnalava nomi di ragazze da far lavorare in Rai. “Sai che poi ti ricambierò quando sarai dall’altra parte, quando tu sarai un libero imprenditore: Mi impegno a darti un grande sostegno’”, prometteva l’ex premier. Per la procura di Roma, però, alla fine l’accusa di corruzione, mossa in un primo momento dai pm napoletani e poi passata agli inquirenti capitolini per competenza, era da archiviare. E alla fine i pm Sergio Colaiocco e Angelantonio Racanelli avevano chiesto la distruzione di migliaia di brogliacci “per assicurare il massimo della tutela possibile alla riservatezza dei soggetti coinvolti’”. E per questo motivo che, dopo la distruzione, Saccà ha annunciato di voler denunciare tutti coloro che avessero ancora pubblicato il contenuto di quelle telefonate. “Per proteggere la mia privacy”, diceva il direttore di Rai Fiction. Eppure non si capisce perché l’opinione pubblica non dovrebbe essere messa a conoscenza del fatto che un ex e futuro presidente del consiglio (i fatti risalgono al 2007) intervenga per far lavorare sue personali amiche in trasmissioni televisive pagate con soldi pubblici. O forse si capisce benissimo. E a ben pensarci è lo stesso motivo per cui da vent’anni si invoca quella legge sulle intercettazioni agitando lo spettro della privacy violata.

La riforma delle intercettazioni? “La facciamo per la gente normale”. “Perché facciamo questa riforma? Per la gente normale che ogni giorno finisce in pasto all’opinione pubblica nelle gazzette locali? Chi ne difende il buon nome?”, diceva nel marzo del 2015 l’ex segretario dem Pierluigi Bersani. Eppure con la nuova legge in vigore, quella ideato per proteggere la privacy dei cittadini, sarebbe stato impossibile per un ex funzionario dell’Asl di Benevento, registrare segretamente la voce di Nunzia De Girolamo nel 2012, quando l’ex ministra aveva riunito i vertici dell’Asl a casa del padre per discutere dell’appalto del 118 e di nuove sedi ospedaliere. E sconosciuta ai cittadini sarebbe anche l’intercettazione in cui il numero due della Guardia di Finanza Michele Adinolfi, parlava di Giorgio Napolitano, sostenendo che “l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro ed (Enrico, ndr) Letta ce l’hanno per le palle, pur sapendo qualche cosa di Giulio (il figlio dell’ex presidente della Repubblica ndr). Ecco quale è il vero motivo che sta alla base della voglia di bavaglio: solo che con la dozzina di casi di violazione della privacy registrati negli ultimi vent’anni c’entra poco. Anzi nulla. 

PARLIAMO DELLE OFFESE DEL PUBBLICO MINISTERO ALL’IMPUTATO.

Ma il Pubblico Ministero può offendere l'imputato?

Leggo sul sito di Repubblica che il PM durante la requisitoria nel processo contro l'ex comandante della Concordia Francesco Schettino ha definito lo stesso come un "incauto idiota". Ora non voglio difendere Schettino, è giusto che paghi per la sua irresponsabilità, ma un PM può offendere palesemente un imputato? L'avvocato dell'imputato può segnalare questa condotta al CSM e presentare querela contro lo stesso PM? A me sembra che chi amministri la giustizia deve essere il primo a dare il buon esempio di rispetto delle leggi, o no?

SENTENZA N. 380 ANNO 1999 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Avv.    Massimo VARI

- Dott.   Cesare RUPERTO

- Dott.   Riccardo CHIEPPA

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof.    Valerio ONIDA

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE

- Prof.    Guido NEPPI MODONA

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof.    Annibale MARINI 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 343 e dell’art. 598 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 26 settembre 1997 dal Pretore di Brescia nel procedimento penale a carico di Marcello Campisani, iscritta al n. 556 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 1998.

Udito nella camera di consiglio del 24 febbraio 1999 il Giudice relatore Cesare Mirabelli.

Ritenuto in fatto

Nel corso di un procedimento penale promosso, con l’imputazione di oltraggio a un magistrato in udienza, nei confronti di un avvocato che nella discussione finale del dibattimento avrebbe pronunciato frasi ritenute offensive nei confronti del pubblico ministero, il Pretore di Brescia, con ordinanza emessa il 26 settembre 1997, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:

a) dell’art. 343 del codice penale, nella parte in cui prevede che le offese arrecate nel corso del dibattimento dal difensore al pubblico ministero integrino il reato di oltraggio a un magistrato in udienza. Questa previsione di reato violerebbe gli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, perchè non sarebbe giustificato il differente trattamento sanzionatorio delle offese arrecate dal difensore al pubblico ministero, rispetto al trattamento delle offese arrecate nelle medesime circostanze dal pubblico ministero al difensore, le quali integrano, invece, il meno grave delitto di ingiuria (art. 594 cod. pen.). Si tratterebbe, difatti, di condotte identiche, tenute da soggetti che si trovano in condizioni di parità, giacchè nell’udienza il pubblico ministero ed il difensore rivestirebbero la medesima qualifica di "parte" e parteciperebbero al processo penale "su basi di parità" (art. 2, comma 1, numero 3, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, di delega legislativa al Governo per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale). Posta questa sostanziale identità di posizione e di poteri, non troverebbe ragionevole giustificazione il differente trattamento sanzionatorio del pubblico ministero e del difensore, i quali hanno tenuto identiche condotte, non potendo avere rilievo la loro diversa qualificazione soggettiva (il pubblico ministero é considerato pubblico ufficiale, mentre il difensore esercita un servizio di pubblica necessità);

b) in subordine, dell’art. 598 del codice penale, nella parte in cui non prevede la non punibilità, stabilita per le offese contenute negli scritti o discorsi difensivi delle parti o dei loro patrocinatori, anche per le offese verso il pubblico ministero in interventi del difensore nel corso di una udienza penale. La mancata estensione dell’esimente anche a questo caso violerebbe sia il principio di eguaglianza sia il diritto di difesa (artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.), giacchè sarebbe consentito al pubblico ministero pronunciare affermazioni che ledono l’onore dell’imputato o del suo difensore, godendo della immunità, mentre il difensore, nell’ambito della stessa udienza penale e nell’esercizio del mandato difensivo, se pronuncia le stesse frasi nei confronti del pubblico ministero non solo incorrerebbe nel reato di oltraggio, ma non godrebbe neppure dell’esimente prevista all’art. 598 cod. pen. Questo sistema sarebbe del tutto incoerente, perchè alla libertà del dibattito in giudizio potrebbe essere sacrificato l’onore o la reputazione della persona, che é un bene di rango costituzionale, ma non il prestigio della pubblica amministrazione, che sarebbe un bene estraneo alla Costituzione.

Ritenuto in diritto

bla...bla...bla...

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara:

a) non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 343 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Pretore di Brescia con l’ordinanza indicata in epigrafe;

b) non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 598 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Pretore di Brescia con la medesima ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 settembre 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Cesare MIRABELLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 7 ottobre 1999.

A questo punto ci si chiede: l'art. 3 della Costituzione è solo una presa per il culo?

Questo è quanto, salvo poi i paradossi dell’essere condannati per errore per ebbrezza.

Milano, il giudice si confonde e condanna il pm: guida in stato di ebbrezza, ma non ha neanche l'auto. Otto mesi di reclusione e a 2.800 euro di ammenda, dopo lo scambio di nomi. Fissata l'udienza riparatoria, scrive Franco Vanni il 19 febbraio 2016 su "La Repubblica". Condannato al posto dell'imputato, per un errore di trascrizione da parte del giudice. È successo al pubblico ministero Angelo Renna. Il giudice, che nel dispositivo di condanna ha scambiato i due nomi, accortosi della svista ha dovuto fissare una camera di consiglio straordinaria per rimediare. A Palazzo di Giustizia di Milano, la voce della "udienza riparatoria" è corsa in fretta, di avvocato in avvocato, fino agli uffici della Procura. "Guida in stato di ebbrezza - scherzava un magistrato, mentre la camera di consiglio era in corso - Da Renna non me l'aspettavo!". Lo stupore è comprensibile: il pm non ha nemmeno l'automobile, difficile abbia guidato ubriaco. A firmare il dispositivo, emesso il 20 gennaio, è stato il giudice Maria Pia Bianchi della V sezione penale del tribunale. Il sostituto procuratore Renna era titolare di un fascicolo a carico di un uomo accusato di avere guidato ubriaco il 15 aprile 2012. E poi condannato a otto mesi di reclusione e a 2.800 euro di ammenda, per guida in stato di ebbrezza e altri reati commessi al momento dei controlli da parte delle forze dell'ordine. Il condannato, come il pm, di nome fa Angelo. Questo potrebbe spiegare la confusione del giudice, nonostante fra i cognomi non vi sia alcuna assonanza. Quando al tribunale fu segnalato l'errore, il giudice ha dovuto fissare la camera di consiglio per rettificare la svista, condannare l'imputato ed evitare così ogni grana futura al pubblico ministero, che in città si sposta con mezzi pubblici e bicicletta. L'udienza straordinaria si è tenuta nel pomeriggio di mercoledì scorso. "Con ogni evidenza si è trattato di un piccolo errore materiale, come ne possono capitare nei procedimenti penali - ha detto il giudice Maria Pia Bianchi, una volta uscita dall'aula - il processo si è svolto in modo del tutto regolare, sempre alla presenza dell'imputato e dei suoi legali. E una volta realizzato di avere sbagliato, abbiamo subito posto rimedio". A discolpa del giudice Bianchi c'è da dire che in aula il pm Renna non era presente, quindi non aveva modo di associare al nome un volto. A sostenere l'accusa in aula è stata infatti Mariangela Caputo, vice procuratore onorario. "Escludo che il pubblico ministero possa avere avuto un danno da questa vicenda", dice Bianchi. Non è dato sapere se il legale del condannato (quello vero, non il pm Renna) cercherà di fare valere l'errore materiale del tribunale a vantaggio del proprio cliente, in vista di un probabile ricorso in appello.

PARLIAMO DI TORTURA E VIOLENZA DI STATO.

Ferrulli, chiesti 7 anni e 8 mesi per gli agenti: quella sera “non doveva essere arrestato”. Dure le parole del sostituto procuratore Tiziano Masini: fu un arresto "illegale e arbitrario". E durante quell'arresto Michele Ferrulli morì. In primo grado gli agenti erano tutti stati assolti, scrive Carmine Ranieri Guarino su "Milano Today" il 10 marzo 2016. Ferrulli morì il 30 giugno 2011.  Le manette attorno ai suoi polsi non sarebbero mai dovute scattare. Quel suo corpo un po’ troppo grande e per nulla agile non sarebbe mai dovuto finire sull’asfalto. Perché, nonostante in quella tragica sera fosse “alticcio e arrogante”, lui - Michele Ferrulli, il manovale cinquantunenne morto il 30 giugno 2011 per un infarto durante un arresto in via Varsavia - non doveva essere arrestato. A riscrivere la storia, dopo un processo di primo grado che ha assolto tutti e quattro gli agenti imputati, è il sostituto procuratore generale di Milano, Tiziano Masini, che giovedì, durante il processo d’Appello, ha chiesto sette anni e otto mesi per due poliziotti accusati di omicidio preterintenzionale e diciotto e sedici mesi per altri due agenti, la cui ipotesi di reato è stata derubricata da omicidio colposo a eccesso colposo. Per Francesco Ercoli e Michele Lucchetti il pg ha mantenuto l’accusa di omicidio preterintenzionale, la stessa dalla quale erano stati accolti in primo grado. Mentre, per Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo il reato ipotizzato è “solo” di eccesso colposo nell’uso dei mezzi di coazione fisica, perché arrivati “in soccorso” solo in un secondo momento. Il problema, secondo il pg, è che quella sera non ci sarebbe dovuto essere né un primo, né un secondo momento. “L’arresto di Michele Ferrulli fu un atto illegale e arbitrario - la tesi del procuratore - perché ad un oltraggio a pubblico ufficiale, per cui non è previsto il provvedimento, non possono seguire addirittura violenze da parte delle forze dell’ordine”. Per il pg, Ferrulli quella sera “certamente alticcio e arrogante doveva essere solo denunciato per oltraggio e tutto sarebbe finito lì”. Invece a finire lì quella sera è stata la vita di Ferrulli. A dare il là al dramma erano stati alcuni schiamazzi di cui la stessa vittima e due suoi amici, entrambi romeni, si erano resi responsabili in strada. Ma, sempre per la tesi del pg, gli agenti in quel caso non avrebbero avuto nemmeno “la necessità di identificare i presenti” perché il gruppo aveva subito spento la musica. L’unico reato che avrebbe commesso successivamente il manovale sarebbe stato quello di oltraggio a pubblico ufficiale e non di resistenza - per cui è previsto l’arresto - perché - parole del pg Masini - “vi è la prova che Ferrulli gesticolò soltanto e insultò gli agenti, ma non li minacciò né usò violenza contro di loro”. Anzi, ad alzare le mani per primi sarebbero stati proprio gli agenti, con “Ferrulli - secondo la ricostruzione del pg - che subì uno schiaffo da Ercoli e reagì con una spallata, a cui seguì un arresto illegale” con la presa a terra e le richieste di aiuto urlate dalla vittima. Proprio durante quell’arresto Ferrulli si spense. A ucciderlo, almeno secondo i risultati dell’ultima perizia medico legale, non sarebbero state quelle lesioni ritrovate sul suo corpo, “lievi” e causate più dall’impatto con l’asfalto che non dalle manganellate. A ucciderlo, questa la verità a cui si è finora arrivati, è stato un arresto cardiaco. Una "tempesta emotiva" arrivata durante un arresto che - secondo il pg - non sarebbe mai dovuto esistere. 

E poi...

Caso Uva: sanzionati i pm che coordinarono l'inchiesta. Per Agostino Abate le conseguenze più gravi: perdita di anzianità di due mesi e trasferimento a Como, dove era già stato spostato nell'ambito di un altro procedimento, scrive “Il Giorno” il 7 giugno 2016. Agostino Abate e Sara Arduini, i magistrati titolari del fascicolo sulla morte di Giuseppe Uva, deceduto all'ospedale di Circolo di Varese il 14 giugno del 2008 dopo aver trascorso parte della notte nella caserma di via Saffi, sono stati sanzionati dalla sezione disciplinare del Csm. Il tribunale delle toghe ha emesso la sanzione della censura, la meno grave, per Sara Arduini, tuttora pm a Varese, mentre per Agostino Abate la sanzione è la perdita di anzianità di due mesi e il trasferimento con la funzione di giudice a Como, dove era già stato trasferito lo scorso novembre nell'ambito di un altro procedimento. La decisione è stata presa dopo circa 3 ore di camera di consiglio. Arduini e Abate erano entrambi accusati di aver violato "i doveri di diligenza, laboriosità e correttezza, omettendo o ritardando il componenti di atti". E in particolare di aver trascurato la denuncia di Alberto Bigioggero, l'uomo portato assieme ad Uva in caserma, che aveva parlato di lesioni e percosse, e - dopo l'assoluzione dei sanitari e la trasmissione degli atti da parte del Tribunale - di aver ritardato per alcuni mesi l'iscrizione nel registro degli indagati di sette appartenenti alle forze dell'ordine. Secondo il sostituto pg della Cassazione Giulio Romano è stata "una notizia di reato finita in un limbo". Nella requisitoria, tenuta nell'udienza di ieri, il pg ha sottolineato che "non si tratta di valutare l'ambito decisionale del pm ma la correttezza delle procedure, che ad avviso dell'ufficio non c'è stata", con la conseguenza che "le forze dell'ordine sono state esposte ad una accusa dalla quale non si potevano difendere compiutamente, mentre altri hanno sospettato che questi ritardi, questa renitenza, nascondessero chissà che cosa". Il 15 aprile la Corte d'Assise di Varese aveva assolto carabinieri e poliziotti dall'accusa di omicidio preterintenzionale.

Sanzionati dal Csm i pm Abate e Arduini. Entrambi i pm, che indagarono sulla morte di Uva, si sono difesi da soli e hanno respinto le accuse. Ora hanno quindici giorni per il ricorso, scrive Simona Carnaghi l’8 giugno su “La Provincia di Varese”. Perdita di due mesi di anzianità e trasferimento a Como. È questa la sanzione comminata dal Consiglio Superiore della Magistratura al pm Agostino Abate, il primo magistrato che indagò sulla morte di Giuseppe Uva, avvenuta il 14 giugno del 2008, l’artigiano che fu fermato con l’amico Alberto Biggiogero in via Dandolo mentre, ubriaco, spostava delle transenne in mezzo alla strada. Uva fu portato nella caserma carabinieri di via Saffi dove rimase, lo ha stabilito il processo, circa 15 minuti, e morì alcune ore dopo all’ospedale di Circolo di Varese dopo essere stato sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio. Anche il pubblico ministero, Sara Arduini, è stata sanzionata dal Csm per il modo in cui ha condotto quell’inchiesta, e per lei è infatti arrivata una censura. I due pubblici ministeri indagarono insieme su quella morte mandando a giudizio i medici che ebbero in cura Uva. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha sostanzialmente accolto la richiesta avanzata dal sostituto procuratore generale della Cassazione Giulio Romano, davanti alla disciplinare del Csm, presieduta dal consigliere Antonio Leone. Il pg ha chiesto la sanzione della censura per il pm Arduini mentre per Abate, che al momento svolge funzioni di giudice a Como, la perdita di anzianità di 6 mesi e il trasferimento ad altro ufficio. I due magistrati - che davanti al tribunale delle toghe hanno deciso di difendersi da soli, e hanno respinto ogni accusa - sono finiti sotto processo disciplinare per essere «venuti meno ai doveri di diligenza, laboriosità e correttezza - si legge nell’atto di incolpazione formulato dalla Procura generale della Cassazione - omettendo e ritardando il compimento di atti relativi all’esercizio delle loro funzioni». Nell’ambito del processo penale sul caso Uva, la Corte d’assise di Varese aveva assolto dall’accusa di omicidio preterintenzionale sei poliziotti e due carabinieri «perché il fatto non sussiste». «Non si tratta di entrare nel merito delle valutazioni discrezionali del pm - ha detto il pg Romano - non ci interessano gli esiti processuali, ma a nostro parere non vi è stata correttezza nel seguire le norme procedurali». Lucia Uva, sorella di Giuseppe, ha da sempre sostenuto che il fratello fu picchiato a morte da poliziotti e carabinieri. Dal processo non è emerso nulla che facesse ipotizzare un simile scenario. Uva, tra l’altro, non presentava lesioni. Nulla che potesse indicare che fosse stato picchiato morte. Sul banco dei testimoni sono sfilati medici, infermieri, personale del 118: tutti hanno spiegato come Uva non presentasse segni di pestaggio, descrivendolo come estremamente agitato. Tre anni fa il procuratore facente funzione di Varese, Felice Isnardi, ripercorse l’intera inchiesta facendo nuove indagini e ascoltando nuovi testimoni. Quindi, come Arduini e Abate prima di lui, chiese l’archiviazione per i sei poliziotti e i due carabinieri sotto inchiesta. Il procuratore, Daniela Borgonovo, chiese, in sede di requisitoria processuale, l’assoluzione con formula piena per gli imputati. I pm Agostino Abate e Sara Arduini hanno 15 giorni per il ricorso in Cassazione. La Massima Corte avrà quindi un anno di tempo per decidere se accogliere o rigettare il ricorso. Allo stato attuale il pm Abate resterà a Como dove è stato trasferito qualche mese fa.

Caso Uva, invece di indagare sequestrano documentari, scrive Elisabetta Reguitti l'8 giugno 2013. “Appare pertanto opportuno che venga disposto, con assoluta urgenza, unitamente al sequestro probatorio del corpo del reato, anche di quello preventivo, su tutto il territorio nazionale, del predetto filmato…” Il corpo del reato in questione è il film-documentario ‘Nei secoli fedele – il caso Giuseppe Uva‘ proiettato a Roma al centro sociale Auroemarco di Spinaceto forse per l’ultima volta, se la notifica e la richiesta di sequestro pervenute in questi giorni agli autori verranno accolte. Gli esposti per la verità sono diversi a cominciare dalla denuncia per diffamazione nei confronti della sorella di Giuseppe per le dichiarazioni rilasciate alla trasmissione Le Iene. Ma ora sotto accusa sono finiti anche Adriano Chiarelli e Francesco Menghini che, secondo i querelanti, con la loro opera avrebbero leso il “prestigio e la reputazione” dei carabinieri autori dell’arresto di Giuseppe Uva avvenuto a Varese la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008. Come un brutto déjà vu torna alla memoria la richiesta di sequestro di un altro documentario, quello su Federico Aldrovandi 18enne massacrato da poliziotti a Ferrara. Il torto è sempre lo stesso: aver ricostruito sulla base degli atti processuali una brutta storia ancora tutta da scrivere. “Usano la parola allusione come se il nostro film fosse di per sé un processo. Noi ci siamo invece limitati a tradurre in immagini le parole e le descrizioni riportate nel processo. Compresi i nomi e le diverse testimonianze a cominciare  da Lucia Uva e l’amico Alberto Biggioggero che condivise l’ultima notte dentro la caserma di Varese dove furono condotti per schiamazzi” commenta Chiarelli autore, tra l’altro, del saggio-inchiesta Malapolizia edito da Newton Compton anche questo oggetto di una querela per diffamazione aggravata presentata giusto un anno fa alla Procura di Varese, testo citato anche  in questo ultimo atto giudiziario sul film in cui si legge: “Risulta travalicato, da parte dell’autore e del regista del documentario, il legittimo esercizio del diritto di cronaca, con conseguenti effetti diffamatori in danno ai querelanti”. Per il senatore Pd Luigi Manconi dell’associazione A buon diritto il fatto inquietante è che un fascicolo che porta la scritta “atti relativi alla morte di Giuseppe Uva si traduca in un’azione giudiziaria solo per diffamazione aggravata contro la sorella della vittima e giornalisti e scrittori che hanno voluto dare voce alla richiesta di giustizia e verità”.  Rimane da stabilire di cosa sia morto Giuseppe. Non certo a causa dell’intervento (o errore) sanitario, come peraltro stabilito dalla sentenza dell’aprile di un anno fa in cui il dottor Fraticelli è stato prosciolto dall’accusa di omicidio colposo perché “il fatto non sussiste”. Il giudice in quella stessa sede aveva poi imposto di restituire gli atti alla Procura di Varese obbligandola ad indagare su quanto avvenuto prima dell’arrivo di Uva all’ospedale, nel lasso di tempo intercorso tra l’arresto in strada e le tre ore di fermo all’interno della caserma. Ma tutto si è fermato alla diffamazione e al sequestro di un film.

Caso Uva; Polizia e Carabinieri contro il film “Nei secoli fedeli”, ne chiedono il sequestro, scrive il 7 giugno 2013 “Articolo 21”. “Meglio non sapere, meglio girarsi dall’altra parte, meglio che tutti si girino dall’altra parte. Dopo la querela agli autori, arriva anche la richiesta di sequestro per il documentario “Nei secoli fedele” di Adriano Chiarelli e Francesco Menghini sulla storia di Giuseppe Uva, morto a Varese nella notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, dopo aver passato tre misteriose ore in caserma con militari dell’arma e agenti di polizia”. A scriverlo è Mario Di Vito su “Il Manifesto”, di oggi. Notizia ripresa poi dal sito dei Radicali italiani. “Le querele arrivate in procura, a Varese, sono tre” – prosegue l’articolo: “la prima risale al 18 dicembre 2012, sporta dai carabinieri Paolo Righetto e Stefano Dal Bosco; la seconda è datata 18 aprile, e firmata dai poliziotti Gioacchino Rubino, Pierfrancesco Colucci e Luigi Empirio; la terza è del 3maggio, a nome di Francesco Focarelli Barone, agente di polizia anche lui. Tutti in servizio nella cittadina lombarda. Tutti, quella notte d’inizio estate, ebbero a che fare con Giuseppe, tutti assistiti dall’avvocato Luca Marsico, consigliere regionale del Pdl in Lombardia, tra l’altro. I tre documenti sono uguali tra loro: “Nel filmato – si legge – sono arbitrariamente ricostruiti, alla luce della documentazione acquisita dagli autori del documentario e di talune deposizioni testimoniali, le fasi della vicenda riguardante l’arresto di Uva, la sua immediata traduzione nella caserma dei carabinieri di Varese per gli accertamenti di rito, il successivo Tso disposto dal sindaco di Varese, il trasferimento dello stesso presso l’ospedale di Circolo per le necessarie cure sanitarie, seguito da morte intervenuta per cause ancora in corso di accertamenti”. “Cause che – prosegue l’articolo – stando alla sentenza dell’aprile di un anno fa, non sono da attribuire a un errore medico. Il giudice Orazio Muscato, infatti, ha assolto il dottor Fraticelli dall’accusa di omicidio colposo perché “il fatto non sussiste”, con tanto di atti rimandati in procura per fare ulteriore chiarezza su quanto accaduto prima dell’arrivo di Uva all’ospedale, cioè tra l’arresto in strada e le tre ore di fermo dentro la caserma di via Saffi. Momenti durante i quali un testimone, Alberto Biggiogero, sentì urla e lamenti provenienti dalla stanza vicina e decise di chiamare il 118: “Stanno massacrando un ragazzo”, disse all’operatore con voce di terrore. Il caso, adesso, corre a gran velocità verso la prescrizione e così, salvo clamorose svolte, la morte di Giuseppe Uva rimarrà un mistero insoluto, almeno agli occhi della giustizia. “A me – dice la sorella, Lucia – basta sapere che lui non è morto di farmaci. E questo è un fatto”. Adesso, però, non è in gioco la verità giudiziaria, ma un lavoro d’inchiesta giornalistica, un documentario nel quale tutta la vicenda viene ricostruita attraverso documenti, perizie e interviste alle persone coinvolte. “È una cosa vergognosa – attacca Lucia Uva -, questi signori vogliono decidere cosa far vedere e cosa no. Fosse dipeso da loro, di questa storia non si sarebbe saputo niente: se riusciamo a parlarne è solo grazie alla nostra, come dire, prepotenza nel coinvolgere tutti e spiegare come stanno le cose. Adesso vogliono impedirci di fare pure questo”. La sorella di Giuseppe Uva, però, non si dà per vinta, anche se l’inchiesta della procura è incanalata in un binario morto: “Non importa, davvero. Io continuo per la mia strada, a lottare insieme alle altre madri e sorelle di vittime dello Stato. Lo abbiamo visto ieri (mercoledì, ndr) al processo per Stefano Cucchi: c’è un muro di omertà enorme, ma dobbiamo andare avanti e continuare a farci sentire, ogni goccia di verità in più sarà una goccia di giustizia per Giuseppe, Stefano e tutti gli altri”. Adriano Chiarelli, autore oltre che del documentario anche del saggio Malapolizia che raccoglie tutti i casi di chi, dal G8 di Genova in poi, ha trovato la morte dopo essersi imbattuto in una divisa, non si scompone troppo: “Se i querelanti hanno ravvisato delle allusioni ai loro comportamenti in un’opera documentaristica che si limita a ricostruire la storia in base agli atti prodotti durante il processo, il problema rimane esclusivamente loro, non certo nostro”. La risposta, comunque, non si ferma qui: il centro sociale Auroemarco di Roma ha organizzato per questa sera una proiezione proprio di Nei secoli fedele”.

Un documentario per raccontare il caso di Giuseppe Uva, scrive “Articolo 21” il 13 settembre 2012. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008, a Varese, i carabinieri fermano e arrestano Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero. Uva morirà in ospedale la mattina seguente al suo arresto. Che cosa è accaduto quella drammatica notte? Il documentario Nei secoli fedele – Il caso di Giuseppe Uva, che verrà proiettato domani in anteprima a Roma presso il Cinema Aquila… racconta le vicende legate alla tragica morte del quarantaduenne in seguito al suo arresto. Una rigorosa indagine su un decesso ancora inspiegabile e inspiegato, realizzata attraverso un’accurata raccolta di testimonianze e documenti inediti. Dopo aver trascorso tre ore in una caserma dell’Arma di Varese, sotto la custodia di otto tra poliziotti e carabinieri, Giuseppe Uva viene trasportato in ospedale in condizioni critiche. Nel volgere della notte l’uomo troverà la morte. Le cause del decesso restano ad oggi tutte da chiarire. L’unico processo celebrato finora, ha riguardato l’ipotesi di morte per colpe mediche, ma è stato dimostrato – con sentenza di primo grado – che i medici che hanno tenuto in cura Uva dopo l’arresto, non hanno alcuna colpa. Dopo un supplemento di perizia, sempre disposto dal giudice, è stato scientificamente provato che le cause del decesso coincidono con un complesso di fattori esterni che hanno scatenato un collasso cardiaco: stato di ebbrezza, stress emotivo, lesioni. La domanda torna a ripetersi: cosa è accaduto in quelle ore? Allo stato attuale nessun nuovo processo è in corso, ma il giudice estensore della sentenza ha disposto ulteriori indagini sull’arco di tempo che la vittima ha trascorso in caserma e sulle reali cause di morte. In quelle ore è racchiusa la verità. La stampa si occupò del caso, poco noto all’opinione pubblica se non fosse stato per un servizio del programma “Le Iene” che costò al giornalista e alla sorella Lucia Uva, una querela per diffamazione da parte degli agenti coinvolti, sollevando diversi interrogativi. Il lavoro di ricostruzione di Adriano Chiarelli su quanto accaduto, vuole far luce sull’ennesimo caso di “Vittime di Stato” come li hanno definiti i familiari di Cucchi, Aldrovandi e altri che come Uva hanno visto morire i loro cari in circostanze non troppo diverse. “Da quel momento ho giurato che avrei fatto tutto il possibile per arrivare alla verità sulla sua morte, un simile scempio non può restare impunito”. Sono state le parole della sorella Lucia dopo aver visto il corpo straziato del fratello. La donna continua a battersi per la verità, convinta, come dichiara nelle interviste raccolte nel documentario, di poter restituire a suo fratello almeno la sua dignità. «Nei secoli fedele – IL CASO DI GIUSEPPE UVA, un’operazione di verità per portare a galla una storia scomoda per quanto assurda, una di quelle vicende in cui la banalità del male si mischia con la nebbia dei tribunali senza soluzione di continuità.»  Mario Di Vito – Contropiano

Giuseppe Uva, assolta la sorella accusata di diffamazione: rischiava 14 mesi di carcere, scrive Sandro De Riccardis il 18 aprile 2016 su "La Repubblica". A processo contro i sei poliziotti e i due carabinieri scagionati per la morte dell'uomo, deceduto dopo il fermo in caserma. La donna doveva rispondere delle dichiarazioni rilasciate sui fatti di quella notte. Lucia Uva è stata assolta dall'accusa di diffamazione verso i due carabinieri e i sei poliziotti che avevano trattenuto il fratello, Giuseppe Uva, in caserma a Varese, la notte del 14 giugno del 2008, poi morto in ospedale. I giudici del tribunale di Varese non hanno accolto la richiesta di condanna avanzata dal pm Giulia Troina, che aveva chiesto la condanna a un anno e due mesi di carcere e una multa di 458 euro. La sorella era imputata per le accuse mandate in onda nell'ottobre 2011 nel corso del programma tv Le Iene, per alcune frasi scritte su Fb e per un'intervista inserita nel documentario "Nei secoli fedele". Lucia Uva, intervistata da un inviato della trasmissione di Italia 1, aveva fatto riferimento a botte e a una presunta violenza sessuale subita dal fratello in caserma. Il pm aveva sottolineato che l'ipotesi di uno stupro è "frutto di una congettura non supportata da alcun elemento di riscontro oggettivo" contenuto nelle perizie e negli atti disponibili all'epoca dell'intervista. Venerdì scorso gli uomini delle forze dell'ordine imputati nel processo sono stati assolti dall'accusa di omicidio preterintenzionale, sequestro e abuso di autorità per la morte dell'operaio, 43 anni, che quella sera girava ubriaco in centro a Varese col suo amico Alberto Biggioggero, unico testimone in caserma, interrogato per la prima volta soltanto dopo cinque anni dalla tragedia. "Le dichiarazioni di Lucia Uva erano giustificate da quanto emerso nella perizia - ha commentato l'avvocato Fabio Ambrosetti, che assiste la sorella di Giuseppe Uva - per le dichiarazioni nel film, Lucia ha tutto il diritto di pensare che suo fratello è stato picchiato, e continuerà nella sua battaglia per la verità".

Lucia Uva assolta dall’accusa di diffamazione: “Chiedo scusa alla divisa, non agli agenti”. Era accusata per alcune dichiarazioni e frasi su Facebook contro i poliziotti e i carabinieri assolti nel processo sulla morte del fratello, scrive "la Stampa" il 18/04/2016. Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva, l’uomo morto nel giugno del 2008 all’ospedale di Varese dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri, è stata assolta dall’accusa di diffamazione aggravata «perché il fatto non costituisce reato». Al centro del processo alcune dichiarazioni mandate in onda nell’ottobre 2011 nel programma televisivo Le Iene, frasi scritte su Facebook e un’intervista del documentario «Nei secoli fedele». Il pm di Varese aveva chiesto un anno e due mesi di carcere.  «Chiedo scusa alle divise, che ho sempre rispettato, non agli uomini», sono state le prime parole dell’imputata dopo l’assoluzione. «So di avere sbagliato, di avere detto delle cose troppo forti in un momento di sconforto, ma non sono felice per questa assoluzione - ha proseguito - dopo otto anni lo Stato non mi ha ancora detto perché Giuseppe è morto e continuerò a chiedere la verità». Il processo è scaturito da una querela presentata in passato dai due carabinieri e dai sei poliziotti che venerdì scorso sono stati assolti dall’accusa di omicidio preterintenzionale nel processo sulla morte di Giuseppe Uva. Nel documentario «Nei secoli fedele - Il caso Giuseppe Uva» la sorella dell’uomo, secondo le accuse, ha affermato «con le dichiarazioni contenute nel video in più passaggi che i querelanti avevano ripetutamente colpito con violenza Giuseppe Uva cagionandogli lesioni». Su Facebook aveva inoltre definito «delinquenti» e «assassini» i carabinieri e i poliziotti che intervennero quella notte. Inoltre, intervistata da un inviato della trasmissione di Italia 1 nell’ottobre 2011, aveva fatto riferimento a botte e a una presunta violenza sessuale subita dal fratello in caserma. Il pm stamani, nel corso della sua requisitoria, aveva sottolineato che l’ipotesi di uno stupro è «frutto di una congettura non supportata da alcun elemento di riscontro oggettivo» contenuto nelle perizie e negli atti disponibili all’epoca dell’intervista. Inoltre, secondo il pm, «non vi era alcun elemento per consentire all’imputata di affermare con certezza la sussistenza di botte o violenze perpetrate nella caserma» che, anche in questo caso, erano una «mera congettura». Nelle interviste e su Facebook, quindi, «sono stati affermati come veri fatti non desumibili da dati processuali per additare poliziotti e carabinieri, a distanza di anni, come stupratori e barbari picchiatori di persone indifese». I legali di carabinieri e poliziotti, parti civili nel processo, stamani avevano chiesto un risarcimento di alcune migliaia di euro. «Prendiamo atto della decisione del giudice - ha spiegato uno dei legali, l’avvocato Fabio Schembri - ci auguriamo che in futuro, dopo l’assoluzione di carabinieri e poliziotti, vengano moderati i toni. Non tollereremo più che vengano reiterati gli attacchi e le offese infamanti». 

Caso Uva, assolti carabinieri e poliziotti. Sorella: Processo farsa. Deceduto nel giugno del 2008 all'ospedale di Varese, dopo aver passato una notte nella caserma dei carabinieri. La Corte d'Assise di Varese ha assolto i due carabinieri e i sei poliziotti responsabili dell'arresto di Giuseppe Uva, deceduto nel giugno del 2008 all'ospedale del capoluogo lariano, dopo aver passato una notte nella caserma dei carabinieri. Lo ha confermato a LaPresse il 15 aprile 2016 l'avvocato Fabio Ambrosetti, difensore della sorella della vittima, Lucia Uva e dei familiari. "L'arresto illegale è stato riqualificato in sequestro di persona - ha spiegato il legale - e carabinieri e poliziotti sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato. Possiamo ipotizzare che i giudici abbiano ritenuto carente l'elemento soggettivo, ma capiremo meglio il perché della loro decisione tra 90 giorni, quando leggeremo le motivazioni". Affranta e indignata la sorella della vittima, Lucia Uva: "Me l'aspettavo che sarebbero stati assolti. Questo processo è stato fin dall'inizio una farsa. Invece che farlo agli imputati, si è fatto un processo a sorella, ai testimoni, alla famiglia ma non ai presunti colpevoli". "Abbiamo un governo vergognoso, una giustizia vergognosa", dice Lucia Uva. La sorella aggiunge: "Io mi chiedo, se non sono stati poliziotti e carabinieri o i medici, come è morto mio fratello? Aspetto motivazioni, ma questa giustizia deve cambiare. La sentenza è stata anticipata perché non volevano ci fossero tutte le famiglie delle vittime. Dovevano esserci i familiari di Aldrovani, Cucchi, Buldroni, Ferrulli... Ma, assicuro, continuerò la mia battaglia per una verità".

Testi inattendibili, perizie e bugie. Il gran pasticcio del caso Uva. Chiesta l'assoluzione per gli agenti finiti nei guai. La sorella: "Ora so che Giuseppe è morto di freddo", scrive Silvia Mancinelli il 17 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Il 4 gennaio scorso Lucia Uva pubblicò sulla propria pagina Facebook la foto di Luigi Empirio, uno dei poliziotti coinvolti nell’inchiesta sulla morte del fratello Giuseppe. Undici giorni dopo per quel poliziotto e per gli altri sette imputati nel processo, è arrivata la richiesta di assoluzione da tutte le accuse. Una decisione non certo in controtendenza, quella presa dal procuratore capo di Varese, Daniela Borgonovo, e comunque in linea con l’archiviazione e il non luogo a procedere già sollecitati dai colleghi nelle fasi precedenti. Soddisfazione è stata espressa da parte del sindacato di Polizia Sap: «Il caso Uva - commenta il segretario generale, Gianni Tonelli - passerà alla storia come una delle più grosse patacche italiane. E lo dimostrerò». In attesa della sentenza di primo grado, prevista per il prossimo 29 gennaio, ecco tutti i «pasticci» del caso Uva. «Almeno ora so, grazie al pm Daniela Borgonovo, che Giuseppe è morto di freddo», ha scritto sulla propria bacheca Lucia Uva in merito alla richiesta di assoluzione. Una richiesta avanzata anche per il poliziotto imputato insieme a cinque colleghi e a due carabinieri, del quale la donna pubblicò una foto a petto nudo: «Questo si chiama Luigi Empirio, era presente in caserma», scriveva il 4 gennaio scorso a corredo dell’immagine. «Io che colpa ne ho se come Ilaria Cucchi voglio farmi del male per vedere in faccia chi ha passato gli ultimi attimi di vita di mio fratello? Questo soggetto a Giuseppe lo conosceva molto bene...». Una battaglia graffiante, forte, tenace, quella di Lucia Uva, combattuta grazie al social network per ribadire la tesi degli abusi da lei sempre sostenuta. Era stata la sorella di Stefano, il geometra romano morto il 22 ottobre 2009 all’ospedale Sandro Pertini durante la custodia cautelare, a pubblicare il giorno prima la foto di uno dei carabinieri indagati nell’inchiesta bis della procura di Roma sul pestaggio del fratello. «Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso. Ora questa foto è stata tolta dalla pagina. Si vergogna? Fa bene», aveva scritto la donna, rivolgendosi allo stesso militare. L’avvocato di Davide Tedesco, «presentato» all’opinione pubblica pure lui in costume e sorridente, ha denunciato Ilaria Cucchi per diffamazione. Sarebbero alla base del processo-pasticcio, secondo i legali della difesa. I sei agenti e i due carabinieri sono passati attraverso una prima richiesta di archiviazione da parte dei pm Abate e Arduini, un’altra di non luogo a procedere avanzata dal procuratore della Repubblica Isnardi facente funzioni, quindi per quella di assoluzione del pm Borgonovo. Gli avvocati parlano di un’insistenza nonostante ci fossero già tutti gli elementi per appurare le mancate responsabilità. L’istruttoria dibattimentale viene definita monumentale, «sono stati sentiti tutti coloro che avevano qualcosa da dire». L’accusa di calunnia potrebbe ribaltare l’esito di un processo orientato verso un finale obbligato, sebbene già tre pubblici ministeri si siano pronunciati in modo identico e in netta opposizione rispetto alle accuse avanzate dai familiari della vittima. «È stata disposta dal gip l’imputazione coatta – dice Tonelli - Sono stati forzatamente rinviati a giudizio gli otto tra poliziotti e carabinieri, nonostante agli atti non ci fosse nulla e anzi la relazione dell’autopsia controfirmata dal perito di parte abbia rilevato l’assenza di lesioni. La famiglia ha cambiato tre esperti, perché tutti incapaci di sovvertire i fatti. Le macchie ipostatiche presenti sul corpo dell’uomo sono conseguenti al decesso e non possono essere trasformate in ematomi. Le ipotesi presentate dagli stessi periti di famiglia parlano di una malformazione cardiaca, di forte assunzione di alcol, di grosso stress e dell'interazione dei farmaci somministrati per il trattamento sanitario obbligatorio (tesi quest’ultima poi accantonata) come cause della morte. Perfino l’avvocato Anselmo, ben consapevole che non c’era trippa per gatti, abbandonò la difesa. Non ha seguito il campo e il processo è stato celebrato con altri legali». È lo stesso segretario generale del Sap, con il quale sia la sorella di Uva che quella di Cucchi hanno avuto un recente confronto televisivo, a parlare di spettacolarizzazione della vicenda. «Gli atti sono secretati e si continuano a sparare baggianate a raffica – insiste Tonelli - I familiari delle vittime raccontano ogni giorno attraverso il circuito mediatico la loro personalissima versione, mentre ai nostri uomini non viene data la possibilità di difendersi per motivi professionali agli occhi degli spettatori che, in questo modo, sentono una sola campana. Ci siamo trovati ad assistere a una gogna mediatica, nonostante nessuno sia giudicabile colpevole fino a prova contraria, e oggi se provassimo a fare un test tra la gente, la maggior parte sosterrebbe con convinzione l’ipotesi dell’abuso da parte degli operatori della sicurezza. Tra l’altro il dipartimento della Polizia di Stato ha espresso vicinanza agli agenti imputati solo dopo la richiesta di assoluzione, mentre prima nessuno si era fatto vivo. In ogni fase del processo è stato presente un ufficiale dei carabinieri, mai uno dei nostri. Cerchiamo la verità, non diffamiamo sui social network uomini che potrebbero essere prosciolti da ogni accusa». Al vaglio degli inquirenti anche le testimonianze di personale ospedaliero e della Polizia Penitenziaria sulla freddezza e le chiamate rispedite al mittente da parte dei familiari di Giuseppe Uva. «Un uomo già abbandonato – dice Tonelli – nei suoi frequenti ricoveri in ospedale per le percosse ricevute, frequentando tossicodipendenti. E oggi pianto da tutti».

GIUSEPPE UVA, CARABINIERI E POLIZIOTTI ASSOLTI: “IL FATTO NON SUSSISTE”. Tutti assolti perché il “fatto non sussiste”. Questo ha deciso ieri la Corte d’assise di Varese in merito alla morte di Giuseppe Uva, morto nel 2008 presso l’ospedale di Varese. 2 carabinieri e 6 poliziotti, accusati di omicidio preterintenzionale, possono tirare un sospiro di sollievo, scrive il Blog Uomini e Donne il 16 aprile 2016. Nel giugno 2008, Giuseppe Uva venne arrestato dai carabinieri assieme all’amico Alberto Biggiogero. I due trascorsero diverse ore in caserma, dove verosimilmente vennero picchiati dai militari, quelli che nelle ultime ore sono stati assolti; poi furono trasportati in ospedale. Giuseppe Uva spirò proprio nel nosocomio di Varese. Una vittima dello Stato? No, per i giudici carabinieri e poliziotti non sono responsabili della morte di Uva, e neanche i medici dell’ospedale di Varese, accusati di aver somministrato una dose di farmaci errata. Allora chi è l’artefice del decesso di Giuseppe Uva? Alla fine diranno che l’uomo si è suicidato? Mah. Ieri, dopo la lettura della sentenza, gli imputati hanno tirato un sospiro di sollievo e si sono abbracciati. Tanta amarezza, invece, hanno provato i parenti di Giuseppe: una nipote è uscita dall’Aula urlando “Maledetti”. Il caso Uva ricorda molto il caso Cucchi; anche il geometra romano venne portato in caserma e, successivamente, fece tappa in ospedale per le numerose ferite provocate dagli abusi dei militari. Tornando al caso Uva, dobbiamo sottolineare che già diversi mesi fa il procuratore di Varese, Daniela Borgonovo, aveva reclamato l’assoluzione per poliziotti e carabinieri, che per molti aggredirono brutalmente Uva, finito poi nel reparto psichiatrico del nosocomio di Varese. Nessuno sa, come realmente, andarono le cose. Quello che sappiamo è che la testimonianza dell’amico di Uva non venne presa in considerazione dalla magistratura perché l’uomo era ubriaco. Ieri, la sorella di Giuseppe Uva, Lucia, è entrata in Aula con una maglietta su cui campeggiava la scritta "Giuseppe Uva-aspetto giustizia". Lucia non demorde e promette che continuerà a combattere in nome di suo fratello. Il carabiniere Stefano Del Bosco, imputato insieme al militare Paolo Righetto e ai poliziotti Luigi Empirio, Gioacchino Rubino, Francesco Barone Focarelli, Bruno Belisario, Pierfrancesco Colucci e Vito Capuano, ha detto dopo l’assoluzione: “Finalmente è stata fatta giustizia. Eravamo tranquilli perché quella notte non è successo nulla e nessuno di noi ha commesso reati. Non poteva andare diversamente”. Piero Porciani, uno dei legali degli imputati, tutti felici per l’assoluzione dei loro assistiti, ha asserito: “Ora carabinieri e poliziotti possono tornare a casa e guardare i figli negli occhi e possono continuare a fare il loro dovere”. Biggiogero ha raccontato che, quella maledetta notte del 2008, dopo aver visto una partita della Nazionale assieme a Uva, fu avvicinato da alcuni carabinieri. C’è da dire che, mentre rincasavano, i due avevano spostato alcune transenne, ostacolando il traffico. Un carabiniere, allora, si rivolse a Giuseppe con queste parole: “Non te la faccio passare liscia, stavolta te la faccio pagare”. Quel carabiniere conosceva bene Giuseppe Uva perché sembra che quest’ultimo avesse avuto una storia con la moglie. L’amico di Uva ha riferito che, dopo il fermo, vennero trasportati in caserma e divisi: sentiva Giuseppe urlare in una stanza e chiedere aiuto. I carabinieri e alcuni poliziotti, evidentemente, stavano pestando l’uomo. I familiari di Giuseppe Uva sono certi che il loro caro venne massacrato dai carabinieri e poliziotti; i giudici, invece, la pensano diversamente.

Caso Uva, per i giudici non ci furono percosse da parte di forze dell’ordine. Gli imputati - sei poliziotti e due carabinieri assolti dall’accusa di omicidio nei confronti dell’operaio, morto dopo una notte in caserma - non avevano coscienza né volontà di percuotere Uva, scrive il 14 luglio 2016 “Il Corriere della Sera”. I giudici della Corte d’assise di Varese hanno ritenuto «l’insussistenza di atti diretti a percuotere o a ledere» Giuseppe Uva da parte delle forze dell’ordine. È un passaggio delle motivazioni, in possesso dell’agenzia Ansa, della sentenza con la quale sei poliziotti e due carabinieri sono stati assolti dall’accusa di omicidio preterintenzionale e altri reati nei confronti dell’operaio, morto nel giugno del 2008 dopo essere stato portato in caserma a Varese. «La perizia medico-legale e l’audizione dei consulenti tecnici di ufficio e delle parti - scrivono i giudici in relazione all’accusa di omicidio preterintenzionale - consentono di escludere in maniera assoluta la sussistenza di qualsivoglia lesione che abbia determinato o contribuito a determinare il decesso di Giuseppe Uva». Per i giudici, «il fattore stressogeno, da taluni dei consulenti ritenuto causale o concausale di uno stress psicofisico, non può essere attribuito alla condotta degli imputati», che «non avevano la coscienza e la volontà di percuotere o di ledere Giuseppe Uva». In riferimento al reato di abbandono di incapace, i giudici spiegano che «non risulta sufficientemente provata la sussistenza del delitto» perché «l’abbandono della persona incapace deve determinare uno stato di pericolo sia pure potenziale per l’incolumità del soggetto» mentre «Giuseppe Uva non versava in un pregresso stato di incapacità di provvedere a se stesso per malattia di mente o di corpo (tale non potendosi considerare lo stato di ubriachezza)» e «non è ravvisabile una posizione di garanzia degli imputati (non avevano questi ultimi obblighi di cura o di custodia) nel confronti di Giuseppe Uva». Riguardo l’ipotesi di abuso di autorità contro arrestati o detenuti, gli imputati vanno assolti perché «ai fini dell’integrazione del delitto è necessario che le restrizioni abusive vengano adottate quali modalità della custodia, cagionando così una lesione ulteriore della libertà intesa in senso stretto», mentre Giuseppe Uva non si trovava in stato di arresto, di fermo o di detenzione e, conseguentemente, non si ravvisano gli elementi oggettivo e soggettivo del delitto contestato». Ad aprile Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, è stata assolta dall’accusa di diffamazione contro poliziotti e carabinieri. La Uva, nel 2011, aveva affermato durante una trasmissione dello show «Le Iene» che il fratello Giuseppe era stato violentato dalle forze dell’ordine. Inoltre aveva scritto su Facebook una serie di commenti accusatori, sempre nei confronti degli 8 indagati per la morte del fratello. La vicenda si trascina da qualche anno, ma è giunta a sentenza lunedì 18 aprile, a tre giorni di distanza dall’assoluzione degli 8 agenti sancita dalla Corte d’Assise di Varese, che ha stabilito l’innocenza delle forze dell’ordine riguardo al presunto pestaggio.

POLIZIOTTI E CARABINIERI ASSOLTI AL PROCESSO DUE VERSIONI OPPOSTE PER LA MORTE DI GIUSEPPE UVA, scrive Rai News il 15 aprile 2016. Arrestato la notte del 14 giugno 2008, ubriaco, dopo diverse ore passate nella caserma dei carabinieri morirà al mattino nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese   Tweet Morto in un reparto di psichiatria a Varese, dopo aver passato la notte in caserma in stato di fermo. Giuseppe Uva, 43 anni, è ubriaco la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008, quando una pattuglia dei Carabinieri lo ferma mentre con un amico rovescia in strada cassonetti dell'immondizia. I due vengono portati in caserma, in via Saffi, e cosa succede da quel momento è affidato alle carte e alle testimonianze raccolte in un processo durato quasi 8 anni.   Due sono le versioni: il pestaggio di Uva da parte dei carabinieri, sostenuto dalla famiglia e dall'amico, Alberto Biggiogero, e atti di autolesionismo dell'uomo che secondo i carabinieri era ubriaco e fuori controllo. Biggiogero sostiene di aver sentito grida di aiuto provenire dalla stanza in cui era stato chiuso Uva e quella notte chiama il 118 per chiedere aiuto. All'alba del 14 giugno i militari dispongono il ricovero di Uva nel reparto psichiatrico dell'ospedale con un Tso (trattamento sanitario obbligatorio). Uva morirà alle 11 di mattina.   In una prima fase del processo, l'accusa sostiene che i medici avrebbero somministrato a Uva farmaci incompatibili con il suo stato etilico. Ma i tre imputati usciranno assolti con formula piena. Il dibattimento riprende in Corte d'assise il 20 ottobre 2014 e si conclude oggi con l'assoluzione di due carabinieri e sei poliziotti a processo con l'accusa a vario titolo di abuso d'autorità su un arrestato, abbandono d'incapace, arresto illegale e omicidio preterintenzionale. 

Processo Uva, morto dopo il fermo in caserma: assolti poliziotti e carabinieri. L'operaio di 43 anni morto nel 2008. Gli imputati si abbracciano in aula, la famiglia dell'uomo grida "maledetti". La sorella con il volto del fratello sulle due t-shirt che indossa per la sentenza: "Continueremo la nostra battaglia", scrive Sandro De Riccardis il 15 aprile 2016 su “La Repubblica”. Sono stati assolti i sei poliziotti e i due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità nei confronti di Giuseppe Uva, l'operaio di 43 anni, l'uomo morto nell'ospedale di Circolo di Varese nel giugno del 2008 dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008. Era stato lo stesso titolare dell'accusa, il procuratore capo di Varese Daniela Borgonovo a chiedere l'assoluzione per tutti. Dopo la lettura della sentenza gli imputati si sono abbracciati, mentre una parente dell'uomo è uscita dall'aula gridando "maledetti".  "Continueremo la nostra battaglia", ha promesso la sorella di Uva, Lucia. In tribunale si è presentata con una maglietta con stampata la foto del fratello e la scritta 'Giuseppe Uva-aspetto giustizia'. Dopo la sentenza, ha indossato un'altra t-shirt con la scritta 'assolti perché il fatto non sussiste'. Come a dire, se l'aspettava. Sollevati invece gli assolti. "Finalmente è stata fatta giustizia", è stato il commento di Stefano Dal Bosco, uno dei due carabinieri. "Eravamo tranquilli - ha spiegato - perché quella notte non è successo nulla e nessuno di noi ha commesso reati. Non poteva andare diversamente". Con lui sono stati assolti il collega Paolo Righetto, e sei poliziotti: Gioacchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Barone Focarelli, Bruno Belisario e Vito Capuano). Secondo l'accusa, nonostante le gravi lacune dell'indagine - di cui era titolare il pm Agostino Abate, poi trasferito a Como dal Csm - gli indizi a sostegno della tesi del pestaggio in caserma erano fragili. "Non ci sono prove di comportamenti illegali", aveva detto il pm nella scorsa udienza. E l'unico testimone di quella notte, Alberto Biggiogero, l'amico portato in caserma insieme a Uva quella notte, è stato considerato dalla stessa accusa inattendibile. Tesi fatta propria dai giudici della Corte d'Assise di Varese che hanno assolto tutti i sei appartenenti alle forze dell'ordine. Giuseppe Uva era stato fermato ubriaco per strada. "Un clochard sporco e puzzolente" che "viveva di espedienti" lo aveva descritto l'avvocato Luciano Di Pardo, del collegio difensivo delle divise nel corso della sua arringa, scatenando l'indignazione della sorella. La donna, nelle scorse settimane aveva imitato Ilaria Cucchi con cui è da tempo in contatto, e aveva pubblicato su Facebook una foto del poliziotto coinvolto nell'inchiesta. In più, insieme agli altri familiari dell'uomo, aveva chiesto un risarcimento simbolico di 4 euro, uno per ogni capo d'accusa (omicidio preterintenzionale, abbandono di incapace, arresto illegale e abuso di autorità). "Non ci interessano i risarcimenti - aveva spiegato - ma capire che cosa è successo quella notte". La famiglia è convinta che il decesso sia stato provocato dalle percosse e dalle manganellate inflitte all'uomo dagli agenti che lo tenevano in custodia. Ma lo stesso procuratore aveva definito "assolutamente legittima la condotta di carabinieri e poliziotti intervenuti nel tentativo di contenere Uva che, insieme all'amico stava dando in escandescenze". Secondo la rappresentante della pubblica accusa, le forze dell'ordine, quella sera, "non hanno fatto altro che il loro dovere", si sono comportati in modo "proporzionato" alla situazione e soprattutto "conforme alla legge". Diverse le reazioni politiche. Il segretario della Lega Matteo Salvini si è detto felice per l'assoluzione, "troppo fango su chi indossa una divisa". Concetto ribadito dal senatore di Fi Maurizio Gasparri: "Basta criminalizzazioni". Ma il senatore del Pd Luigi Manconi parla di "processo condizionato da un'indagine condotta in maniera pedestre, fino all'altro ieri, dal pubblico ministero Agostino Abate, si è concluso com'era fatale che si concludesse". "Abate - ha spiegato Manconi sottolineando "la certezza dell'illegalità del fermo e del trattenimento per ore in una caserma" - ha dominato l'intera vicenda giudiziaria dal 2008 ad oggi con un comportamento del tutto simile a quello che lo ha portato a trattenere, per oltre 27 anni, il fascicolo relativo all'assassinio di Lidia Macchi, prima che gli venisse tolto di autorità. Per quello tenuto nei confronti della vicenda giudiziaria relativa alla morte di Giuseppe Uva è stato sottoposto a una incolpazione da parte della Procura generale presso la Cassazione, che tra l'altro gli attribuiva la violazione di diritti fondamentali della persona. "Ora - è la sua conclusione - la verità si fa ancora più lontana".

Caso Uva, cronaca di un’assoluzione annunciata, scrive il 15 aprile 2016 Checchino Antonini su “Popoffquotidiano”. Colpo di spugna sulla verità a Varese. Tutti assolti i due carabinieri e i e i sei poliziotti dall’accusa di omicidio preterintenzionale e altri reati nel processo con al centro la morte di Giuseppe Uva. La corte d’assise di Varese ha appena assolto i due carabinieri e i sei poliziotti dall’accusa di omicidio preterintenzionale e altri reati nel processo con al centro la morte di Giuseppe Uva, deceduto all’ospedale di circolo di Varese nel giugno 2008 dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei Carabinieri. Dopo la lettura della sentenza gli imputati si sono abbracciati, esultando, mentre una parente dell’uomo è uscita dall’aula gridando. Assolti perfino dall’accusa di arresto illegale, nel frattempo riqualificata in sequestro di persona, e piuttosto semplice da dimostrare. «Hanno cercato e ottenuto l’assoluzione piena e più ampia possibile», commenta a caldo Fabio Ambrosetti, legale della famiglia Uva al termine di una giornata di attesa tesissima. Fra novanta giorni le motivazioni e subito dopo il deposito dell’appello da parte della famiglia Uva. «Un’assoluzione largamente annunciata – commentano a caldo gli attivisti di Acad che da tempo seguono il caso- continueremo a sostenere la lotta di Lucia per verità e giustizia». Infatti, Il pubblico ministero, non aveva tenuto conto, nella sua requisitoria delle dichiarazioni della dottoressa Finazzi. A lei, prima di morire in ospedale, Giuseppe Uva ha confidato che uno dei carabinieri, quella sera, al momento del fermo, disse: «Uva, era proprio te che cercavo». Proprio come ha sempre sostenuto Alberto Biggiogero. Il pm, secondo la parte civile, non ha voluto distinguere tra le macchie ipostatiche e i segni delle lesioni, certificati dall’autopsia e dalla Tac eseguite dopo la riesumazione del cadavere. Giuseppe Uva non è morto di botte, secondo la parte civile, è morto per una serie di concause, tra cui le percosse che ha ricevuto in caserma quella notte. E che hanno contribuito a scatenare la tempesta emotiva che gli ha fatto fermare il cuore. Il pm ha perfino messo in dubbio che i pantaloni consegnati da Lucia Uva dopo la morte di Giuseppe fossero quelli effettivamente indossati dal fratello la notte in cui è stato portato in caserma. All’altezza del cavallo, su quei pantaloni, c’è una grossa macchia di sangue, composta da cellule di origine anale. Com’è possibile ipotizzare che non fossero quelli indossati da Giuseppe nella sua ultima notte di vita? «Continueremo la nostra battaglia», dice Lucia, scossa dalla sentenza. Si è presentata in aula con una maglietta con stampata la foto del fratello e la scritta "Giuseppe Uva-aspetto giustizia". Dopo la sentenza ne ha indossato un’altra: "assolti perché il fatto non sussiste". Secondo i familiari, parti civili nel processo, Uva avrebbe subito violenze da parte delle forze dell’ordine, dopo essere stato fermato assieme all’amico Alberto Biggiogero mentre, in stato d’ebrezza, spostava alcune transenne nel centro di Varese. La Procura di Varese non ha riscontrato comportamenti scorretti da parte delle forze dell’ordine e, nelle scorse udienze, il procuratore Daniela Borgonovo aveva chiesto l’assoluzione. Un’istanza analoga è stata avanzata dalle difese. Tutto ciò a quasi otto anni dai fatti e dopo una faticosissima battaglia legale per smontare la prima versione ufficiale della morte per malasanità sostenuta con ostinazione dal pm Abate, poi rimosso dall’incarico e visibilmente ostile alla famiglia Uva. In aula, con la sorella di Giuseppe, Lucia Uva c’erano la madre di Stefano Gugliotta, pestato dalla polizia a Roma senza alcun motivo e Domenica Ferrulli, figlia di Michele, ucciso durante le concitate fasi di un violentissimo arresto. Il processo d’appello è in corso a Milano.

E poi…

Filippo Facci su Libero Quotidiano del 5 gennaio 2016 e la foto boomerang di Ilaria Cucchi: "Perché passa dalla parte del torto". Si tratta di spiegare ciò che è indelicato spiegare, cioè quanto Ilaria Cucchi sia riuscita a sfracassare le scatole anche al più robusto dei garantisti, col rischio serio che tutta la sua battaglia - che non appartiene solo a lei - finisca in malora. È brutto da dire, ma ha stufato lei e ha stufato anche quella foto del fratello mummificato che si porta dietro come una coperta di Linus, quella foto riproposta milioni di volte e che è divenuta un feticcio e un lasciapassare per le pagine della cronaca. A quella foto si deve tutto: nel tardo ottobre 2009 la notizia sui maltrattamenti a Stefano Cucchi era disponibile da giorni, snobbata dai più, ma d' un tratto spuntarono le foto: ed ecco che i grandi quotidiani si avventarono su una notizia che già c'era, «Morto dopo l'arresto, diffuse le foto shock» titolò per esempio il Corriere, purché fosse chiaro che la notizia non era «Morto dopo l'arresto» bensì «diffuse le foto shock». Il destino delle immagini ormai è questo: riesumare delle notizie di cui ai giornalisti altrimenti non sarebbe fregato niente. Quelle immagini furono dirompenti, perché la loro eloquenza baipassò qualsiasi valutazione di tipo medico o periziale: qualcosa era successo, lo pensiamo tutti ancor oggi. Viva quelle foto, dunque. Ma anche basta. Nei giorni scorsi - l'avete già letto - Ilaria Cucchi è riuscita a far incazzare persino i giornaloni più moderati, quelli che prima di muoverle un rilievo ogni volta premettono per ottanta righe che lei «chiede soltanto la verità», come se altri - compresi noi, e la magistratura, e le forze dell'ordine per bene - chiedessero menzogne. La Cucchi ha pubblicato su Facebook la foto di uno dei carabinieri indagati (in costume da bagno e addominali in vista, sorta di indizio di colpa) e l'ha data in pasto al qualunquismo mascherato della Rete: e del teatrino che ne è seguito, con smentite e riconferme, non andrebbe dato conto. Peccato che l'idea abbia fatto proseliti. Ieri Lucia Uva da Varese - sorella di un uomo che nel 2008 morì in ospedale dopo essere stato portato in caserma da ubriaco - ha pubblicato pure lei la foto di uno dei carabinieri coinvolti nell' inchiesta sulla morte del fratello: anche lui con gli addominali in bella vista, ormai le palestre sono diventate un'aggravante. Nota personale: nel 1996 pubblicai un intero libro dedicato per buona parte a maltrattamenti subiti da gente incarcerata: ma di tecniche di comunicazione, evidentemente, non capivo nulla. Ieri mattina, per capirci, Ilaria Cucchi era stata invitata a un talkshow: forse ha ragione lei. E aveva ragione, forse, anche quando divenne inviata di Raitre per un programma di prima serata: del resto la sua professione precedente era amministratrice di condominio. Ma sin lì si poteva anche capire: occorre avere rispetto di chiunque cerchi a suo modo di sfangarla. La notorietà di Ilaria Cucchi era e resta dovuta alla sua campagna mediatica per Stefano: è per questo che Ingroia la candidò alle politiche, è per questo che la presero per un breve periodo a Raitre. E ci va anche bene, comunque sia finita. È lecito chiedersi, però, sin dove possa arrivare l'eterno rilancio del caso Cucchi. Da garantista, Ilaria Cucchi io la ringrazio. Il suo attivismo, sgangherato ma pervicace, penso abbia contribuito a far emergere altri casi paragonabili a quello del fratello. Ci hanno fatto dei libri, dei documentari, su wikipedia si segnalano venti brani musicali dedicati a Stefano. E il punto non è alzare il sopracciglio di fronte all' attivismo discutibile di Ilaria Cucchi, il punto è che la sua missione è riuscita. Da tempo. La sua missione non consisteva nel mettere alla gogna o in galera chi pensa o pensava lei, ma nel rimettere il caso Cucchi nei doverosi binari giudiziari cui era destinato: senza le inerzie che purtroppo caratterizzano migliaia di altri casi non propriamente al centro dell'attenzione mediatica. Ci è riuscita. Da tempo. In parte ha gettato un faro sulle carceri. Ma non è che la campagna per suo fratello possa diventare una professione a vita, non è che possa lottare per la «verità» fottendosene della verità giudiziaria e sino al giorno in cui non vadano in galera tutti i carabinieri con gli addominali scolpiti, e segnatamente da lei indicati. Ancor oggi, giornali e televisioni - pur stufi, e si vede - ogni tanto ripompano il caso Cucchi come se l'inchiesta e il processo non si fossero mai fatti: mancava la Cassazione, ma a dicembre ha sancito che debbano andare a processo anche alcuni medici precedentemente assolti. Insomma, si va avanti, ma a Ilaria non basta. Nel Paese in cui le sentenze peggiori spesso sono sbattute sui giornali, Ilaria verga le sue: e senza elaborarne granché le motivazioni. Ieri Ilaria ha scritto: «Non è stata una scelta della famiglia Cucchi, quella di essere processata insieme al loro caro per sei anni». Bugia. Vittimismo. Se processo c' è stato, è stato di beatificazione. Perché la gente - come i giornali - è volubile, giudica e assolve e condanna in fretta. E Ilaria Cucchi sta facendo molto, sta facendo di tutto per passare dall' altra parte della vetrina.

Stefano Cucchi: la sorella Ilaria ci ricorda le tante crepe della nostra giustizia, scrive Davide Grassi il 7 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Quando ho visto il post di Ilaria Cucchi sulla sua bacheca di Facebook con la fotografia del carabiniere indagato per la morte di suo fratello Stefano, ne ho compreso il motivo. Non aveva un fine illecito, ovviamente, né sperava nelle reazioni violente di alcuni commentatori. La fotografia era stata estrapolata dal profilo pubblico dell’uomo e chi conosce Facebook sa che non esiste privacy per chi decide di esporsi in questa piazza virtuale. I giornalisti, è da lì che attingono notizie sulla vita privata di personaggi pubblici o persone inevitabilmente oggetto di attenzione da parte dei media. E Facebook è utile anche per chi vuole svolgere delle indagini. Ilaria ha deciso di pubblicare la fotografia del militare in questi giorni in cui è presa dalla lettura delle intercettazioni delle conversazioni che inchioderebbero chi avrebbe pestato suo fratello. Conversazioni che per lei devono essere pura sofferenza. Con quel post Ilaria ci ha reso partecipi del suo dolore e dell’indignazione nei confronti di uno Stato latitante da tempo su certi argomenti. Che potesse diventare un pretesto di alcuni per fomentare odio era prevedibile ma non spetta di certo a Ilaria censurare e perseguire questi ultimi. “Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso. Ora questa foto è stata tolta dalla pagina. Si vergogna? Fa bene.” La didascalia sulla fotografia postata da Ilaria (che vive nel ricordo del proprio caro senza vita e pieno di lividi e con il volto tumefatto)grida giustizia (quella dei tribunali e non di certo rappresaglia) dopo che le motivazioni della Corte d’Assise di Appello di Roma (quella che ha assolto gli agenti della penitenziaria, i medici e gli infermieri per la morte di Stefano) suggeriscono una probabile strada da percorrere nell’indagine sul pestaggio di suo fratello Stefano: “(…) le lesioni subite dal Cucchi debbono essere necessariamente collegate a un’azione di percosse; e comunque da un’azione volontaria, che può essere consistita anche in una semplice spinta, che abbia provocato la caduta a terra, con impatto sia del coccige che della testa contro una parete o contro il pavimento”. Esiste per Costituzione la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza passata in giudicato, è vero. Tuttavia, quei quotidiani (e quei politici) che oggi accusano Ilaria di aver messo alla gogna il carabiniere postandone la fotografia sulla sua bacheca sono i primi ad abusare spesso di quel principio. Sto con Ilaria perché non c’è nulla di più difficile (anzi è impossibile) dell’accettare la morte di un fratello per mano dello Stato. E sto con Ilaria perché grazie alla sua tenacia e al suo modo di rendere pubblica ogni vicenda che ruota attorno al caso di Stefano ci ricorda che sono ancora molte le crepe nel nostro sistema giudiziario.

La madre di Cucchi: "Mio figlio? Un delinquente". La donna a chi le consigliava di affidarsi a un avvocato rispondeva: "Non spendo altri soldi per quel delinquente", scrive Chiara Sarra, Sabato 30/01/2016, su “Il Giornale”. "Quando abbiamo chiesto alla madre di Cucchi di mettere un avvocato di fiducia, ci ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada". In un'intercettazione agli atti dell'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi e rivelata da “Il Tempo”, il maresciallo Roberto Mandolini, indagato per falsa testimonianza insieme a Vincenzo Nicolardi, svela un retroscena finora inedito. Nella registrazione, infatti, Mandolini parla con un consulente legale del Sap a Vibo Valentia, sostenendo che al procuratore dichiarerà di aver "omesso di dire quello che mi ha riferito Cucchi della famiglia". E cioè che dopo l'arresto per spaccio avvenuto nel 2009, i carabinieri avevano suggerito ai familiari di contattare un avvocato di fiducia, ricevendo in riposta solo insulti per Stefano. "Quel giorno hanno pure scherzato, dicendo a Cucchi di pensare ai nipotini e lui gli ha risposto che la sorella erano due anni che non glieli faceva vedere", ha aggiunto Roberto Mandolini, "La sorella pseudo-giornalista, si era candidata con Ingroia e la Bonino. Dopo aver preso i soldi, 1.342.000 euro, ha venduto casa e ha cambiato vita. Del fratello, quando era in vita, non ne voleva sapere nulla". Vero o falso? Toccherà ai giudici stabilirlo.

"Cosa pensavano davvero di Cucchi". Intercettazione choc di madre e sorella, scrive “Libero Quotidiano”. "Quando abbiamo chiesto alla madre di Cucchi di mettere un avvocato di fiducia, ci ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada". Lo rivela in una intercettazione - riportata dal Tempo - agli atti dell'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi (deceduto a 31 anni all'ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto per spaccio di droga) del maresciallo Roberto Mandolini, indagato per falsa testimonianza insieme a Vincenzo Nicolardi. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco sono invece indagati per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità "per il violentissimo pestaggio" che avrebbe subito Cucchi. Il 17 luglio 2015, Mandolini (che il giorno prima ha ricevuto l'invito a comparire davanti al pm Giovanni Musarò il 23 luglio) chiama Rosalia Staropoli, consulente legale del Sap a Vibo Valentia, e le dice che al gip dirà: "Certo che ho omesso qualcosa, ho omesso di dire quello che mi ha riferito Cucchi della famiglia". Lei lo incalza e lui continua: "Quando hanno chiesto alla madre di mettere un avvocato di fiducia, la donna ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada". Il maresciallo aggiunge che "quel giorno hanno pure scherzato, dicendo a Cucchi di pensare ai nipotini e lui gli ha risposto che la sorella erano due anni che non glieli faceva vedere". Difficile dire se quello che dichiara il carabiniere sia vero visto che queste intercettazioni sono fra quelle che lo hanno inguaiato. Tant'è. Mandolini continua: "La sorella (Ilaria, ndr) pseudo -giornalista, si era candidata con Ingroia e la Bonino. Dopo aver preso i soldi, 1.342.000 euro, ha venduto casa e ha cambiato vita. Del fratello, quando era in vita, non ne voleva sapere nulla".

Cucchi, i familiari e le accuse al telefono. Le intercettazioni del carabiniere indagato nell’inchiesta sulla morte di Stefano "La madre ci disse che il figlio era un delinquente". Disposta una nuova perizia, scrive Valeria Di Corrado il 30 gennaio 2016 su “Il Tempo”. «Quando abbiamo chiesto alla madre di Cucchi di mettere un avvocato di fiducia, ci ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada». A rivelarlo in una intercettazione agli atti dell’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi (il 31enne deceduto all’ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto per spaccio di droga) è il maresciallo Roberto Mandolini, indagato per falsa testimonianza insieme a Vincenzo Nicolardi. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, all’epoca in servizio presso la stazione Appia, sono invece indagati per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità «per il violentissimo pestaggio» che avrebbe subito Cucchi. È il 17 luglio 2015, Mandolini ha ricevuto da un giorno l’invito a comparire davanti al pm Giovanni Musarò il 23 luglio (in quell’occasione si è avvalso della facoltà di non rispondere). L'ex vice comandante della stazione Appia chiama Rosalia Staropoli, consulente legale del Sap a Vibo Valentia e attivista in varie associazioni antimafia. Le confida che quando il procuratore gli domanderà se ha omesso qualcosa, gli risponderà: «Certo che ho omesso qualcosa, ho omesso di dire quello che mi ha riferito Cucchi della famiglia. Questo, questo e quell’altro». A quel punto la donna si incuriosisce e gli chiede cosa abbia detto il ragazzo. Mandolini si sfoga spiegando che «quando hanno chiesto alla madre di mettere un avvocato di fiducia, la donna ha risposto che non avrebbero speso altri soldi per quel delinquente del figlio, che poteva andare a fare il barbone per strada». Il maresciallo spiega inoltre che «quel giorno hanno pure scherzato, dicendo a Cucchi di pensare ai nipotini e lui gli ha risposto che la sorella erano due anni che non glieli faceva vedere». Vero? Falso? Queste intercettazioni fanno parte dello stesso «blocco» che ha inguaiato di recente questo carabiniere. L’interlocutrice del militare consiglia di riferire tutto nell’interrogatorio. Mandolini, evidentemente scottato dalla battaglia della sorella di Stefano Cucchi per l’accertamento della verità, conclude così: «La sorella (Ilaria, ndr) pseudo-giornalista, si era candidata con Ingroia e la Bonino. Dopo aver preso i soldi, 1.342.000 euro, ha venduto casa e ha cambiato vita. Del fratello, quando era in vita, non ne voleva sapere nulla». Dalle stesse intercettazioni raccolte dalla Squadra Mobile nel corso dell’attività investigativa emerge però che il maresciallo si rapporta con un pregiudicato che chiama «fratello» e con il quale si incontra per scambiarsi oggetti d’oro. La svolta investigativa arriva quando Anna Carino, ex moglie di D’Alessandro, gli ricorda al telefono: «Hai raccontato a tutti di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda (...) che te ne vantavi pure... che te davi le arie». La frase intercettata viene confermata dalla donna quando il 19 ottobre scorso è stata sentita dal pm. La sua deposizione è finita nell’informativa finale della Mobile: «Raffaele è sempre stato un tipo molto aggressivo. Quando indossava la divisa, poi, si sentiva Rambo. Mi raccontava anche di pestaggi ai danni di altri soggetti, che avevano portato in caserma in altre circostanze. Ricordo che mi parlò di pestaggi ai danni di extracomunitari, anche se non si trattava di pestaggi di questo livello. Per quello che ho percepito io, soprattutto quando lo sentivo mentre ne parlava con altri, il pestaggio di Cucchi fu molto più violento». Per appurare se il pestaggio abbia causato la morte di Cucchi la Procura ha chiesto un nuovo accertamento medico-legale. Il gip ha nominato 4 periti che dovranno accertare la natura, l’entità e l’effettiva portata delle lesioni patite da Cucchi. Il giudice ha respinto, ritenendola infondata, un’istanza di ricusazione di Francesco Introna presentata dal legale della famiglia Cucchi per i rapporti di inimicizia con il suo consulente Vittorio Fineschi.

Stefano Cucchi, di prescrizione in prescrizione verso la proscrizione della memoria, scrive Beppe Giulietti il 6 giugno 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Il presidente del collegio dei periti incaricato da tribunale di Roma di rispondere a una serie di quesiti sulle modalità del decesso, il 22 ottobre del 2009, di Stefano Cucchi ha chiesto una proroga di 90 giorni. (In effetti l’incarico è stato dato dal GIP Elvira Tamburelli nel procedimento a carico dei cinque carabinieri indagati, nda). La notizia è stata accolta con legittima indignazione dai familiari e dai difensori della famiglia Cucchi che già avevano contestato la nomina del professor Francesco Introna, da loro accusato di essere massone e troppo legato ai comandi militari e ai carabinieri. Lo stesso giudice per l’udienza preliminare ha ridotto da 90 a 30 giorni la richiesta dei periti, anche perché lo slittamento dei tempi avvicina sempre più l’ipotesi della prescrizione. Sono passati sette anni da quel pestaggio e dalla morte di Stefano. Depistaggi, omissioni, perizie contraddittorie, hanno determinato l’apparente paradosso per il quale Stefano è morto in seguito alle botte ricevute, ma nessuno avrebbe ordinato ed eseguito il pestaggio. Per fortuna che non hanno ancora avuto il coraggio di seguire la pista del suicidio…Di perizia in perizia, di rinvio in rinvio, la ricerca della verità e della giustizia si allontana sempre più, mentre si avvicinano i tempi della prescrizione e della cancellazione delle responsabilità. Se così dovesse accadere spetterà a tutti noi continuare a sostenere le ragioni della famiglia di Stefano e impedire che la prescrizione possa trasformarsi anche nella proscrizione della sua memoria e delle responsabilità di chi ha causato la sua morte, anche perché “quello che è accaduto una volta può sempre ripetersi”.

Caso Cucchi, nuova assoluzione per i medici nel processo di appello bis. La terza corte d'Appello di Roma scagiona i cinque imputati di omicidio colposo nel quarto processo per il caso del geometra romano morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini: "Il fatto non sussiste", scrive "La Repubblica" il 18 luglio 2016. Nuova assoluzione per i medici dell'ospedale Sandro Pertini dove era ricoverato Stefano Cucchi, il geometra romano di 32 anni morto il 22 ottobre del 2009 dopo un ricovero di cinque giorni. La terza Corte d'assise d'appello di Roma ha scagionato dall'accusa di concorso in omicidio colposo, il primario Aldo Fierro e i sanitari Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo perchè il fatto non sussiste. Il pg Eugenio Rubolino, aveva chiesto quattro anni di carcere per Fierro, primario all'epoca dei fatti, e tre anni e sei mesi per gli altri quattro medici imputati. Al processo che arriva dopo l'annullamento dell'assoluzione deciso dalla Corte di Cassazione nel dicembre scorso, probabilmente seguirà un nuovo appello presso la Suprema Corte. "Ciao Stefano, tu eri già così - è il commento che Ilaria, la sorella di Stefano, affida a Facebook -. Lo sei sempre stato. Noi non ce ne siamo mai accorti ma non abbiamo colpe perché in fin dei conti tu eri già così. Eri già morto quando stavi con noi alla tua ultima festa di compleanno, eri già morto quando ti hanno visto il giorno prima del tuo arresto varcare la soglia degli uffici del comune e della provincia. Eri già morto quando ti hanno visto correre ed allenarti 4 ore prima del tuo arresto. Eri già morto quando ti hanno arrestato. Non se ne era accorto nessuno. Magari sei deperito e dimagrito dopo morto. Magari diranno così. Ma tu sei sempre stato morto". I familiari di Stefano Cucchi che hanno ricevuto un risarcimento di un milione e trecentomila euro dall'ospedale romano non erano presenti come parte civile al processo. Intanto è ancora in corso la perizia medico legale sul caso nell'ambito dell'inchiesta bis sulla morte del giovane che vede indagati cinque carabinieri. Il nuovo incidente probatorio ha il compito di rivalutare il quadro di lesività sul corpo del giovane anche al fine di stabilire la sussistenza o meno di un nesso di causalità tra le lesioni subite a seguito del pestaggio e la sua morte. Nell'inchiesta bis sono indagati Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità, e Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini per falsa testimonianza. Nicolardi risponde anche di false informazioni al pm.  Secondo la nuova indagine della procura di Roma, Stefano Cucchi fu pestato dai carabinieri e ci fu una strategia scientifica per ostacolare la corretta ricostruzione dei fatti. Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009, all'ospedale Pertini di Roma. Era stato arrestato una settimana prima per detenzione di droga, la sera del 15 in via Lemonia, nei pressi del Parco degli Acquedotti.

Intanto il pg Rubolino l'8 giugno 2016, parlando per 3 ore, chiede cinque condanne per omicidio colposo. Il processo che si celebra oggi è stato disposto dalla Corte di Cassazione che il 15 dicembre dello scorso anno annullò la sentenza con la quale la Corte d’Assise d’Appello mandò assolti i sanitari che ebbero in cura Cucchi. Ha chiesto 4 anni di reclusione per il primario Aldo Fierro, 3 anni e 6 mesi per i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Silvia Di Carlo e Luigi De Marchis Preite. Stefano Cucchi morì il 22 ottobre del 2009 nel reparto di medicina protetta dell'ospedale Sandro Pertini, dove era stato ricoverato, una settimana prima, dopo il suo arresto. I cinque camici bianchi, dopo la condanna in primo grado, erano stati assolti in secondo. Giudizio, quest'ultimo, annullato dalla Cassazione e dunque tornato in aula davanti alla Corte d'Assise d'Appello. Per Rubolino, i cinque imputati non possono meritare la concessione delle attenuanti generiche, anche se sono incensurati. «Pure Stefano Cucchi era un ragazzo incensurato, anche se era stato giustamente arrestato per la prima volta - ha osservato il sostituto Pg -. La realtà è che questa vicenda presenta profili di colpa ai confini di un dolo eventuale, una colpa con previsione, una colpa gravissima. Chi lavora in un reparto protetto come quello del Pertini dovrebbe avere un'attenzione e una preparazione maggiore nel riconoscere nei pazienti una sindrome da inanizione (malnutrizione) attribuita a Cucchi; chi lavora lì dovrebbe essere abituato a quei detenuti che spesso fanno lo sciopero della fame per rivendicare chissà quali pretese giudiziarie. E invece - ha proseguito Rubolino - Cucchi è stato trascurato durante la sua degenza, non è stato per nulla curato. Gli imputati potevano e dovevano intervenire e invece fino all'ultimo al ragazzo è stata somministrata solo dell'acqua, quando ormai era già cominciato quello che i periti hanno definito un catabolismo proteico catastrofico. Stefano, cioé, si stava nutrendo delle sue stesse cellule e stava perdendo un kg al giorno. Al momento del decesso il suo peso si aggirava intorno ai 37 kg. Per Cucchi quell'ospedale era l'equivalente di un lager. La sua morte orribile e tragica ricorda per certi versi quella di Giulio Regeni. Io non vorrei che Stefano Cucchi morisse per la terza volta - ha affermato Rubolino -: una prima volta lo hanno ucciso servitori dello Stato in divisa, si tratta solo di stabilirne il colore, la seconda volta lo hanno ucciso servitori dello Stato in camice bianco. La Cassazione, annullando l'assoluzione dei medici, ha evitato che sulla vicenda calasse una pietra tombale. Già all'ingresso al Pertini sono state riportate circostanze chiaramente false sulla cartella clinica di Cucchi: era un bradicardico patologico, con 40 battiti cardiaci al minuto (rispetto ai 60 fisiologici) eppure i medici non gli hanno mai preso il polso. Presentava una frattura alla vertebra sacrale per il pestaggio avvenuto nelle fasi successive all'arresto, aveva un trauma sopraccigliare con scorrimento del sangue, per migrazione, sotto gli occhi, aveva un forte dolore fisico in conseguenza di quell'aggressione, eppure al Pertini gli è stato solo somministrato un antidolorifico che ha contribuito a rallentare il cuore, muscolo già indebolito perché non irrorato. L'apparato muscolare nel suo complesso, in quella cartella clinica fasulla, venne definito tonico e trofico ma il paziente non aveva neppure i glutei per poter avere una iniezione. Cucchi rifiutava le terapie e non mangiava perchè nessuno lo metteva in contatto col suo avvocato. Nessuno si è preoccupato di riferire ad altri le sue esigenze. La sua morte è arrivata dopo cinque giorni di vera agonia». Per la Procura Generale, poteva bastare un farmaco che desse vigore al battito del suo cuore, poteva bastare un po' di acqua con zucchero, forse, per migliorare una situazione gravemente compromessa. E invece niente di tutto ciò. «Cucchi - ha concluso Rubolino - non doveva stare in quel reparto perchè non era stabilizzato. Eppure si è fatto in modo che venisse ricoverato lì, in quella struttura protetta lontana da occhi e orecchi indiscreti". Intanto la prima sezione penale della Corte d'appello di Roma ha nuovamente assolto (con la formula perchè il fatto non sussiste) Claudio Marchiandi, il funzionario del Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria, coinvolto nell'inchiesta.  Per Marchiandi questo era il secondo processo d'appello: condannato a due anni nel 2012 in abbreviato dal gup Rosalba Liso per falso ideologico, abuso d'ufficio e favoreggiamento personale, il funzionario del Prap venne assolto nel giudizio di secondo grado l'anno successivo. Sentenza poi annullata nel 2014 dalla Cassazione che ordinò un nuovo processo.

Cucchi, Cassazione: «Per i testimoni fu picchiato dai carabinieri». La sentenza di 57 pagine depositata dalla Suprema Corte sintetizza le testimonianze raccolte nell’ambito dei processi di merito sul caso del geometra morto nel 2009 al Pertini durante la custodia cautelare, scrive Ilaria Sacchettoni su "Il Corriere della Sera” il 9 marzo 2016. C'erano testimonianze che portavano ai carabinieri, ma non si sono ascoltate. C'era superficialità nella perizia medica che, «parcellizzando» le lesioni, ne ridimensionava il valore «probatorio», ma nessuno ci fece caso. E c'erano testimoni delle lesioni e della sofferenza di Stefano Cucchi durante la convalida dell'arresto, ma, nella prima inchiesta, nessuno le considerò. Stefano Cucchi «sarebbe stato aggredito da appartenenti all’Arma dei carabinieri», prima di essere «preso in carico dagli agenti di polizia penitenziaria poi rinviati a giudizio». Lo scrive la quinta sezione penale della Cassazione, nella sentenza depositata oggi, ricordando alcune testimonianze raccolte nell’ambito dei processi di merito sul caso Cucchi. Nel bocciare la prima inchiesta sulla vicenda Cucchi, i giudici della Cassazione osservano che furono trascurate diverse testimonianze. Versioni che smentivano le parole di Samura Yaya, il testimone «uditivo» al quale i pm della prima inchiesta si erano affidati completamente e che accusava la penitenziaria del pestaggio nei confronti di Cucchi. La Cassazione li elenca. C'era il carabiniere Mario Cirillo che, vigilando sul corridoio davanti alle celle, non vide nessun movimento attorno a quella di Cucchi. E che dunque portava ad escludere la tesi del pestaggio in cella. C'era la donna in attesa della convalida del proprio arresto, Anna Maria Costanzo, che parlando con Cucchi apprese che era stato picchiato «dagli agenti che l'avevano arrestato». E c'erano altri due detenuti, Stefano Colangeli e Vilbert Lamaj, che, nelle stesse celle, «non hanno riferito di alcuna aggressione ma solo di aver sentito Cucchi lamentarsi e accusare dolori già prima dell'ora in cui sarebbero avvenuti i fatti descritti da Samura Yaya». Infine, come sottolineato dal pg Nello Rossi nella sua requisizione di dicembre scorso, c'era la testimonianza di altri carabinieri. In particolare quella di Pietro Schirone che «con disarmante sicurezza e semplicità» testimoniò: «Era chiaro che era stato menato». Infine c'erano le parole degli assistenti di polizia penitenziaria Bruno Mastrogiacomo e Mauro Cantone che essendosi occupati di Cucchi durante la detenzione iniziale a Regina Coeli riferirono di aver appreso dallo stesso Cucchi di essere stato picchiato dai carabinieri. Versione confermata anche dall'infermiera del Pertini Silvia Porcelli. Alla luce di tutto ciò anche «il battibecco non consono all'aula» condito da insulti rivolti da Cucchi ai carabinieri in divisa nell'aula del gip si spiega meglio: è la rabbia di chi sentiva di aver subito un'ingiustizia.

Stefano Cucchi, Cassazione: “Ingiustificabile l’inerzia dei medici e illogico non aver fatto nuova perizia”. A scriverlo sono i giudici nelle motivazioni della Cassazione in base alle quali il 15 dicembre scorso è stato disposto un appello-bis per omicidio colposo e sono state annullate le assoluzioni dei cinque medici dell'ospedale Pertini dove nel 2009 il ragazzo è morto dopo una settimana di ricovero, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 9 marzo 2016. “Ingiustificabile l’inerzia dei medici e illogico non aver fatto nuova perizia”. E inoltre “non sono state fornite spiegazioni esaustive e convincenti del decesso di Stefano Cucchi”. Sono queste le motivazioni della Cassazione in base alle quali il 15 dicembre scorso è stato disposto un appello-bis per omicidio colposo e sono state annullate le assoluzioni dei cinque medici dell’ospedale Pertini. Erano stati invece definitivamente assolti invece tre agenti di polizia penitenziaria, il medico che per primo visitò Cucchi e i tre infermieri finiti sotto procedimento. Secondo la Cassazione, si legge nel testo, i medici dell’ospedale Pertini avevano una “posizione di garanzia” a tutela della salute di Cucchi e il loro primo dovere era diagnosticare “con precisione” la sua patologia anche in presenza di una “situazione complessa che non può giustificare l’inerzia del sanitario o il suo errore diagnostico”. Nelle 57 pagine depositate mercoledì 9 marzo dai giudici, sono contenute anche le motivazioni del proscioglimento dei tre agenti penitenziari coinvolti nella vicenda: secondo i giudici infatti viste le “plurime deposizioni di fondamentale importanza” secondo cui il giovane “sarebbe stato aggredito da appartenenti all’arma dei carabinieri” e “quindi prima di essere preso in carico dagli agenti di polizia penitenziaria tratti a giudizio” è da escludere il coinvolgimento degli agenti del penitenziario. Nel documento si sottolinea poi che non sono state fornite “spiegazioni esaustive e convincenti del decesso”, motivo per cui nel processo bis assieme alle cause della morte, dovrà essere accertata anche “la concreata organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza e ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella vicenda”. Il tutto “senza dimenticare che il medico che, all’interno di una struttura di tal genere, riveste funzioni apicali è titolare di un pregnante obbligo di garanzia ed è, pertanto, tenuto a garantire la correttezza delle diagnosi effettuate e delle terapie praticate ai pazienti”. Coinvolti nel processo bis il primario Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo. Secondo il verdetto, gli stati patologici di Cucchi, preesistenti e concomitanti con il politraumatismo per il quale fu ricoverato, avrebbero dovuto imporre “maggiore attenzione ed approfondimento”, con ricorso alla “diagnosi differenziale”. I giudici inoltre scrivono che è di “manifesta illogicità” la decisione con la quale la Corte di assise di Appello di Roma nel processo per la morte di Stefano Cucchi, “ha escluso di procedere ad un nuovo accertamento peritale” sostenendo che “non residuano aspetti delle condizioni fisiche di Cucchi che non siano stati già esplorati e valutati dagli esperti nominati”. Quindi un nuovo accertamento “per l’imponente mole del materiale probatorio acquisito agli atti” si sarebbe potuto svolgere sugli atti stessi, “giovandosi anche dei contributi forniti dai diversi esperti” e non può essere impedito dalla solo “affermata” – dai giudici dell’appello – “impossibilità di effettuare riscontri sulla salma di Cucchi”. Sulle cause della morte di Cucchi, scrive la Cassazione condividendo le parole usate nella sua requisitoria dal Pg Nello Rossi, non può esserci “una sorta di ‘resa cognitiva'”. Ad avviso dei giudici era ben argomentata, dai giudici di primo grado che avevano condannato i medici del Pertini, l’individuazione della causa della morte del giovane nella sindrome da inanizione, decesso per mancanza di nutrimento in un soggetto già sottopeso e politraumatizzato.

Caso Cucchi, Ilaria: "Finalmente la verità", in un video di Mariacristina Massaro su "Repubblica Tv" l'11 marzo 2016. "La giustizia non poteva far finta di nulla e alzare le spalle di fronte a una mancata causa di morte", Ilaria Cucchi commenta così le motivazioni della Cassazione sulla sentenza del 15 dicembre 2015. Lo scorso 9 marzo, infatti, sono state depositate 57 pagine in cui vengono spiegati i motivi per cui a dicembre furono annullate le assoluzione dei cinque medici che avrebbero dovuto curare Stefano Cucchi, morto nel 2009 dopo una settimana di ricovero. “Quello che sta succedendo ora mi dà enorme speranza e fiducia: so che finalmente siamo di fronte a un percorso di verità rispetto a quello che accadde a mio fratello Stefano”, ha ammesso Ilaria Cucchi, anche se ancora timorosa. “Chiaramente rimane la preoccupazione di fronte a meccanismi che fino a sei anni fa ignoravo'', ha aggiunto, ''ma che oggi conosco bene. Ho capito con quanta facilità periti e consulenti possono distorcere e capovolgere la realtà dei fatti senza nemmeno porsi il problema di rendere credibile quello che dicono".

Da Cucchi a Budroni, le "vittime della tortura di Stato" arrivano a Bruxelles. Il prossimo 15 marzo una folta delegazione di familiari, l'eurodeputata Eleonora Forenza, e alcuni rappresentanti dell'associazione Acad saranno ascoltati presso la sede del Parlamento Europeo, scrive Ylenia Sina, Giornalista di RomaToday, l'11 marzo 2016. Cucchi, Bianzino, Budroni, Magherini, Uva, Ferrulli, Mastrogiovanni, Casalnuovo. Le “vittime della tortura di stato” arrivano al Parlamento Europeo. È questa infatti la delegazione che, insieme all'eurodeputata de L'Altra Europa Eleonora Forenza, ad alcuni rappresentanti dell'Associazione Contro gli Abusi in Divisa (Acad) e con l'avvocato Fabio Anselmi verranno ascoltati a Bruxelles il prossimo 15 marzo. Il lavoro è stato presentato oggi pomeriggio nel corso di una conferenza stampa presso la sede romana del Parlamento Europeo, in via IV Novembre. “Vogliamo portare quella che definiamo 'l'anomalia Italia' all'attenzione del parlamento europeo e dell'opinione pubblica” ha spiegato Luca Blasi di Acad. Alle spalle due pannelli con i volti, e le storie, di chi questo 'caso italiano', suo malgrado, lo rappresenta. “Non parliamo delle vittime di alcune mele marce ma di un vero e proprio sistema, che troppo spesso gode di copertura mediatica e politica”. “Tante vicende che nascondono famiglie spesso abbandonate a loro stesse, nel disinteresse generale. Famiglie che si sono ritrovate troppe volte di fronte all'evidenza che i loro morti non valgono niente” racconta Ilaria Cucchi, tra i familiari della delegazione che andrà a Bruxelles. Ilaria rompe il silenzio e continua un elenco “che potrei continuare all'infinito: Savia, Perna, Ronzi, Bifolco”. Così la 'missione' al parlamento europeo rappresenta un “atto di speranza” ma anche di “disperazione” il secondo l'avvocato Fabio Anselmo, “perché l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica ha giocato spesso un ruolo fondamentale nei processi per le vittime di questo genere di abusi”. I nomi citati aumentano nel corso della conferenza stampa. Ricorda il caso Aldrovandi: “Se non se ne fosse parlato sui giornali saremmo arrivati con difficoltà in tribunale”. Ricorda quello Rasman: “Per il suo caso, in seguito ad un'interrogazione parlamentare, venne revocata la richiesta di archiviazione”. E ancora la vicenda di Rachid che da anni denuncia i maltrattamenti e gli abusi che subisce in carcere, anche tramite delle registrazioni ambientali. “Ecco come si presenta in tribunale” ha spiegato l'avvocato mostrando i segni delle violenze sul corpo dell'uomo. L'Italia, sintetizza Anselmi, “non ha abbastanza anticorpi”. Lo spiega Forenza: “Certamente il tema della repressione è europeo ma in Italia registriamo anomalie pesantissime in termini di mancanza di rispetto dei diritti”. Ne è un esempio “il fatto che non esista il reato di tortura e che la polizia italiana non abbia, come invece accade in altri paesi, i numeri identificativi”. Per l'eurodeputata “è una questione che spesso rimane sotto traccia ma che riguarda la vita delle persone che spesso restano senza giustizia”. L'eurodeputata ricorda “Davide Rosci, detenuto per un reato assurdo a cui va tutta la mia solidarietà”. Conclude Forenza: “Speriamo che questa audizione contribuisca a fare in modo che le istituzioni italiane vengano sollecitate a prendere le misure che vanno verso il pieno riconoscimento dei diritti umani”.

«Abusi in divisa»: i familiari delle vittime in missione a Bruxelles.

Tortura. Al parlamento Ue con il dossier sul «caso Italia», scrive Giuliano Santoro il 12.03.2016 su il “Manifesto”. Sono i familiari delle vittime di abusi polizieschi. Le istituzioni dovrebbero chiedere loro scusa. Ma per avere udienza, dovranno oltrepassare i confini nazionali e arrivare fino a Bruxelles. Lo faranno il 15 marzo prossimo, quando – in occasione della Giornata internazionale contro la violenza poliziesca – una nutrita delegazione porterà al Parlamento europeo le storie di mala polizia. Le ha raccolte in un dossier Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa che organizza la missione belga assieme all’eurodeputata della Sinistra unitaria europea Eleonora Forenza. Ci saranno i volti e le storie tragiche dei parenti delle vittime, che hanno dovuto sfidare il silenzio per rivendicare giustizia: Ilaria Cucchi (sorella di Stefano), Lucia Uva (sorella di Giuseppe), Claudia Budroni (sorella di Dino), Grazia Serra (nipote di Francesco Mastrogiovanni), Domenica Ferrulli (figlia di Michele), Andrea Magherini (fratello di Riccardo) e Osvaldo Casalnuovo (padre di Massimo). «Vogliamo portare in Europa quella che chiamiamo l’anomalia italiana – spiega Luca Blasi di Acad – fatta di torture, alimentata da un sistema penale sbilanciato, coltivata dalle emergenze permanenti. I casi che in questi anni abbiamo seguito non sono opera di qualche mela marcia ma sintomo di un deficit strutturale nei corpi di polizia e nella macchina delle giustizia. Chi calpesta i diritti gode di appoggi mediatici, coperture giuridiche e sostegno politico. Prova ne è la mancanza di una legge sul reato di tortura». Impossibile non menzionare gli abusi commessi nei giorni del G8 di Genova. Eleonora Forenza quindici anni fa era in quelle strade, da giovanissima manifestante. Presentando l’iniziativa dell’audizione, ci tiene a sottolineare come la repressione colpisca in tutta l’Europa. Basti pensare ai casi delle leggi contro i movimenti in Spagna, alla violazione dei diritti dei migranti e alle deroghe al diritto dello stato d’emergenza in Francia. «Tutto ciò – dice la parlamentare europea – è anche l’altra faccia dell’austerità. È in questo contesto che si dipana il ‘caso Italia’ con le sue specificità». Ilaria Cucchi ammette che in passato aveva osservato queste faccende con un certo distacco. «Non avrei mai pensato che sarebbe successo a me, di perdere un fratello e di dover sfidare la rete di omertà e i muri di gomma degli apparati di sicurezza». Adesso i parenti in cerca di giustizia si conoscono e si sostengono a vicenda. Molti casi giudiziari vengono seguiti dall’avvocato Fabio Anselmo, che confessa che la missione di Bruxelles è al tempo stesso «un atto di fiducia e anche una mossa di disperazione». Anselmo ha sperimentato in questi anni l’importanza della comunicazione e del rapporto con l’opinione pubblica. Se n’è accorto quando prese in mano le carte del primo caso d’abuso. Riccardo Rasman, trentaquattrenne con problemi psichici, venne ucciso a Trieste da tre poliziotti nell’ottobre del 2006. «Il caso stava per essere archiviato – rievoca Anselmo – Ma grazie ad un’interpellanza parlamentare finì sulle pagine dei giornali locali e il corso degli eventi mutò. Per la prima volta in vita mia assistetti alla revoca di un’archiviazione e poi alla condanna, seppure lieve, degli agenti coinvolti». A distanza di dieci anni, con in mezzo le tante facce della Spoon River carceraria e repressiva, ecco l’ultima storia di violenza in divisa seguita da Anselmo. La vittima si chiama Rachid Assarag. È un detenuto che ha denunciato pestaggi nelle carceri di Parma, Prato e Firenze. Per di più, Assarag è riuscito a registrare le voci di agenti, medici, operatori e psicologi all’interno del carcere: gli dicono che è inutile denunciare e in qualche caso lo minacciano spiegandogli che in carcere non valgono le garanzie minime. Proprio ieri, il tribunale di Parma ha riconosciuto come rilevanti le registrazioni avventurosamente raccolte dall’uomo, disponendo una perizia che cerchi di associare a quelle parole inquietanti dei volti e delle responsabilità. Assarag si è presentato dal giudice in sedia a rotelle, coi segni di un nuovo, ennesimo pestaggio compiuto alla vigilia dell’apparizione in tribunale. Del suo caso e di tanti, troppi altri, si parlerà la settimana prossima a Bruxelles.

L’8 Marzo 2016, Festa della Donna, è andato in onda un servizio di “Le Iene” realizzato da Matteo Viviani in cui si parla di un problema sempre di grande attualità: le torture nelle carceri italiane. Come mai queste cose succedono nelle carceri? Perché lì non esistono leggi dice l’intervistato. Matteo Viviani per realizzare questo servizio di “Le Iene” ha intervistato un ex Agente di Polizia Penitenziaria e un ex detenuto del carcere di Asti i quali hanno raccontato all’inviato Mediaset quello che accade all’interno delle mura della prigione in questione (ma molto probabilmente in tutte), lontano dalle telecamere di sorveglianza, da qualsiasi forma di testimonianza e soprattutto dalla legge, dato che il nostro codice penale non prevede il reato di tortura. Punizioni e torture, tra cazzotti e bastonate e angherie di altro tipo nei racconti di Andrea Franciulli, ex guardia carceraria, e Andrea Cirino, ex detenuto carcerario. I racconti trascendono nella terribile storia di un giovane ragazzo di circa 30 anni lasciato morire di fame in carcere e successivamente proclamato innocente dalla magistratura.

Servizio shock di Viviani a Le Iene; lontano dalle telecamere di sorveglianza il racconto di atrocità commesse in carcere, scrive Roberto Accurso. Un servizio che non ha tardato nel fare discutere molto quello di Viviani a Le Iene, che racconta la cruda realtà delle carceri italiane. Un ex Agente e un ex detenuto del carcere di Asti raccontano infatti all’inviato del programma d’inchiesta di Italia 1 quello che accade all’interno delle mura della prigione, lontano dalle telecamere di sorveglianza, e da qualsiasi vincolo legislativo. Il codice penale non prevede assolutamente infatti il reato di tortura ma ciò che spesso succede è che si oltrepassino i limiti e che non siano più garantiti alcuni diritti fondamentali ai detenuti. Il racconto ha scatenato subito un grande tam tam sui social network, facendo interrogare in molti sulla gravità dell’accaduto. Se infatti il servizio mostra la testimonianza di ciò che è accaduto nel carcere di Asti, con molta probabilità si avvicina alla situazione tragica di molti altri istituti di detenzione.

SCIENZA E GIUSTIZIA.

Il Csm ora indagherà sul pm che ha rovinato la scienziata. La Capua prosciolta dall'accusa di essere una "untrice" scappa negli Usa. E gli inquirenti finiscono nel mirino, scrive Anna Maria Greco, Venerdì 8/07/2016, su “Il Giornale”. Anni d'inferno, una vita «sfregiata». Ora la virologa Ilaria Capua è stata prosciolta dall'infamante accusa di essere un'«untrice», di trafficare in virus per provocare un'epidemia. Ma il suo cervello è intanto migrato negli Stati Uniti e nulla potrà ripagarla di quanto ha subito. I suoi accusatori, però, finiscono nel mirino del Csm. E il laico di Fi Pierantonio Zanettin chiede al Comitato di presidenza di Palazzo de' Marescialli di aprire una pratica sul procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, che ha avviato l'indagine penale e sui giudici che hanno proseguito il suo lavoro, culminato due giorni fa con la dichiarazione: «il fatto non sussiste». I reati ipotizzati erano gravissimi: ricettazione, somministrazione di medicinali in modo pericoloso, corruzione, zoonosi ed epidemia. Per la Capura c'era il rischio di finire all'ergastolo. Ma il gup di Verona alla fine ha deciso che non c'era nulla di tutto questo. E ora, se il vertice del Csm darà l'ok, la Prima Commissione dovrà valutare se pm e giudici hanno agito in modo scorretto, «se sussistano profili di incompatibilità, sotto il profilo dell'appannamento dell'immagine di terzietà ed imparzialità», come scrive Zanettin. Tra l'altro, la ricercatrice in un'intervista ha dichiarato «di non essere mai stata interrogata da nessun magistrato». Ai vertici di Palazzo dei Marescialli il consigliere ricorda il profilo della Capua, nota per i suoi studi sui virus influenzali e, in particolare, sull'influenza aviaria. Proprio lei è stata la prima ad aver isolato il virus H5N1 eppure ha detto «no alle offerte milionarie delle case farmaceutiche per mettere gratis la sua scoperta a disposizione su genBank di tutti gli scienziati del mondo», sottolinea Zanettin. È stata la «prima donna e primo ricercatore sotto i 60 anni a vincere il Penn vet world leadership award, cioè il riconoscimento più importante del pianeta per le discipline veterinarie». Nel 2013 la virologa, responsabile del Dipartimento di scienze biomediche comparate dell'Istituto Zooprofilattico sperimentale (Izs) delle Venezie, viene eletta deputato di Scelta civica e poco dopo le crolla addosso l'inchiesta della Procura di Roma su una presunta cessione illecita di virus ad aziende farmaceutiche. Un'inchiesta che ha radici lontane, cronologicamente e geograficamente. Le accuse partono infatti dagli Usa nel 1999 e da lì vengono allertati i pm di Roma, che nel 2004 avviano le indagini arrivando a formulare le accuse alla Capua, cadute 12 anni dopo perché per il giudice mancano i presupposti per un processo. Intanto la scienziata, scrive Zanettin, «prostrata dalle lungaggini dell'inchiesta, ha deciso di abbandonare l'Italia ed ha accettato la direzione di un dipartimento di eccellenza all'Emerging Pathogens Istitute dell'Università della Florida». Anche stavolta e per cause giudiziarie, «il nostro Paese ha perso un cervello di grande valore». Rimane, spiegano i colleghi della Capua, il rimpianto per non essere riusciti a trattenere questo talento della nostra ricerca, che ancora molto avrebbe potuto dare alla scienza e all'Italia. Da Sc applaudono l'iniziativa di Zanettin. «Ci auguriamo che il Csm voglia aprire al più presto una pratica su Capaldo - dice Giovanni Monchiero, il capogruppo alla Camera - È un caso emblematico e clamoroso di malagiustizia. Non neghiamo il diritto della magistratura di indagare chiunque ma i risultati delle indagini preliminari devono restare segreti, almeno fino a quando non si raccolgano indizi incontrovertibili di colpevolezza».

«Perchè il pm non ha interrogato la Capua?» Il Csm apre un fascicolo, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 7 luglio 2016 su “Il dubbio”. Il Csm dovrà verificare se il procuratore Capaldo abbia esercitato il suo ruolo seguendo la Costituzione, e cioè con “imparzialità” e “terzietà”. Il Consigliere laico Pierantonio Zanettin ha chiesto formalmente l’apertura di una pratica in Prima Commissione per valutare se sussistano “profili di incompatibilità” nei confronti di Giancarlo Capaldo, l’Aggiunto della Procura di Roma che ha indagato per anni Ilaria Capua, la virologa italiana di fama mondiale che per prima ha isolato il virus H5N1 (influenza aviaria). La Commissione disciplinare del Csm dovrà verificare se la condotta del magistrato sia stata effettivamente “terza ed imparziale”. La vicenda è nota. Secondo i carabinieri del Nas di Roma, Capua e suo marito facevano parte di un’associazione a delinquere finalizzata a speculare sulla vendita dei vaccini contro l’influenza aviaria. Per i magistrati, Capua, pur di arricchirsi, sarebbe arrivata a diffondere il virus negli allevamenti del Nord Italia in modo da causare una epidemia e aumentare così le vendite dei vaccini. Le indagini, inziate nel 2005 con ampio ricorso alle immancabili intercettazioni telefoniche, terminarono 10 anni dopo. Quando la Procura di Roma chiese il rinvio a giudizio per 41 tra ricercatori, funzionari del ministero della Salute e manager di case farmaceutiche. L’inchiesta ebbe, però, il suo momento di gloria un anno prima, allorquando l’Espresso pubblico, con le indagini preliminari ancora in corso. Tutte le carte del procedimento penale “top secret”. “La cupola dei vaccini”, il titolo dello scoop. Nel frattempo il procedimento era stato “spezzettato” per competenza territoriale fra diverse Procure, tra cui quella di Verona che l’altro giorno ha chiesto e ottenuto il proscioglimento degli indagati, fra cui Capua, perchè “il fatto non sussiste”. Appena si era diffusa la notizia dell’indagine, Capua, che era stata anche eletta in parlamento nella fila di Scelta Civica, divenne oggetto di un linciaggio mediatico feroce. Alcuni commenti? “Grandissima zoccola! ” o “Iniettategli a forza il virus! ”. I grillini gli avevano addirittura intimato di dimettersi. Travolta dalla gogna, “la signora dei virus” come venne definita da l’Espresso, lasciò il Parlamento e l’Italia. Trovando ospitalità negli Stati Uniti, dove da qualche settimana dirige un prestigioso dipartimento presso l’Emerging Pathogens Istitute dell’Università della Florida. Una perdita per il paese che che ha visto andar via una delle migliori scienziate attualmente in circolazione, la prima sotto i sessant’anni a vincere il Penn Vet World Leadership Award, il riconoscimento piu importante del pianeta nell’ambito delle discipline veterinarie. Gli americani non si sono fatti influenzare dai carichi pendenti della Capua. Reati che in Italia gli avrebbero impedito di partecipare ad un qualsiasi concorso pubblico, anche ad una semplice selezione per un posto di bidello. La rivista Science aveva fin da subito fatto a pezzi l’indagine. “I documenti non sembrano siano stati revisionati da esperti scientifici”, scrissero. Il dott. Christianne Bruschke, scienziato esperto di patologie veterinarie presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità arrivò a definire le accuse contro Capua “ironiche”. Quando Capua, presentandosi all’università della Florida, disse che in Italia per i reati contestati rischiava la condanna all’ergastolo, risposero che conoscevano le accuse e che erano talmente campate in aria da non essere di loro interesse. Evidenziando in questo modo grande considerazione per gli inquirenti. Intervistata questa settimana dal Corriere, Capua ha dichiarato che i magistrati, in questi anni, si sono sempre rifiutati di ascoltarla. Forse, diciamo noi, per il timore che avrebbe potuto fornire giustificazioni ad accuse talmente lunari. Spazzando via il teorema accusatorio, costruito in anni di indagini costose. A questo punto il Csm dovrà verificare se il procuratore Capaldo abbia esercitato il suo ruolo seguendo la Costituzione, e cioè con “imparzialità” e “terzietà”. Magari anche se abbia svolto “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini”, come recita l’art. 358 cpp. Nel frattempo il danno è fatto. Capua lavorerà negli Stati Uniti. Ed un’altra indagine mediatica si è risolta in un costoso buco nell’acqua.

La virologa Capua e l'inchiesta rimasta nel cassetto per 7 anni. La scienziata fu interrogata nel 2007. Ecco come un'indagine è diventata un caso kafkiano, scrive Carlo Bonini l'8 luglio 2016 su “La Repubblica”. La vicenda giudiziaria della virologa Ilaria Capua e dei suoi trentanove coimputati accusati di aver trafficato in virus esponendo il nostro Paese a un'epidemia di influenza aviaria per assicurare un posto al sole a un cartello di società farmaceutiche nella corsa ai vaccini, è in una domanda cui, da martedì scorso, nessuno ha saputo o ha avuto voglia di rispondere. E che conviene riproporre. Perché ci sono voluti 12 anni per concludere che non esisteva materia per procedere vista "l'insussistenza del fatto" e, lì dove pure sarebbe esistita, prendere atto che, ormai, i fatti erano prescritti? Ieri, il consigliere laico in quota Forza Italia, Pierantonio Zanettin, ha chiesto al Csm l'apertura di una pratica per "incompatibilità ambientale" a carico del Procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, il magistrato che, di questa storia, è stato il solitario dominus inquirente. E, da ieri, il Procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo ha ritenuto di non rendersi disponibile ad alcune domande di Repubblica.Bisogna dunque accontentarsi delle "carte" - circa 20mila fogli - e di qualche data certa. Abbastanza, come vedremo, per correggere qualche ricordo dei protagonisti non esatto e capire dove, come e quando questo affaire si è trasformato nella catastrofe giudiziaria ora sotto gli occhi di tutti. La faccenda ha il suo incipit il 18 marzo 2005. Quel giorno, Robert S.Stiriti, dell'Immigration and Customs Enforcement statunitense, agenzia appartenente all'Homeland Security, informa con una nota protocollata "RM 07PQ03PM0001 (EPA), al capitano Marco Datti, Comandante del Nas dei Carabinieri di Roma, che dall'attività di indagine svolta sull'azienda Maine Biological laboratories nell'ambito di un'inchiesta su un contrabbando di virus tra Stati Uniti ed Arabia Saudita, è emerso che, nell'aprile del 1999, un ceppo del virus dell'influenza aviaria, denominato H9, è stato spedito con corriere Dhl a un impiegato della ditta Merial Italia senza le prescritte autorizzazioni. Quel signore si chiama Paolo Candoli, è un manager Merial, divisione veterinaria del colosso farmaceutico Sanofi e, interrogato dagli americani, patteggia la propria immunità mettendo a verbale quanto dice di sapere sul contrabbando dei virus. I suoi verbali vengono trasmessi nella seconda metà del 2005 ai carabinieri del Nas. Il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo apre un fascicolo e, partendo proprio dalla figura di Candoli, chiede e ottiene che vengano disposte intercettazioni telefoniche. Il fascicolo prende il numero 24117/2006. Due anni di intercettazioni e indagini convincono i Nas prima e Capaldo poi di aver afferrato il bandolo di un'associazione a delinquere che traffica in contrabbando di virus per consentire ad un cartello di aziende farmaceutiche di acquisire posizioni di vantaggio nella sintesi e vendita dei vaccini. E che di questa associazione snodo cruciale sia Ilaria Capua, virologa di fama internazionale, in quel momento responsabile del Dipartimento di Scienze Biomediche comparate dell'Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Venezie con sede a Padova. Una scienziata classificata dalla rivista Scientific American tra i primi 50 al mondo e nota non solo per i suoi studi sul virus dell'influenza aviaria umana H5N, ma per aver reso pubblica, proprio nel 2006, la sequenza genetica del virus. Di più: l'indagine coinvolge il marito della Capua, Richard John William Currie, dipendente dell'altra azienda farmaceutica interessata alla sintesi di vaccini, la Fort Dodge Animal di Aprilia, e altri 38 indagati, tra cui tre scienziati al vertice dell'Izs di Padova (Igino Andrighetto, Stefano Marangon e Giovanni Cattoli), funzionari e direttori generali del Ministero della Salute (Gaetana Ferri, Romano Marabelli, Virgilio Donini ed Ugo Vincenzo Santucci), alcuni componenti della commissione consultiva del farmaco veterinario (Gandolfo Barbarino, della Regione Piemonte, Alfredo Caprioli dell'Istituto superiore di sanità, Francesco Maria Cancellotti, direttore generale dell'istituto zooprofilattico di Lazio e Toscana, Giorgio Poli della facoltà di Veterinaria dell'università di Milano, Santino Prosperi dell'università di Bologna), e Rita Pasquarelli, direttore generale dell'Unione nazionale avicoltura. Nel 2007, la vicenda, da un punto di vista investigativo, potrebbe dirsi chiusa. E la circostanza è tanto vera che, il 2 luglio di quell'anno, contrariamente a quanto sostenuto nelle interviste rilasciate nei giorni scorsi ("nessuno mi ha mai sentito"), Ilaria Capua viene interrogata da Giancarlo Capaldo, alla presenza dell'avvocato Oliviero De Carolis, che in quel frangente sostituisce l'avvocato Paolo Dondina (oggi l'Espresso pubblicherà sul suo sito il dettaglio di quell'interrogatorio, mentre ieri la Capua non ha dato seguito ai messaggi lasciati da Repubblica). È una circostanza che, al di là del merito della vicenda processuale, prova come, in quel 2007, il Procuratore aggiunto di Roma e gli indagati si muovano su un terreno di cui ormai è stato definito il perimetro. E per il quale è dunque possibile andare rapidamente a una conclusione dell'indagine. Che, invece, non arriva. Il procedimento 24117/2006 entra infatti in un letargo da cui i Nas dei carabinieri provano inutilmente a destarlo con un'ultima informativa nel 2010. Ma senza esito. Nel frattempo, la vita della Capua cambia. Nel febbraio del 2013 viene eletta deputata di Scelta civica. Della sua vicenda giudiziaria nessuno, tranne gli interessati, sa. E persino il nuovo procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ne rimane all'oscuro fino al 2014. Quando di quell'inchiesta, in aprile, dà conto nel dettaglio, anche temporale, il settimanale Espresso e la Capua decide di rivolgersi all'avvocato Giulia Bongiorno, nominata subito dopo la pubblicazione dell'articolo. La Bongiorno sollecita più volte Capaldo a una definizione del procedimento, che, di fatto, è ormai solo un processo di carte per giunta invecchiate di sette anni. Non fosse altro perché delle due l'una. O quelle accuse sono fondate e un'associazione a delinquere di quella pericolosità va messa nelle condizioni di non nuocere, o invece non reggono e allora gli indagati vanno liberati del fardello. L'avviso di conclusione indagini e le richieste di rinvio a giudizio per i 40 indagati arrivano a giugno 2014. L'udienza preliminare, nel maggio dell'anno successivo, vede il gup di Roma, Michela Francorsi, dichiarare l'incompetenza territoriale di Roma e "spacchettare il processo" in tre tronconi. A Verona, Padova e Pavia. A Pavia molti reati arrivano già prescritti. Lo stesso a Padova, dove il pm chiede l'archiviazione per prescrizione (il gup non si è ancora pronunciato). A Verona, dove la Capua è difesa dall'avvocato.

Traffico dei virus, Capua prosciolta. Ma le intercettazioni svelano il grande business. "Non luogo a procedere" per la virologa padovana. Ma l'inchiesta dei Nas mette in risalto gli affari e i conflitti di interessi celati dietro emergenze sanitarie. E racconta con dati di fatto quanto l’aviaria abbia arricchito Big Pharma, scrive Lirio Abbate il 5 luglio 2016 su “L’Espresso”. Il giudice per l’udienza preliminare di Verona, Laura Donati, ha ordinato il «non luogo a procedere» per la virologa e deputata di Scelta Civica, Ilaria Capua, e altre dodici imputati accusati a vario titolo di traffico illecito di virus dell’influenza aviaria. L'inchiesta, avviata dai carabinieri del Nas e coordinata dalla procura di Roma, è stata poi trasferita a Venezia. Per i pm della Capitale la virologa doveva rispondere di aver promosso e organizzato con altre persone un'associazione che aveva la finalità di commettere «una pluralità indeterminata di delitti di ricettazione, somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica, corruzione, zoonosi ed epidemia», ed ancora «per aver utilizzato virus altamente patogeni dell'influenza aviaria, del tipo H9 ed H7N3, di provenienza illecita, al fine di produrre in forma clandestina, senza la prescritta autorizzazione ministeriale, specialità medicinali ad uso veterinario (quale è il vaccino dell'influenza aviaria), procedendo successivamente, sempre in forma illecita, alla loro commercializzazione e somministrazione agli animali avicoli di allevamenti intensivi». In questo modo gli imputati avrebbero «determinando la diffusione non più controllata del virus dell'influenza aviaria negli allevamenti avicoli del nord Italia, con grave pericolo per l'incolumità e la salute pubblica, che determinava, da un lato, il contagio di sette persone tra gli operatori del settore come accertato dall'Istituto Superiore di Sanità attraverso un'indagine epidemiologica, e dall'altro il grave pericolo per la salute derivante dal consumo della carne oggetto della vaccinazione indiscriminata, determinando, quale misura di prevenzione, l'abbattimento di milioni di capi di polli e tacchini, con un considerevole danno al patrimonio avicolo nazionale, calcolato dal Centro regionale epidemiologia veterinaria in 40 milioni di euro». Per il giudice non ci sono i presupposti per il processo chiesto dai pm. Ilaria Capua che tra il 2005 e il 2007 era responsabile del Centro di referenza nazionale per l’influenza aviaria di Padova, ha lasciato la Camera per un incarico in Florida, insieme al marito Richard John Currie, anche lui imputato. Nell'inchiesta pubblicata da l'Espresso, veniva fuori il business che avrebbero fatto alcuni medici su virus e vaccini. A raccontarlo sono le intercettazioni di cui è protagonista la stessa Ilaria Capua. «Quando uno mi sta sul cazzo deve crepare!», diceva la virologa parlando di una ditta farmaceutica che criticava la sua invenzione, il “Diva”, la prima strategia di vaccinazione contro l’influenza aviaria. L’inchiesta dei pm di Roma in cui la veterinaria era coinvolta insieme al marito, partiva da un'informativa che tirava in ballo altre 36 persone, mettendo in risalto affari e conflitti di interessi celati dietro emergenze sanitarie, raccontando con dati di fatto quanto l’aviaria abbia arricchito Big Pharma. Le conversazioni registrate dai Nas dei carabinieri svelano, fra i tantissimi episodi, gli interventi di Capua sulla Intervet, filiale italiana di un colosso dei farmaci veterinari. I vertici di Intervet si erano mostrati critici sull’efficacia del sistema Diva. Ma la signora dei virus gli avrebbe fatto sapere che nell’Istituto zooprofilattico di Padova era in corso un esperimento su un vaccino prodotto da Intervet: il marchio però sarebbe stato menzionato nel suo studio solo se i responsabili della casa farmaceutica avessero assecondato le sue richieste, tra le quali quella di rivalutare il test Diva. E parlarne bene. E ai manager avrebbe fatto arrivare un messaggio chiaro attraverso un intermediario: «Lei (Capua ndr) non è una persona che si compra con quattro lire». Il ruolo principale nell'inchiesta lo rivestiva Paolo Candoli, manager della multinazionale Mirial, l’uomo al quale venivano aperte le porte del ministero della Sanità per ottenere autorizzazioni. È lui il manager delegato dalla sua ditta a parlare con Ilaria Capua. In particolare quando la Merial è alla ricerca di ceppi virali con i quali avviare la produzione di vaccini, prima ancora di ricevere l’autorizzazione del ministero. Uno dei colleghi della virologa, Stefano Marangon, anche lui coinvolto nell'inchiesta, avvisa Candoli due mesi prima del varo del programma di vaccinazione. Un modo per avvantaggiarlo sulla concorrenza. «Ho parlato con la Capua, non è escluso che lei ce l’abbia, cioè sai cosa fa quella lì comunque?», dice Candoli a una collega parlando di un ceppo virale. «Sicuramente se lo fa mandare lei e poi ce lo rivende a noi». Poi aggiunge: «Purtroppo con la Capua... c’è da pensare di seguire... di dar da mangiare alla scimmia». Il manager della Merial si rivolge alla virologa anche su indicazione di Marangon, perché lei è la responsabile del Centro di referenza nazionale per l’influenza aviaria e quindi è nella possibilità di sapere con certezza con quale ceppo virale si preparerà il nuovo vaccino. Nello stesso tempo è una delle poche persone che in ambito internazionale ha la possibilità di farsi inviare, in breve tempo, un ceppo virale da altri istituti «senza la prescritta autorizzazione ministeriale». Ilaria Capua parla con un manager della Intervet e afferma che «le è venuto in mente un modo per far salvare la faccia a quelli della Intervet, in modo tale da prenderli “per le palle”». A tal proposito dice al manager di riferire ai propri capi «che a breve a Cambridge verrà presentato uno studio dove lei ha generato un H7-N5 e che l’H-N5 è la neuroamminidasi più rara in assoluto, quindi quelli della Intervet potrebbero salvarsi la faccia dicendo che sono interessati al virus per fare il vaccino, in modo tale poi da poter iniziare nuovamente a trattare sul test Diva, per il quale loro (Capua, Marangon, Cattoli) stanno per chiudere con la Merial e la Fort Dodge, nonché con il governo olandese». Poi prosegue dicendo che «in virtù di ciò lei inserirà il nome del vaccino della Intervet sullo studio delle anatre». Per gli investigatori Capua avrebbe utilizzato «lo studio da lei effettuato per indurre la ditta Intervet ad ammorbidire la propria posizione critica nei confronti del test Diva e che, in caso positivo, quale controparte, pubblicherà sul proprio studio il nome del vaccino della ditta Intervet». Quando i Nas arrivano nell’istituto per sequestrare un vaccino che non avrebbe avuto le carte in regola per entrare in commercio, e viene coinvolta la Capua, lei inizia a preoccuparsi dell’indagine. Il padre, stimato avvocato di Roma, le raccomanda espressamente di non fare riferimento alcuno al contratto stipulato con la Merial per lo sfruttamento del brevetto Diva. Ilaria Capua sostiene che «la vicenda dell’influenza aviaria è una storia molto complicata e anche se sono stata intercettata, le carte dimostreranno che è stato fatto tutto alla luce del sole». Da una delle registrazioni emerge uno spaccato degli interessi in ballo. Parla alla madre della proposta di lavoro ricevuta da una fondazione della Florida, all'epoca e pure oggi, e osserva che «sarebbe un problema perché la fondazione non ha finalità commerciali» mentre, al contrario, in quel periodo lei ha una parte attiva e ha «una buona attività commerciale per la vendita dei reagenti diagnostici che le consentono di guadagnare in un anno ben 700 mila euro». Per gli investigatori questa affermazione farebbe riferimento ai ricavi che Capua, insieme a Marangon e Giovanni Cattoli, stavano ottenendo dalla vendita del test Diva, per il quale è stato stipulato un contratto con le ditte Merial, Fort Dodge, e Paesi stranieri.

Il business segreto della vendita dei virus che coinvolge aziende e trafficanti. Ceppi di aviaria spediti in Italia per posta. Accordi tra scienziati e aziende. L'inchiesta segreta dei Nas e della procura di Roma ipotizza un vero e proprio traffico illegale. E nel registro degli indagati c'è un nome eccellente: quello di Ilaria Capua, virologa di fama e deputato. Che respinge le accuse, scrive Lirio Abbate il 3 aprile 2014 su “L’Espresso”. Dentro, in una confezione termica, alcuni cubetti di ghiaccio molto speciali: contengono uno dei virus dell’aviaria, l’epidemia che dieci anni fa ha scatenato il panico in tutto il pianeta. Quando il postino lo consegna, il destinatario è assente: è il manager italiano di una grande azienda veterinaria. La moglie lo chiama al telefono: «Cosa devo farci?». «Mettilo subito nel congelatore». Sembra il copione di un film apocalittico, con la malattia trasmessa da continente a continente scavalcando tutti i controlli. Invece è uno degli episodi choc descritti in un’inchiesta top secret della procura di Roma sul traffico internazionale di virus, scambiati da ricercatori senza scrupoli e dirigenti di industrie farmaceutiche: tutti pronti ad accumulare soldi e fama grazie alla paura delle epidemie. Questa indagine svela il retroscena dell’emergenza sanitaria provocata dall’aviaria in Italia. E si scopre che i ceppi delle malattie più contagiose per gli animali e, in alcuni casi, persino per gli uomini viaggiano da un Paese all’altro, senza precauzioni e senza autorizzazioni. Esistono trafficanti disposti a pagare decine e decine di migliaia di euro pur di impadronirsi degli agenti patogeni: averli prima permette di sviluppare i vaccini battendo la concorrenza. L’indagine è stata aperta dalle autorità americane e poi portata avanti dai carabinieri del Nas. Perché l’Italia sembra essere uno snodo fondamentale del traffico di virus. Al centro c’è un groviglio di interessi dai confini molto confusi tra le aziende che producono medicinali e le istituzioni pubbliche che dovrebbero sperimentarle e certificarle. Con un sospetto, messo nero su bianco dagli investigatori dell’Arma: emerge un business delle epidemie che segue una cinica strategia commerciale. Amplifica il pericolo di diffusione e i rischi per l’uomo, spingendo le autorità sanitarie ad adottare provvedimenti d’urgenza. Che si trasformano in un affare da centinaia di milioni di euro per le industrie, sia per proteggere la popolazione che per difendere gli allevamenti di bestiame. In un caso, ipotizzano perfino che la diffusione del virus tra il pollame del Nord Italia sia stata direttamente legata alle attività illecite di alcuni manager. Il traffico di virus è stato scoperto dalla Homeland Security, il ministero creato dopo le Torri Gemelle per stroncare nuovi attacchi agli Stati Uniti. Nel loro mirino è finita un’attività ad alto rischio: l’importazione negli States di virus dall’Arabia Saudita per elaborare farmaci, poi riesportati nel Paese arabo. Il presidente e tre vice presidenti della compagnia farmaceutica incriminata per l’operazione sono stati condannati a pene pesanti. Fondamentale per l’indagine è la testimonianza di Paolo Candoli, manager italiano della Merial, la branca veterinaria del colosso Sanofi: l’uomo ha patteggiato l’immunità in cambio delle rivelazioni sul contrabbando batteriologico. Ai detective ha descritto come nell’aprile 1999 si fece spedire illegalmente a casa in Italia un ceppo dell’aviaria tramite un corriere Dhl. A procurarlo era stato il veterinario statunitense di un allevamento di polli saudita, condannato negli Usa a 9 mesi di prigione e 3 anni di libertà vigilata per “cospirazione in contrabbando di virus”. Chiusi i processi, nel 2005 l’Homeland Security ha trasmesso i verbali di Candoli ai carabinieri del Nas. Gli investigatori sin dai primi accertamenti si rendono conto di avere davanti uno scenario da incubo. Infatti, sottolineano i carabinieri, l’arrivo del virus in casa Candoli coincide con l’insorgenza nel Nord Italia, a partire proprio dal 1999, della più grossa epidemia da virus H7N3 di influenza aviaria sviluppatasi negli allevamenti in Italia e in Europa. Già all’epoca le indagini condotte dal Nas di Bologna avevano evidenziato l’esistenza di una organizzazione criminale dedita al traffico di virus ed alla produzione clandestina di vaccini proprio del tipo H7: antidoti che in quel momento venivano somministrati clandestinamente ai polli degli stabilimenti italiani. L’inchiesta dell’Arma si allarga in poche settimane, seguendo le intercettazioni disposte dai magistrati di Roma. Candoli nella capitale sa come muoversi: sponsorizza convegni medici organizzati da professori universitari, regala viaggi e distribuisce consulenze ben pagate e questo gli permette di avere “corsie preferenziali” al ministero della Salute per ottenere autorizzazioni, riesce a far cambiare parere alla commissione consultiva del farmaco veterinario per mettere in commercio prodotti della Merial. Tra i suoi referenti più stretti c’è Ilaria Capua, virologa di fama internazionale, attualmente deputato di Scelta Civica e vice presidente della Commissione Cultura alla Camera. È nota per i suoi studi sul virus dell’influenza aviaria umana H5N1: la rivista “Scientific American” l’ha inserita tra i 50 scienziati più importanti al mondo, “l’Economist” due anni fa l’ha inclusa tra i personaggi più influenti del pianeta. Fino all’elezione alla Camera, era responsabile del Dipartimento di scienze biomediche comparate dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale (Izs) delle Venezie con sede a Padova. E con lei anche altri suoi colleghi della struttura veneta sono finiti nel registro degli indagati. Il risultato degli accertamenti del Nas ha portato il procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo, a ipotizzare reati gravissimi. La Capua e alcuni funzionari dell’Izs sono stati iscritti nel registro degli indagati per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, all’abuso di ufficio e inoltre per il traffico illecito di virus. Stessa contestazione per tre manager della Merial. Secondo le conclusioni dei carabinieri, l’azione di Ilaria Capua con la complicità di altri funzionari dell’istituto di Padova avrebbe contribuito a creare un cartello fra due società, la Merial e la Fort Dodge Animal, escludendo le altre concorrenti, nella vendita di vaccini veterinari per l’influenza aviaria. Il marito della Capua, Richard John William Currie, lavorava alla Fort Dodge Animal di Aprilia, attiva nella produzione veterinaria. Anche Currie è indagato insieme ad altre 38 persone. Nell’elenco ci sono tre scienziati al vertice dell’Izs di Padova (Igino Andrighetto, Stefano Marangon e Giovanni Cattoli); funzionari e direttori generali del mistero della Salute (Gaetana Ferri, Romano Marabelli, Virgilio Donini ed Ugo Vincenzo Santucci); alcuni componenti della commissione consultiva del farmaco veterinario (Gandolfo Barbarino, della Regione Piemonte, Alfredo Caprioli dell’Istituto superiore di sanità, Francesco Maria Cancellotti, direttore generale dell’istituto zooprofilattico di Lazio e Toscana, Giorgio Poli della facoltà di Veterinaria dell’università di Milano, Santino Prosperi dell’università di Bologna); coinvolta anche Rita Pasquarelli, direttore generale dell’Unione nazionale avicoltura. I fatti risalgono a sette anni fa ma molti degli indagati lavorano ancora nello stesso istituto. CONTRABBANDIERI. Il capitolo più inquietante è quello del traffico di virus, fatti entrare in Italia nei modi più diversi e illegali. Le intercettazioni telefoniche dei Nas di Bologna e Roma sono definite allarmanti: secondo gli investigatori c’è stato il serio rischio di diffondere le epidemie. Oltre ai plichi consegnati a domicilio con il virus congelato in cubetti di ghiaccio, c’erano altri sistemi di contrabbando. Candoli ne parla con alcuni colleghi della Merial di Noventa Padovana. Fra i metodi per importare in Italia agenti patogeni, c’era anche quello di nascondere le provette fra i capi di abbigliamento sistemati in valigia: in questo modo, spiegano, «sembrano i kit del piccolo chimico» e non destano sospetti in caso di controlli. Il manager rivela inoltre che i virus non sono stati fatti entrare illegalmente solo in Italia, ma anche in Francia per la realizzazione di vaccini nei laboratori della Merial a Lione. «In Francia comunque non ci sono mai stati problemi per importare i ceppi», dice Candoli, e aggiunge che lì hanno fatto arrivare anche virus esotici. Un altro dirigente dell’azienda spiega al telefono: «Ascolta Paolo, noi facciamo delle cose, molto più turche nel senso di difficoltà logistica, tu sai che facciamo il Bio Pox con il Brasile per cui figurati se ci fermiamo davanti a un problema che è praticamente un terzo di quello che facciamo con i brasiliani». Secondo gli investigatori del Nas, anche la Capua e l’Istituto Zooprofilattico sono coinvolti nel traffico illegale: la scienziata sarebbe stata pagata per fornire agenti patogeni. In una conversazione registrata è la stessa virologa a farne esplicito riferimento, sostenendo di aver ceduto ceppi virali in favore di un veterinario americano. Per i carabinieri, da alcune intercettazioni “appare evidente come il contrabbando dei ceppi virali dell’influenza aviaria, posto in essere dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, nelle persone di Ilaria Capua, Stefano Marangon e Giovanni Cattoli, con il concorso del marito della dottoressa Capua, Richard William John Currie, costituisca di fatto un serio e concreto pericolo per la salute pubblica per il mancato rispetto delle norme di biosicurezza”. Mettere le mani sui ceppi patogeni nel modo più rapido possibile, evitando la burocrazia sanitaria e le misure di sicurezza, è fondamentale per essere i primi a inventare e commercializzare gli antidoti. Nel caso del virus H7N3 sulla base di un’intercettazione gli inquirenti ritengono che il ceppo sia stato fornito da Ilaria Capua. Una dirigente della Merial parla con Candoli e gli dice che sarebbe stato comprato a Padova, «lo pagai profumatamente come tutti gli altri ceppi che abbiamo comprato da quella... ». Per i Nas “testimonia in maniera esplicita la condotta corruttiva di Capua”. Gli interlocutori sottolineano spesso i modi decisi della scienziata nelle questioni economiche. E lei stessa non nasconde al telefono di aver effettuato in passato consulenze che le avrebbero fruttato un guadagno giornaliero oscillante fra i mille e i millecinquecento euro. La donna racconta che quando è andata in Giappone si è fatta pagare in nero quattromila euro al giorno, tutti cash, così si è comprata il divano e l’armadio. «L’ho fatto perché, ti spiego, un consultant normale prende tipo, dai mille ai millecinquecento euro al giorno, e io più volte l’ho fatto, tipo per le mie like...» Poi spiega che si è fatta portare in giro con l’aeroplanino e di essersi fatta pagare più volte. Contattata da “l’Espresso”, Ilaria Capua conferma di conoscere Candoli, «ma di non aver mai venduto ceppi virali. Sono dipendente di un ente pubblico e non vendo nulla personalmente». E spiega: «I ceppi virali che si isolano in istituto sono di sua proprietà e io non ho venduto nulla a nessuno». Subito dopo la produzione del medicinale, in provincia di Verona scatta la vaccinazione d’emergenza per l’aviaria: il ministero della Sanità autorizza proprio la Merial a fornire i farmaci. Gli investigatori fanno notare che pochi mesi prima, quando erano comparsi i focolai di un virus del tipo H7N1 negli allevamenti di polli di Lombardia e Veneto, il ministero aveva bloccato un’altra ditta, perché fabbricava il farmaco all’estero e non aveva spiegato l’origine del ceppo. Invece nessuno fa storie alla Merial, “nonostante questa avesse prodotto il vaccino in laboratori a Lione”. La Capua e i colleghi Marangon e Cattoli, lavorando all’Izs delle Venezie scoprono un sistema che permette di individuare gli animali infetti. È un risultato molto importante, che diventa la strategia di riferimento della Fao e dell’Unione Europea per contrastare l’influenza, che dopo i volatili sembra minacciare anche gli umani. Lo chiamano Diva e ne registrano il brevetto. Le intercettazioni rivelano che firmano un contratto di esclusiva per cederlo a Merial e Fort Dodge. Secondo la ricostruzione degli investigatori, intorno a Diva la Capua e i suoi partners riescono a costruire grandi affari, chiudendo accordi internazionali, compresi quelli con i governi di Romania e Olanda. Questo è un capitolo controverso dell’indagine. Per gli inquirenti i tre scienziati sono funzionari pubblici perché dipendenti dell’Istituto zooprofilattico e quindi stipulare un contratto con Merial “appare del tutto indebita”, come “indebita appare la registrazione del brevetto”, perché il kit per il test Diva è stato realizzato “nell’ambito di un’attività istituzionale”. Il contratto con le due aziende viene considerato “del tutto illecito e contrario ai doveri di ufficio”: il 70 per cento delle royalties andrà, attraverso lo Zooprofilattico di Padova, ai tre funzionari, mentre solo il 30 rimarrà all’Istituto. Inoltre la stipula del contratto tra le due aziende e l’Izs, con la cessione di tutti i diritti sul brevetto, per gli investigatori costituisce una sorta di cartello che taglia fuori le altre ditte farmaceutiche. Dice la virologa al suo avvocato: «Se il brevetto viene concesso, alle altre ditte, scusa la volgarità che non si confà a una signora, tanto più citata dal Sole24Ore, gli facciamo un culo che non la smette più». Adesso a “l’Espresso” spiega: «Abbiamo ceduto all’Istituto i diritti di sfruttamento del brevetto Diva e per questo, i tre inventori ad oggi non hanno mai preso alcuna somma di denaro. Le royalties sono negoziate dall’Istituto». Il giro d’affari che scaturisce da Diva è così forte che, come rivelano le conversazioni intercettate, spinge il marito della Capua a dedicarsi a tempo pieno a questa nuova attività, che chiamano “The Company”: l’uomo conclude affari in tutto il mondo, meritandosi il soprannome di “globale” e rappresenterebbe l’anello di congiunzione tra la struttura pubblica veneta e le aziende farmaceutiche. Capua in una conversazione con Marangon sostiene che Richard gli ha detto di scrivere che «hanno la disponibilità di un baculo virus N1 italiano, mentre quello asiatico lo stanno “cloney”» ossia clonando ed appena sarà disponibile glielo daranno. Marangon replica: «Ma va bene, 50 mila per due, gli diamo il coso e buona notte al secchio». È una «svolta affaristico-commerciale»: «Ho parlato dell’affare con i romeni a Richard, il quale si è eccitato come una scimmia. Quando ha saputo che l’ordine era da un milione e 300 mila euro gli è venuta una mezza paralisi e ha detto che adesso svilupperà un business plan». L’emergenza aviaria avanza nei continenti, la paura passa dalle aziende di polli alla salute delle persone. E per la “Company” i contratti si moltiplicano. Marangon sembra preoccupato, dice che bisogna usare prudenza, lasciando intendere che “vi siano tra l’altro accordi paralleli e non ufficiali con alcuni personaggi delle autorità sanitarie romene”. Di questo sembra essere convinta anche Capua, che comunque vede un mercato in espansione «finché esiste gente come i romeni». La virologa afferma che ai romeni può essere data qualunque cosa: il timore dell’epidemia sta creando un mercato nuovo dove alcuni paesi come Romania, Turchia o stati del Medio Oriente e dell’Africa devono trovare a tutti i costi sistemi per contenere il rischio di contagio. E la struttura di Padova diretta dalla Capua ha le credenziali migliori: coordina progetti di ricerca finanziati dal ministero della Salute, dalla Ue e da altri organismi internazionali come la Fao. Uno dei capitoli più inquietanti dell’inchiesta condotta dai Nas ricostruisce la diffusione dell’allarme sul pericolo di contagio umano per l’aviaria nella primavera 2005. Gli inquirenti hanno esaminato i documenti ufficiali e le iniziative delle aziende, sostenendo che l’emergenza «sia stata un problema più mediatico che reale». Dietro il paventato rischio di epidemia per il virus H5N1 – scrivono i carabinieri – si potrebbe celare una “strategia globale” ispirata dalle multinazionali che producono i farmaci. Nel dossier investigativo vagliano il ruolo dell’Organizzazione mondiale della sanità, la massima autorità del settore, che in un documento del 2004 raccomandava di fare scorte di Oseltamvir (Tamiflu) prodotto dalla Roche. Dopo un anno anche in Italia cominciano a venire pubblicati articoli sull’epidemia in arrivo, “inevitabile ed imminente”. Si consiglia il vaccino per proteggersi comunque dall’influenza stagionale e l’uso di farmaci antivirali, incluso il Tamiflu, contro l’aviaria: in poco tempo le vendite del prodotto Roche aumentano del 263 per cento. Molte delle informazioni allarmistiche – sostengono i carabinieri – sono emerse da un convegno tenuto a Malta nel settembre 2005, sponsorizzato dalle aziende che confezionano vaccini contro l’influenza e farmaci antivirali. Due settimane dopo, c’è una correzione di tiro. L’Istituto Superiore di Sanità afferma che un ceppo virale di H5N1 “che potrebbe scatenare la prossima pandemia influenzale globale mostra di resistere al Tamiflu”, che tanti paesi cominciavano ad accumulare. Ed ecco la svolta, sottolineata da diversi articoli: «Fortunatamente, il ceppo virale non è però risultato resistente all’altro antivirale in commercio, Relenza della Glaxo». I carabinieri sostengono che l’allarme è stato alimentato nonostante di fatto non stesse accadendo nulla. Anche Candoli al telefono definisce la diffusione delle notizie «una forma di vero e proprio terrorismo informativo» ma poi commenta positivamente la vendita in un solo mese di un milione e mezzo di dosi di vaccino anti-influenza prodotto dalla sua azienda: «Anche certe industrie farmaceutiche che producono vaccini umani hanno un business mica da noccioline sebbene non ci sia nulla di diverso rispetto a sei mesi, un anno o addirittura cinque mesi anni fa. L’unica cosa di diverso è che adesso stanno ragionando sulla possibilità che vi sia una pandemia, che non è scritta da nessuna parte».

Aggressivo e ignorante, uguale: giornalismo, scrive Piero Sansonetti l'8 luglio 2016 su "Il Dubbio". Magari voi non ci crederete e penserete che la mia furia garantista mi porta a vedere le lanterne dove invece ci sono solo delle piccole lucciole. E invece quella che sto per raccontarvi è la pura verità: sull’«Espresso» on line c’è un articolo, firmato dal giornalista Lirio Abate, nel quale si sostiene che la scienziata Ilaria Capua - totalmente prosciolta l’altro giorno dall’accusa di traffico di virus che le ha rovinato vita e carriera - in realtà è colpevole - esattamente come gli untori dei quali parla “La colonna Infame” di Manzoni - perché così dicono le intercettazioni. Dopodiché, se provate a leggere l’articolo di Abate, non è che si capisca niente, come spesso succede a chi si trova di fronte a questi articoli pieni di misteriose intercettazioni e vuoti di grammatica e sintassi. Si capisce solo che il giornalista, invece di chiedere scusa a una poveretta che è stata travolta dalle calunnie, ha speso molti soldi, ha dovuto rinunciare al seggio in Parlamento e a varie occasioni professionali. E poi è fuggita all’estero perché non sopportava più l’aria fetida del forcaiolismo italiano... invece di chiedere scusa e ammettere che quella copertina dell’Espresso di un paio d’anni fa («Trafficanti di virus», a caratteri cubitali) era una boiata, cosa fa? Insiste, denigra, infanga, con quel metodo da 007 deviati che proprio non fa nessun onore al giornalismo italiano. Non è la prima volta che da queste colonne poniamo il problema. Possibile che la casta dei giornalisti, che è forse la casta più arrogante (ma anche parecchio ignorante) che c’è in Italia, non possa mai essere messa in discussione? Possibile che di fronte a un infortunio professionale così grave, come quello di avere attribuito reati che non si era nemmeno sognata di commettere a una delle maggiori scienziate italiane, nessuno senta il dovere, almeno, di ammettere l’errore e di provare in qualche modo a riparare? Noi giornalisti ci sentiamo al di sopra di ogni sospetto, insindacabili, invincibili e mandati da Dio per sferzare i cattivi. E riteniamo di avere, più ancora dei magistrati, il diritto di sparare valanghe di escrementi contro chi ci capita a tiro. Che giornalismo è, e che credibilità può avere, se non è capace di rispondere dei suoi errori, e se considera la forma massima di letteratura la copiatura (senza neanche messa in bella) delle intercettazioni ottenute da qualche inquirente che ha voglia di ingraziarsi (o di rovinare qualcuno)? Purtroppo è così. I quotidiani italiani (sui quali una volta scrivevano Scalfari e Jannuzzi, Stille e Cavallari, Levi e Sciascia e Calvino, e Montanelli e Barzini) ora sono pieni di articoli lunghissimi realizzati esclusivamente con la copiatura della carte sgrammaticatissime e con la firma in fondo. Talvolta la firma è anche prestigiosa.

Vogliamo rassegnarci a questo? L’impunità (dei giudici) è l’origine del maldigiustizia, scrive Piero Sansonetti l'8 luglio 2016 su "Il Dubbio". Vi confesso la mia perversione: tutte le mattine leggo “Il Fatto”. E ci trovo in genere due cose: indipendenza e fanatismo. Credo che la “chimica” (come si dice adesso) che ha prodotto il piccolo miracolo editoriale di Travaglio e Padellaro consista esattamente in questo: nel giustapporre due “elementi” così diversi tra loro e così contrapposti ma anche interdipendenti. La modernità dell’indipendenza e il medievalismo del giustizialismo. Il “Fatto” è indipendente perché non dipende da nessun potere economico. E in questo è molto solitario nel panorama della stampa italiana. Ed è sulla base del suo diritto all’indipendenza che fonda quella autolimitazione dell’indipendenza che è la caratteristica di tutti i fanatismi. I fanatismi spesso costruiscono sull’indipendenza dal potere la propria – volontaria - rinuncia all’autonomia, e cioè all’indipendenza del pensiero e del giudizio. Così fa il “Fatto”. E si auto-colloca in una posizione di subalternità all’ideale - quasi religioso – del giustizialismo e quindi anche alle forze più importanti che lo perseguono (magistratura sempre, talvolta servizi segreti, spesso settori della politica, e cioè 5 Stelle). Anche ieri era così. Per esempio nella difesa, non richiesta, dei magistrati romani (dei quali parliamo a pagina 6) che hanno perseguitato la scienziata Ilaria Capua e l’hanno spinta a lasciare il parlamento e anche l’Italia perché non sopportava più le calunnie e le accuse. Naturalmente la Capua è stata riconosciuta innocente, dopo svariati anni di persecuzione, anche perché è difficile che un magistrato ragionevole possa davvero pensare che una grande scienziata vada in giro a spargere il virus dell’aviaria per poi poter vendere meglio il vaccino (la storia è esattamente quella degli untori che nel seicento, a Milano, furono condannati dai giudici e uccisi col supplizio della ruota, perché considerati spargitori di peste bubbonica). “Il Fatto” però sostiene che è vero che è stata assolta dai reati di tentata epidemia e di traffico di virus, però l’accusa di associazione a delinquere è stata prescritta e dunque non c’è assoluzione. Per capirci, c’è il sospetto che la Capua non abbia commesso nessun reato salvo quello di realizzare una associazione a delinquere che però aveva la particolarità di non avere come scopo quello di commettere delitti! Capite bene che il ragionamento non regge molto. E difatti la prescrizione è puramente un fatto tecnico. Il reato era caduto in prescrizione e dunque il magistrato non ha potuto giudicare ma ha solo dovuto prendere atto della prescrizione. Certo, si poteva chiedere all’imputato di rinunciare alla prescrizione e così si riapriva il procedimento, si spendeva un altro bel gruzzoletto di soldi e poi – ovviamente – si assolveva. Del resto il processo alla Capua era costato solo pochi milioni (40 mila pagine di intercettazioni!!!). Vabbé, lasciamo stare. Travaglio però dice che la notizia di reato c’era e dunque era doveroso svolgere l’inchiesta, intercettare, consegnare le intercettazioni ai giornali, sputtanare la Capua e tutto il resto. E poi dice che a chiedere scusa «Dovrebbe essere solo la classe politica senza vergogna che continua ad allungare i tempi dei processi». In che modo la classe politica abbia potuto allungare il processo alla Capua (che in tre anni non è stata mai neppure interrogata...) non lo sa neanche Dio. Ma la bellezza del giustizialismo è questa, è questa la sua forza: essere indipendente (vedete che torna il concetto dell’indipendenza...), indipendente anche dalla ragione. Ci sono però dei problemi seri che emergono da queste polemiche. Primo, la validità dell’obbligatorietà dell’azione penale (prevista dal nostro ordinamento e anche dalla Costituzione, e che è indiscutibilmente una delle ragioni della lentezza della nostra giustizia). Secondo, il risarcimento delle vittime di processi sbagliati (quanto sarà costata alla Ilaria Capua, tutta questa vicenda processuale?) che non avviene quasi mai, o avviene in misura molto ridotta. Terzo la responsabilità civile dei giudici. La legge sulla responsabilità dei giudici è ancora del tutto inadeguata e tradisce palesemente il senso del referendum di trent’anni fa. I giudici (diciamo in modo del tutto particolare i Pm) restano l’unica categoria in grado di commettere errori marchiani senza risponderne alla società. Disse Enzo Tortora (come ricorda il libro bellissimo di Francesca Scopelliti in libreria da pochi giorni) che esistono tre sole categorie che non rispondono dei propri delitti: i bambini, i pazzi e i magistrati. Vogliamo dargli torto? La vicenda Capua torna a mettere sul tavolo questi problemi, che sono molto urgenti perché riguardano i diritti dei cittadini. Non sono problemucci, né sono semplici questioni di principio. Giorni fa il “Corriere della Sera” parlava di 24 mila casi di vittime della giustizia (passati da innocenti per le carceri italiane). E recentemente la “Stampa” ha calcolato in 7000 all’anno il numero degli imprigionati non colpevoli. Possibile che la politica italiana non trovi il coraggio di affrontare un problema così clamoroso solo perché terrorizzata dall’Anm?

Il caso Ilaria Capua: il merito di sapere chiedere scusa, scrive “Il Corriere del Giorno il 9 luglio 2016. Come fecero i radicali di Pannella nel caso Leone, ora i grillini dovrebbero ritrattare quanto hanno detto contro la scienziata ingiustamente perseguitata dalla giustizia. Storie di malagiustizia all’ italiana. Che accadono anche in Procura a Taranto….di Paolo Mieli. L’Italia ha scarsa considerazione per la scienza. Ne è prova l’incredibile vicenda di Ilaria Capua, la ricercatrice che per prima isolò il virus dell’aviaria e che, come ha raccontato ieri sul Corriere Gian Antonio Stella, di punto in bianco nel 2014 fu accusata di aver fatto ignobile commercio delle sue scoperte “al fine di commettere una pluralità indeterminata di delitti di ricettazione, somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica, corruzione, zoonosi ed epidemia”. Dopo essere stata accusata praticamente di tentata strage, per ventiquattro mesi fu pressoché ignorata dai giudici. Per essere infine prosciolta perché “il fatto non sussiste”. Ilaria Capua ha subito un torto dal sistema giudiziario del suo Paese. E non solo da quello. Ma qui da noi se uno scienziato subisce un’ingiustizia, sia pure un sopruso più che evidente, nessuno, possiamo starne certi, si sentirà in dovere di chiedergli scusa. Forse — per come ne conosciamo la storia — farà eccezione il settimanale L’Espresso che due anni fa decise di inchiodare la Capua in copertina alla stregua di una “trafficante di virus”. Forse. Il periodico aveva evidentemente ricevuto le “carte” da qualche magistrato o da qualche altro inquirente e non ebbe esitazione a puntare il dito contro la ricercatrice che, per giunta, era adesso anche una parlamentare del gruppo facente capo a Mario Monti. La deputata “grillina” Silvia Chimienti ne chiese le immediate dimissioni. Cose che sono capitate anche ad altri negli ultimi decenni. Del che qualcuno ha fatto ammenda, qualcun altro no. E i no sono infinitamente di più. Nei confronti degli scienziati — forse per il motivo di cui all’inizio, forse perché sono più indifesi, forse perché, a causa delle loro rivalità, non formano una comunità coesa — si è in genere restii a riconoscere torti (nostri) e ragioni (loro). Anche quando sono entrambi evidenti. Ilaria Capua ebbe la vita devastata dal combinato mediatico giudiziario. I colleghi deputati la abbandonarono al suo destino, i giornali anche. L’inchiesta, come spesso accade, fu “spacchettata” e finì nel nulla. Recentemente un’università americana le ha offerto un posto di grande prestigio, lei si è dimessa dal Parlamento e si è trasferita in Florida. Infine il proscioglimento, anche per reati che nel frattempo avrebbero potuto essere prescritti. Nulla di ciò che le è stato imputato “sussiste”. Già questo fa una certa impressione. Ma un dettaglio non può non aver colpito chiunque abbia letto con attenzione l’articolo di Stella. Lo trascriviamo per intero. “Lei ha visto il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo che avviò l’inchiesta?”, domandava Stella. “Mai. O meglio, nel 2007(molti anni prima della storia del traffico di virus, ndr.) per un’altra faccenda. Dove mi ero presentata per rendermi utile”, rispondeva Capua. “Ma in questi due anni?”, insisteva Stella. “Mai”. “Altri magistrati, forse?”. “Mai”. “Quindi non è mai stata interrogata?”. “Mai”. Abbiamo letto e riletto queste parole. E speriamo che le abbia lette anche il presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati Piercamillo Davigo. Di modo che abbia modo di spiegare, se crede, come è possibile che questo sia accaduto. E qual è la cosa grave? Non già che possa configurarsi un errore giudiziario e nemmeno che sia stata avviata un’inchiesta forse doverosa: tutte eventualità che la giustizia deve contemplare come possibili. Ma non è di questo che dovrebbero dare spiegazioni i rappresentanti della corporazione togata. Bensì di come sia concepibile che all’imputata non siano stati concessi neanche trenta secondi per offrire la propria versione dei fatti. In un periodo di tempo lungo oltre due anni, due anni nel corso dei quali la sua reputazione è stata fatta a brandelli, non c’è stato uno solo dei magistrati chiamati a occuparsi del caso che si sia premurato di darle ascolto. Ilaria Capua si è vista costretta a lasciare il suo incarico in Parlamento e la sua attività scientifica nel nostro Paese senza che si sia fatto vivo un solo magistrato per chiederle la sua versione sui terribili fatti per i quali era finita alla loro attenzione. Sorge in noi perfino il dubbio che ci stiamo occupando di ciò che è capitato a Ilaria Capua solo perché la conosciamo, appunto, per essere lei una scienziata di fama internazionale. E che ci siano chissà quante persone che hanno vicissitudini giudiziarie ancora più travagliate della sua senza che nessuno, neanche una volta, abbia deciso di ascoltare la loro voce. Qualcosa di ben diverso, ripetiamo e sottolineiamo, da un errore giudiziario o da un’indagine che non porta a nulla. Un ultimo elemento di questa vicenda può offrire uno spunto di riflessione al mondo della politica. Ieri all’alba la parlamentare del Movimento Cinque Stelle di cui si è detto poc’anzi, Silvia Chimienti (quella che aveva chiesto le dimissioni immediate) ha telefonato oltreoceano alla Capua per esprimerle il proprio rammarico per la sua presa di posizione di oltre due anni fa. Lei lo ha fatto. Altri no. Nelle riflessioni che facciamo ogni giorno sulle evoluzioni politiche del nostro Paese e in particolare sulla natura degli appartenenti al Movimento di Beppe Grillo, forse questo minuscolo episodio è degno di considerazione. Nel senso che quelli capaci di chiedere scusa — come fecero a suo tempo i radicali di Marco Pannella in merito alla campagna che nel 1978 aveva portato alle dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone (anche allora, per una pura coincidenza, coprotagonista L’Espresso) — guadagnano titoli di merito che rendono le loro posizioni rispettabili. E più resistenti all’usura del tempo. Commento tratto dal Corriere della Sera.

( CdG ) Pierantonio Zanettin consigliere laico del Consiglio Superiore della Magistratura  ha chiesto formalmente l’apertura di una pratica in Prima Commissione (disciplinare) per valutare se sussistano “profili di incompatibilità” nei confronti di Giancarlo Capaldo, l’Aggiunto della Procura di Roma che ha indagato per anni Ilaria Capua, la virologa italiana di fama mondiale che per prima ha isolato il virus H5N1 (influenza aviaria). La Commissione disciplinare del Csm dovrà verificare se la condotta del magistrato sia stata effettivamente “terza ed imparziale”. Quando la Capua, presentandosi per dirigere prestigioso dipartimento presso l’Emerging Pathogens Istitute dell’Università della Florida, informò i vertici del prestigioso ateneo americano, che in Italia per i reati contestati rischiava la condanna all’ergastolo, le venne risposto che conoscevano le accuse e che le ritenevano talmente campate in aria da non essere di loro interesse! Evidenziando in questo modo “grande” considerazione per gli inquirenti. Intervistata questa settimana da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, la Capua ha dichiarato che i magistrati, in questi anni, si sono sempre rifiutati di ascoltarla. Forse, pensiamo noi, per il timore che avrebbe potuto fornire giustificazioni ad accuse talmente lunari. Spazzando via un’insussistente “teorema” giudiziario accusatorio, costruito artificiosamente in anni di indagini costose. Il procedimento è lo stesso poi spacchettato nel 2015 e distribuito a varie procure in giro per l’Italia. L’ipotesi accusatoria – poi caduta – era che Ilaria Capua, responsabile del laboratorio di virologia dell’Istituto Zooprofilattico di Padova, centro di referenza nazionale, avesse collaborato alla cessione clandestina del virus H7N3 alla ditta Merial spa, una delle multinazionali di vaccini per animali. Ma c’è qualcos’altro di cui la magistratura deve chiedere scusa, e cioè di aver lasciato passare 9 anni prima di arrivare all’udienza preliminare, il 15 maggio 2015, davanti al Gup di Roma, dove il procedimento è stato scorporato per competenze diverse: un troncone è andato a Pavia, uno a Verona, il terzo a Padova. Pavia è scomparsa dai radar. A Verona il Gip Laura Donati ha deciso lunedì scorso per il proscioglimento, mentre a Padova, dove non figura Ilaria Capua, il pm Maria D’Arpa ha fatto la stessa richiesta ma il Gip non si è ancora pronunciato. A questo punto il Csm dovrà verificare se il procuratore Capaldo abbia esercitato il suo ruolo seguendo la Costituzione, e cioè con “imparzialità” e “terzietà”. Magari anche se abbia svolto “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini”, come recita l’art. 358 cpp. Nel frattempo il danno è fatto. La Capua lavorerà negli Stati Uniti. Ed un’altra indagine giudiziaria ad uso mediatica si è risolta in un costoso buco nell’acqua. A spese dei contribuenti e sulla pelle di una brava persona, di cui dovremmo essere fieri. Ma il Csm presto si dovrà occupare di un altro “caso”. Quello di Taranto, dove in presenza di ben 13 querele nei confronti di un giornalista la Procura non gli ha mai dato notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati facendogli eleggere domicilio e nominare un difensore. Ed adesso più di qualche magistrato della procura tarantina tornerà a “frequentare” la Procura di Potenza, anche questa volta come “indagato” c’è da augurarsi per il bene della giustizia, successivamente come “imputato”. Per una giustizia “giusta”!

Le mirabolanti avventure del pm Capaldo. Prima di dare dell’untrice alla scienziata italiana e averla indagata per “traffico di virus”, si era occupato per ben 32 anni del caso Orlandi, scrive di Giovanni M. Jacobazzi l'8 luglio 2016 su “Il Dubbio”. Merita di essere riletta l’intervista che nel 2013 il dott. Giancarlo Capaldo rilasciò a margine della presentazione del suo libro “Roma Mafiosa, cronache dell’assalto criminale allo Stato”. L’allora potentissimo procuratore aggiunto di Roma, alla domanda di Affari italiani se fosse necessaria una riforma della giustizia partendo proprio dal codice di procedura penale, rispose: «A vent’anni di distanza questo Codice ha dimostrato di non funzionare più. Anzi possiamo dire che è tra le cause delle lentezze del processo e non garantisce, con i suoi formalismi, i diritti della difesa com’era nelle intenzioni del legislatore dell’epoca». Non contento, rincarò la dose: «La storia giudiziaria recente è una storia di troppe prescrizioni derivanti da una inutile lentezza del dibattimento che non avvicina ma allontana la verità». Parole condivisibili in toto. Già nel 1763 Cesare Beccaria, scrivendo “Dei delitti e delle Pene”, affermò infatti la necessità che il processo fosse il più rapido possibile. Senonché, nello stesso momento in cui Capaldo rivendicava tempi processuali in linea con il dettame costituzionale del giusto processo, teneva “in sonno” in qualche armadio della sua cancelleria le 40.000 pagine del procedimento penale 24117/2016. L’ormai celebre procedimento penale per i reati di epidemia dolosa che ha visto fra gli indagati la virologa Ilaria Capua ed alcuni fra i massimi vertici del ministero della Salute e di alcune università italiane. Conclusosi questa settimana con l’assoluzione degli imputati perchè «il fatto non sussiste». E sulla cui vicenda giovedì il Consigliere togato Pierantonio Zanettin ha chiesto al Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura l’apertura di una pratica a carico proprio di Capaldo per «incompatibilità ambientale». Un passo indietro. Nel 2005 i carabinieri del Nas di Roma, seguendo una pista statunitense, si convincono di aver scoperto una associazione a delinquere finalizzata a speculare sulla vendita dei vaccini contro l’influenza aviaria. Dopo due anni di intercettazioni disposte da Capaldo, gli inquirenti ritengono che Ilaria Capua, virologa di fama internazionale, in quel momento responsabile del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Venezie sia la figura di spicco del sodalizio criminoso. Una scienziata classificata dalla rivista Scientific American tra i primi 50 al mondo e nota per aver isolato il virus H5N1, quello, appunto, dell’influenza aviaria. Nel 2007, quindi, l’indagine può dirsi conclusa. Ma, invece di chiedere come sarebbe normale il rinvio a giudizio, Capaldo inspiegabilmente “iberna” il fascicolo. Dopo 3 anni di silenzio e non avendo più notizie del fascicolo, il Nas di Roma nel 2010 sollecita, senza alcun risultato, Capaldo. Nel frattempo, a marzo del 2012, Giuseppe Pignatone è nominato nuovo procuratore di Roma. Ma il fascicolo che vede indagati i massimi vertici della sanità pubblica nazionale resta sempre sullo scaffale della cancelleria di Capaldo. Nell’aprile 2014, il momento di gloria dell’inchiesta. Scoop dell’Espresso: «La cupola dei vaccini», con pubblicazione delle carte del procedimento penale fino a quel momento “top secret”. A quel punto, pure gli avvocati degli indagati, fra cui appunto quelli della Capua, ormai esposta al pubblico ludibrio, chiedono a Capaldo una definizione del procedimento penale “stagionato”. Anche perchè, il ragionamento, o le accuse sono fondate e un’associazione a delinquere finalizzata ad avvelenare il Paese va messa nelle condizioni di non nuocere, o invece non reggono e allora gli indagati vanno subito affrancati dalla spada di Damocle giudiziaria. L’avviso di conclusione indagini e le richieste di rinvio a giudizio per i 40 indagati arrivano a giugno 2014. L’udienza preliminare, nel maggio dell’anno successivo, vede il gup dichiarare l’incompetenza territoriale di Roma, "spacchettando” il processo in tre tronconi. A Verona, Padova e Pavia. A Pavia molti reati arrivano già prescritti. Lo stesso a Padova, dove il pm chiede l’archiviazione per prescrizione (il gup non si è ancora pronunciato). A Verona, e siamo ai giorni scorsi, il gup pronuncia il non luogo a procedere perché "il fatto non sussiste" per la Capua. Il caso è chiuso. Dodici anni persi e milioni di euro spesi per attività investigative buttati. Ma Capaldo non è nuovo a perfomance del genere. A suo carico nel 2015 era stata già aperta una azione disciplinare da parte del Procuratore Generale della Cassazione Pasquale Ciccolo. L’Incolpazione: un figlio assunto alla Terna, società su cui Capaldo ha indagato e per cui non si è astenuto e ha pure chiesto l’archiviazione dopo 4 anni di “assoluta inerzia investigativa”. Un ritardo «senza svolgere qualsivoglia attività d’indagine e cagionando danno ingiusto agli indagati». Senza dimenticare l’indagine per la scomparsa di Emanuela Orlandi. La richiesta di archiviazione, dopo 32 anni di indagini, venne firmata l’anno scorso direttamente da Pignatone dopo che Capaldo aveva richiesto «la revoca dell’assegnazione del procedimento». Cosa altro aggiungere? Un desiderio. Che Capaldo, non più procuratore aggiunto e ormai prossimo alla pensione, si rilegga quando ha tempo la sua intervista.

Se non la capisci processala, scrive Vincenzo Vitale il 7 luglio 2016 su “Il Dubbio”. I casi di cronaca degli ultimi anni - da Ilaria Capua ai geologi e sismologi accusati di non avere previsto il terremoto dell’Aquila - parlano di un rapporto controverso. Negli ultimi anni si son verificate ipotesi abbastanza frequenti in cui Tribunali e Corti son stati chiamati a valutare il comportamento di scienziati di varia estrazione le cui omissioni o le cui inesattezze potevano in astratto costituire reato. L’ultimo in ordine di tempo quello della nota ricercatrice italiana Ilaria Capua, la quale, ben prima di essere assolta dalle imputazioni mosse dalla Procura in ordine all’uso di alcune sostanze ritenute pericolose (nella specie alcuni virus) aveva ben pensato di trasferirsi negli Stati Uniti. Ma non si tratta di un caso isolato. Qualche anno or sono, la Procura dell’Aquila mise sotto accusa alcuni scienziati – geologi e sismologi – imputando loro di non aver previsto con sufficienti sicurezza e anticipo, il grave terremoto che sconvolse l’Abruzzo. Ora, messa così la cosa, quale potrà mai essere il rapporto fra verità scientifica e verità processuale? Quale giustizia insomma potrà essere resa agli scienziati dei vari campi del sapere? Non si dice nulla di nuovo affermando che la verità scientifica è caratterizzata da alcuni requisiti che sono in sintesi:

1) oggettività: la verità scientifica è valida per tutti e ad ogni latitudine;

2) provvisorietà: la verità scientifica è sempre falsificabile, cioè suscettibile di essere sostituita da altra verità, vale a dire da altra teoria; 

3) riproducibilità: la verità scientifica è riproducibile, vale a dire può essere riprodotta in laboratorio un numero infinito di volte, conducendo sempre allo stesso risultato.

Al contrario, la verità del diritto, cioè la giustizia è caratterizzata da diversi requisiti: 

1) personalità: la giustizia viene sempre declinata a partire dalla persona che la amministri, per cui, come affermava Platone, un giudice ingiusto mai potrà rendere una sentenza giusta; 

2) definitività: una decisione resa in termini di giustizia lo è in modo tendenzialmente indefinito, vale a dire che fa stato nel futuro in modo illimitato (tranne particolarissime eccezioni); 3) singolarità: una sentenza non potrà mai essere uguale ad un’altra in modo meccanico e pedissequo, dal momento che non esistono nel mondo umano, due casi assolutamente eguali.

Come si vede, sembra trattarsi di grandezze fra loro, per dir così, incommensurabili, tali da non poter essere in alcun modo ricondotte ad unità. In effetti, proprio questo sembra essere accaduto all’Aquila quando il Tribunale in prima istanza ebbe a condannare sismologi e geologi, colpevoli a suo dire di non aver previsto con maggior precisione il terremoto, consentendo alla popolazione di mettersi in salvo. Che dire di questa decisione? Semplicemente, che sembra non essersi fatta carico per nulla della reale consistenza della verità della scienza. In altri termini, i giudici non hanno in modo sufficientemente chiaro percepito che gli scienziati imputati non potevano in nessun modo, usando gli strumenti a loro disposizione, dichiarare lo stato di emergenza atto a scongiurare gli effetti mortali del terremoto, senza timore di prendere un abbaglio tanto grossolano, quanto pericoloso per la incolumità pubblica in termini di panico diffuso ed incontrollabile. Lo proibiva loro non già una qualche indefinibile remora, ma lo statuto epistemologico medesimo della scienza da loro praticata. Uno scienziato degno di questo nome non potrà mai ad ogni evenienza sospetta lanciare un allarme tanto generalizzato quanto scientificamente dubbio o addirittura infondato: ed infatti la Cassazione tempo fa ha confermato la loro definitiva assoluzione da ogni addebito. Il caso dimostra in modo chiaro che l’errore dei giudici di primo grado fu dovuto ad un mancato rispetto delle caratteristiche proprie della verità scientifica, ad una loro pericolosa sottovalutazione. Se i giudici di primo grado avessero infatti tenuto presente che le teorie scientifiche sono caratterizzate necessariamente dai requisiti sopra in modo sintetico menzionati, allora si sarebbero ben guardati anche soltanto dall’accusare gli scienziati di colpe in realtà inesistenti. Per converso, in senso speculare, gli scienziati hanno invece rettamente interpretato le caratteristiche proprie della verità del diritto - la giustizia - proponendo impugnazione dopo la condanna di primo grado. Così facendo, essi hanno mostrato di ben comprendere che uno dei caratteri fondamentali della giustizia è dato dalla persona che sia chiamato ad amministrarla e perciò essi ben sapevano che gli stessi elementi processuali, se valutati da persone diverse, avrebbero condotto alla loro assoluzione: cosa che si è puntualmente verificata. Insomma, mentre i giudici di prima istanza hanno gravemente equivocato sullo statuto proprio della verità della scienza, gli scienziati si son mostrati ben consapevoli dello statuto proprio della giustizia ed hanno agito di conseguenza. Ne viene che verità della scienza e verità del diritto risultano perfettamente compatibili – nonostante la loro strutturale diversità – sotto il profilo del reciproco rispetto loro dovuto da tutti e da ciascuno nell’ambito delle rispettive operatività. Se invece, come accaduto da parte dei giudici di prima istanza dell’Aquila, chi amministri la giustizia ignora quei requisiti o li sottovaluta, allora il rischio è commettere ingiustizia, perché il diritto non riesce a calibrarsi sulla verità della scienza. Le due verità stanno l’una di fronte all’altra. Debbono riconoscersi e rispettarsi a vicenda. E questo non sempre si comprende.

LA RETORICA COLPEVOLISTA DELLA GIUSTIZIA MEDIATICA.

La retorica colpevolista della giustizia mediatica, scrive il 17 dicembre 2015 l’Unione delle Camere Penali Italiane. "La giustizia mediatica ha assunto dimensioni e incisività tali da offrire uno scenario processuale alternativo a quello legale, capace di radicarsi profondamente nell’immaginario collettivo." Nel suo inedito editoriale il Prof. Amodio interviene sulla degenerazione della giustizia mediatica analizzandone le cause e la necessità di porre limiti alla invadenza del giornalismo giudiziario. La retorica colpevolista della giustizia mediatica. L’onda impetuosa dei media si abbatte sul processo penale e ne deforma lo scenario fino a renderlo irriconoscibile persino a chi, come difensore, ha vissuto in prima persona le vicende giudiziarie che la stampa e la televisione scelgono di raccontare. E’ un fenomeno ben noto e da anni sottoposto al filtro di un dibattito tanto serrato, quanto improduttivo. Per di più negli ultimi tempi sta crescendo attorno alle distorsioni della giustizia mediatica una barriera protettiva che talvolta lascia il posto ad una sorta di filosofia della rassegnazione, quasi che si avesse a che fare con calamità naturali, al pari delle periodiche alluvioni generatrici di smottamenti di terreno fangoso. Tra i paladini della intangibilità della cronaca giudiziaria, c’è una parte del ceto politico che denuncia come intollerabile bavaglio qualsiasi proposta di arginare l’invadenza dei media. E nel partito dei rassegnati bisogna registrare quei giuristi che, pur riconoscendo gli effetti devastanti dell’informazione giudiziaria, alzano le braccia al cielo e auspicano un’autodisciplina dei giornalisti, ritenendo inconcepibile qualsiasi divieto. Infine, c’è una giurisprudenza a dir poco paradossale che fissa una regola azzeratrice di ogni possibile reazione di fronte alle deformazioni del giornalismo giudiziario perché esse sarebbero prive di qualsiasi impatto negativo sulle garanzie processuali. Siamo quindi di fronte ad un ventaglio di veti, rinunce e miopie che culminano nella negazione della patologia: i media alterano, stravolgono, sfigurano l’estetica della giustizia penale, ma non fanno male. Lo ha detto di recente una sentenza della Corte di cassazione in tema di rimessione del procedimento affermando che «le campagne stampa quantunque astiose, accese e martellanti o le pressioni dell’opinione pubblica non sono di per sé idonee a condizionare il giudice, abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che sia menomata la sua indipendenza» (Cass. Sez. V, 12.5.2015, Fiesoli). E’ lo stereotipo del giudice con la corazza, insensibile ad ogni perturbazione esterna perché protetto dalla sua olimpica saggezza. Ma non basta. La stessa sentenza continua sostenendo che «anche il debordare della cosiddetta giustizia spettacolo, il vedere pagine di giornali o intere puntate di talk show occupate da vicende giudiziarie ancora in corso in cui si sviscerano tesi su tesi, talvolta fantasiose spesso l’una contraria all’altra, ha finito per diventare un fenomeno talmente normale che nessuno ci fa più caso». Qui c’è la sterilizzazione dell’inquinamento da overdose di informazione giudiziaria anche con riguardo all’opinione pubblica, che si immagina rinchiusa nel bozzolo di una assoluta imperturbabilità. Il nostro paese sarebbe dunque sul piano mediatico l’isola dell’ingiusto processo. Per tutto il resto dell’Europa valgono le regole messe a punto dalla Corte di Strasburgo secondo cui l’imparzialità dei tribunali garantita dall’art. 6 CEDU non consente ai giornalisti di formulare «dichiarazioni che risulterebbero idonee, intenzionalmente o no, a ridurre le chances per una persona di beneficiare di un processo equo» (sentenza Worm c. Austria, 29 agosto 1997) e tali da scalzare la fiducia dei cittadini nella amministrazione della giustizia. A configurare la violazione del diritto al fair trial basta il pericolo concreto di una lesione della imparzialità del giudice (Dupuis c. Francia, 7 giugno 2007, § 44). In Inghilterra, poi, è prevalente il modello della presunzione di offensività conseguente al solo fatto della pubblicazione di notizie rilevanti per il processo penale, in base alla disciplina del contempt of court, mentre nella common law statunitense si ritiene necessario l’accertamento in concreto dell’effetto lesivo delle notizie divulgate, anche se è ancora vivo l’insegnamento del giudice Brennan secondo cui «non si può seriamente dubitare che l’incontrollata pregiudizievole pubblicità prima del dibattimento possa distruggere la fairness di un processo penale» (Nebraska Press Association v. Stuart, 1976). Si può davvero pensare, dunque, che solo in Italia il giudice sia insensibile alla stampa colpevolista e il pubblico legga i giornali e guardi la tv con l’animo distaccato di chi finisce per sonnecchiare davanti allo spettacolo della marcia vittoriosa dei pubblici ministeri verso la sconfitta del crimine? E’ proprio vero invece che nel nostro paese la giustizia mediatica ha assunto dimensioni e incisività tali da offrire uno scenario processuale alternativo a quello legale, capace di radicarsi profondamente nell’immaginario collettivo. Basta pensare alla crescita esponenziale dell’agire comunicativo, ormai affrancato dai canoni della oggettività in una sequenza evolutiva impressionante: dalla cronaca al commento; dal commento alle ricostruzioni; dalle ricostruzioni alle inchieste parallele che si sovrappongono alle indagini della magistratura e nelle quali prevale lo spettacolo in ossequio alla tirannia dell’audience. Ormai con la sua invadenza il giornalismo giudiziario ruba la scena alla giustizia in toga. E impone il suo «statuto» che ribalta i principi su cui si regge il giusto processo. Anzitutto mediante la delocalizzazione, che privilegia le investigazioni rispetto al dibattimento, una fase troppo piena di oscillazioni causate dalla dialettica tra accusa e difesa per essere rappresentata come monolite colpevolista. La giustizia mediatica si nutre così di approssimazioni conoscitive e le trasforma in verità consacrate istillando nell’opinione pubblica l’idea della certezza a proposito di risultati che sono invece provvisori e non spendibili nel giudizio. In questo modo trionfa la retorica della colpevolezza che si alimenta della farina tratta dal sacco del pubblico ministero, nella ricerca di una perentorietà espressiva sulle acquisizioni delle indagini volta a placare l’ansia collettiva generata dall’allarme per i fatti criminosi. Deviazione del campo visivo e artificiosa rappresentazione di congetture elevate a verità sono i due pilastri su cui è edificata la presunzione di colpevolezza nella giustizia mediatica. Mentre la magistratura indaga e affronta con paziente analisi la lettura del quadro indiziario, la stampa lancia i suoi titoli in cui l’inquisito è «inchiodato» dal video di un anonimo furgone che attraversa un incrocio, dai monosillabi captati in una intercettazione telefonica ovvero dalle risultanze di uno screening di massa del DNA. Come si può negare l’impatto del convincimento mediatico colpevolista? Ne ha riconosciuto la portata deviante persino la stessa Cassazione nella sentenza sul processo di Perugia quando ha affermato, annullando la condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, che proprio la pressione mediatica aveva indotto gli inquirenti ad imboccare scorciatoie per consegnare al luccichio dello schermo televisivo l’immagine dei due ragazzi colpevoli. E’ dunque ormai tempo di mettere mano ad una politica dei limiti e dei divieti nei confronti dei media. Lo sappiamo tutti che ai pubblici ministeri fa comodo giovarsi della cronaca colpevolista, ma i togati della giudicante non sono sulla stessa lunghezza d’onda. Essi avvertono il fastidio e il disagio di veder offuscato il loro ruolo quando la televisione investe di funzioni oracolari il conduttore del talk show che pronuncia la sentenza di condanna in nome del popolo dei telespettatori. Cominciamo a chiudere le porte di quei salotti televisivi in cui sedicenti esperti ovvero familiari delle vittime, animati da comprensibile revench punitiva, si esibiscono in un coro colpevolista contro indagati in processi pendenti. Poi si potrà pensare a misure appropriate a ricondurre il giornalismo giudiziario al pieno esercizio del suo potere di esercitare una penetrante attenzione critica sulle modalità di funzionamento della giustizia penale con un equilibrio che impedisca alla libertà di stampa di trasformarsi nella pietra tombale della presunzione di innocenza.

ASSOLTI. PERO’…

Assolti? C’è sempre un però, scrive Michele Ainis su “Il Corriere della Sera” l’11 novembre 2015. E go te absolvo, sussurra il prete dietro la grata del confessionale. Ma se lo dice il giudice allora no, non vale. In Italia ogni assoluzione è un’opinione, per definizione opinabile o fallace; e d’altronde ogni processo è già una pena, talvolta più lunga d’un ergastolo. Ultimo caso: Calogero Mannino. L’ex ministro democristiano arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa, prosciolto 25 anni più tardi dalla Cassazione, dopo una giostra d’appelli e contrappelli, dopo 22 mesi di detenzione, dopo la gogna e la vergogna. E adesso assolto di nuovo in primo grado nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Reazioni: sì, però... C’è sempre un però, c’è sempre una virgola della sentenza d’assoluzione che si lascia interpretare come mezza condanna (in questo caso l’insufficienza delle prove), o magari c’è una dichiarazione troppo esultante del prosciolto, un suo tratto somatico tal quale la smorfia di Riina, una corrente d’antipatia che nessun verdetto giudiziario riuscirà mai a sedare. Mannino sarà anche innocente, però non esageri, ha detto l’ex pm Antonio Ingroia in un’intervista a Libero. Lui invece esagera, come fanno per mestiere i romanzieri; e infatti ci ha promesso in dono un romanzo col quale svelerà le intercettazioni di Napolitano. Peccato che pure stavolta ci sia di mezzo una sentenza, oltretutto firmata dal giudice più alto. Giacché nel 2013 la Corte costituzionale - per tutelare la riservatezza del capo dello Stato - impose l’immediata distruzione dei nastri registrati, e dunque i nastri sono stati inceneriti, anche se nessuno può incenerire la memoria di chi li ascoltò a suo tempo. Come Ingroia, per l’appunto. Risultato: la Consulta ha sancito l’innocenza «istituzionale» dell’ex presidente, l’ex magistrato ne dichiara la colpa. Risultato bis: anche in questo caso non conta il giudizio, conta il pregiudizio. Potremmo aggiungere molte altre figurine a quest’album processuale. Potremmo rievocare le maestre di Rignano: nel 2006 imputate di violenza sessuale sui bambini, assolte per due volte in tribunale, però sempre colpevoli secondo i genitori, tanto che hanno smesso d’insegnare. O altrimenti potremmo citare il caso di Raffaele Sollecito: assolto anche lui per il delitto di Perugia, dopo un ping pong giudiziario di 8 anni; qualche giorno fa vince un bando della Regione Puglia per creare una start up, e s’alzano in coro gli indignati. Insomma, alle nostre latitudini l’unica prova certa è quella che ti spedisce in galera, non la prova d’innocenza. E allora la domanda è una soltanto: perché? Quale virus intestinale ci brucia nello stomaco, trasformandoci in un popolo incredulo e inclemente? Chissà, forse siamo colpevolisti perché abbiamo perso l’innocenza: la nostra, non la loro. Perché siamo vecchi e sfiduciati, dunque non crediamo più nei giudici come nei partiti, come nei sindacati, come nelle chiese. Perché la giustizia ci ha deluso, e in effetti la storia è costellata d’errori giudiziari. Però sono più i dannati dei salvati: Dreyfus (Francia, 1894), Sacco e Vanzetti (Usa, 1927), Girolimoni (sempre nel 1927, ma in Italia), Valpreda (1969), Tortora (1983). Altrettante vittime innocenti d’uno strabismo processuale, nonostante il doppio grado di giudizio, nonostante il riesame in Cassazione. Domanda: ma se una sentenza può sbagliare, perché a un certo punto diventa inappellabile? Risposta: perché la verità assoluta non è di questo mondo, perché dobbiamo contentarci di verità parziali, convenzionali. E perché il diritto tende alla certezza, non alla comprensione filosofica. Quando ci rifiutiamo di prenderlo sul serio, quando respingiamo i suoi verdetti, la nostra insicurezza diventa ancora più acuta. 

Incubo carcere preventivo: quattro milioni di innocenti. In 50 anni troppe vittime hanno subìto l'abuso della detenzione. E i pm insistono nonostante le nuove regole. Il caso di Mantovani, scrive Andrea Camaiora Mercoledì 11/11/2015 su “Il Giornale”. La carcerazione preventiva recentemente inflitta all'ormai ex vicepresidente di Regione Lombardia Mario Mantovani offre tristemente un nuovo spunto per affrontare l'annosa questione della carcerazione preventiva. Qual è la situazione nel nostro Paese? Nel 2009, il numero dei detenuti in custodia cautelare era di 29.809, pari al 46% del totale della popolazione carceraria; il dato di oggi è di 18.622, il 34,5%. Questi dati rivelano come troppe volte l'applicazione della custodia cautelare non costituisca l'extrema ratio, così come previsto dalla nuova disciplina in merito voluta dal Guardasigilli, Andrea Orlando, ma assuma connotati diversi, come quelli di un'anticipazione della pena. In molte occasioni i destinatari di misure cautelari personali vengono, dopo anni, assolti: i numeri parlano chiaro, dal 1991, lo Stato ha pagato quasi 600 milioni di euro a più di 20 mila persone per riparazione per ingiusta detenzione, anche per effetto di sentenze definitive che hanno assolto persone che erano state arrestate. Negli ultimi 50 anni, 4 milioni, ebbene sì, 4 milioni di cittadini sono stati prima dichiarati colpevoli, quindi arrestati e infine rilasciati perché innocenti. Dal 1991 al 2012 lo Stato ha dovuto spendere 600 milioni di euro per risarcire chi è stato indebitamente arrestato. E il dato ulteriormente negativo è che questa dinamica non accenna a diminuire, anzi aumenta. Nel 2014 le somme spese dallo Stato per le riparazioni per ingiusta detenzione sono aumentate del 41% rispetto al 2013. La nuova normativa è più che limpida sull'imposizione o meno della detenzione carceraria. Per giustificare il carcere, il pericolo di fuga o di reiterazione del reato non deve essere soltanto concreto ma anche «attuale». Il giudice non può più desumere il pericolo solo dalla semplice gravità e modalità del delitto. Per privare della libertà una persona l'accertamento dovrà coinvolgere elementi ulteriori, quali i precedenti, i comportamenti, la personalità dell'imputato. Anche gli obblighi di motivazione si sono intensificati. Il giudice che decide per il carcere non potrà infatti più limitarsi a richiamare gli atti del pm, ma dovrà dare conto con autonoma motivazione delle ragioni per cui anche gli argomenti della difesa sono stati disattesi. Sono aumentati da 2 a 12 mesi i termini di durata delle misure interdittive (sospensione dell'esercizio della potestà dei genitori, sospensione dell'esercizio di pubblico ufficio o servizio, divieto di esercitare attività professionali o imprenditoriali) per consentirne un effettivo utilizzo quale alternativa alla custodia cautelare in carcere. È cambiata anche la disciplina del Riesame. Il tribunale della Libertà ha tempi perentori per decidere e depositare le motivazioni, pena la perdita di efficacia della misura cautelare. Che, salvo eccezionali esigenze, non può più essere rinnovata. Il collegio del Riesame deve inoltre annullare l'ordinanza liberando l'accusato quando il giudice non abbia motivato il provvedimento cautelare o non abbia valutato autonomamente tutti gli elementi. Tempi più certi anche in sede di appello cautelare e in caso di annullamento con rinvio da parte della Cassazione. Con questo quadro di riferimento, colpisce assai non una voce critica rispetto al provvedimento subito da Mantovani: molte e autorevoli sono state infatti le prese di posizione. Semmai ciò che si sente sempre più forte è il silenzio, l'assenza di autocritica dei cantori della manetta facile, della condanna in piazza e anche di coloro che, siamo in tanti, credono nel rigore e nella serietà della magistratura. Il tutto perché c'è chi sta leggendo questo articolo e chi - come Mantovani, ma non solo lui - si trova sottoposto a carcere preventivo da circa un mese.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Gli errori fatti dai giudici? Ecco quanto ci sono già costati, scrive Franco Bechis, su “Libero Quotidiano”. È una piccola città, composta da 22.689 cittadini italiani censiti al 24 settembre 2014. E in questo momento assai vicina alle 24 mila persone. Sono i perseguitati dalla giustizia italiana, cittadini mandati dietro alle sbarre senza motivo dal 1992 ad oggi. Errori dei pubblici ministeri, che hanno fatto scattare le manette ai loro polsi prendendo un abbaglio. Non un errore casuale: una città. Probabilmente le vittime della giustizia sono ancora di più, perché il tristissimo elenco numerico è compilato dal ministero dell’Economia: i ventiquattromila sono quelli che dopo avere subito l’ingiusta detenzione non si sono limitati ad accettare le scuse, ma hanno avuto la possibilità di pagarsi un avvocato, fare ricorso e ottenere un risarcimento. Per questo il loro elenco è conservato da Pier Carlo Padoan e non dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando: le casse dello Stato hanno dovuto pagare loro, per l’errore e spesso la sciatteria dei magistrati, la bellezza di 567 milioni di euro dal 1992 ad oggi. Ogni anno c’è un migliaio di casi così, qualche volta anche il doppio. E il Tesoro è costretto a sborsare 20, 30, 40 perfino 55 milioni di euro l’anno per mettere una toppa ai guai combinati da magistrati faciloni: è diventato un problema di finanza pubblica. Questo conto è assai salato perché lo è il risarcimento a chi è stato in carcere ingiustamente anche solo in custodia cautelare. Ma sale per le casse dello Stato accompagnato dai risarcimenti per la legge Pinto sulla ingiusta durata dei processi, dalle condanne continuamente ricevute dall’Unione europea per lo stesso motivo e per l’incredibile ritardo con cui vengono pagati anche quei risarcimenti alle vittime della mala giustizia. Oltre a quella piccola città - evidenziata nella tabella qui in pagina - c’è anche un’altra cifra che fa tremare le vene ai polsi: 30,6 milioni di euro che lo Stato ha dovuto pagare negli stessi anni a 100 vittime di errori giudiziari: casi in cui non solo hanno sbagliato pm, gip, tribunali del riesame, ma anche le corti di primo e secondo grado e perfino la Cassazione. Sentenze divenute definitive, e poi un nuovo evento, magari una confessione improvvisa, svelano che il colpevole era invece innocente. I risarcimenti dipendono dai mesi o anni di carcere ingiusto patito, ma queste come le altre cifre sono la vera vergogna della giustizia italiana. Casi che sembravano negli anni scorsi per lo meno ridursi, e che invece nell’ultimo biennio sono tornati a lievitare. In tutto il 2013 erano 24,9 milioni i risarcimenti pagati per ingiusta detenzione. In otto mesi e mezzo dell’anno successivo si era già a 22,2 milioni di euro, e probabilmente l’anno si è chiuso sopra i 29 milioni di euro. Da fonti ufficiose abbiamo appreso che la stessa voce al 30 luglio 2015 era già arrivata a 20,9 milioni di euro di risarcimenti pagati. Con quel trend quest’anno si chiuderà intorno ai 35 milioni di euro. Al ministero custodiscono gelosamente la divisione per uffici giudiziari di questi casi. Ma da fonti attendibili abbiamo saputo che ai vertici della classifica si trovavano procure ben note alle cronache giudiziarie. I risarcimenti avvengono normalmente 4-5 anni dopo gli errori, e fino al 2013 ai primi posti di questa classifica del disonore c’erano gli uffici giudiziari di Potenza, poi soppiantati nel 2014 e soprattutto nel 2015 dagli uffici giudiziari di Napoli. Chissà se è l’effetto del passaggio da una procura all’altra di un pm protagonista di indagini che hanno fatto molto discutere (e portato a scarsi risultati processuali) come John Henry Woodcock. Ma il dato numerico è proprio quello. Nella tabella del ministero esiste una voce in uscita, ma non una in entrata. Chi ha compiuto quegli errori giudiziari non paga un centesimo di quello che lo Stato deve versare. Spesso non paga nemmeno sotto il profilo disciplinare, nonostante la legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Il fatto è che quasi sempre questi incredibili casi vengono trattati nascondendo la polvere sotto classico tappeto di casa. I magistrati sbagliano, ma non pagano. A settembre proprio questo sarà uno dei temi principali da affrontare sulla giustizia. Il Nuovo Centrodestra ha depositato alcuni emendamenti a un disegno di legge governativo che rendono obbligatoria l’azione disciplinare nei confronti di qualsiasi magistrato abbia causato un risarcimento per ingiusta detenzione o un errore giudiziario. Il Pd sta facendo resistenza, a difesa della corporazione dei magistrati e fregandosene di quella città di vittime della giustizia. Ma la battaglia è all’inizio.

Fbi, il grande inganno degli esami truccati per incastrare gli imputati. Bufera sugli investigatori americani. I controlli sospetti hanno ingiustamente mandato a morte 32 persone, scrive Vittorio Zucconi su “La Repubblica”. Morire per un capello, nell'illusione della pseudoscienza investigativa piegata agli imperativi della politica e di indagini che devono produrre un colpevole a tutti i costi e persino ucciderlo: è la morale raggelante della scoperta che l'Fbi ha sopravvalutato, male interpretato o addirittura truccato per anni migliaia di "prove" costruite sull'esame dei capelli. Prima che la genetica smentisse, con gli esami del Dna, decine di sentenze rivelando l'innocenza dei condannati, il Federal Bureau of Investigation aveva individuato nei capelli trovati sui luoghi del delitto, più attendibili delle controverse impronte digitali, una della direttissime per identificare i responsabili. Ma dopo un riesame minuzioso condotto dalla Associazione Nazionale degli Avvocati Difensori, la Nacdl, e dal "Progetto Innocenza", emerge che l'Fbi ha barato quasi sempre a favore dell'accusa utilizzando l'esame microscopico dei capelli. Trentadue imputati furono condannati a morte e quattordici di loro giustiziati, sulla base di queste presunte prove truccate. L'espressione che l'inchiesta condotta sui processi prima del 2000 e pubblicata ieri dai media americani come il Washington Post è volutamente cauta, per non creare l'impressione che la massima agenzia investigativa del governo federale e la sola nazionale bari al gioco terribile della verità giudiziaria: l'Fbi ha overstated, si dice, ha esagerato, ha sopravvalutato le evidenze probatorie cercate con il microscopio nei capelli e nei peli sui luoghi del delitto, offrendo agli investigatori, all'accusa, alle giurie popolari certezze che certezze non erano. Ma le parole non possono cambiare i numeri che sono raggelanti. Nei 268 casi nei quali i capelli sono stati usati contro l'imputato l'Fbi ha portato in dibattimento prove che non erano prove, elementi fasulli. Nel 95 per cento dei casi studiati, l'errore è andato a favore dell'accusa, contribuendo alla sentenza di colpevolezza. Soltanto raramente l'errore, che sempre e comunque è possibile, ha portato all'assoluzione. Sono dati, comunque parziali perché ancora le polizie e le procure della repubblica rifiutano di aprire gli archivi su 1200 processi, che tendono a confermare il classico sospetto di ogni avvocato difensore e di ogni imputato, che la macchina investigativa, l'apparato della Giustizia siano costruiti intenzionalmente non per portare alla determinazione della colpevolezza o della non colpevolezza, ma per raggiungere a ogni costo una sentenza di condanna. L'Fbi, che dopo i decenni della implicita, autocratica certezza di infallibilità che il suo creatore e zar, J. Edgar Hoover aveva creato con instancabile propaganda, ha risposto, insieme con il Ministero della Giustizia, che il Bureau, come tutti i magistrati inquirenti e i tribunali "sono fortemente impegnati a perfezionare e rendere ancora più accurate le analisi dei capelli, così come l'applicazione di tutte le scienze forensi ". Mentre tutti i condannati in processi basati sull'esame dei capelli saranno informati dei possibili errori giudiziari. Un impegno che sarà di poco conforto per i quattordici uomini già passati attraverso le camere della morte nei penitenziari. La rivelazione, che si aggiunge alle vicende di detenuti, alcuni addirittura da anni nei bracci della morte, scagionati completamente dai nuovi test sul Dna, non certifica la fallibilità dei test sui capelli, ma fa di peggio: insinua il dubbio che l'Fbi, come le Procure, le polizie, la pubblica accusa giochino a carte truccate pur di ottenere prima l'incriminazione e poi la condanna dell'accusato. E così giustificare davanti a elettori che chiedono "giustizia" indagini e celebrazioni di processi, valutate positivamente soltanto se portano a una condanna. I prosecutor, i magistrati dell'accusa, sono misurati in funzione delle sentenze di colpevolezza che riescono a ottenere. Il principio del dubbio pro reo, che deve valere nelle aule di giustizia quando il procedimento è pubblico, non vige nei laboratori delle analisi scientifiche dove, se questi dati sono concreti, sembra funzionare l'esatto opposto: nel dubbio, si va contro il presunto reo. Un dubbio che apre un altro, amarissimo capitolo nell'amministrazione della Giustizia anche nelle nazioni apparentemente più garantiste e rispettose dei diritti dell'accusato e dell'imputato. Che siano i soldi e non la scienza ha determinare l'esito di un procedimento. Nel sospetto che anche le prove e gli indizi qualificati con la solennità della scienza siano piegati alla soggettività di chi investiga e conduce l'accusa "nel nome del popolo", la difesa deve ricorrere a controanalisi e controperizie capaci di confutare, o almeno di mettere in discussione le conclusioni degli accusatori. Un diritto che ha un enorme e ovvio limite nei costi: non tutti gli imputati possono permettersi le batterie di contro analisi forensi e quelli che non possono si devono affidare al lavoro di agenzie governativa teoricamente al di sopra delle parti. Una semplice, quanto evidente spiegazione del perché sia molto più facile mandare in carcere o al patibolo i poveri e sia più facile scampare, per i ricchi. Eppure anche i meno ricchi pagano le tasse che finanziano il lavoro dei funzionari governativi che li trascinano in carcere tirandoli per i capelli.

Ed in Italia?

C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».

 M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.

Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.

COLPA DEI PROCESSI INDIZIARI...

Colpa dei processi indiziari. Colpa dei processi indiziari (se c'è chi sbaglia a indagare, a periziare, a sentenziare... e troppi innocenti vengono spediti in carcere e uccisi psicologicamente sui media). Gli sbagli della giustizia moderna denunciati dal dottor Imposimato già sei anni fa...Colpa dei processi indiziari. Di Ferdinando Imposimato su “Albatros Volando Controvento” del 28 dicembre 2015. Bisogna anzitutto partire da un dato. Nella realtà processuale, nell’esame dei diversi casi giudiziari, esistono due verità antitetiche: una verità reale e una processuale. Queste due verità non coincidono quasi mai. L’obiettivo fondamentale del giudice consiste nel fare emergere la verità storica, affinché tra questa e il giudizio finale vi sia una perfetta coincidenza. Questo risultato, tuttavia, difficilmente viene raggiunto per una serie di ragioni sia di ordine processuale che professionale. L’aspetto drammatico del processo è che il giudice, nel conflitto tra le due verità, è tenuto a seguire soltanto e semplicemente quella processuale. Questa contraddizione può manifestarsi in due modi: il giudice può avere la convinzione morale della colpevolezza della persona imputata nei confronti della quale però manchino le prove o queste non siano sufficienti. In questo caso il giudizio non può che essere di assoluzione. Nel secondo caso, il giudice può avere l’intima convinzione dell’innocenza di una persona, ma le prove processuali – testimonianze, riconoscimenti, perizie – depongono contro l’imputato. La conseguenza è drammatica: la condanna di un imputato è “giusta” sul piano processuale ma ingiusta su quello sostanziale. E’ la tragedia dell’Enrico VIII di Shakespeare, nella quale il duca di Buckingham, condannato a morte per le accuse calunniose dei suoi servi, non impreca contro i giudici ma ne accetta il verdetto: “Non nutro rancore contro la legge per la mia morte: alla stregua del processo essa doveveva infliggermela, ma desidero che coloro che mi hanno accusato divengano più cristiani…”. Il giudice deve decidere solo in base alle emergenze processuali. Anche se intuisce la verità reale, egli ha l’obbligo di applicare la legge, quindi di tener conto delle risultanze processuali che molto spesso, portano lontano dalla verità reale. Rispetto a quest’ultima, le deviazioni sono dipendenti da diversi fattori: da errori dei testimoni nella percezione della verità (si confonde una persona con un’altra), degli investigatori nella ricerca delle prove, dei periti nella ricostruzione di un fatto storico, del giudice nell’esercizio del metodo deduttivo con il quale si risale da un fatto certo ad un altro fatto. Una deviazione assai frequente della verità storica è quella che nasce da perizie medico legali e psichiatriche errate. Nel caso di un delitto con autore ignoto e con molti sospettati, l’affermazione da parte del perito medico legale che si tratta dell’opera di un sadico, di un maniaco sessuale che ha certe caratteristiche fisiche e psichiche (si presume in alcuni casi di definire l’altezza e la corporatura dell’ignoto autore!!), unita alla conclusione del perito psichiatrico che la persona soprattutto è un soggetto che ha quelle caratteristiche descritte dal medico legale, producono come conseguenza pericolosa l’errore del giudice. Nella mia non breve esperienza, non è stato infrequente l’errore dei periti psichiatrici d’ufficio (cioè nominati dal giudice) nell’accertamento della “capacità di intendere e/o di volere di un soggetto”. Sovente essi hanno affermato che il soggetto rientrava in una certa categoria che era proprio quella nella quale il pubblico ministero aveva collocato l’autore del delitto. Ma non è stato raro il caso del privato che ha assecondato l’orientamento sbagliato della pubblica opinione. I periti, insomma, compiono spesso il loro lavoro sotto la spinta di fattori emotivi, di elementi extrascientifici che li conducono a conclusioni lontane dalla verità. E questa è una delle cause più frequenti dell’errore giudiziario. Non mi riferisco soltanto ai periti psichiatrici, ma anche a quelli balistici, grafici, ai medici legali in genere. Le perizie, specialmente nei grandi processi, sono un dato costante della ricerca della verità. Molto spesso allontanano dalla verità perché compiute da persone che non sono in grado di far bene il proprio lavoro – anche se solo raramente si tratta di persone in malafede. Esempio classico: nell’esame ordinato per l’omicidio del giudice Emilio Alessandrini ci fu un perito che affermò, con certezza assoluta, che l’arma che aveva sparato il proiettile mortale contro il giudice era una certa pistola. Siccome questa pistola proveniva da un certo terrorista, che era un uomo che aveva commesso un altro omicidio, il giudice disse: “Questo è l’uomo che ha ucciso Alessandrini”. Senonché, a distanza di quattro o cinque anni, venne fuori il vero assassino che confessò, aggiungendo di aver sparato con un’altra pistola. Altri periti, in seguito, confermarono che il primo aveva sbagliato. Da allora mi resi conto che quell’uomo avrebbe potuto subire un ergastolo per via di una perizia sbagliata, e che se non fosse venuto fuori il vero autore dell’omicidio, quell’errore non sarebbe mai stato scoperto. Ma il problema è che non sempre vengono fuori i veri autori di un crimine. Molto spesso, poi, il giudice non è in grado – un po’ per incapacità, un po’ per superbia, un po’ per gli errori altrui – di cogliere l’errore. Di qui le tragedie che si verificano: il numero degli errori giudiziari è molto superiore a quello che viene normalmente percepito nella realtà. Un’altra causa molto frequente di errore è costituita dai riconoscimenti personali: è molto facile che siano sbagliati. Nell’istruire il caso Moro, ricordo di aver ascoltato personalmente cinque o sei testimoni che affermavano con assoluta certezza di aver visto in via Fani un terrorista la cui descrizione corrispondeva a Corrado Alunni. Quest’ultimo, inevitabilmente, ricevette un mandato di cattura per concorso nel sequestro e nell’omicidio di Aldo Moro. Senonché, per sua fortuna, presto vennero fuori i veri autori della strage di via Fani, che esclusero categoricamente che Alunni fosse presente; in secondo luogo, non fu difficile appurare che egli, il giorno del sequestro, era detenuto. Ecco, questa vicenda rappresenta il classico esempio di errore compiuto dal giudice, ma provocato dall’errore altrui: il giudice è infatti obbligato a tener conto delle testimonianze di persone della società civile, disinteressate e che non conoscendosi tra loro facciano il medesimo riconoscimento personale nel rispetto delle garanzie stabilite dalla legge, quando per giunta affermano qualcosa “con assoluta certezza”. Un altro caso, legato all’omicidio di Girolamo Tartaglione: una ragazza confessò di essere responsabile dell’assassinio, chiamando in correità altre due persone. Nel leggere il testo della confessione di questa ragazza – molto precisa e dettagliata – mi resi conto che si trattava di un falso, per un paio di particolari rivelatori. Non volli accettare quella “verità” processuale, condivisa invece dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dal pubblico ministero. Non volli assecondare la tesi della stampa che parlava di brillante soluzione del caso Tartaglione. Ero convinto, sulla base di due dati oggettivi, che la verità processuale emersa fino a quel momento non fosse corretta. Riuscii, col tempo, a convincere la donna a ritrattare e ad affermare che aveva confessato il falso. Per fortuna, perché poco tempo dopo vennero fuori i veri autori dell’omicidio (Valerio Morucci e Adriana Faranda). Ebbene, questo esempio serve a dimostrare ciò che vado da sempre ripetendo: la confessione non è “la madre di tutte le prove”, perché può accadere che anch’essa sia fonte di errore. Che cosa può consentire di capire quando qualcuno dica il vero e quando il falso? La professionalità di un giudice o di un investigatore, indipendentemente dall’esistenza di altri elementi che possano smentirlo. Uno dei più gravi fattori capaci di provocare l’errore giudiziario è poi la presenza, nel nostro ordinamento, del principio del libero convincimento del giudice (sancito dall’art.192 del codice di procedura penale). L’esistenza di un fatto può essere desunta non soltanto dalla prova, ma anche dagli indizi, purché siano gravi, precisi e concordanti. In realtà, l’art.192 afferma una regola – il fatto non può essere provato se non attraverso la prova legale – che prevede una sola eccezione: la presenza di indizi che abbiano le tre caratteristiche sopra accennate. Ma la realtà del nostro ordinamento è purtroppo diversa: l’eccezione è diventata una regola. I procedimenti sono ormai quasi tutti indiziari. Che cos’è un indizio? Un fatto desunto dall’esistenza di un altro fatto. In pratica, il risultato di una deduzione logica. E qui veniamo all’errore, perché troppo spesso l’indizio non è altro che un sospetto che si è trasformato in un indizio, prima di trasformarsi ulteriormente in prova. Questo è un grave vizio dell’ordinamento giudiziario del nostro paese, capace di portare alle situazioni processuali assurde e inaccettabili così frequenti nei tribunali italiani. Per molti casi clamorosi – piazza Fontana, strage di Bologna, omicidio Chinnici, comunque per il 60-70 per cento di fatti di straordinaria gravità – si sono avute decisioni contraddittorie a livello di giudici di merito: non dunque in Cassazione, ma tra il primo e il secondo grado di giudizio. Sentenze di condanna rovesciate in pronunciamenti assolutori, sulla base degli stessi elementi in punto di fatto. Molto spesso, un medesimo quadro probatorio è giudicato in maniera differente: sugli stessi elementi si pronunciano in maniera opposta i giudici di primo e quelli del secondo grado. Ma questo non può essere, perché gli elementi di prova devono essere valutati in modo uniforme da tutti i giudici. In caso contrario, si potrebbe parlare di un fatto arbitrario. Certo, in presenza di ulteriori elementi che completino, migliorino, rettifichino un certo quadro, d’accordo; ma quando questo quadro è esattamente lo stesso, allora vuol dire che c’è qualcosa che non va. Un qualcosa rappresentato proprio dal principio del libero convincimento del giudice, in virtù del quale alcuni giudici considerano certi indizi né gravi, né precisi, né concordanti; altri giudici, invece, si pronunciano in senso opposto. A questo punto, una serie spaventosa di errori giudiziari diventa inevitabile. Per quel che mi riguarda, credo purtroppo di aver quanto meno contribuito a commettere errori giudiziari, nella mia veste di giudice istruttore, organo monocratico che – secondo il vecchio rito penale – doveva ricostruire la verità nel corso della fase più difficile, quella della verifica delle prove raccolte dalla polizia o offerte dal pubblico ministero. Ma, potendo contare su una fortissima personalità, non mi è mai capitato di venire influenzato dalla polizia o dal pm. Molto spesso, anzi, mi è capitato di ricostruire un fatto in maniera decisamente diversa da quella seguita dal pubblico ministero. Perché sono convinto che anche quelle che sembrano verità elementari e pacifiche debbano sempre essere verificate. Esistono rimedi concreti al problema dell’errore giudiziario? A mio avviso, il vizio è ineliminabile. Al massimo lo si potrà ridurre, puntando verso due distinte direzioni. Da un lato, la professionalità del giudice, vale a dire la formazione del magistrato, la valutazione delle sue capacità, che non consistono soltanto nella conoscenza tecnica del diritto, ma anche nel saper ricostruire la verità attraverso la valutazione critica di tutte le prove. Una maggiore professionalità che va però richiesta anche ai periti, per evitare valutazioni errate capaci di pregiudicare il corretto andamento processuale e di generare errori giudiziari. Dall’altro lato, il libero convincimento del giudice: un principio da rivedere, prendendo spunto da altri sistemi (per esempio, quello anglosassone) nei quali la deduzione logica non ha valore probatorio, che è riservato invece esclusivamente a un elenco tassativo, sancito dalla legge. Senza essere esterofili – perché anche gli ordinamenti degli altri paesi sono caratterizzati da vizi di diverso tipo – ritengo che la possibilità di trasformare in prova un semplice indizio – il più delle volte privo di qualsiasi rilevanza probatoria – rappresenti un nodo che deve essere risolto prima possibile. Il rischio che una persona possa essere arrestata sulla base di elementi labili, che poi possono essere valutati o svalutati secondo l’umore del giudice di turno, è una delle circostanze maggiormente deprecabili del nostro sistema. Un dato che contribuisce ad affievolire la certezza del diritto. Ma l’errore ha anche altre radici, delle quali si discute molto negli ultimi anni. La più importante è l’interpretazione della legge contro l’intenzione del legislatore, come conseguenza della violazione stessa del principio dell’imparzialità del giudice. L’attività politica del giudice all’inevitabile scontrarsi delle ideologie a scapito della verità e dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. L’opinione di Cesare Beccaria circa l’arbitrio lasciato ai giudici, dal principio del libero convincimento, di orientarsi nell’interpretazione delle leggi recando le loro filosofie sociali e politiche illuminate: “Il sovrano sarà il legittimo interprete delle leggi, perché è il depositario delle libertà di tutti, non il giudice il cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto, o non, un’azione contraria alle leggi. Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni. Questa verità, che sembra un paradosso alle menti volgari più percosse da un picciol disordine presente che dalla funeste ma remote conseguenze che nascono da un falso principio radicato in una nazione, mi sembra dimostrata”. E poi Beccaria traccia il quadro delle storture che derivano da un’interpretazione legata alle opinioni soggettive dei giudici: Le nostre congnizioni e le nostre idee hanno una reciproca connessione: quanto più sono complicate, tanto più numerose sono le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo ha il suo punto di vista, ciascun uomo in differenti tempi ne ha uno diverso. Lo spirito della legge sarebbe dunque il risultato di una buona o di una cattiva logica del giudice, di una facile o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice con l’offeso, e da tutte quelle minute forse che cangiano le apparenze di ogni oggetto nell’animo fluttuante dell’uomo. Quindi veggiamo la sorte di un cittadino (colpevole o innocente, nda) cangiarsi spesse volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite dei miserabili essere vittime dei falsi raziocinii, o dell’attuale fermento degli umori di un giudice, che prende per legittima interpretazione il vago risultato di tutta quella confusa serie di nozioni che gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma l’errante instabilità delle interpretazioni”. (C. Beccaria: “Dei delitti e delle pene”). Ludovico Antonio Muratori espresse un giudizio analogo e ancora più pessimistico sulla giustizia affermando che “misera è la condizione di chi deve litigare, egli si crede di andare a picchiare alle porte della giustizia, né si accorge che va a mettere il suo alla ventura di un lotto”. E questa condizione si ripete in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Il nostro compito è quello di combatterle essendo sempre pronti a riconoscere l’errore. Prima di concludere mi viene alla mente l’immagine del giovane arrestato dalla magistratura come “mostro di Merano”. Il suo volto muto e disperato deve indurre alla riflessione. Luca Nobile era stritolato nella macchina della giustizia e non aveva voce per gridare la sua innocenza. Solo la ripetizione degli omicidi da parte del vero assassino ha salvato l’innocente da una probabile condanna all’ergastolo. La sua unica colpa fu quella di essere somigliante all’autore dei delitti.

TOTO' CUFFARO: "LE MIE PRIGIONI".

I fili che reggono la vita di Totò Cuffaro, in attesa «dell’alba nuova», scrive il 29 Giugno 2014 Emanuele Boffi su “Tempi”. Il nuovo libro dell’ex presidente della Regione Sicilia, letteralmente «scritto a mano» nel carcere di Rebibbia. Dove «si muore e si risorge ogni giorno». «La mafia ha paura di chi ama. L’uomo è veramente libero quando sa cosa fare della sua libertà» (Salvatore Cuffaro, Le carezze della nenia, Guerini e associati). Una sera sono stato a cena a casa di Totò Cuffaro, il criminale. Per la giustizia italiana l’ex presidente della Regione Sicilia è colpevole di aver favorito la mafia e per questo è da quattro anni nel carcere di Rebibbia (e ancora tre ne mancano). Questo per i giudici, per il tribunale, per lo Stato. Ma per tanti siciliani – e per me, che pur ne ho avuto una conoscenza solo epidermica – Cuffaro è un innocente che sconta ingiustamente la sua pena dietro le sbarre. Di quella cena ricordo il doppio tavolo apparecchiato (ché, uno solo, non bastava), il vino corposo e la raccomandazione – più volte espressa – di mangiare tutto, assaggiare tutto, non lasciare nulla nel piatto: tantomeno i semini dei fichi d’India, «che vengono dal mio orto, di cui sono assai orgoglioso. Hai capito, picciotto?». Capito. Quindi anche i semini? Anche i semini. Di quella cena pantagruelica e del successivo dì a scorrazzare per la Sicilia, mantengo l’impressione di una personalità esorbitante, elettrica, tarantolata. Baci, abbracci, pacche sulle spalle, “vasa vasa” e un continuo, perenne, inesausto bisogno di contaminarsi con gli altri, fossero essi commendatori o ortolani, di cui Cuffaro rivendicava orgogliosamente il contatto: «Meglio baciare tutti e dare il bacio a quello sbagliato, che non baciare nessuno», disse. Glielo hanno fatto pagare caro questo suo convincimento, ma sono certo che quei baci e quegli abbracci li rifarebbe tutti. Dopo Il candore delle cornacchie, Cuffaro ha pubblicato un nuovo libro, Le carezze della nenia. È un libro, letteralmente, come lui stesso racconta, «scritto a mano», «mentre il carcere accorcia il mio respiro», durante notti insonni. È un taccuino di pensieri, chiose, note a margine che rispecchiano una realtà dove «si muore e si risorge ogni giorno». L’uomo che ha trascorso la sua vita libero, all’aperto, tra la gente, che preferiva il comizio al salotto tv, che percorreva ogni giorno chilometri e chilometri per visitare ogni paesino della sua regione, ora si trova costretto in un buco, all’ora d’aria, alla mensa del cibo scadente, alla conta dei rapporti umani. Al luogo dove «si porta a spasso il cadavere di se stessi». Eppure. Eppure quello di Cuffaro non è un libro di idee, è un libro pieno di cose. Soprattutto di fili, a volte robusti, a volte sottili, che legano e sorreggono la sua speranza, come una maglia che lo preserva dal cadere nell’orrido della disperazione. Ci sono fili di suoni che Cuffaro avverte dalla cella: bisbigli di merli, fringuelli, cornacchie, passeri, colombi, gabbiani, cardellini e, forse, «di un tacchino impettito». Ci sono i fili dei profumi delle piante e dei fiori (rose, pini, peschi, prugni, platani). Ci sono i fili del suo volto smagrito, che sono quelli che si vedono. Ma ci sono anche i fili che non si manifestano, sono quelli delle «rughe, più numerose sul cuore che sul viso». C’è il filo dell’aquilone, che Cuffaro ha costruito per volare alto oltre le mura, così che potesse, almeno lui, vedere l’orizzonte e restituirne il conforto al suo padrone. C’è il filo di cuoio con cui ha legato la medaglietta della Madonna che «non è un porta fortuna, e non la porto perché mi aspetto il miracolo. È per me il segno della protezione di mia madre e della Madonna, il segno che sono amato». Ci sono, soprattutto, i fili dei raggi di sole, forse la “cosa” che più manca a Cuffaro e di cui parla con maggior nostalgia («stanno rubando il sole alla mia pelle»). C’è il filo che lo lega al padre, l’uomo che «mi ha insegnato il senso del Divino senza mai trascurare il senso dell’umano». Che nell’ultima telefonata gli disse che l’avrebbe fatto uscire dal carcere. È vero, ci riuscì, ma al prezzo della sua vita. Fu a causa del suo decesso, che Cuffaro poté recarsi alla tumulazione. E, infine, ci sono i fili delle radici che non fanno appassire il fiore di una vita. «La parte più bella del fiore è quella che si mostra, di cui si può cogliere il profumo, ma non pensiamo mai che essa non si potrebbe e non sarebbe apprezzata se non ci fosse la parte nascosta, coperta, sporca». Lì, nella parte nascosta, chiusa, incarcerata, sporca come può essere una gattabuia, sta il filo che alimenta una «verità che va cercata e difesa sempre, anche quando è seppellita». Anche se è al buio. Anche se c’è solo «un minuto di sole». «Per vivere l’alba nuova – scrive Cuffaro – bisogna attraversare la notte vecchia».

Totò Cuffaro si racconta in libro autobiografico “Torno verso la vita”, scrive "Grandangolo Agrigento" il 7 dicembre 2015. L'uomo è un mendicante che crede di essere un re. In attesa di uscire, il 16 dicembre, dal carcere di Rebibbia, dove sta scontando una pena di 7 anni per favoreggiamento a Cosa nostra, l’ex presidente della Regione siciliana, Totò Cuffaro, si racconta nel libro autobiografico “L’uomo è un mendicante che crede di essere un re”: la nascita della passione politica, la vita insieme alla famiglia, l’amore per la sua Terra e gli ultimi 5 anni passati in carcere. Ogni capitolo è preceduto da riflessioni su opere di grandi scrittori, da Sant’Agostino a Thomas Eliot. Il testo inaugura la collana di libri dal carcere “Il paese senza cielo”, di Aliberti compagnia editoriale. “L’uomo è un mendicante che crede di essere un re, pensa di esserlo diventato perchè si è fatto da sè – scrive Cuffaro -. La vita si incarica di ricondurlo a quel che è, a diventare se stesso. Arrivare in vetta non è facile, tornare indietro ancora meno facile, saper ripartire è certamente difficile ma si può: è segno di saper e voler vivere la vita”. “Il massimo del dolore – sottolinea nel libro Cuffaro – muta la vita personale dell’uomo, e però il carcere non è stato l’inizio e non è la fine. In questo percorso sono stato sull’orlo del baratro e sopra una nuvola. Sono stato naufrago ed esploratore. Ho vagato in un’arida foresta del vivere col corpo e l’animo ferito e sono stato aggrappato al grande albero dalle cui fronde dondola la speranza. Grazie all’amore e alla speranza non ho perso il senso del futuro neanche nei giorni più neri e scuri, neanche quando m’è mancata l’aria e il respiro della vita e grazie a loro non ho mai rinunciato a voler raggiungere la foce della libertà. D’Annunzio soleva dire: ‘Vado verso la vita’, io più semplicemente torno verso la vita”.

Ma i guai non sono finiti.

Le visite a Rebibbia della corte di Cuffaro. "Ecco la rete di amici che curava i suoi affari". I pm chiudono le indagini su 41 politici: "Spacciavano in carcere i collaboratori dell'ex presidente per loro portaborse. Così i colloqui non erano intercettati, scrivono Francesco Viviano ed Alessandra Ziniti il 28 dicembre 2015 “La Repubblica”. Il 13 luglio 2011 a Rebibbia si gioca una partita di calcio. A bordo campo tra gli spettatori ci sono Felice Crosta (il superburocrate pensionato d'oro della Regione Sicilia), Fausto Desideri (ex consigliere delegato di Riscossione Sicilia) e Marco Morrone (il factotum romano). Totò Cuffaro è in carcere da sei mesi, ma ha subito capito come fare a non perdere il contatto con i suoi fedelissimi. "Caro Marco - preannuncia in una lettera a Morrone - verrai invitato ad una manifestazione che stiamo facendo in carcere, così potrai stare un po' insieme a me e potremo parlare. Assieme a te farò invitare Felice Crosta e Fausto Desideri. Ufficialmente vi inviterà un'associazione che non ha nulla a che fare con me". E due mesi dopo l'associazione di volontariato Gruppo Idee invita a Rebibbia gli amici di Cuffaro. Tra i volontari su cui l'ex governatore fa affidamento c'è Federico Vespa, figlio di Bruno e di Augusta Iannini, magistrato e ora garante per la privacy. C'è tutta la "corte" di Totò nelle mille pagine di allegati dell'inchiesta della Procura di Roma che si appresta a depositare la richiesta di rinvio a giudizio per 41 persone (tra cui Simona Vicari, sottosegretario allo Sviluppo economico del governo Renzi e dieci parlamentari di diverse forze politiche) che devono rispondere di aver falsamente attestato lo status di collaboratori parlamentari che ha consentito loro di accedere all'interno di Rebibbia e ad avere colloqui "privati" (al riparo da intercettazioni) con l'ex governatore della Sicilia. Il quale ha appena finito di scontare una condanna a 7 anni per favoreggiamento a Cosa nostra. Cuffaro, va detto subito, in questa inchiesta non è indagato. Lui, a parlare con i suoi fedelissimi che andavano a trovarlo in carcere, non ha commesso alcun reato. A differenza dei parlamentari nazionali ed europei che, avendo diritto ad entrare nelle carceri, si sono portati dietro "amici" di Cuffaro spacciandoli come loro collaboratori e che ora rischiano fino a 10 anni. Da Simona Vicari a Vladimiro Crisafulli, da Calogero Mannino a Saverio Romano, da Giuseppe Ruvolo a Cinzia Bonfrisco, tutti si sarebbero prodigati - secondo le conclusioni dell'inchiesta condotta dal pm Barbara Zuin - per permettere all'ex governatore di mettere in piedi "un collaudato sistema di comunicazioni attraverso il quale Cuffaro ha impartito direttive o comunque fornito indicazioni per lo svolgimento di una molteplicità di non meglio specificati affari che lo vedono coinvolto". Indagato dalla Procura di Palermo nell'ambito di un'inchiesta sulla realizzazione di alcuni termovalorizzatori in Sicilia (poi finita in archivio), per Totò Cuffaro i pm Nino Di Matteo e Sergio De Montis avevano disposto la videointercettazione dei colloqui in carcere tranne, come prevede la legge, quelli con i suoi legali e con i parlamentari. Ma dalle intercettazioni effettuate sulle utenze dei familiari di Cuffaro, gli investigatori della Guardia di Finanza hanno avuto contezza che con quei colloqui al riparo dalle microspie "è stato consentito a Cuffaro di continuare ad occuparsi di proprie attività, questioni ed interessi nonostante le preclusioni connesse al suo stato detentivo". Il giorno in cui Santina Scolaro (già portavoce di Cuffaro) vede venir fuori, nell'ambito dell'inchiesta sul caso Penati, i nomi dell'avvocato d'affari palermitano Francesco Agnello e del senatore Beppe Lumia, si muove subito. "Bisogna informare immediatamente Totò", dice al telefono. E quando si rivolge al factotum Marco Morrone riceve questa risposta: "Si può entrare senza dire niente a nessuno, con un parlamentare e s'organizzamo, con Crisafulli, glielo dico, o con Lillo Mannino che ce va tutti i lunedì". Tra coloro che vanno a trovare Cuffaro in carcere (ma non è coinvolto nell'inchiesta), anche Angelino Alfano, che varca il portone di Rebibbia quando non è più ministro di Giustizia e non è ancora ministro dell'Interno. È il 21 febbraio 2012, il giorno del 53esimo compleanno di Cuffaro, che affida al suo interlocutore la richiesta di contatto con Mondadori per la pubblicazione di un suo libro e poi scrive al suo coautore Francesco Di Chiara: "Oggi è venuto a farmi visita Angelino Alfano per farmi gli auguri. È stato molto carino. Ho concordato con lui che avrebbe chiamato Marina Berlusconi, alias Mondadori, per fissare appuntamento con Renato Farina". Di Chiara poi entrerà a Rebibbia con Renato Farina, già condannato per aver portato in carcere da Lele Mora un ragazzo spacciandolo per suo collaboratore. Il 12 aprile 2011 Marco Marrone parla al telefono con la figlia di Cuffaro, Ida, e le dice: " Noi c'avevamo con tuo papà una situazione con la senatrice Vicari, con Simona perché sta cosa va in scadenza ad aprile e la deve incontra Nino (Sirchia) perché c'ha il fascicolo che tuo padre gli aveva lasciato di questa pratica". Basta controllare i registri e si scopre che la Vicari è stata in carcere pochi giorni prima, il 7 aprile. Dalle verifiche è venuto fuori che al seguito dei parlamentari era entrata a Rebibbia tutta la corte di Totò: il dirigente del ministero dell'Agricoltura Attilio Tripodi, l'ex direttore generale della Asl di Agrigento Giuseppe Di Carlo, l'ex presidente di Confindustria Trapani Davide Durante, l'avvocato dello Stato Filippo Maria Bucalo, il presidente dell'Università Kore di Enna Cataldo Salerno, oltre a deputati e politici locali a lui fedelissimi.

Cuffaro prima e dopo il carcere. Totò che visse due volte, scrive Sabato 12 Dicembre 2015 Roberto Puglisi su “Live Sicilia”. L'ex presidente della Regione sarà scarcerato oggi e tornerà ad essere un uomo libero. Ma chi è stato fino a ieri Totò Cuffaro? Quale peso ha avuto nella storia della Sicilia da potente e poi da recluso? Qui si prova a dare qualche risposta. C'era due volte Totò Cuffaro. C'era il politico che, con felpata durezza, comandava in lungo e in largo, ghigliottinato dalla condanna per un'accusa imperdonabile. C'era il recluso del carcere romano di Rebibbia che ha abbracciato la sua pena di prigioniero tra le sbarre, spiccando il volo verso la redenzione. Ora, il secondo torna a casa, consegnando la matricola da detenuto al passato. Come accadde per le lucciole di Pasolini, questa storia si racconta con uno spartiacque preciso, al sapore di cannolo. C'era Totò Cuffaro che chiamavano universalmente "Vasa vasa", per via della sua capacità stoica di incollarsi alle guance degli elettori. Non regnava, suggeriva preghiere che era saggio ascoltare. Non alzava la voce, sussurrava consigli. Si muoveva in uno scintillio di seguaci, come ogni reuccio siciliano che si rispetti, ma da primo della classe. Al suo passaggio, secerneva una tela inesorabile per acchiappare voti. Nessuno poteva esimersi dal baciare Totò, quando reggeva il potere; nessuno poteva batterlo, ne sanno qualcosa Leoluca Orlando e Rita Borsellino che videro le loro aspettative ridursi in cenere, nella corsa per Palazzo d'Orleans. “Con Totò Cuffaro - ha scritto Pietrangelo Buttafuoco - la Sicilia era quello che era: l’ultima ridotta democristiana. Con il suo successore poi, quello di Grammichele, eletto nella coalizione berlusconiana (per farsi smacchiare in corso d’opera dall’onnipotente capo della sinistra antimafia, ossia il professionista Beppe Lumia), la Sicilia divenne quel che è ancora oggi: la fogna del potere. Con Rosario Crocetta, infine, eletto nell’alleanza a guida Pd, la Sicilia è solo impostura”. Ecco la descrizione di un legame che non ha mai conosciuto tentennamenti: Totò-Salvatore, moderato, saldo detentore di preferenze, accessibile interlocutore di chicchessia – capace di non scordare mai nulla, né un nome, né un volto –, il governatore della porta accanto: praticamente invincibile. Nemmeno la frequentazione di certi ambienti in cui consenso e clientele si incrociano ne scalfiva il santino. Neppure un celebre incidente di percorso al cospetto di Maurizio Costanzo - quando un allora ignoto siciliano, dall'accento raffadalese, si alzò per dire quello che pensava, dalla platea, come lo pensava - ne offuscò la stella. E sul palco c'era il giudice Giovanni Falcone. Infine, un incauto vassoio di cannoli affondò il fuoriclasse in apparenza intoccabile nel gennaio del 2008. Il notissimo scatto col presidente che 'festeggia' la condanna per favoreggiamento semplice in primo grado, pasteggiando a ricotta, non venne perdonato. E fu l'immagine, più che la giurisprudenza, a sospingere la pietruzza che sarebbe diventata valanga. Da lì, dalla presunta cannolata di ringraziamento – l'interessato ha sempre smentito: "Tutti sanno che non stavo festeggiando. Non ero certo un fesso".  – ebbe inizio il crollo di un potere che aveva fatto del sorriso l'arte smussata di ogni superbia, l'approdo mascherato di ogni arroganza. Non gli perdonarono, insomma, lo sberleffo che non c'era, perché strideva col ritratto conosciuto. Caddero le inevitabili dimissioni. Il macigno della condanna per favoreggiamento alla mafia - l'accusa imperdonabile - fece il resto. Sulle carte piovve il timbro della Cassazione, il 22 gennaio del 2011, con il successivo ingresso a Rebibbia. Fine della prima parte della storia. C'era due volte Totò Cuffaro. C'era una volta il detenuto matricola 87833 Salvatore Cuffaro – nessuno aveva più il coraggio di chiamarlo Totò – autore di libri bellissimi, di lettere d'amore, sempre rispettose di una giustizia, pur considerata ingiusta. “Hanno voluto e pensato di mandarmi all'inferno, io ho accettato di andarci e ci sono entrato senza che nessuno mi venisse a prendere: la Giustizia me lo ha chiesto, ma non mi sento all'inferno. Io sto vivendo il carcere, anche se con difficoltà inumane, nell'inferno non si vive, si brucia (…). Ho scoperto il mio giardino interiore. Ora comprendo che cosa provano gli uccelli quando vengono raggiunti e colpiti dagli spari del cacciatore, comprendo il piangere degli alberi abbattuti dal fulmine o tagliati dal boscaiolo. Scrivo per conservare l'uomo che sono, per difenderlo. Scrivo per segnare ciò che mi accomuna a tutti quelli che sono qui con me, che sono in posti come questo dove sono io. Scrivo mentre intanto il carcere accorcia il mio respiro. Scrivo e riprendo i pensieri che, altrimenti, condannati a rimanere sconosciuti, si perderebbero per sempre”. Anche dietro le sbarre si può rintracciare un orizzonte di salvezza, fabbricando un aquilone, per esempio (“Io fuggo sull'Aquilone, l'Aquilone è la mia fuga. Io sull'Aquilone, nocchiero del cielo”). E diventare segnali luminosi di ombre altrimenti destinate al silenzio, alla catena dei pensieri, dei sentimenti. In carcere, Totò si è ristretto, smagrendosi; ha perso i chili delle vestigia trascorse, ha condiviso l'anima con i compagni di prigionia e l'ha mostrata a coloro che stavano fuori. Molti che non l'avevano mai apprezzato né votato, che delimitavano nel perimetro del disgusto le schiere osannanti dei clientes, si sono trovati, quasi senza volerlo, dalla parte dell'ex reuccio, della sua innocenza proclamata, della sua colpa lavata dal dolore e dalla dignità. Ecco il vero miracolo di Rebibbia. C'era due volte Totò Cuffaro. Uno era il simbolo di un potere vorace, di baci schioccati da troppi Giuda, di sicilianissime paludi. L'altro era un recluso che in cella ha scoperto la sua redenzione. Ora si racconta un'altra storia: quella di un uomo libero che si è guadagnato il diritto di ricominciare.

Cuffaro in libertà dopo sconto pena: “Ho sbattuto contro la mafia. Ma ho pagato, altri no. Basta politica”. L'ex leader Udc ed ex presidente della Regione Sicilia ha lasciato il carcere di Rebibbia: "Ora credo di avere il diritto di ricominciare". Si era consegnato il 22 gennaio del 2011, poche ore dopo che il bollo della Cassazione aveva reso definitiva la sua condanna a sette anni per favoreggiamento a Cosa nostra e violazione di segreto, scrive Giuseppe Pipitone il 13 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Una laurea in giurisprudenza quasi in tasca, due libri dati alle stampe e diversi chili in meno: si è presentato così Salvatore Cuffaro ai cancelli del carcere romano di Rebibbia, che ha attraversato stamattina dopo aver finito di scontare la sua pena. “È bello respirare la libertà. Oggi posso dire di aver superato il carcere”, sono state le prime parole dell’ex presidente siciliano, che in una cella del piano terra del penitenziario ha trascorso gli ultimi 1.785 giorni: si era consegnato, infatti, il 22 gennaio del 2011, poche ore dopo che il bollo della Cassazione aveva reso definitiva la sua condanna a sette anni per favoreggiamento a Cosa nostra e violazione di segreto. Grazie agli sconti di pena e alla buona condotta, però, il “detenuto modello” Cuffaro ha scontato alla fine meno di cinque anni di carcere: e adesso è tornato libero con due anni d’anticipo. In questo arco di tempo, l’ex leader dell’Udc ha studiato giurisprudenza (nei prossimi mesi dovrebbe sostenere l’esame di laurea), trovando il tempo anche di firmare due libri (Il candore delle cornacchie e Le carezze della nenia). “La politica attiva, elettorale e dei partiti è un ricordo bellissimo che non farà parte della mia nuova vita. Ora ho altre priorità. Ho amato la politica e non rinnego nulla di ciò che ho fatto, non mi sento tradito”, ha spiegato l’ex senatore Udc. E ha poi aggiunto: “Nella mia coscienza sono innocente. Sono andato a sbattere contro la mafia. Tornassi indietro metterei un airbag. Ho fatto degli errori, non mi voglio nascondere: io li ho pagati, altri no. Ora credo di avere il diritto di ricominciare”. Già nella giornata di oggi tornerà aRaffadali, la sua città d’origine in provincia di Agrigento, insieme alla famiglia, per rivedere l’anziana madre, che quasi due anni fa aveva preso carta e penna per chiedere al presidente Giorgio Napolitano di graziare il figlio detenuto. “Mi dispiace, ma non posso accettare la carità”, era stato il commento di Cuffaro, che aveva chiesto – senza successo – di essere assegnato ai servizi sociali. Adesso, invece, ha annunciato di volere andare in Africa, in Burundi, a fare volontariato. Un desiderio che, semmai dovesse realizzarsi, sarebbe agli antipodi dalla prima vita di Cuffaro, titolare di un lungo curriculum di chiacchierato politico acchiappavoti, capace di mettere d’accordo elettori di ogni risma e colore. Deputato ragionale della Dc dal 1991, noto al grande pubblico fin da quando interviene al Costanzo Show per difendere il “maestro” Calogero Mannino (in studio c’era anche un attonito Giovanni Falcone), Cuffaro si guadagna presto un bonario soprannome: Totò Vasa Vasa, dato che è in grado di schioccare un doppio bacio sulle guance di chiunque si trovi a portata di smack. Assessore regionale all’Agricoltura in governi di centrodestra e centrosinistra, si fa subito segnalare perché è uomo di facilissima socialità: non dimentica mai un nome, un volto, una richiesta, a tutti elargisce consigli, favori, aiuti, doni. E alla fine viene premiato: nel 2001 viene eletto per la prima volta presidente della Sicilia, battendo a sorpresa Leoluca Orlando. Poi nel 2006 la riconferma, quando a sfidarlo c’è Rita Borsellino. Nel frattempo era già deflagrato il caso giudiziario: la procura di Palermo lo accusa di aver rivelato all’imprenditore Michele Aiello, prestanome diBernardo Provenzano, importanti dettagli su indagini in corso. Informazioni che, tramite il medico e politico Domenico Miceli, finiscono direttamente al boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, ex aiuto primario dell’ospedale Cervello. È una storia di colletti bianchi e favori, politici e voti, medici e boss latitanti quella in cui viene coinvolto l’allora potentissimo governatore, numero due dell’Udc di Pierferdinando Casini. L’inchiesta spacca il mondo politico, ma anche la stessa procura di Palermo: alcuni pm vorrebbero processare Cuffaro per concorso esterno, l’allora procuratore capo Pietro Grasso però si oppone. Alla fine l’ex governatore verrà rinviato a giudizio per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra: l’aggravante, però, cadrà quando in primo grado arriva la condanna a cinque anni. È il 24 gennaio del 2008 e Cuffaro spiega di non avere intenzione di dimettersi: uno scatto rubato mentre a Palazzo d’Orleans è intento a spostare un vassoio pieno di cannoli fa scoppiare la polemica. La foto dei presunti festeggiamenti a colpi di dolce alla ricotta fa il giro d’Italia, diventa più imbarazzante della stessa condanna: e alla fine Vasa Vasa dovrà arrendersi, dimettendosi dall’incarico e accettando di trasferirsi al Senato. Il 23 gennaio del 2010 è la volta della corte d’Appello: Cuffaro viene condannato a sette anni e stavolta torna il favoreggiamento aggravato. Sentenza che diventerà definitiva appena un anno dopo. Nonostante la galera, però, gli amici di un tempo non si dimenticano di Totò: e fanno la fila per andarlo a trovare in carcere. Solo che per laprocura di Roma almeno 41 dei visitatori di Cuffaro sono colpevoli di falso: non avrebbero rispettato le regole che concedono ai deputati di entrare in carcere accompagnati da un collaboratore. Al cospetto dell’ex governatore sono andati praticamente tutti: da Mannino a Saverio Romano, dagli ex europarlamentariAntonello Antinoro e Salvatore Iacolino al senatore Pino Ferrarello, fino a Mirello Crisafulli, l’ex impresentabile del Pd, ribattezzato il Cuffaro Rosso per la sua capacità di acchiappare voti a Enna, nonostante militasse nello schieramento opposto a quello di Totò. Un elenco sterminato che la dice lunga sulla quantità di relazioni mantenute negli anni da Totò Vasa Vasa, l’ex governatore che più di qualcuno ricandiderebbe anche domani. Il galeotto Cuffaro, però, non sembra intenzionato a tornare in politica, e in ogni caso non potrebbe ricoprire alcun incarico, dato che è interdetto in perpetuo dai pubblici uffici. Una discriminante fondamentale, visto l’ampio parterre di cuffariani che ha ormai preso pieno possesso del nuovo Pd renziano.

Presentato “Cuffaro tutta un’altra storia – La verità sul processo al presidente dei siciliani”, scrive News Sicilia” il 9 dicembre 2015. «A un certo punto sembra che qualcuno farfugli qualcosa. È difficile capire che cosa, ma, per la Procura di Palermo e il perito Roberto Genovese, quel qualcuno che parla sarà la moglie di Guttadauro, la signora Gisella Greco. È la signora, allora, che nel momento in cui il marito fa capire di aver scoperto la microspia, secondo quello che il perito Genovese dirà di aver sentito, avrebbe pronunciato la frase: “ragiuni…veru ragiuni avia Totò Cuffaro”. In quel momento, a qualche chilometro di distanza, al comando dei Ros a Monreale, il maresciallo Salvatore Ciffo è addetto all’ascolto delle registrazioni di casa Guttadauro. È da ore incollato al tavolo, con la cuffia in testa, quando sente che dentro casa di Guttadauro “sta avvenendo qualcosa”. Appena sente qualcosa di strano, come i “rumori metallici” in sottofondo, prende il telefono e chiama il suo collega, il maresciallo Giorgio Riolo, che in quel momento si trova in vacanza. Riolo è la persona giusta, perché è colui che le microspie, dentro casa di Guttadauro, è andato a metterle il 15 agosto del 2000. Sa dove sono e può capire se Guttadauro veramente sia riuscito a scoprirle o meno. “Giorgio vieni che forse hanno trovato qualcosa” gli dirà il collega Ciffo. Riolo, a quel punto, si precipiterà al comando di Monreale per capire veramente che cosa stia succedendo. Quando sarà ascoltato dai P.M., Riolo dirà di aver sentito una frase del tipo “aveva ragione Totò” […] Come vedremo più avanti, a distanza di anni, Riolo darà tutta un’altra versione … ». Questa un’anteprima - tratta dal paragrafo “15 giugno 2001: Guttadauro trova la microspia. Come gli aveva detto il cognato?”, del secondo capitolo “Processo al presidente” - del libro “Cuffaro tutta un’altra storia – La verità sul processo al presidente dei siciliani”, presentato proprio oggi alla Sala Stampa della Camera dei Deputati. Il testo illustra la vicenda giudiziaria dell’ex governatore, a firma del giornalista romano Simone Nastasi e sarà disponibile a partire da domani in tutte le librerie e nelle librerie Mondadori d’Italia per Bonfirraro editore. L’autore pone interrogativi e analizza la questione cercando di chiarire i passaggi meno chiari e meno raccontati dell’intero processo contro Cuffaro, concluso con sentenza della Cassazione. Nel testo viene anche riportata alla memoria del lettore la condanna a sette anni di reclusione, per rivelazione di segreto istruttorio con l’aggravante di favoreggiamento mafioso, “accusa che Cuffaro ancora oggi continua a non voler accettare, perché ripete ‘la mafia fa schifo e la mafia, l’ho sempre combattuta” come precisa lo stesso autore. Un mix di interrogativi, testimonianze, interviste che contribuisce a rendere il volume una riflessione attenta su temi di primissima attualità e che interessano il lettore in quanto libero cittadino. “Mi auguro che questo libro - dice l’autore - aiuti il lettore a farsi la propria opinione su una vicenda complessa quale è stata il processo all’ex governatore Cuffaro. Ho scelto come fonti principali gli atti processuali proprio per mantenere una certa obiettività nella narrazione dei fatti. La parola adesso spetti pure al lettore”. “È un libro che avrei voluto pubblicare sin dal giorno della carcerazione di Totò Cuffaro – dichiara l’editore Salvo Bonfirraro  e quindi cinque anni fa, ma capisco che i tempi allora non fossero maturi. Il saggio ha percorso una lunga gestazione, della durata di almeno due anni, subendo molti cambiamenti di rotta, e ha visto la luce soltanto grazie alla sete di conoscenza e d’informazione che ha sempre caratterizzato le nostre pubblicazioni. Adesso tutti i lettori, scevri da pregiudizi, potranno accedere alla verità che nessuno ci ha mai racconta.

Cuffaro scarcerato, ma un libro rilancia i dubbi sul processo, scrive il 14/12/2015 Grazia Bontà su “L’Ultima Ribattuta”. È uscito ieri mattina dal carcere romano di Rebibbia, l’ex governatore della Sicilia e senatore Udc Salvatore Cuffaro. Dopo 4 anni e undici mesi trascorsi nell’istituto penitenziario romano per scontare la condanna definitiva a sette anni di reclusione, ricevuta per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato alla mafia. L’ex governatore, in definitiva, ha scontato “soltanto” 4 anni e undici mesi grazie all’indulto di anno per i reati “non ostativi”, e ai 45 giorni di sconto previsti dalla legge per la buona condotta. Inizialmente, sembrava che l’uscita dal carcere di Cuffaro fosse prevista per il giorno 15 dicembre, ma invece la libertà è arrivata con due giorni di anticipo. Ad accoglierlo oltre ad un fiume di giornalisti, che già dalla serata di sabato erano stati informati della scarcerazione anticipata, i suoi avvocati Marcello Montalbano e Maria Brucale, i fratelli Silvio e Giuseppe e il figlio. Sono venuti a prenderlo a Roma, con un pulmino, per portarlo direttamente in Sicilia a trovare la madre. Ma prima di Cuffaro, la settimana scorsa e precisamente giovedi 10 dicembre, è uscito anche un libro che racconta la sua vicenda giudiziaria. Dal titolo eloquente: “Cuffaro: tutta un’altra storia. La verità sul processo al presidente dei siciliani”, scritto dal giornalista Simone Nastasi e edito dalla casa editrice Bonfirraro. Il volume è stato presentato nella mattinata di mercoledì 9 dicembre alla sala stampa della Camera dei Deputati. Nel libro vengono ripercorse tutte le tappe della vicenda processuale durata sei anni che iniziata nel settembre del 2004 con la richiesta di rinvio a giudizio, si sarebbe conclusa nel gennaio 2011 con la condanna definitiva dell’ex governatore. L’ex governatore era stato accusato di essere una delle “talpe” che tra il 2001 e il 2003 avrebbero rivelato notizie riservate agli allora indagati per associazione mafiosa, Giuseppe Guttadauro (medico aiuto primario, già condannato per mafia e accusato di essere il nuovo capo mandamento del quartiere Brancaccio) e Michele Aiello (imprenditore nel settore sanitario, accusato di essere uno dei prestanome di Bernardo Provenzano). Per questo che infatti le accuse contro Cuffaro saranno di rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Nel raccontare i passaggi che hanno scandito l’intera vicenda processuale di Cuffaro, l’autore del libro, utilizzando come principale fonte di informazione gli atti processuali, ha posto in evidenza tutte quelle stranezze e quelle ambiguità che hanno caratterizzato il processo di Cuffaro. Dalle dichiarazioni contraddittorie di Salvatore Aragona, principale teste di accusa, al ritrovamento della “prova regina”, un’intercettazione ambientale (saltata fuori non dal processo contro Cuffaro ma da uno parallelo), che è servita ai pm per chiedere e ottenere in sede dibattimentale, il riconoscimento dell’aggravante di mafia nei confronti dell’ex Governatore. Dall’intercettazione infatti, secondo uno dei periti incaricati di analizzarne il contenuto, sarebbe spuntato fuori anche il nome di Totò Cuffaro (nel caso dell’ormai famosa frase “ragiuni avia Totò Cuffaro”). Intercettazione della quale, tuttavia, gli esami di 3 periti su 4 avrebbero smentito l’esistenza. A curare la prefazione del volume, Guido Paglia, che pur non avendo direttamente seguito il processo di Cuffaro, ha accettato di approfondire la vicenda, dopo essere stato “convinto per anni che elementi per condannarlo ce ne fossero”. Anche Paglia tuttavia, dopo aver letto il libro di Simone Nastasi, si è detto del parere che alla fine “Cuffaro abbia pagato qualche errore nella linea difensiva”, nonostante e comunque, una “certa stima” nei confronti dei magistrati Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino (rispettivamente, oggi, procuratore capo e procuratore aggiunto di Roma, ma ieri rappresentanti dell’accusa nel processo contro Cuffaro) lo portino a dubitare che il processo sia solo una colossale “montatura”. Della post fazione invece, si è occupato l’avvocato e ex parlamentare radicale Mauro Mellini (autore tra l’altro di un volume dal titolo Il Partito dei Magistrati) che invece, pur non avendo anch’egli seguito direttamente il caso, ha parlato esplicitamente di “giustizia di lotta”, dicendosi convinto che nei confronti di Cuffaro ci sia stata una vera e propria “persecuzione”. Dettata evidentemente, da ragioni che vanno anche al di la dei fatti processuali. Adesso allora, l’ultima parola, quella più importante, spetti pure ai lettori, nei confronti dei quali l’autore Nastasi ha espresso l’auspicio che “questo libro possa aiutarli a farsi un’opinione corretta e esauriente sull’intera vicenda giudiziaria”.

Processo Cuffaro, quante stranezzeUn libro solleva dubbi e interrogativi, scrive il 9 dicembre 2015 Manlio Viola su “Palermo. Blog Sicilia”. Totò Cuffaro ha veramente favorito la mafia? Se lo chiede Simone Nastasi, giornalista romano, avvicinatosi per pura curiosità alla vicenda del presidente della Regione condannato e che ha scontato per intero la sua pena in carcere. “Un caso più unico che raro – dice Nastasi – quello di un senatore della Repubblica che non si nasconde dietro la politica o qualsiasi forma di impunità, che accetta la pena e la sconta senza chiedere privilegi, e con un rispetto delle istituzioni senza eguali”. E’ stata proprio l’osservazione di questo fatto, riconosciuto a Cuffaro anche dai suoi più acerrimi nemici politici, a mettere Nastasi sulla tracce degli atti del processo alla ricerca di una spiegazione. Guardando alla reazione dell’uomo Cuffaro Nastasi si è posto alcuni interrogativi ed ha ricostruito, passo passo, il processo mettendo insieme un libro da 224 pagine più una appendice con gli atti giudiziari disponibile da domani in libreria.

Nastasi, dopo questo lungo lavoro di ricerca lei si sarà fatta una sua idea sulla vicenda.

“Innanzitutto ci tengo a precisare che si tratta di un libro scritto in larghissima parte sulla base degli atti giudiziari e solo in minima parte intervistando alcune persone. Un politico Pd come Vladimiro Criusafulli e, alla fine, due imputati, uno dei quali assolto e risarcito, i marescialli Riolo e Borzacchelli. Ma una idea me la sono fatta proprio guardando agli atti del processo”.

E qual è questa idea?

“Beh negli atti del processo c’è palesemente qualcosa che non va. Basti pensare che la prova sulla base della quale si giunge ad una condanna in Cassazione non compare prima della seconda metà del procedimento. Si tratta, peraltro, di una intercettazione ambientale proveniente da altro procedimento, quello che riguarda il medico ed ex assessore comunale di Palermo Mimmo Miceli. Una ambientale trascritta da un perito le cui dichiarazioni a verbale durante il processo non convincono la corte tanto da richiedere una seconda perizia. Proprio questa nuova perizia smentisce la prima sull’esistenza della frase fondamentale ma questo non basta per evitare a Cuffaro l’accusa più pesante, quella di favoreggiamento nei confronti di un mafioso”.

Secondo lei c’è stato un errore giudiziario?

“Non dico questo, sostengo solo che negli atti si rilevano stranezze. Cuffaro ha sbagliato, e questo sembra accertato dagli atti del processo. La mia convinzione, dopo aver studiato tutto, è che la sentenza più giusta fosse quella di primo grado che lo condannava solo per la rivelazione del segreto d’ufficio. Il resto mi sembra abbastanza controverso”.

Ma la rivelazione del segreto d’ufficio non attiene il pubblico ufficiale deputato a mantenere quel segreto?

“Lo pensavo anche io ma studiando atti processuali e giurisprudenza ho accertato che chiunque, anche se non deputato a mantenere quel segreto, se ne entra a conoscenza è tenuto a non rivelarlo. Dunque il reato di rivelazione c’è probabilmente stato, in base alle prove processuali. Non ho visto, invece, la dimostrazione degli altri reati. Negli atti c’è una perizia di Gioacchino Genchi, noto funzionario tecnico della polizia e in seguito consulente di grandi processi, che dice chiaramente come in 5 anni e decine di migliaia di ore di telefonate di Cuffaro e delle persone a lui più vicine non c’è un solo contatto con uomini mafiosi o pseudo tali. Con una sola eccezione: Salvatore Aragona. Vogliamo dimenticarci che stiamo parlando, però, di un medico?”.

Dunque cosa si è risposto alla domanda iniziale che si era posto? Cuffaro ha veramente favorito la mafia?

“A mio parere, ripeto, la sentenza più giusta era quella di primo grado: solo rivelazione di segreto d’ufficio. e c’è da ricordare che se quello fosse rimasto il reato e fosse caduta l’aggravante dell’articolo 7 ovvero proprio il favoreggiamento indiretto alla mafia, il reato sarebbe stato prescritto e Cuffaro non avrebbe fatto un giorno di galera”.

Ma inizialmente la procura di Palermo voleva imputare l’allora presidente della Regione addirittura per concorso esterno. Questo non pone altri dubbi?

“Anche su questo mi sono fatto una mia idea. In Procura a Palermo c’era la convinzione forte della colpevolezza di Cuffaro ma anche la consapevolezza dell’inconsistenza delle prove d’accusa. Da qui nacque il confronto forte dentro la Procura, quasi uno scontro, che portò ad evitare l’imputazione di concorso esterno proprio perché non avrebbe retto in tribunale”.

Il libro esce domani, appena 4 giorni prima della scarcerazione di Cuffaro. E’ una scelta precisa? Cosa pensi accadrà quando Cuffaro lascerà il carcere?

“Durante questo mio lavoro sugli atti processuali – conclude Nastasi nella sua intervista a BlogSicilia – ho incontrato molte persone ed ho avuto modo di percepire come tanti in Sicilia non siano affatto convinti che Cuffaro sia stato vicino alla mafia. Mi aspetto una grande manifestazione di affetto da parte di questa gente nei confronti di un uomo al quale bisogna, comunque, riconoscere una cosa su tutte: il grande senso delle istituzioni dimostrato e la grande dignità nell’affrontare la pena comminatagli senza mai sottrarsi”.

Totò Cuffaro ha veramente favorito la mafia? Il nuovo libro di Simone Nastasi sul processo all’ex presidente dei siciliani, scrive My Belice” il 16 dicembre 2015. Totò Cuffaro adesso è un uomo libero. A ventiquattro ore dalla scarcerazione è ritornato nella sua Raffadali, accolto da un codazzo di persone, le stesse che lo hanno tanto atteso per quasi cinque lunghi anni. Ha pagato così il suo conto con la giustizia che lo aveva condannato definitivamente in Cassazione il 22 gennaio del 2011 per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato alla mafia. E lo ha accolto anche un nuovo libro “Cuffaro tutta un’altra storia – La verità sul processo al presidente dei siciliani” edito da Bonfirraro e scritto dal giornalista romano Simone Nastasi, in tutta Italia nelle librerie indipendenti e in tutte le librerie Mondadori, che rilancia molti dubbi sulle tesi dell’accusa, raccontando i passaggi più importanti che hanno scandito, come recita il lungo titolo, l’intera vicenda dibattimentale del «primo condannato della storia politica italiana a scontare in carcere una pena così lunga». Al di là del nome del personaggio, che in questo caso è senza dubbio risonante, il libro si muove su un campo minato che è quello della ricerca di una “giustizia giusta” in uno stato di diritto come l’Italia e mette in luce come, probabilmente, in tutta questa vicenda sia stata calcata un po’ la mano sulla gravità dei reati imputatigli. Un saggio acuto e agile, dall’andamento a spirale, con i concetti accennati prima e approfonditi poi, che, alla luce anche delle ultime dichiarazioni di Totò Cuffaro all’uscita da Rebibbia, abbandona subito la presunzione di essere detentore di assolute verità – a dispetto del titolo provocatorio – ma che induce il lettore a porsi, sempre e comunque, delle domande da cittadino libero. L’autore, dunque, utilizzando come principale fonte di informazione gli atti processuali, ha posto in evidenza tutte quelle stranezze e quelle ambiguità che hanno caratterizzato il processo all’ex governatore, accusato di essere una delle “talpe” che tra il 2001 e il 2003 avrebbero rivelato notizie riservate agli allora indagati per associazione mafiosa, Giuseppe Guttadauro e Michele Aiello. Nel libro si dipanano per intero i passaggi storici, dall’inchiesta “Talpe alla Dda” fino ad arrivare alla controversa questione della “prova regina”, ovvero la trascrizione di quell’intercettazione ambientale “Ragiuni avia Totò Cuffaro” che è per Nastasi uno degli elementi sul quale si concentrano i “dubbi maggiori”. «Perché così tanti consulenti? E perché per due periti la ricezione della microspia risulta poco udibile? Ma, soprattutto, Cuffaro avrebbe realmente fatto parte di quell’area grigia nella quale, come si legge nella sentenza di primo grado, “opera indisturbato un intreccio perverso tra interessi politici, economici, affaristici e mafiosi”»? Dubbi, interrogativi, testimonianze, interviste esclusive e quant’altro, arricchito dalla prefazione del giornalista d’inchiesta Guido Paglia, direttore de L’ultima ribattuta, e dalla postfazione dell’avvocato ed ex parlamentare Mauro Mellini, autore de Il partito dei magistrati (Bonfirraro ed.).

Totò Cuffaro: "Vi racconto le mie prigioni". Intervista di Luca Telese su "Libero Quotidiano" del 29 dicembre 2015.

«All'inizio ho cominciato a scrivere incidenti di esecuzione per tutti quelli che non erano in grado di farlo da soli. Ne avrò fatti almeno 200…».

Cosa sono? 

«È l'istanza per avere ridotta la pena se cambiano le leggi o le condizioni. È cominciato così…». In che senso? (Ride, autoironico) «Mi sono fatto una fama: l'avvocato del braccio. Sono soddisfazioni».

Poi?

«Poi sono passato ai "permessini", la richiesta burocraticamente incartata che serve per avere qualsiasi cosa. Il permessino per la torta, per lo spazzolino… (Altra risata, più amara) «Per le scarpe, il libro, la penna…. Senti ma la sai la più bella? Serve il permessino anche per potersi far scrivere il permessino».

E gli analfabeti come fanno?

«Ecco, bravo: nell'ora d' aria gli allungavo un permessino scritto da me, per chiedere, a nome loro, di potersi far fare un permessino, sempre da me».

A quel punto sei diventato sia avvocato che scrivano.

«Metà dei detenuti non ha avvocato. Ma ti stavo dicendo dell'ultimo gravosissimo incarico: la stesura delle lettere private».

Difficile?

«Una sofferenza fisica. Il carcere è una vita di messaggi in bottiglia».

Ma perché gravoso?

«È come rivivere tutte queste sofferenze. Te lo confesso: ho avuto problemi con molte lettere. Scrivi questo… scrivi quello…».

Mi fai un esempio?

«Una mia amica trans, molto innamorata del suo uomo mi diceva: "Adesso scrivi che lo desidero. Scrivi che lo voglio prendere da dietro e scrivi che voglio tanto metterglielo in culo».

E tu?

«Ho esclamato: Non posso!».

E la trans?

«E perché non potresti, scusa?». «Le faccio: Sono cattolico».

Ah ah ah… e lei? 

«Impassibile, ma con una logica inattaccabile dice: "Capisco, tu sei cattolico ma la lettera è la mia"!».

Posso dire solo qui che il giorno in cui Totò Cuffaro è stato condannato ero tra quelli convinti che se lo meritasse. Ero fra quelli indignati per i festeggiamenti per la sentenza di primo grado a base di cannoli. Lo avevo rincorso da inviato nella notte delle comunali di Catania. A cena con Raffaele Lombardo i due avevano decantato il loro pieno di preferenze come un sistema del Totocalcio. Ero rimasto a bocca aperta: avevo scritto tutto. Pensavo che Cuffaro si arrabbiasse, invece mi aveva detto: «Facciamo un'intervista!?». Ebbene sì, baciò pure me. Un vicerè. Era una vita fa. Lo rivedo dieci anni dopo, in una stanza di Rebibbia: un altro uomo. Maturo, serio, diverso. Trenta chili di meno, rada barba sale e pepe. Ci rivediamo più volte, nel corso di un anno, quando partecipo al corso di giornalismo istituito da Giorgio Poidomani. Manca un anno alla scarcerazione. Mentre usciamo da una cella Totò mi annuncia: «Ho scritto un libro dove il protagonista è un maiale in carcere che si chiama come Peppa Pip. È un libro orwelliano, la storia di Tota Pig. E Tota Pig sono io». Adesso Cuffaro è uscito, il libro ce l'ho in mano ("L'uomo è un mendicante che crede di essere un re", Aliberti), è bellissimo, la copertina è un maialino disegnato da Vauro. E Tota Pig è tornato Totò.

Ti hanno radiato dall'ordine, come fai a vivere?

«Già, un'altra follia. Ti riabilitano, ma ti tolgono la possibilità di lavorare. È come dire: Vai e ruba. Io mi limiterò alla prima cosa…

Dovevi dare 700 mila euro di danni all' erario.

«Ho venduto una casa. In qualche modo abbiamo fatto. Mio figlio, il mio orgoglio, adesso lavora».

Cosa farai con i diritti della Aliberti?

(Ride) «Coltivo un sogno eversivo. Voglio mettere insieme almeno 16mila euro per regalare ai detenuti un nuovo campo da calcetto. Con l'erbetta sintetica, capisci?

Quando eri dentro giocavi? 

«Ah ah ah… chi non gioca a pallone in carcere è morto. Anche chi gioca, a dire il vero, per i tanti calcioni che si danno e prendono. Alla fine con la scusa dell'età, avevo ottenuto il permesso di fare l' arbitro».

Cornuto?

«Questo ti stupirà: fra tutte le ingiurie che volano dietro le sbarre quella parola è un tabù».

Come te lo spieghi?

«Qui c' è gente che preferirebbe morire che scoprire un tradimento. La contumacia e l'assenza producono dolore da cui non c' è protezione».

La cosa per cui hai sofferto di più?

«L'impossibilità di dormire con cui combattono tutti. Io da medico mi sono imposto di non assumere i sedativi di cui l'amministrazione carceraria fa abbondante uso».

Perché?

«Perché volevo rimanere lucido. Alle 23.00 si dovrebbe spegnere tutto. Alle 24.00 il tuo compagno del letto di cella ulula: "Totò, basta co sti tolksciò!!!"».

Cioè i talk show?

«Sì, la politica, una delle malattie che non ti abbandona. All'una di notte sei chiuso nell'unico fortino dove in carcere esiste la privacy».

Quale?

«I sei metri cubi della tua branda. L'unico spazio, cesso e lavandino compresi, che non condividi con nessuno. E lì, sei finalmente solo con te stesso e inseguito dai tuoi demoni. Ti assale l'angoscia».

Il tuo libro sembra scritto da un saggista novecentesco: rifletti sulla condizione umana, citi Foucault e Sant'Agostino, Sciascia e Mann... Hai un ghost writer laureato in lettere?

«Non sfottere! Mi sono cibato di libri, come un affamato. Ne ho letti cinque sei a settimana, ero inseguito da loro. Mi hanno regalato, non so perché, venti copie delle Confessioni».

E che ne hai fatto?

«Distribuite fra le celle: il carcere è pieno di analfabeti che studiano. Anche se non era una lettura esattamente popolare: "Ancora co 'sto Sant' Agostino Totò! Ma Grisham non te lo regalano?"».

Sei stato presidente di regione, deputato: allora cosa pensavi del carcere?

«La verità? Me ne fottevo allegramente, come ancora oggi fa la maggior parte della classe dirigente italiana».

Cosa chiederesti al ministro Orlando?

«Di far finire una vergogna: perché un detenuto ha diritto a una sola telefonata a settimana? ».

Dal carcere sei uscito nudo.

«Ho regalato tutto. Tranne le scarpe e i vestiti con cui sono uscito e le quattordicimila lettere che mi hanno mandato».

Le hai tenute tutte?

«Anche le tre - relativamente poche - di insulti».

Tipo?

«Pezzo di merda, muori».

Carina perché la tieni?

«Perché è giusto che qualcuno mi volesse vedere marcire su 13mila che mi hanno incoraggiato. Rende vere le altre».

Il carcere redime?

«Ovviamente no. Il carcere non educa, diseduca. Una enorme struttura organizzata per creare inutile sofferenza».

Un altro esempio.

«Penso agli extracomunitari che non hanno la possibilità di vedere i loro bambini che crescono. Basterebbe Skype».

Dicevi che l'assenza è la pena più grande.

«Già: sentirsi abbandonato, dimenticato. In questo clima due parole di una lettera del Papa diventano discussioni di intere settimane di cella in cella».

Un leghista duro ti direbbe: sono criminali ben gli sta.

«Oh, sì. C' è un pezzo di società che ha sbagliato. Ma che merita di essere considerata: altrimenti che differenza c'è con la tortura?».

Altro promemoria per il ministro Orlando?

«Che vergogna l'aumento della tassa di soggiorno per chi è dentro. Ti facevano pagare 80 euro al mese, oggi 115. E 50 se li prendono in cauzione».

Hai aiutato il tuo compagno di cella, spacciatore, a ridursi la pena.

«Oh sì! Era stato condannato con la Giovanardi-Fini, demolita dalla Corte Costituzionale: ho fatto incidente di esecuzione anche a lui, e gli hanno levato due anni».

Hai trovato tua moglie in stato di depressione.

«Terribile: avevo intuito che dopo essere venuta tutte le settimane per quattro anni, se non passava doveva esserci qualche problema. Ma mio figlio non ha voluto dire nulla».

E una crisi legata a te proprio ora che esci?

«È convinta che mi riporteranno in galera».

Ma è vero che vai a fare il medico in Africa?

«A marzo, ho già il biglietto fatto per il Burundi. Se posso ci vado anche con lei. È medico, sarebbe utilissima».

Parliamo del tuo amico islamico Jalal.

«Compagno di cella. Dopo la strage del Bataclan abbiamo pregato insieme».

E non gli dava fastidio?

«Macchè. Pensa che spettacolo. Grida dal fondo del braccio: "Ahò che fannòoo?". Telecronaca dalla cella di fronte "E che devono fa? Preganoooo!"».

La cosa per cui hai sofferto di più?

«Le perquisizioni quando ti buttano tutto all' aria. Compresa la foto con i miei figli e mia moglie, infilata alla rete, che guardavo quando la notte mi stringevo al cuscino a piangere».

Cuffaro riceve favori, dicevano.

«Non mi perdonerò mai di non aver potuto dare la mano a mio padre mentre moriva. Mi hanno negato il permesso».

Ti hanno impedito anche di vedere tua madre.

«Le parole della dottoressa Tomasini, magistrato di sorveglianza: "Il colloquio viene negato perché sarebbe svuotato di ogni significato perché le condizioni sono tali che non si potrebbe avere una comune relazione di intenti"».

Sei d'accordo con il tuo compagno di partito Giovanardi su gay e trans?

«No, gli direi che non ha capito nulla: ma lo pensavo anche prima».

Il compagno di cella che hai amato di più?

«Giuseppe, un siciliano amante della poesia. Quando è uscito mi pareva di aver perso un parente».

C' è una lezione che vorresti trasmettere a chi leggerà il libro?

«È che lo capisci solo dentro una cella. Il desiderio è tutto, ed è solo nella tua immaginazione. Ma è quello che ti tiene vivo. Quando ti tolgono tutto».

Hai detto: senza la fede non avrei resistito.

«Vero. Ma adesso penso che sia diverso. Ho scoperto la vera essenza del mio cattolicesimo. Solo in cella ho capito cosa vuol dire essere cattolico: ho capito che di tutte le religioni monoteiste, il mio è l'unico Dio che è andato in carcere, che ha camminato con il cireneo».

Il Dio dei carcerati perché Dio carcerato.

«Proprio così: un Cristo che è sceso dalla croce per stare anche al fianco dei più disperati, è vicino prima di tutto a quelli che stanno a marcire nelle galere. Cristo è il Dio che viene in cella con te». Di Luca Telese

L'INGIUSTIZIA NON E' UNA UTOPIA: E' REALTA'.

GIUSTIZIA INGIUSTA. Boom di innocenti in cella anche nel 2015. La top ten degli errori giudiziari dell’anno. Quattro milioni arrestati ingiustamente In compenso dal ’98 al 2014 gli inquirenti riconosciuti colpevoli sono solo quattro, scrive Luca Rocca il 30 dicembre 2015 su “Il Tempo”. Milioni di persone incarcerate ingiustamente, migliaia le vittime di errori giudiziari, centinaia di milioni di euro per risarcire chi, da innocente, ha subìto i soprusi di una giustizia letteralmente allo sfascio. I numeri che descrivono il penoso stato del nostro sistema giudiziario non lasciano scampo e immortalano uno scenario disastroso a cui nessun governo è riuscito, finora, a porre rimedio. Il sito errorigiudiziari.com, curato da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, ha messo in rete i 25 casi più eclatanti del 2015 di cittadini innocenti precipitati nella inestricabile ragnatela della malagiustizia italiana. Casi che contribuiscono a rendere il panorama del nostro impianto giudiziario, come certificano più fonti (Unione Camere Penali, Eurispes, Ristretti Orizzonti, ministero della Giustizia), più fosco di quanto si pensi.

INNOCENTI IN CARCERE. Se dall’inizio degli anni ’90 gli italiani finiti ingiustamente dietro le sbarre sono stati circa 50mila, negli ultimi 50 anni nelle nostre carceri sono passati 4 milioni di innocenti. E se nell’arco di tempo che va dal 1992 al 2014 ben 23.226 cittadini hanno subìto lo stesso destino, per un ammontare complessivo delle riparazioni che raggiunge i 580 milioni 715mila 939 euro, i dati più recenti attestano che la situazione non accenna a migliorare. Come comunicato dal viceministro della Giustizia Enrico Costa, infatti, dal 1992, anno delle prime liquidazioni, al luglio del 2015 «è stata sfondata la soglia dei 600 milioni di euro» di pagamenti. Per la precisione: 601.607.542,51. Nello stesso arco di tempo, i cittadini indennizzati per ingiusta privazione della libertà sono stati 23.998. Nei primi sette mesi del 2015, inoltre, le riparazioni effettuate sono state 772, per un totale di 20 milioni 891mila 603 euro. Nei 12 mesi del 2014, invece, erano state accolte 995 domande di risarcimento, per una spesa di 35,2 milioni di euro. Numeri che avevano fatto registrare un incremento dei pagamenti del 41,3 per cento rispetto al 2013, anno in cui le domande accettate furono 757, per un totale di 24 milioni 949mila euro. In media lo Stato versa circa 30 milioni di euro all’anno per indennizzi. I numeri a livello distrettuale riferiti ai risarcimenti per ingiusta detenzione collocano al primo posto Catanzaro con 6 milioni 260mila euro andati a 146 persone. Seguono Napoli (143 domande liquidate pari a 4 milioni 249mila euro), Palermo (4 milioni 477mila euro per 66 casi), e Roma (90 procedimenti per 3 milioni 201mila euro).

ERRORI GIUDIZIARI. Nel 2014 è stato registrato un boom di pagamenti anche per quanto riguarda gli errori giudiziari per ingiusta condanna. Dai 4.640 euro del 2013, che fanno riferimento a quattro casi, si è passati a 1 milione 658mila euro dell’anno appena trascorso, con 17 casi registrati. La liquidazione, infatti, è stata disposta per più di 1 milione di euro per un singolo procedimento verificatosi a Catania, e poi per altre 12 persone a Brescia, due a Perugia, una a Milano e l’ultima a Catanzaro. Dal 1992 al 2014 gli errori giudiziari sono costati allo Stato, dunque al contribuente italiano, 31 milioni 895mila 353 euro. Ma il ministero della Giustizia, aggiornando i dati, ha certificato che fino al luglio del 2015 il contribuente ha sborsato 32 milioni 611mila e 202 euro.

MAGISTRATI «IRRESPONSABILI». La legge sulla responsabilità civile dei magistrati è stata varata la prima volta nel 1988 e modificata, per manifesta inefficacia, solo nel febbraio di quest’anno. I dati ufficiali accertano che dal 1988 al 2014 i magistrati riconosciuti civilmente responsabili dei loro sbagli, con sentenza definitiva, sono stati solo quattro. Secondo l’Associazione nazionale vittime errori giudiziari, ogni anno vengono riconosciute dai tribunali 2.500 ingiuste detenzioni, ma solo un terzo vengono risarcite. Stefano Livadiotti, nel libro «Magistrati, l’ultracasta», scrive che le toghe «hanno solo 2,1 probabilità su 100 di incappare in una sanzione» e che «nell’arco di otto anni quelli che hanno perso la poltrona sono stati lo 0,065 per cento».

Piangono e strillano. Così i magistrati hanno ottenuto il massimo. Hanno ottenuto il massimo che potevano dopo 28 anni di tradimento del voto popolare espresso a grandissima maggioranza nel referendum promosso dai radicali e dopo che, nel 2011, scrive Rita Bernardini su “Il Tempo” il 27 febbraio 2015. "Il pianto frutta": nessuno meglio dei magistrati italiani sa mettere in pratica questo antico modo di dire della saggezza popolare. Frignano per poi piangere fino a singhiozzare perché con la legge appena approvata sulla responsabilità civile, le toghe nostrane ritengono di non essere più indipendenti, di essere sottoposte a continui ricatti e costrette ad autocontenersi per il timore di essere chiamate in causa. La verità è che hanno ottenuto il massimo che potevano dopo 28 anni di tradimento del voto popolare espresso a grandissima maggioranza nel referendum promosso dai radicali e dopo che, nel 2011, la Corte di Giustizia Europea aveva condannato l’Italia per i limiti posti alla responsabilità civile dei giudici nell'applicazione del diritto europeo. Oggi al Governo e in Parlamento sono tutti protesi a rassicurare i magistrati che strillano e battono i piedi minacciando sfracelli. Da una parte il Parlamento è arrivato ad appiccicare alla legge una relazione d’accompagnamento in cui si spiega che per "negligenza inescusabile" si intende un travisamento "macroscopico ed evidente" dei fatti; dall’altra il Governo che, con il ministro della Giustizia, s’inventa il "tagliando", affermando di essere pronto a cambiare la legge entro sei mesi se ci saranno abusi. Ma quali abusi si possono temere se saranno giudici a giudicare altri giudici? In realtà, già quando fu promosso quel referendum, insieme al compianto Enzo Tortora, i radicali avevano ammonito che occorreva urgentemente affrontare le questioni della separazione delle carriere, degli incarichi extragiudiziari, dei distacchi dei magistrati nell’amministrazione pubblica, dell’automaticità delle carriere, del principio (falso perché impossibile da attuare) dell’obbligatorietà dell’azione penale, della correntocrazia nel Csm, insomma, una riforma organica della Giustizia che affermasse concretamente la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Oggi, con oltre cento magistrati distaccati presso gli uffici legislativi dei ministeri, c’è poco da stare tranquilli: c’è sempre una manina pronta a pinzare alle leggi l’interpretazione autentica, oppure un’intimidazione per la quale l’esecutivo si ritiene costretto a promettere revisioni nel caso in cui gli effetti delle leggi non assicurino, come è stato fino ad oggi, l’impunità delle toghe, i loro privilegi, le loro carriere. Grande assente da questo film – e ho motivo di dubitare che entrerà in scena – è l’illegalità palese dell’amministrazione della Giustizia che colpisce, come denunciava il Commissario per i diritti umani Alvaro Gil-Robles 10 anni fa, il 30 per cento della popolazione italiana per tempi irragionevoli trascorsi in attesa di una decisione giudiziaria, in violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; Convenzione che, secondo il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa viene sistematicamente violata dall’Italia fin dal 1980. Noi che la lotta per la responsabilità civile dei magistrati l’abbiamo per anni fatta-vissuta-vinta assieme ad Enzo Tortora con il calvario che quest’uomo perbene ha dovuto subire, siamo raggiunti da un’infinita tristezza quando vediamo che Renzi twitta esultante la foto di Tortora e tutti i media lo ritwittano raggianti. Quando nell’83 abbiamo sposato la causa di Tortora l’abbiamo fatto contro tutto e tutti perché era unanime il coro che definiva Enzo un camorrista, "cinico mercante di morte£. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se oggi – pressoché isolati – Marco Pannella e i radicali fanno proprio, nell’impegno politico quotidiano, il messaggio che il Presidente Emerito Napolitano ha inviato al Parlamento nell’ottobre del 2013 sulle infami carceri e sulla débâcle della giustizia italiana: non siamo bizzarri oggi, così come non lo eravamo più trent’anni fa al fianco di Enzo Tortora. Mi auguro che questa volta ci si aiuti ad aiutare il Paese e coloro che abitano il nostro territorio a non subire per troppo tempo ancora le conseguenze di una democrazia perennemente tradita nei suoi connotati costituzionali.

Da Enzo Tortora alla hostess ecco tutti gli sbagli delle toghe. C’è Manolo Zioni, rimasto un anno in cella per colpa di un tatuaggio. Il vero rapinatore confessò ma non venne creduto. Ignazio Manca in carcere oltre un anno per non aver fatto niente, scrive Mau. Gal. su “Il Tempo il 26 febbraio 2015. I "padre" di tutti gli errori giudiziari fu il processo a Enzo Tortora. Un errore che segnerà per sempre la vita del presentatore televisivo e, per alcuni, ne decretò anche la prematura scomparsa. L’elenco dei volti noti finiti nelle maglie dell’ingiustizia all’italiana è lungo. Si va da Gigi Sabbani a Serena Grandi. Se Tortora venne arrestato nell’83, in favore di telecamere nel giugno del ’70 fu la volta di Lelio Luttazzi, ammanettato con Walter Chiari per droga. E l’8 aprile 1994 toccò a Leonardo Vecchiet, medico della Nazionale. Ma ci sono anche tanti sconosciuti, nomi anonimi, che hanno subito il danno nell’indifferenza generale. Il record spetta a Giuseppe Gulotta, che ha scontato 22 anni per un duplice omicidio mai commesso. Anche i casi e le storie più recenti (tutti sono denunciati quotidianamente dal sito specializzato "Errorigiudiziari.com") sono numerosi. E, spesso, fanno venire i brividi. C’è Manolo Zioni, rimasto un anno in cella per colpa di un tatuaggio. Il vero rapinatore confessò quasi subito, ma non venne creduto. Il giovane romano venne, per sua fortuna, scagionato da una perizia su una macchia sulla pelle. Assolto, otterrà un risarcimento di circa 80 mila euro per i suoi 351 giorni dietro le sbarre. Marin H., invece, aveva già scontato un anno per il reato di sfruttamento della prostituzione. Ma questa volta non era recidivo. Lui non c’entrava, anche se le "ragazze" lo accusavano. Alla fine, ha ottenuto 51 mila euro. E che dire dell’ex vicesindaco di Montesilvano Marco Savini, che ha impiegato ben otto anni per vedere riconosciuta la sua estraneità ai fatti. Travolto (è proprio il caso di dirlo) dall’inchiesta "Ciclone" nel 2007, con le pesanti accuse di associazione per delinquere, truffa e corruzione, ha fatto 98 giorni in cella e ora attende un rimborso. La vita di Luigi Vittorio Colitti è stata distrutta quando aveva solo diciotto anni. Fu accusato di aver aiutato il nonno ad uccidere il vicino di casa, un consigliere comunale e provinciale dell’Italia dei Valori. Ci sono voluti due processi e quattordici mesi di prigione prima che venisse giudicato innocente. Ora chiede mezzo milione di euro. Ignazio Manca ha trascorso in carcere oltre un anno. E non aveva fatto niente. Era accusato di riciclaggio e ricettazione e venne condannato in primo grado a quattro anni di reclusione. Il fatto che il fratello si fosse assunto ogni responsabilità, così scagionandolo, non ha sfiorato la mente di chi lo stava giudicando, facendogli sorgere un "ragionevole dubbio". All’epoca dei fatti si trovava in ospedale e solo per questo fu assolto in appello: avrà 150 mila euro. Uno dei casi più eclatanti e strazianti fu quello della hostess Elena Romani, ritenuta l’assassina della figlia Matilda. Una bambina. Mentre la piccola moriva, però, lei non era neanche in casa. Ciò non ha impedito che dovesse affrontare tre gradi di giudizio prima di dimostrare la sua innocenza. Adesso vuole 80 mila euro. Ma il procuratore generale della Corte d’appello non è d’accordo: sostiene che con il suo comportamento abbia giustificato i sospetti su di lei. Pasquale Capriati, accusato di tentata rapina e tentato omicidio, ha dovuto attendere quasi un quarto di secolo: solo dopo 23 anni (6 mesi in cella e due ai domiciliari) si è capito che si trattava di uno sbaglio. Prosciolto, ha chiesto allo Stato 516 mila euro per ingiusta detenzione. E l’avvocato barese Sergio Mannerucci ha dovuto subire una settimana in prigione e due anni di odissea giudiziaria per far capure che non c’entrava niente con la truffa all’Inps di cui era stato accusato. Errori pagati con la privazione della libertà dagli indagati. E con i soldi da noi contribuenti.

Dodici casi di ordinaria ingiustizia. Accuse senza prove, perizie sbagliate, rapine mai fatte, così si può finire in carcere da innocenti, scrive Andrea Ossino su “Il Tempo” il 30 dicembre 2015.

Cinque anni per droga Ma il colpevole non era lui. Per 5 anni hanno creduto fosse un narcotrafficante internazionale. W.U., quarantenne residente a Frosinone, ha visto crescere le sue due gemelline da dietro le sbarre. Non è riuscito a stare vicino alla sua famiglia nei momenti di difficoltà. Tutto questo perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era stato arrestato nel 2010, mentre era all'aeroporto di Capodichino, a Napoli. La Dda partenopea lo aveva fermato insieme ad altre 30 persone perché risultava aver avuto contatti con la fidanzata di un uomo che faceva parte di un'organizzazione criminale dedita al narcotraffico. Il legale dell'uomo, Francesco Galella, è riuscito però a dimostrare che quelle telefonate che provavano come tale «Biggy» cedesse e ricevesse stupefacenti, non erano riconducibili al suo assistito. W.U. è quindi stato assolto e adesso chiede allo stato 500 mila euro. Una cifra che non gli potrà mai risarcire gli anni persi, ma almeno gli consentirà di rifarsi una vita dignitosa.

Accusati senza prove di una truffa milionaria. Accusati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, Pio Maria Deiana, Carlos Luis Delanoe e Carmelo Conte, sono stati assolti dal tribunale di Terni perché il fatto non sussiste. Era il 2005 quando i tre indagati cercarono di acquistare una squadra di calcio, la Ternana, e Villa Palma, un luogo dove poter avviare una fondazione. L'affare non andò in porto perché vennero arrestati prima che la filiale di una banca concedesse loro un prestito di 100 milioni di euro sulla base di una fidejussione di 400 milioni di dollari di una banca brasiliana. Proprio la fidejussione li fece finire sul banco degli imputati, dal quale dovettero assistere alla sfilata dei testimoni eccellenti: dall’ex presidente del Coni di Terni, Massimo Carignani fino all'ex sindaco di Terni, Paolo Raffaelli. Grazie ai teste e alle perizie capaci di dimostrare la veridicità della fidejussione e la limpidezza dell'operazione finanziaria, la corte di Terni li assolse sottolineando che i 3 erano stati reclusi ingiustamente per 6 mesi. Adesso chiedono di essere risarciti.

In cella a 16 anni per una perizia sbagliata. Una perizia sbagliata lo aveva condotto in cella quando aveva 16 anni. Sulla sua testa una pesante accusa: aver ucciso il padre. Per questo motivo Luca Agostino aveva trascorso 113 giorni in carcere. Il padre, Cosimo, era stato ucciso con tre colpi di arma da fuoco il 24 febbraio del 2010. Luca era stato arrestato insieme al fratello maggiore, Vincenzo. La perizia non lasciava spazio a dubbi: sulle mani del ragazzo era presente polvere da sparo. Neanche la testimonianza del fratello reoconfesso, grazie al quale era stata trovata anche l'arma del delitto, aveva convinto gli inquirenti milanesi. Poi i consulenti del giudice e quelli della procura arrivano a una conclusione unanime: «i risultati delle operazioni peritali appaiono compatibili con le dichiarazioni rese dai tre soggetti presenti al momento dell’omicidio». A scagionarlo definitivamente una conversazione in carcere con il fratello: «Vincenzo esprime sorpresa e rabbia verso il fratello quando apprende che Luca potrebbe aver toccato la pistola e risultare perciò positivo alla prova dello Stub». Adesso Luca è stato risarcito: 24mila e 300 euro.

Medico condannato Ma salvò un detenuto. Ha chiesto un milione di euro per ingiusta detenzione. Una cifra a sei zeri che comunque non potrà mai ripagarlo del torto subito. Alfonso Sestito, cardiologo del Policlinico Agostino Gemelli di Roma è stato assolto con formula piena. Secondo gli inquirenti avrebbe scritto una falsa perizia. Un documento che avrebbe consentito la liberazione di un detenuto e che sarebbe stato «richiesto» dall'avvocato Marco Cavaliere, condannato a tre anni di carcere. Così il medico aveva dovuto trascorrere quindici giorni agli arresti domiciliari e, dal febbraio del 2013, era stato costretto a non allontanarsi dalla Capitale. Nel corso del processo, il legale del dottore è riuscito a dimostrare che grazie a quella perizia, l'imputato avrebbe salvato la vita al paziente, il detenuto Carmine Buongiorno. Così l'uomo è stato assolto dall'accusa di falso. Adesso Alfonso Sestito, dopo aver chiesto di essere risarcito, è in attesa del pronunciamento del giudice.

Sei mesi in cella per una rapina mai fatta. Per un anno è stato detenuto ingiustamente, trascorrendo anche 6 mesi all'interno di un penitenziario. Claudio Ribelli, secondo l'accusa, avrebbe rapinato una donna puntando un coltello alla gola del figlio. Magro il bottino ottenuto: 100 euro e una piccola collana d'oro. Il ventottenne sardo era finito nel carcere di Buoncammino, a Cagliari, perché la vittima affermava di averlo riconosciuto. Erano in due i complici che nel 2010 avevano rapinato la donna. Il primo, Pierpaolo Atzeni, è stato condannato a scontare 5 anni e 4 mesi di reclusione. Il presunto complice, Claudio Ribelli, è invece stato assolto e la Corte d'appello di Cagliari ha stabilito che lo Stato gli corrisponda 91.082 euro come riparazione per ingiusta detenzione. Del resto le telecamere di una stazione di servizio che avevano immortalato la scena del crimine avevano ripreso il complice scagionando Ribelli. Adesso l'operaio sardo cerca di rifarsi una vita nonostante abbia trascorso 6 mesi in una cella di 4 metri per 4 priva di acqua calda, riscaldamento e pavimento, insieme ad altri 5 detenuti.

Tentato omicidio. Ma il marito aveva mentito. Anche in Sicilia, nel 2015, è stato riconosciuta una riparazione per ingiusta detenzione. Ad Elena Khalzanova infatti sono stati dati 38mila euro. Era stata assolta due anni fa, nel luglio del 2013, dopo essere stata accusata di aver tentato di uccidere il marito. Ma secondo la corte di Catania, i 18 giorni di galera e i 286 giorni di arresti domiciliari affrontati da Elena, ingegnere russo di 59 anni ed ex direttore di una fabbrica della marina militare sovietica, non valgono neanche 40 mila euro. Elena era stata accusata di voler uccidere il marito – avrebbe tentato di soffocarlo con un cuscino – per impossessarsi dell'eredità. Ma l'unico testimone che la accusava era proprio la vittima. Durante il processo le sue testimonianze sono però state ritenute «incoerenti e contraddittorie e come tali non meritevoli di credito». A causa di presunte violazioni anche il Consolato generale della Federazione russa a Palermo aveva seguito il caso.

Accusato di corruzione Prosciolto dopo 6 anni. Dante Galli al momento del suo arresto lavorava come dirigente dell'ufficio urbanistica di Pietrasanta, in provincia di Lucca. Il 31 gennaio del 2006 però aveva perso tutto. Era stato arrestato insieme al sindaco Massimo Mallegni e a numerosi politici, funzionari e imprenditori. Sulla sua testa pesava un'accusa importante: corruzione. Dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari ha dovuto affrontare un maxi processo nel corso del quale fortunatamente era tornato a piede libero. Il suo incubo è terminato dopo sei anni. Il 2 aprile del 2012. Il tribunale di Firenze non ha avuto dubbi: Galli è stato prosciolto da ogni accusa e deve essere risarcito per tutte quelle settimane trascorse tra il carcere e gli arresti domiciliari. Adesso pronuncia parole felici, si dichiara sereno, ma nessuno potrà mai cancellare l'esperienza vissuta, la perdita della libertà e della dignità professionale. Adesso all'uomo è stato riconosciuta l'ingiusta detenzione. Il politico però non ha fatto sapere a quanto ammonta.

Per i pm era un boss. Scagionato a 70 anni. Il suo nome gli è costato 3 anni e 11 mesi da scontare agli arresti domiciliari. Ma Beniamino Zappia non era il boss della mafia italo-canadese e adesso deve essere risarcito. Una vicenda che inizia il 22 ottobre del 2007, quando la Dia di Roma arresta l'uomo accusandolo di associazione a delinquere di stampo mafioso. Gli inquirenti pensano infatti sia il tramite tra le cosche agrigentine e quelle canadesi legate ai fratelli Rizzuto di Montreal, credano che i boss si siano serviti di lui per infiltrarsi negli affari d'oro relativi alla costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Così lo arrestano insieme ad altre 18 persone. Complice il suo nome e la sua fedina penale non proprio immacolata, Zappia viene recluso a San Vittore, poi a Roma e ancora a Benevento e Secondigliano. Nel 2008, ormai 70enne, viene trasferito in regime di carcere duro. Poi i dubbi, la concessione degli arresti domiciliari nel maggio del 2010 e infine la sentenza. Il 23 novembre del 2012 viene assolto perché il fatto non sussiste.

Un anno di detenzione. Ma i testimoni lo salvano. Una detenzione durata ben 351 giorni e un indennizzo di 100 mila euro, pari a 235 euro al giorno. Manolo Zioni, romano, quando aveva 22 anni era stato accusato di aver messo a segno 3 rapine, tutte compiute tra l'agosto e il settembre del 2010, in zona Pineta Sacchetti, nella Capitale. Nonostante Alessandro Rossi, un rapinatore già in stato di detenzione, avesse ammesso di aver compiuto anche i colpi contestati a Zioni, i giudici non gli credono. Nessun testimone lo riconosce e allora viene disposta una perizia sulle immagini riprese dalle telecamere. Il rapinatore, quello vero, aveva un diamante tatuato sul collo. Manolo Zioni invece solo una macchia sulla pelle. Così il ragazzo viene rimesso in libertà e dopo 20 giorni viene assolto per non aver commesso il fatto. L'imputato viene risarcito, ma non è di certo un santo. Così lo scorso giugno è stato fermato nuovamente. In zona Primavalle avrebbe gambizzato un uomo, un personal trainer di 35 anni con cui aveva un debito in sospeso.

58 euro per ogni giorno incolpato ingiustamente. Lo stato gli ha dato 23 mila euro. Ogni giorno che ha trascorso in carcere vale appena 58 euro. E in cella Alberto Vitulo ha trascorso ben 13 mesi. Spaccio di sostanze stupefacenti. Questa l'accusa sostenuta dagli inquirenti di Cavarzere, in provincia di Venezia. L'uomo, 53 anni, era stato arrestato il 28 ottobre del 2008. L'operazione dei carabinieri aveva sgominato una banda di neofascisti accusati di trafficare stupefacenti. In pratica l'associazione avrebbe portato la cocaina dal Sudamerica per poi rivenderla nelle piazze di spaccio del Veneto. Alberto Vitulo, secondo l'accusa, avrebbe gestito il traffico nell’area del rodigino. Alla fine l'uomo è stato assolto. Misero il risarcimento ottenuto e sentenziato dalla Corte d'appello di Venezia. Ma i giudici hanno motivato l'ingiusta detenzione in carcere spiegando anche che Vitulo, originario di Cavarzere, avrebbe contribuito colposamente all’emissione e al prolungamento della misura cautelare a suo carico, omettendo di fornire agli inquirenti alcun chiarimento in merito al comportamento che gli veniva contestato.

Vicesindaco «truffatore». Ma era una menzogna. Un calvario giudiziario durato ben 8 anni. L'avvocato Marco Salvini, quando aveva solo 32 anni, aveva dovuto trascorrere anche 98 giorni in regime di arresti domiciliari. La vicenda che risale al 2007 lo ha visto accusato di associazione per delinquere, truffa e corruzione. Adesso chiede un risarcimento per il torto subito, per la libertà privata, per la reputazione persa in un paese, Montesilvano (provincia di Pescara), dove le voci corrono velocemente, specialmente se un processo dura più di 8 anni, soprattutto se l'avvocato Marco Salvini, al momento dell'arresto, era anche il vicesindaco di Montesilvano. La sua vita è cambiata radicalmente prima di essere assolto, prima di uscire a testa alta dall'inchiesta Ciclone, quella che nel 2007 lo ha condotto in braccio alla giustizia. Ora crede ancora nel sistema giudiziario. Un sistema capace anche di assolvere e di risarcire per il danno subito. Adesso l'uomo attende le motivazioni della sentenza e si appresta a chiedere un corposo risarcimento.

In galera 156 giorni per un errore di calcolo. Quella lunga fedina penale non gli è stata certo d'aiuto. Luigi Aiello in ogni caso è stato detenuto 156 giorni di troppo, per un errore di calcolo. Adesso è stato risarcito. Dall'errore commesso dai giudici ne era scaturito anche un secondo, questa volta commesso da Aiello. L'uomo infatti aveva una complessa vicenda giudiziaria che grazie alle leggi, e ai numerosi soggiorni in carcere, lo aveva costretto a scontare gli ultimi 5 anni e 8 mesi agli arresti domiciliari. Lui però, durante l'ultimo periodo, era andato in Spagna. Quando era tornato, dopo alcuni mesi, era dunque stato arrestato e condannato a un ulteriore anno di reclusione. Mentre stava scontando i suoi giorni in galera i suoi legali si erano accorti dell'errore. Conti alla mano, la Corte d'appello di Trento aveva accolto la sua richiesta di ingiusta detenzione: 40mila euro. Adesso l'uomo sta affrontando gli altri processi a suo carico e presto saprà se gli verrà riconosciuta una seconda ingiusta detenzione.   

Dal 2000 l'Associazione Culturale "ARTICOLO 643" tutela le vittime di "errori giudiziari, ingiusta detenzione e lungaggini processuali". Sono un gruppo di professionisti (avvocati, docenti universitari, etc.) che si dedicano assiduamente alle delicate tematiche della Giustizia. Da anni mettiamo a disposizione dei cittadini competenze specifiche nei delicati istituti della revisione processuale e della riparazione per ingiusta detenzione. Il loro portale è divenuto un efficace veicolo di informazione per gli addetti ai lavori e un punto di riferimento per le centinaia di persone che ogni anno sono vittime di errore giudiziario o di ingiusta detenzione.

Altro esempio di spendita di passione a favore delle vittime dell’ingiustizia terrena è il lavoro di due giornalisti validi e coraggiosi che gestiscono il sito web ErroriGiudiziari.com che al 26 ottobre 2015 contava su 658 casi presenti nel loro archivio. Questo sito nasce dall’idea di due giornalisti che da anni si occupano di errori giudiziari e ingiusta detenzione. Nel 1996, dopo aver realizzato il capitolo “Giustizia-Ingiustizia” per il Rapporto Italia Eurispes, pubblicano il libro “Cento volte ingiustizia – Innocenti in manette”, una raccolta di errori giudiziari dal Dopoguerra ai giorni nostri. Da allora hanno continuato a raccogliere e archiviare casi e storie di vittime di errori della giustizia, che ora danno vita a Errorigiudiziari.com, il primo archivio italiano sugli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni.

Benedetto Lattanzi (Roma, 1966), giornalista, lavora per un’agenzia di stampa nazionale.

Valentino Maimone (Roma, 1966), giornalista, scrive di attualità e salute per diversi periodici nazionali e per il web.

Legge Pinto, stretta sui risarcimenti. Rischiano anche quelli per ingiusta detenzione? Scrivono il 16 settembre 2015: Giudici, la carriera prima di tutto. Il direttore del quotidiano romano “Il Tempo”, Gian Marco Chiocci, interviene con un editoriale sul tema della riforma della giustizia, degli errori giudiziari, dell’ingiusta detenzione e della responsabilità dei magistrati. A poca distanza dalla pubblicazione di dati aggiornati sugli innocenti in carcere nel nostro Paese, le sue parole non sono affatto tenere: il sottosegretario alla Giustizia, Enrico Costa, sta facendo un’opera meritoria di trasparenza nel tentativo di cambiare le cose. Ma le prospettive, stando al ragionamento di Chiocci, non sono affatto rosee: le riforme possibili, viste le resistenze della categoria dei magistrati, sono in realtà decisamente improbabili. Esattamente due anni fa “Il Tempo” mandò in stampa un’inchiesta devastante sulle ingiuste detenzioni, argomento tornato oggi di moda per il tentativo del governo di farla pagare a chi sbaglia, cioè ai magistrati eventualmente colpevoli d’aver mandato in galera un innocente. A scanso di equivoci e pie illusioni diciamo subito che nonostante Enzo Tortora, il referendum dei radicali, i mille tentativi di provare a regolamentare un’anomalia solo italiana, quest’ultimo esperimento, lodevole nelle intenzioni e rivoluzionario sulla carta, certamente non vedrà la luce. Il sottosegretario alla giustizia Costa, nel rendere noti i dati della vergogna (tra errori giudiziari e ingiuste detenzioni in 22mila sono stati risarciti, oltre 600 i milioni di euro che lo Stato ha tirato fuori come indennizzo) ha sollecitato l’applicazione della «responsabilità dei magistrati» attraverso l’avvio, in automatico, ai titolari dell’azione disciplinare, dell’ordinanza che accoglie l’istanza di riparazione per il carcere ingiusto. In altre parole, nelle intenzioni del sottosegretario, a differenza del passato ove non vi era alcun obbligo di trasmissione, una volta ottenuto l’indennizzo, il fascicolo verrà preso, impacchettato e girato ai titolari dell’azione disciplinare che valuteranno se e come comportarsi con il magistrato che ha trattato il caso in questione. Fino ad oggi su 22 mila errori giudiziari accertati, hanno pagato solo 8 giudici. Con questo sistema in tanti potrebbero rischiare inciampi di carriera. Ecco perché la rivoluzione sognata da Costa non si farà mai.

Tra i centinaia di casi, ne raccontiamo qualcuno....

Addio a Mario Conte, magistrato vittima della malagiustizia. Gli errori giudiziari sono qualcosa che può capitare a tutti. Finire in carcere da innocenti, vivere un periodo più o meno lungo di ingiusta detenzione, è molto meno raro di quello che si possa pensare. Un fenomeno che in Italia è decisamente sottovalutato perché – numeri alla mano – costituisce in realtà una vera emergenza sociale: come altro definireste i circa mille casi di riparazione per ingiusta detenzione che ogni anno in media si verificano nel nostro Paese, da più di vent’anni a questa parte? La storia del magistrato Mario Conte, una precocissima esperienza a Palermo in prima linea nell’antimafia seguita da una carriera come pm a Bergamo, sotto questo aspetto è illuminante. Finì trascinato in un’accusa infamante, per un giudice dalla condotta cristallina come lui, per opera di un pentito. Travolto da capi di imputazione pesantissimi. Sottoposto a un’odissea giudiziaria a cui, nel tempo, si aggiunse un macigno ancora più colossale: una malattia terribile come il mieloma multiplo. Difficile dire se provocata, magari indirettamente, dal calvario personale cui già era stato sottoposto dal momento dell’incriminazione infondata. Ma destinata comunque a cambiargli la vita per sempre. Mario Conte ha impiegato 18 anni per dimostrare la sua totale estraneità a ogni accusa. Ha vinto contro la malagiustizia, ma ha dovuto cedere a qualcosa contro cui, purtroppo, non poteva che soccombere. Di lui ci resta un libro testamento dal titolo chiaro ed efficace come pochi altri. Perfetto per ricordare a tutti che finire nelle maglie dell’errore giudiziario può accadere a chiunque: a prescindere dalla condizione sociale, dalla provenienza, dalla collocazione geografica. E quando la giustizia sbaglia, sono dolori veri. Raccontare la sua storia in giro per l’Italia sarebbe stato, per quanto possibile, un piccolissimo risarcimento alle vicende nelle quali è stato suo malgrado coinvolto. Ma Mario Conte non ce l’ha fatta: è spirato pochi giorni prima che il suo libro «E se fossi tu l’imputato? Storia di un magistrato in attesa di giustizia» (Guerini e Associati Editore) potesse essere presentato nel paese che aveva dato le origini alla sua famiglia, Villanova del Battista, al quale era molto legato. Quello che ha riguardato Conte può essere catalogato come mero errore giudiziario, uno di quelli che in Italia, purtroppo, non sono così rari? Napoletano di nascita, ma irpino di Villanova per origini familiari, Conte era entrato in magistratura a soli 27 anni: da allora, a Bergamo per anni da pubblico ministero presso la Procura della Repubblica. «E se fossi tu l’imputato?» è il suo libro-testamento che invita a fuggire, a rigettare il concetto di giustizia come mero e vuoto esercizio del potere. Un titolo che è una domanda secca a chi legge, per far intendere che l’errore può colpire chiunque: anche magistrati come lui. Perché gli ultimi 18 anni della vita di Conte sono un vero e proprio calvario. Prima, nel 1997, viene accusato da un pentito di essere a capo di una serie di presunte operazioni illecitamente gestite dai militari del Ros di Bergamo e di Roma, che avrebbero costituito una struttura deviata per strumentalizzare le norme sulla consegna controllata di stupefacenti, al fine di conseguire brillanti operazioni. Nel 2003, Conte riceve il primo avviso di garanzia. Le accuse, gravissime, gli piombano addosso come un macigno: associazione a delinquere, traffico di stupefacenti, falso, peculato. «Io sono un pm, non un narcos», reagisce d’istinto. Normale, per chi aveva trascorso quattro anni, dal 1992 al 1996, da applicato presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Là dove la mafia la si combatte giorno dopo giorno, minuto dopo minuto. Al dramma giudiziario si aggiunge quello strettamente personale, che alcuni neurochirurghi ritengono legato al primo a filo doppio: nel 2006 gli viene diagnosticato un mieloma multiplo. Conte non si arrende e alla battaglia per la sua innocenza affianca quella per la guarigione. Battaglie che terminano nello stesso periodo, seppur con esiti drammaticamente opposti: dopo aver rinunciato alla prescrizione, nel luglio 2014 viene assolto con formula piena dalla Corte d’Appello di Milano. Il 2 ottobre scorso, invece, deve arrendersi al male che in 9 anni lo ha divorato. Dopo i funerali, tenuti a Bergamo, oggi, con una celebrazione alle 17 presso la Chiesa di Santa Maria Assunta, lo ricorderà anche Villanova del Battista. Oltre all’insegnamento di una vita integerrima, Mario Conte lascia un libro che è anche un testamento, una visione del tanto discusso e discutibile sistema giuridico italiano maturata attraverso la propria professione e la vicenda che lo ha coinvolto. Un sistema che egli conosce benissimo ma del quale rimane vittima. Eppure, basterebbero «piccoli accorgimenti: bisogna recuperare – scrive Conte – le distinzioni dei ruoli e la cultura della prova, oggi spesso soppiantata da una visione della giustizia non già come servizio nei confronti del cittadino, ma come esercizio di un potere che funge da ammortizzatore sociale, scadendo così in un’attività di supplenza di altri poteri dello Stato incapaci di esprimere il proprio ruolo». (fonte: Domenico Bonaventura, Il Mattino, 10 ottobre 2015)

Storia di Mario Conte, magistrato rovinato dalla “giustizia”. Un processo all’ingiusto processo, scrive il 28 Maggio Francesco Amicone su “Tempi”. Messo alla sbarra per vent’anni secondo le accuse (inattendibili) di un criminale senza scrupoli, uscito assolto ma distrutto da due gradi di giudizio, l’ex pm ha deciso di scrivere un libro per legittima difesa. A partire da oggi, giovedì 28 maggio, sarà nelle librerie “E se fossi tu l’imputato?” (Guerini e Associati, 143 pagine, 15,50 euro), il libro in cui l’ex pm di Bergamo Mario Conte “processa” l’ingiusto processo subìto per vent’anni dopo essere stato coinvolto nella rumorosa indagine sul generale del Ros Giampaolo Ganzer. Pubblichiamo l’articolo tratto dal numero di Tempi in edicola che racconta la sua storia. L’Italia non sarebbe abbonata alle sentenze europee per violazione dei diritti umani e la giustizia avrebbe risolto gran parte dei suoi problemi, se fosse svelta come lo era Biagio Rotondo a uscire di prigione. Rotondo era un criminale soprannominato “il Rosso”. Entrava in prigione con accuse che avrebbero sistemato chiunque per anni e riusciva ottenere gli arresti domiciliari dopo qualche mese. Spaccio, rapine, furti. La sua fedina penale era costellata di crimini, anche violenti, ma riusciva a cavarsela con le parole. Mandava a chiamare il pm di turno e in cambio di informazioni per lui si aprivano le porte del carcere. Per i suoi accusati, invece, ad aprirsi era una lunga stagione di guai. Dalle parole di Rotondo nasce l’inchiesta che dal 1997 ha coinvolto alcuni carabinieri della sezione anticrimine di Bergamo, i vertici dei carabinieri e un magistrato, per associazione a delinquere e traffico di stupefacenti. Rotondo non c’è più, si è impiccato in carcere nel 2007, ma il processo per alcuni imputati, in particolare l’ex comandante del Ros Giampaolo Ganzer, è ancora in corso. La durata quasi ventennale del processo è solo un particolare dell’esperienza da imputato vissuta da Mario Conte. Per trent’anni pm a Bergamo e oggi scrittore per legittima difesa, dal 1997 al 2014 Conte ha calcato aule di tribunali e studi di avvocati replicando alle accuse di Rotondo, della procura di Brescia e di Milano, dalle quali è stato completamente scagionato lo scorso anno. Dichiarato due volte innocente, ha preso la penna e ripercorso la sua vicenda giudiziaria raccontando nel dettaglio gli errori, le discrasie del sistema e alcune sviste dei pm che hanno condotto l’inchiesta. E se fossi tu l’imputato? è il titolo del libro di Conte, editato da Guerini. La vicenda ha inizio nel 1997. A giugno di quell’anno, Rotondo viene arrestato per tentato omicidio, rapina, illecita detenzione e porto di armi dalla questura di Brescia. Le porte del carcere si sarebbero chiuse per almeno un decennio se non avesse aperto bocca. Non bastava il mea culpa, c’era bisogno di una storia. Il Rosso l’aveva e la offrì alla procura di Brescia. Il pm Fabio Salamone decise di ascoltarla. Rotondo parlò della sua collaborazione con i carabinieri di Bergamo, due anni come informatore fra il 1992 e il 1994, soffermandosi su alcune irregolarità compiute dai militari e spiegando, dichiarazione dopo dichiarazione, in cosa consistesse il suo lavoro. Il compito affidatogli da “il Biondo”, “il Ciccio” e altri militari del Ros infiltrati nelle organizzazioni del narcotraffico, sarebbe stato quello di trovare criminali e istigarli ad acquistare la droga da loro importata tramite alcune fonti. In Italia, la legge sulle attività sotto copertura vieta la provocazione, ma stando a Rotondo, era proprio quello che facevano lui e gli altri militari coinvolti: avrebbero imbastito un traffico di stupefacenti internazionale con la protezione di un magistrato di Bergamo, Mario Conte, che firmava gli atti di indagine per ottenere successo, pubblicità e fare carriera. Il “sistema” sarà poi definito dai magistrati e dai giornalisti “metodo Ganzer”, generale dei carabinieri allora in ascesa e oggi in pensione, con una sentenza della Cassazione ancora pendente. Salamone, colpito dalle confessioni di Rotondo, fece parlare il pregiudicato per altri due anni. L’inchiesta, per quanto delicata, approdò davanti a un giudice soltanto nel 2003, a Milano. Nel frattempo Rotondo non smise di delinquere e fu nuovamente arrestato nel 2007, dopo aver violato più volte il programma di protezione testimoni che aveva conquistato con le sue dichiarazioni sul Ros. Sulla base delle parole di Rotondo è stato costruito un processo in cui Conte viene accusato di essere a capo del “sistema” con cui gli agenti del Ros, sotto la sua regia, avrebbero violato la legge sulle “consegne controllate” di droga, usando come burattini il Rosso e narcotrafficanti del calibro di Otoya Tobon, soprannominato “El drago” (un colombiano ai vertici del cartello di Calì e in seguito collaboratore della Dea americana). Il problema, afferma l’ex pm di Bergamo, non è avere cercato riscontro alle parole del pentito, ma il metodo seguito per verificarle. Le dichiarazioni di Rotondo difficilmente potevano essere ritenute attendibili, nel suo caso. Esaminato dalla difesa o dalla accusa, Rotondo più volte aveva cambiato versione dei fatti. Ai giudici che hanno assolto Conte è parso evidente dalle stesse dichiarazioni del pentito, il quale nel 1997 affermava «io non so se il dottor Conte sapesse come le operazioni venivano gestite», per poi cambiare parere dopo quattro anni di collaborazione: «Il dottor Conte certamente sapeva che lo stupefacente era nelle mani del Ros e che io cercavo acquirenti». Ma non si fermano qui le perplessità sulle dichiarazioni di Rotondo, perché il consulente di Conte, analizzando i nastri delle registrazioni del 1997 e del 1998, vi riscontrò molte anomalie. Ad esempio numerose interruzioni – in alcuni casi ogni sei minuti, in un caso addirittura ogni cinquanta secondi – e a volte sovra-incisioni che avrebbero dovuto rendere quelle registrazioni inutilizzabili. Il metodo operativo che avrebbe seguito Conte, usare le fonti dei carabinieri come Rotondo o “El drago” per imbastire traffici di droga direttamente dagli uffici della procura, sarebbe poi stato confermato da un appunto (senza data e non protocollato) di un maresciallo dei carabinieri. Si tratta di un resoconto di una riunione del 1991 fra il pm Conte e sottufficiali del Ros e del Road. In quell’occasione, stando all’appunto inoltrato da un maresciallo (del Road) ai superiori di stanza a Roma, Conte avrebbe teorizzato come infrangere la legge per incastrare alcuni narcotrafficanti. Nella riunione si era parlato di un’operazione sotto copertura nel quadro dell’allora nuova legge sugli agenti “undercovered”. L’appunto del carabiniere (deceduto prima di testimoniare), stando all’accusa confermava le parole di Rotondo. Secondo i giudici, però, non poteva considerarsi fedele a quanto detto da Conte. Ciò è avvalorato dal fatto che nessun altro ufficiale di polizia giudiziaria aveva pensato di informare i superiori di quel “metodo” di condurre le operazioni anti-droga. Ma ciò che ha stupito Conte è il fatto che sia stato proprio lui a dovere chiamare a testimoniare i presenti alla riunione per dimostrare che quell’appunto non poteva corrispondere a un suo discorso. Anche in questo caso, secondo il magistrato di Bergamo, si è disatteso un principio cardine del sistema processuale italiano. Il pm, infatti, non è un avvocato dell’accusa che si limita a cercare conferme alla sua teoria. Deve applicare la legge senza ignorare gli indizi a favore dell’imputato. Un modo di procedere diverso porta alla «inversione dell’onere della prova», dove è un presunto colpevole a dovere dimostrare la falsità o la verità di una teoria, quando questo compito spetterebbe ai pm. Nel processo Conte ci sono stati 43 depositi di atti relativi a indagini integrative in un arco temporale che va dal 2005 al 2012, con una media di un deposito di migliaia di pagine ogni due mesi. Il fascicolo del solo dibattimento è composto da circa 95 mila file. Migliaia di pagine, decine di faldoni da studiare, e tempi che si allungano portano inoltre a errori e confusioni negli stessi addetti ai lavori. È quasi inevitabile. Quando il procuratore generale fece appello contro la sentenza di primo grado che aveva assolto Conte, avrebbe dovuto aver studiato tutti gli atti nei quarantacinque giorni a disposizione per legge. Il che avrebbe implicato una velocità di lettura media di circa 2 mila pagine al giorno e un impegno giornaliero di circa 17 ore lavorative. 24 ore su 24, se si conta anche la redazione dei motivi di appello, una volta letti gli atti. Umanamente impossibile. Nella doppia veste di ex imputato e magistrato (favorevole alla responsabilità civile), Conte si chiede come può funzionare una giustizia che non risponde dei propri errori. Gli abbagli che sono spesso favoriti da una proliferazione di atti, mettono in difficoltà sia l’accusa sia la difesa. Conte, a riguardo, cita un esempio lampante. Nei suoi capi d’accusa era stata inserita un’operazione della procura di Bologna, condotta da un altro magistrato. L’errore all’apparenza banale fu fatto presente al pm che gestiva l’inchiesta nella seconda fase (udienza preliminare) e sembrò essere accolto. Ma fu dimenticato nella richiesta di rinvio a giudizio. Questo sbaglio, spiega l’ex pm Conte, ha comportato una evitabile perdita di tempo. Si è dovuto chiamare il magistrato di Bologna e farlo venire a testimoniare a Milano per provare che quell’operazione non aveva nulla a che fare con l’imputato. Nelle requisitorie dei pm si assiste, racconta Conte, a una replica delle inesattezze presenti negli atti. Dalle date alle interpretazioni, ovunque può nascondersi una svista. Emergono anche aspetti non chiari sul modo di seguire le regole da parte della stessa autorità giudiziaria. Riguardo all’uso delle intercettazioni, ad esempio. Conte spiega come nel suo processo dovessero essere acquisite alcune conversazioni registrate dalla procura di Roma ma che ciò fu impossibile. Il pm, nel dibattimento, informò le parti dell’impossibilità di acquisirle per «motivi tecnici». Si trattava, disse l’accusa, di «conversazioni registrate dalla Guardia di Finanza su delle cassette purtroppo oggi irrecuperabili». Conte volle controllare e scoprì un’altra verità. I finanzieri avevano scritto al pm milanese: «È d’obbligo precisare che l’operazione di registrazione venne effettuata per soli scopi operativi. Non essendoci alcuna autorizzazione formale dell’autorità giudiziaria». «Come già specificato, la registrazione non era stata oggetto di alcuna autorizzazione del pm (di Roma, ndr), il quale, verbalmente, al momento del coordinamento con gli operanti circa le attività da esperire, aveva con gli stessi convenuto di effettuare tale registrazione». Stando alle parole dei finanzieri, quindi, era stata eseguita un’intercettazione abusiva. Ecco perché non potevano essere acquisite. Si conclude con una seconda assoluzione in appello, senza strette di mano o risarcimenti, la vicenda di Conte. La carriera dell’ex pm, oggi giudice civile, è ancora bloccata dal Consiglio superiore della magistratura, che a un anno dall’assoluzione chiede a Conte di rispondere della richiesta di rinvio a giudizio di dieci anni fa, incurante dell’innocenza stabilita dai tribunali. E se fossi tu l’imputato? è un “processo” a un processo. Un libro che dimostra nel dettaglio come la malagiustizia può nascere quando chi dovrebbe applicare le leggi si dimentica dei princìpi che stanno alla base del giusto processo, dalla presunzione d’innocenza all’onere della prova.

E se fossi tu l’imputato? Il caso del magistrato Mario Conte, scrive l'11 Giugno 2015 Luigi Amicone su "Tempi". La lettera del direttore di Tempi al Foglio a proposito del libro del «pm indagato, triturato e assolto dopo vent’anni». Sul Foglio di oggi appare una lettera del direttore di Tempi Luigi Amicone e relativa risposta di Claudio Cerasa. Le riproponiamo di seguito. Al direttore – C’è un volumetto appena uscito in libreria per i tipi della Guerini&Associati (E se fossi tu l’imputato?) che ben si potrebbe definire una esemplificazione della testimonianza di Piero Tony, con esposizione fin troppo minuziosa, tecnica e dettagliata di come si costruisce un “mostro” attraverso un lavorìo perfettamente rispettoso di tutte le regole del circo mediatico-giudiziario ma anche totalmente avulso dai dati, prove, riscontri fattuali. Il caso del magistrato (anch’egli appartenente a Md) Mario Conte è interessante. Dimostra che quando l’accusa si trasforma in epopea narrata dalla grancassa mediatico-scandalistica, solo un pm può avere gli strumenti per difendersi da altri pm. Oggi, dopo vent’anni di processi e il manifestarsi di un cancro come quello che uccise Tortora, Mario Conte è un magistrato a cui è stato restituito l’onore umano e professionale, completamente prosciolto dall’accusa di essere stato il regista di una organizzazione criminale strutturata in cellula deviata dei Ros che avrebbe trafficato e spacciato per “brillanti operazioni di polizia” il puro e semplice traffico e spaccio di stupefacenti in tutta Italia. Ma in tutta Italia però – ci conferma l’esperienza di questo magistrato democratico – un pm che rispetti le leggi dello scandalismo mediatico può violare le leggi, farla franca e uccidere per via giudiziaria anche un collega, se necessario. Come? Cito ad esempio un episodio riferito nel libro. «Dagli atti risulta che il Goa (Gruppo operativo antidroga della Guardia di Finanza ndr) aveva inviato il 19 maggio 2004 al pm di Milano, in risposta alla sua richiesta di acquisizione dei nastri delle registrazioni, una nota18 nella quale c’era scritto qualcosa di ben diverso da quanto dichiarato dalla pubblica accusa: “È d’obbligo precisare – si legge – che l’operazione di registrazione venne effettuata per soli scopi operativi. Non essendoci alcuna autorizzazione formale dell’A.G. … Come già specificato, la registrazione non era stata oggetto di alcuna autorizzazione del pm [di Roma], il quale, verbalmente, al momento del coordinamento con gli operanti circa le attività da esperire, aveva con gli stessi convenuto di effettuare tale registrazione”. Non vi era alcun provvedimento di autorizzazione per quelle intercettazioni. Era stata eseguita un’intercettazione abusiva! Fa, poi, quasi sorridere, se come al solito non si giocasse con il destino delle persone, il fatto che la Guardia di Finanza parli di intercettazioni “per soli scopi operativi”, categoria che sicuramente mi manca non trovando un riscontro normativo. Il pm di Milano, in conclusione, apprende di un’intercettazione abusiva, ma non prende nessuna iniziativa a riguardo».

Il problema definitivo è che nessun cittadino italiano può mettersi al posto di Conte. Pm indagato, triturato e assolto dopo vent’anni. Perché nessun cittadino italiano può permettersi collegi di difesa come quelli di Andreotti o di Berlusconi. Oppure, in alternativa, difendersi come si è difeso il pm Conte, sapendo letteralmente dove “mettere le mani” (munito per altro di un programmino informatico capace di vivisezionare e individuare gli elementi cruciali nella montagna di atti processuali, nel caso: 100 mila file). Perciò, per rispondere all’interrogativo del libro, se fossi stato tu l’imputato Mario, ma Laqualunque e non un Conte pm, avresti potuto semplicemente rassegnarti. Cominciare a scrivere le tue memorie dal carcere e imparare a morire di cancro. Luigi Amicone. Grazie della lettera. Sul tema garantismo e sulla lotta dura e pura e senza paura alla repubblica delle manette le confesso però che la partita più appassionante in questi giorni si gioca fuori da Roma. Si gioca a Venezia, secondo me. Dove vincerà l’ex magistrato Felice Casson, tanti auguri sinceri, ma se per una qualsiasi ragione dovesse vincere il suo rivale, Luigi Brugnaro, siamo pronti a farci un bel selfie con una buona bottiglia di champagne. Cin cin.

Beniamino Zappia. Tre anni di ingiusta detenzione per mafia. Ma era solo un’omonimia. Per essere un esponente di spicco della mafia può attendersi, gli era anche andata bene: 3 anni di carcere più 11 mesi agli arresti domiciliari. Il fatto è, però, che Beniamino Zappia non era affatto quello che gli inquirenti pensavano che fosse: non era un boss della mafia italo-canadese. I giudici se ne sono accorti in ritardo, assolvendolo con formula piena. E il suo legale, l’avvocato Luis Eduardo Vaghi, ha subito pensato di presentare un’istanza di riparazione per ingiusta detenzione. Ma procediamo per gradi. Come e quando comincia questa storia? Tutto inizia il 22 ottobre 2007, con il blitz della Dia di Roma ribattezzato “Orso Bruno”. Beniamino Gioiello Zappia – questo il nome del protagonista della vicenda – viene arrestato con un’accusa pesantissima: associazione a delinquere di stampo mafioso. I magistrati della Capitale lo indicano come l’uomo di collegamento, a Milano, tra le cosche agrigentine e quelle italo-canadesi legate al clan dei fratelli Rizzuto di Montreal. Nel capo di imputazione, lo descrivono come “personaggio storicamente legato all’associazione mafiosa Rizzuto”, di cui “è da sempre suo referente in Italia e in particolare a Milano ed in Svizzera”. Un uomo, insomma, “dedito alle più disparate attività delinquenziali” di cui, sempre stando all’ipotesi accusatoria, i Rizzuto si sarebbero serviti per infiltrarsi negli appalti milionari per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Insieme a lui, che ha ammesso davanti ai magistrati di conoscere alcuni membri della famiglia Rizzuto solo “per nome”, finiscono dietro le sbarre altri 18 presunti esponenti del clan italo-canadese dei Rizzuto. Diciamolo subito: Beniamino Zappia non è uno stinco di santo, la sua fedina penale non è immacolata. Ma di qui ad accusarlo di essere un boss ce ne corre. Il giorno del suo arresto viene portato nel carcere milanese di San Vittore. Poi viene trasferito a Roma e quindi spostato ancora, prima a Benevento e poi a Secondigliano. Poco più di un anno dopo essere stato arrestato, Zappia vive il suo periodo più difficile. Da fine novembre 2008, a 70 anni compiuti (Zappia è del 1938) scatta per lui la sorveglianza speciale: è il cosiddetto regime di “carcere duro”, previsto dal 41 bis per i mafiosi. Un incubo che finisce il 25 maggio 2010, con la concessione degli arresti domiciliari. La fine del calvario giudiziario arriva il 23 novembre 2012, a 5 anni, un mese e un giorno dall’operazione che lo aveva portato in carcere. La sentenza di assoluzione è di totale proscioglimento: “perché il fatto non sussiste”. Una volta tornato libero il suo assistito, l’avvocato Vaghi decide di andare a fondo: è convinto che gli inquirenti romani abbiano fatto un errore macroscopico: uno scambio di persona dovuto a un’omonimia. Ha studiato con la massima cura tutte le carte processuali. Nel capo di imputazione dell’operazione “Orso Bruno”, si legge che “Robert Papalia (presunto boss delle cosche di Montereal) ha coadiuvato Giuseppe Zappia nell’attività finalizzata all’aggiudicazione dell’appalto per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina”. Si parla di Giuseppe, non Beniamino, Zappia. Ma le anomalie non finiscono qui. Un’altra anomalia emerge dalle motivazioni della sentenza dove è citata la testimonianza del vicequestore Alessandro Mosca, ufficiale della Dia di Roma che ha coordinato l’inchiesta Orso Bruno. Nel corso del dibattimento, il funzionario ha dichiarato che “l’indagine è nata nel 2003 presso la procura della Repubblica di Roma a seguito di una segnalazione pervenuta alla Dia della Polizia Canadese, nella quale si segnalava la presenza in Roma di un personaggio, Giuseppe Zappia, soprannominato in Canada il ‘Commendatore’, che veniva indicato come fortemente legato ad un’organizzazione criminale che operava a Montreal, denominata famiglia Rizzuto”. Sempre in quel’occasione, si legge nel provvedimento, “il vice questore Mosca ha chiarito che Giuseppe Zappia è persona diversa dall’imputato medesimo, né suo parente”. La stessa tesi viene sostenuta nel corso del processo da Lorie Mcdougall, un ufficiale della polizia canadese. È lo stesso investigatore che ha seguito le indagini sulla famiglia di Vito Rizzuto dal settembre 2002 e che ha affermato di essere consapevole che l’imputato era persona diversa da tale Giuseppe Zappia, soggetto questo coinvolto nei traffici e nei rapporti con il Rizzuto in particolare nella procedura per l’appalto per la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. Per l’avvocato Vaghi non ci sono dubbi: Beniamino Zappia è stato vittima di “un caso di mera omonimia”. Quel che è peggio, secondo il legale, è che la difesa ha tentato in ogni modo di portare alla luce l’equivoco, ma tutti gli elementi raccolti “sono stati sistematicamente ignorati, sia in sede di indagine che in sede di udienza preliminare”. Lo dimostra proprio l’esame dell’ufficiale Mcdougall, citato come testimone dalla Procura, che durante la fase dibattimentale “rammostrava al giudicante l’errore in cui era corsa la pubblica accusa. E a questa stessa conclusione si poteva arrivare con maggiore tempestività”. (fonte: Askanews, 7 marzo 2015).

Marco Savini, otto anni per dimostrare di essere innocente. “Assolto perché il fatto non sussiste”: una formula di cui l’avvocato Marco Savini conosce perfettamente il valore e non soltanto per via della sua professione. È grazie a questa frase, pronunciata per tutti i capi di imputazione, infatti, che l’ex vicesindaco di Montesilvano (in provincia di Pescara) è uscito a testa alta dall’inchiesta Ciclone, che a luglio 2007 cambiò per sempre la sua vita costringendolo, all’età di 32 anni, a 98 giorni di arresti domiciliari. Un’avventura giudiziaria lunga otto anni che Savini ora ha deciso di portare fino in fondo attraverso una richiesta di un risarcimento danni in grado, se non di cancellare la sofferenza di essere stato accusato ingiustamente di una lunga serie di reati che vanno dall’associazione a delinquere, al falso, dalla truffa alla corruzione, almeno di poter dimostrare che la giustizia ha compiuto correttamente tutto il suo percorso. “Ho sempre avuto fiducia nel sistema giudiziario”, rivela Savini, “e pur ritenendomi una persona assolutamente estranea a tutti i capi di imputazione, in maniera rispettosa e silente, mi sono fatto i miei processi e mi sono difeso. Ma proprio perché credo molto nel sistema, adesso il sistema prevede che chi come me ha subito ingiuste detenzioni o, come nel mio caso, un danno alla propria immagine, possa ottenere un risarcimento. Non voglio gridare al complotto e non lo faccio in un’ottica di rivincita, ma è solo un modo per compensare le opportunità personali perse e che credo siano state perdute anche dalla città. E non perché Marco Savini era il più bravo di tutti”, chiarisce l’ex vicesindaco, “ma perché erano stati attivati dei processi amministrativi che poi sono stati tranciati e messi nel tritacarne”. A detta di Savini, l’inchiesta Ciclone ha creato dei grandi danni soprattutto alla città. “In questi anni, non si è lavorato per l’affermazione di un nuovo progetto”, prosegue, “ma soltanto per differenziarsi da un passato con il quale non si è mai fatto il conto. L’inchiesta ha rappresentato un alibi per molti, un’opportunità per altri, ma il dato oggettivo è che Montesilvano in 8 anni ha perso tante occasioni e soprattutto la reputazione. Mi auguro che la politica montesilvanese di centrosinistra recuperi il tempo perso”. Per Savini è importante, però, non commettere gli stessi errori del passato. “L’errore finora è stato consentire agli interessi privati di entrare nelle istituzioni”, prosegue, «sia ben chiaro in maniera legittima attraverso le elezioni. Ma dobbiamo fare in modo che i partiti fungano da filtro. I cittadini devono poter scegliere tra persone lontane da interessi economici”. L’ex vicesindaco, già assessore nella giunta Gallerati, torna a quel 2007 e alla domanda se «rifarebbe quanto fatto finora» non ha dubbi: «È facile con il senno di poi dire non rifarei il vicesindaco, ma forse non è neanche vero questo. Dopotutto, senza questa esperienza non sarei quello che sono oggi ed è stata utile anche per la mia professione di avvocato, perché ha confermato la mia fiducia nei confronti della giustizia. Certo ho commesso degli errori, ma non mi sono mai nacchiato di reati, e questo è un dato oggettivo”. Sull’importo della richiesta di risarcimento danni, attualmente al vaglio dei suoi colleghi avvocati, spiega: “La richiesta non è stata ancora quantificata, aspettiamo prima le motivazioni della sentenza”. (fonte: Antonella Luccitti, il Centro, 2 gennaio 2015)

Oscar Milanetto, niente scommesse: la sua fu ingiusta detenzione. Coinvolto in una brutta storia legata al calcioscommesse, ne è uscito fuori completamente scagionato. Ma sull’ingiusta detenzione subita, ben 17 giorni in carcere da innocente con la pesante accusa di associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva, Omar Milanetto (ex calciatore e oggi dirigente del Genoa) non vuole passarci sopra come se nulla fosse accaduto. E, acclarata con sentenza definitiva la sua innocenza, ha dato mandato ai suoi avvocati di richiedere ciò che la legge prevede espressamente nei casi come il suo: una riparazione per l’ingiusta detenzione subita, quei giorni in custodia cautelare che gli hanno distrutto la reputazione e portato via la serenità. Ci sono voluti quattro anni e mezzo per escludere ogni coinvolgimento di Milanetto in una presunta – ma mai accaduta – combine della partita Genoa-Lazio del 2011. E oggi l’ex centrocampista vuole andare fino in fondo. Dopo aver rifiutato assieme al suo Genoa patteggiamenti in ambito sportivo e subito quattro anni e mezzo di persecuzione giudiziaria culminata con 17 giorni di ingiusta detenzione, Omar Milanetto e con lui (moralmente) tanti genoani che l’hanno sempre difeso, è passato al contrattacco. Il dirigente RossoBlu ha atteso la fine della vicenda innanzi alla Caf(di cui abbiamo dato conto) con la definitiva conclusione dell’affaire Lazio-Genoa, per chiedere un cospicuo risarcimento danni allo Stato. In più circostanze ci siamo occupati di vicende carcerarie, di innocenti in galera e di ‘piccoli’ Enzo Tortora o nomi noti prima adorati e poi gettati nella polvere con tanto di tv, siti e giornali non bramanti di meglio, che ogni tanto fanno capolino nelle cronache giudiziarie. Quella di Milanetto, infatti, è ormai questione di civiltà e non più sportiva. Ma ricordiamo brevemente i fatti: il 28 maggio 2012 Milanetto, all’epoca centrocampista del Padova, fu tirato giù dal letto in piena notte, trascinato in carcere davanti ai figli attoniti e caricato di accuse pesanti come l’associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva. Tutto ciò per le dichiarazioni false di improbabili collaboratori come Ilievsky o per le intercettazioni mal trascritte o interpretate in modo errato. Su tutte, quella in cui il calciatore spiegava di volersi recare ad Albaro per degli acquisti, trascritta come se Milanetto avesse detto di voler andare ‘dal baro’ per truccare qualche partita. 17 giorni di ingiusta carcerazione preventiva per accuse sgretolatesi fino all’assoluzione finale, che porrebbero sul banco degli imputati in un paese progredito a livello giuridico il Pm cremonese (e sampdoriano) Roberto Di Martino che si è intestardito nel portare avanti iniziative (fra cui questa) fondate sul nulla e quei giudici che di volta in volta permettono arresti in stile tangentopoli, ovvero finalizzati a ottenere confessioni o nomi. La testardaggine con cui Milanetto (e con lui il Genoa) ha fatto emergere dopo quattro anni e mezzo la sua innocenza per la presunta ma inesistente combine con Lazio nel 2011,vedrà ora un’ulteriore coda dopo l’annuncio dato a Primo Canale dall’avvocato dell’ex calciatore, Maurizio Mascia. Come già preannunciato alcuni mesi fa, a luglio, ora è giunta la conferma che l’azione legale contro lo Stato sarà intrapresa e la cifra richiesta sarà di 516.546 euro, ovvero l’equivalente di un miliardo di lire. Somma che forse non ripaga della gogna, della sofferenza, dell’umiliazione e dell’ingiusta detenzione subite ma che può – se riconosciutagli – servire a ribadire ancora una volta quanto costino sulla pelle dei cittadini e sulle finanze pubbliche certi errori giudiziari pagati da tutti i cittadini, in assenza di una vera responsabilità civile dei magistrati in Italia. (fonte: Fabrizio Ferrante, Blastingnews, 11 ottobre 2015)

Diallo, 2 mesi in carcere per un “disguido d’ufficio”. La burocrazia è uno dei problemi fondamentali della giustizia italiana. E, nel caso che vi stiamo per raccontare, anche la causa prima di un’ingiusta detenzione, se non di un vero e proprio errore giudiziario. Proprio così: in Italia può accadere che, per quello che in burocratese viene ridotto a un banale “disguido d’ufficio”, un uomo sia costretto a passare in carcere senza motivo più di due mesi. E’ l’ennesima storia di malagiustizia: per colpa di un incredibile intreccio di coincidenze, unito a un pasticcio di competenze tra commissariato e questura, una comunicazione importantissima – perché certificherebbe che un condannato sta effettivamente rispettando l’obbligo di firma che gli è stato comminato – si perde nei meandri della burocrazia. Con il pessimo risultato di far risultare il protagonista di questa vicenda (Diallo A., un ventottenne immigrato regolare, originario della Guinea) responsabile di un reato che in realtà non ha mai commesso: “renitente all’obbligo di firma”, per usare l’arido linguaggio della polizia. Un errore, dunque. Non proprio un errore giudiziario nel significato che il codice penale dà a questa locuzione, ma uno sbaglio che causa un danno non da poco a chi invece, avendo già sbagliato di suo e volendo regolare i propri conti con la giustizia, si ritrova invece a vestire un ruolo che non vorrebbe: quello di chi ricasca nell’errore di commettere un reato. Nell’articolo del quotidiano milanese “Il Giorno” che riportiamo, viene ricostruita nei dettagli questa vicenda paradossale e per certi versi sintomatica dello stato della giustizia italiana. Tutta colpa di una firma, e di dove la metti. Se in questura o se in un commissariato di zona. E, nel secondo caso, c’è il rischio che quella firma si perda, si vanifichi e vanifichi anche il suo effetto. E il firmatario torni spedito a San Vittore. Per due mesi e un tot, dove è tuttora: per un «disguido d’ufficio». Un errore. Non suo. Il suo, quello di spacciare piccole dosi, lo ha pagato con un patteggiamento a un anno di reclusione: per cui la pena di Diallo A. – 28enne della Guinea, lingua francese e poco italiano – l’1 luglio è stata commutata dal giudice Micaela Curami in obbligo di firma trisettimanale. Ma un «disguido d’ufficio» – come viene definito dal dirigente della Divisione anticrimine della questura, Maurizio Azzolina, in una nota di chiarimenti a Procura, direttissime, e legale che Diallo è riuscito finalmente a nominare, Antonio Nebuloni – lo ha rinfilato a San Vittore, dal 30 luglio fino a tuttora. E il tuttora comprende un pasticcio di competenze su chi ha titolo, allo stato degli atti, sul detenuto, per cui la sua posizione potrebbe rimbalzare tra giudice del procedimento (nel frattempo divenuto definitivo), ufficio esecuzione della Procura e Tribunale di sorveglianza. A tutti i quali saranno destinate carte per la scarcerazione del ragazzo, che poi sarà in grado di valutare con il legale una causa per ingiusta detenzione. La prima colpa di Diallo – regolare sul territorio italiano – è il piccolo spaccio, la seconda è di non avere una dimora certa. Questo sarebbe, stando alla ricostruzione imbarazzata fatta dalla questura, il motivo dell’equivoco. Lui infatti, arrestato in flagranza il 24 maggio, condannato l’1 luglio a un anno e 1.200 euro di multa, ottiene la commutazione della pena in obbligo di firma, lunedì mercoledì e venerdì presso uffici della polizia giudiziaria. Dove regolarmente si presenta dall’1 al 6 luglio: nel commissariato di Porta Genova ma a insaputa degli uffici centrali. Così su Diallo, già il 6 luglio piomba la segnalazione della divisione anticrimine come renitente all’obbligo. Ragione per cui il tribunale il 10 luglio ripristina la custodia in carcere, e il 30 luglio – nel corso di un controllo – Diallo torna a San Vittore. Il giovane africano impiega oltre due mesi a capire e a trovare un legale che lo capisca. Quando l’avvocato Nebuloni ricostruisce che Diallo si è «presentato alla firma presso il commissariato Milano Porta Genova dall’1.7 al 30.7» e che «non ha mai saltato neppure un giorno del suo obbligo», la questura avvia una verifica interna. Da cui: «Effettivamente il Diallo in data 1.7.2015 si presentava» al commissariato Porta Genova; mentre «non risulta che si sia mai presentato negli uffici della questura dove era stato invitato…». La trasgressione delle prescrizioni è segnalata «in quanto dalla interrogazione allo Sdi non risultava essere stato sottoposto agli obblighi di nessun ufficio di polizia…». E, non avendo il ragazzo eletto alcun domicilio certo, «l’ufficio» era nell’«impossibilità di avere uno specifico commissariato come riferimento», così unico strumento utile all’accertamento restava la banca dati che lo aveva invece obliato. Solo «dalla successiva consultazione degli atti dell’Archivio generale è stata rinvenuta la nota del commissariato di Porta Genova, diretta anche alla Divisione anticrimine per conoscenza». Ma «la citata nota per un mero disguido d’ufficio sfuggiva all’attenzione degli operatori e quindi veniva trattata alla stregua di tutta la corrispondenza che perviene per conoscenza all’ufficio arrestati ai soli fini dell’archiviazione». E fu così che Diallo – Guinea – fu archiviato a San Vittore. (fonte: Marinella Rossi, Il Giorno, 9 ottobre 2015). Altro che errori giudiziari. Giustizia in Italia, dove tutto può accadere. Gli orrori e le ingiustizie del nostro sistema, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Molti lo ricordano certamente Un giorno in pretura: il film di Steno con un grande Alberto Sordi, un altrettanto bravo Peppino De Filippo; e Sophia LorenSilvana PampaniniWalter ChiariLeopoldo Trieste; ambientato nella seconda sezione della pretura di Roma, davanti al giudice Salomone Lo Russo, si presentano gli imputati di diversi, piccoli reati. Un film che parla, in chiave leggera, ma al tempo stesso serissima, della giustizia cosiddetta minore: quella chiamata a confrontarsi quotidianamente con le vicende umane più comuni e disparate. Qui mancano De Filippo, Sordi, Chiari; ma sono comunque episodi che possono far parte di quella galleria, una sorta di Un giorno in pretura due; e rivelano più di qualsiasi convegno o trattato giuridico, lo stato della giustizia in Italia. Per esempio: un detenutoriconosciuto innocente, e nonostante ciò in carcere. Non per un giorno, una settimana, che può capitare, anche se non dovrebbe. In carcere per ben 72 giorni: oltre due mesi. Non tanto per il classico ‘errore giudiziario’; perché non c’è giudice competente sul suo caso. Incredibile? Bene, vediamola, la storia di Diallo A., 28 anni, originario della Guinea, piccolo spacciatore. Per questo viene condannato; patteggia, e si vede commutata in obbligo di firma. A questo punto viene – si fa per dire – il bello. Diallo è in carcere; per svista amministrativa, per burocrazia inerte, per quel che si vuole, resta in cella, non viene liberato. Finalmente si accorgono che non dovrebbe starci; a questo punto i portoni del carcere si aprono? Proprio no. Nessuno firma l’ordine di scarcerazione, e Diallo continua a stare in quella cella dove, per ‘disguido’ (giustificazione della questura) è stato rinchiuso. L’avvocato difensore si rivolge al giudice, per ottenere lo sblocco della situazione; il giudice, pur comprensivo, risponde con un non luogo a provvedere: ha ammesso il patteggiamento, commutato la pena in obbligo di firma tri-settimanale; lui a questo punto esce di scena. L’inghippo sta nel fatto che a causa di quel disguido, gli atti sono stati trasmessi alla Procura. Il Pubblico Ministero competente, qui entra in campo Franz Kafka, dovrebbe concedere la sospensione dell’esecuzione della penama il provvedimento si applica a chi è in libertà, proprio per evitargli la galera. Ma in questo caso, Diallo in galera già c’è… Potrebbe intervenire il Giudice di sorveglianzaperò la cosa non è ancora nella fase delle sue competenze, la sentenza definitiva non è a sua disposizione; solo dopo quella, il difensore può proporre istanza di misure alternative. Ora tutta questa labirintica e tortuosa situazione ci si augura di averla raccontata come si è verificata; non si esclude di aver commesso qualche imprecisione; come si può immaginare, capire, e spiegare, come sia potuto accadere quello che è accaduto, è complicato. Prima o poi la vicenda si risolverà, se già in queste ore non si è risolta. Non è questo il problema; il problema è che è potuto accadere. Un caso interessante è quello del Tribunale di Prato. Un caso che diventa un caso perché c’è un giudice gran lavoratore, colpevole appunto di lavorare troppo. Di udienza in udienza, riesce a smaltire una quantità di procedimenti: questo singolare magistrato, una donna, spiega che “proprio non riesco a fare rinvii su certe questioni, mi sento come un medico o un’infermiera che stanno soccorrendo un moribondo e non se ne vanno se suona la campanella di fine lavoro”. Vallo a dire a cancellieri e al personale del tribunale che lavora oltre l’orario previsto senza essere retribuito… In Tribunale raccontano che la pianta organica è sotto-dimensionata, che il personale è stato ridotto del 35 per cento. A Prato, raccontano, convivono 127 etnie, la falsificazione dei marchi è ormai un qualcosa di cronico e storico; e una quantità enorme di micro, ma anche macro reati. “Dovremmo essere almeno un centinaio come a Lucca o Pisa invece siamo una quarantina”, dice Sergio Arpaia, cancelliere e sindacalista dell’Unsa. Non ha torto, beninteso. Lo riconosce anche il magistrato iper-attivo, il potenziamento del personale è necessario. Al tempo stesso, ragiona, “qui decidiamo della vita delle persone e non si può ascoltare la campanella di fine lavoro”… Della serie: c’è sempre qualcuno che sta peggio di quanto si sta noi. La disegnatrice e attivista iraniana Atena Farghadani, 29 anni, è detenuta nel famigerato carcere di Evin a Teheran, condannata a 12 anni e nove mesi per oltraggio; ma anche per attentato alla sicurezza nazionale e diffusione di propaganda a ostile alle istituzioni; in realtà è colpevole di pensare come non pensano gli ayatollah, e di aver disegnato alcune vignette che hanno preso di mira esponenti del regime, perfino e la guida suprema, Alì Khamenei. Prelevata in casa nell’agosto 2014 dai pasdaran della Guardia rivoluzionaria, Atena viene malmenata e trascinata in carcere. Rilasciata a novembre, è di nuovo arrestata, dopo aver denunciato in un video i maltrattamenti in cella. Nuovo rilascio, quindi l’ultima incarcerazione a gennaio; altre denunce di percosse, uno sciopero della fame di protesta, il peggioramento delle condizioni di salute. Un giorno incontra l’avvocato difensore; alla fine del colloquio, si congeda con una stretta di mano. L’avvocato, Mohammad Moghimi, per questa stretta di mano arrestato: il gesto viene bollato come ‘al limite dell’adulterio’; lo liberano dopo tre giorni, paga una cauzione di 60.000 dollari, resta comunque sotto accusa. Atena, è accusata di condotta indecente e relazione sessuale inappropriata; deve perfino a subire un test di verginità e gravidanza nel carcere in cui è rinchiusa.

Luciano Conte, 54 giorni in carcere per un latitante in casa ma a sua insaputa. C’era una volta la casa a sua insaputa, e persino la tangente a sua insaputa. Ma il latitante a sua insaputa è un brivido che, in casa propria, ha sperimentato solo un barista: che ne avrebbe volentieri fatto a meno, visto che l’equivoco da incubo gli è costato 54 giorni per sbaglio a San Vittore e altri 86 giorni per errore agli arresti domiciliari. Custodia cautelare prima di essere scagionato dall’accusa di aver nascosto a casa il latitante Gioacchino Matranga, fuggito il 26 ottobre 2009 dalla prospettiva di 30 anni per traffico di droga. La serrata caccia datagli dal pm Paolo Storari aveva riacciuffato Matranga il 31 dicembre e individuato anche la casa in cui era stato a Natale: casa del barista Luciano Conte, dunque arrestato dal gip Giulia Turri insieme al cognato di cui il latitante parlava intercettato con la moglie. Inutilmente il barista si sgolò dalla cella: mai conosciuto Matranga, non sapevo stesse nel mio appartamento e non me ne sono accorto, è mio ma ci vado poco perché vivo a casa della mia compagna, ed ecco le foto che provano che dal 24 al 28 dicembre non ero a Milano ma in vacanza con lei in Svizzera. Tutto inutile. Fin quando in Tribunale la verità riflessa si impone alla giudice Marina Zelante che assolve Conte per non aver commesso il fatto: è stato il cognato, a sua insaputa, a dare per 4.000 euro a un basista del latitante le chiavi di casa prese alla moglie (sorella del barista) che ogni tanto andava a farvi le pulizie. E ora, «per la “beffa” di essere assolto sulla base degli stessi elementi indicati sin dall’inizio», con l’avvocato Francesca Galli il barista chiede allo Stato 70.000 euro di risarcimento per ingiusta detenzione. (Fonte: Luigi Ferrrarella, Corriere della sera, 3 aprile 2013)

Marco Santese.Gli nascondono polvere bianca nell’auto, parrucchiere passa 26 giorni in carcere. Trascorse ventisei lunghi giorni fra carcere e arresti domiciliari con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio di cocaina, erano invece poco più di 23 grammi di zucchero. Dopo un lungo anno di indagini, gli investigatori hanno scovato i presunti registi della messinscena ordita ai danni del parrucchiere brindisino Marco Santese, 30 anni. Secondo l’accusa del pm Giuseppe De Nozza, che ha chiesto per entrambi il rinvio a giudizio per calunnia aggravata in concorso, si tratta della ex moglie Monica Biasi, 25 anni e Antonio Sanasi, 40 anni, il nuovo compagno di lei. Il movente? Pare che Sanasi temesse un ritorno di fiamma fra i due ex e che, con la complicità di un confidente storico dei carabinieri, avesse soffiato la calunnia nelle orecchie dei militari. Il prologo di questa incredibile vicenda risale a poco più di un anno fa. Il parrucchiere brindisino, incensurato, viene arrestato dai carabinieri il 29 marzo scorso. Quella mattina stessa una telefonata avverte i militari che sotto il copri cerchio della sua auto l’artigiano nasconde lo stupefacente. Alle 7,30 scatta il blitz, in sei piombano nella bottega del rione Santa Chiara, e la perquisizione conferma le informazioni dello spione. Non è tutto. Ancora più incredibile è il fatto che, da lì a poco, il narcotest sulla sostanza conferma che si tratta di cocaina. L’uomo viene arrestato di fronte ai clienti increduli e al datore di lavoro, allibito. Il legale difensore, Gianvito Lillo, non si arrende e ostinatamente chiede una seconda perizia che viene infine disposta dal pubblico ministero. I risultati confermarono l’innocenza proclamata per ventisei lunghi giorni dalla vittima: è zucchero, comune disaccaride saccarosio in polvere. Il gip Alcide Maritati dispose l’immediata scarcerazione dell’artigiano mentre l’avvocato Lillo sporse per conto del proprio assistito denuncia contro ignoti. Gli investigatori si misero immediatamente a caccia dei calunniatori. La coppia è stata stanata dagli stessi militari della compagnia francavillese, indagini coordinate dal maresciallo Antonino Farrugia, impianto accusatorio corroborato da un massiccio carico di intercettazioni.  E’ lo stesso Marco Santese, nel corso dell’interrogatorio di garanzia, a suggerire la pista agli inquirenti, sa bene che non sono molte le persone che possono nutrire motivi di rancore nei suoi confronti. La traccia si rivela assai puntuale e i carabinieri, con una motivazione in più del solito, arrivano presto e bene al punto, i registi della storia sono la ex moglie e il nuovo compagno. Il movente? Un insano desiderio di vendetta. A ordire il piano contro il parrucchiere, suggerendo il nascondiglio dello stupefacente posticcio a un confidente dei carabinieri, fu Santese, il nuovo compagno della ex moglie, con l’obiettivo di eliminare il rivale dalla circolazione. Letteralmente. Le intercettazioni confermano le prime intuizioni degli investigatori, tanto che la prima ipotesi di reato a carico dei due, ossia falso per induzione, muta in calunnia aggravata in concorso per aver fatto ingiustamente rischiare all’artigiano una pena da otto a venti anni di carcere. Fissata per il 28 maggio l’udienza preliminare che deciderà per il rinvio a giudizio o l’archiviazione del caso, mentre pende di fronte alla Corte d’appello di Lecce la richiesta risarcitoria per ingiusta detenzione. (Fonte: Sonia Gioia, Brindisi Report, 10 aprile 2011)

Francesco Fusco. “I pm mi hanno rovinato la vita in cambio di 8 mila euro”. “Signor Presidente, faccia qualcosa per gli italiani, eviti che finiscano nelle mani di persone che possono rovinare la loro vita come hanno fatto con me, eviti che la magistratura abbia a spargere tanta sofferenza”: con queste parole, il 13 luglio del 2008, Francesco Fusco, ex dirigente dell’Agusta – arrestato due volte e processato tre per reati mai commessi, prosciolto da ogni accusa, ma solo dopo dieci anni di persecuzione giudiziaria – concludeva una lettera al Presidente Napolitano, destinata a non ricevere risposte. L’aveva scritta con la sola mano destra, dal letto dell’istituto Redaelli di Milano, dove l’aveva inchiodato un ictus paralizzandogli il lato sinistro e lo tormentava un cancro alle ghiandole salivari. Fusco è morto a Milano l’altro giorno, e questa mattina – venerdì 27 luglio – avrà le sue esequie. Vittima di una giustizia approssimativa e occasionale, sbadata quanto spietata nei suoi carsici accanimenti. Una storia da Giobbe, la sua, la storia di un giovane benestante, apolitico, che dopo una bella carriera da giornalista, a 53 anni, nell’89, viene assunto all’Agusta dall’allora presidente Roberto D’Alessandro, craxiano, come direttore delle relazioni esterne. Nel settembre del ’92 i pm Antonio Vinci e Francesco Misiani lo arrestano (il primo morirà d’infarto nel ’98 mentre era agli arresti domiciliari per corruzione; e il secondo sarà incriminato nel ’96 per favoreggiamento e assolto solo dopo essersi dimesso dalla magistratura: un sinistro contrappasso). I pm pensano che Fusco sappia tutto delle tangenti intermediate da D’Alessandro, che invece faceva da sé. Lo sbattono in prigione senza neanche interrogarlo: vogliono nomi. Lui non ne sa, alla fine il gip lo scarcera. Riprende a lavorare, nel privato, ma nel ’94 lo riarrestano negli Usa per “corruzione di persone ancora da identificare”. Stessa trafila, altri tre mesi bruciati tra carcere e domiciliari, un altro lavoro perduto, e poi una trafila estenuante fino al 2001 – 2 milioni di euro per difendersi e mantenere e curare se stesso e la famiglia – quando arriva l’assoluzione definitiva. Nel frattempo un’altra incriminazione, a Milano, che in tre anni evapora, con lo stesso pm Gherardo Colombo che ne propone il proscioglimento per l’evidente estraneità ai fatti. Fusco chiede l’indennizzo per l’ingiusta detenzione: lo stato valuta la sua via crucis 8 mila euro. Vale la pena ricordare tutto questo nel giorno del suo ultimo viaggio. Perché i giornali di solito raccontano le inchieste e le condanne: molto più raramente gli errori giudiziari e il calvario di chi ne subisce le devastanti conseguenze. (fonte: Sergio Luciano, Italia Oggi, 27 luglio 2012).

Andrea Marcon, ingiusto il suo arresto. La vita distrutta di un maresciallo dei carabinieri. «L’arresto? Uno choc. Io arrestavo i delinquenti, non sarebbe dovuto succedere il contrario». Il maresciallo maggiore Andrea Marcon viene catturato nell’ottobre 2005 in caserma, mentre comanda ad interim la stazione dei carabinieri di Montecchio Maggiore. «Fu terribile», ricorda. Dieci giorni di detenzione e poi la sospensione dal servizio. «Quasi trent’anni di carriera cancellati, perché la maggior parte di colleghi e superiori mi voltarono le spalle, come fossi appestato, eppure ero sicuro di non avere violato la legge», aggiunge angosciato e sconsolato. Il tempo non ha lenito la ferita che dice durerà per il resto della sua esistenza. Poi il rientro in servizio e il trasferimento al battaglione di Bologna in attesa del processo. «Sono ripartito da capo, poi la seconda tegola, perché col rinvio a giudizio ci fu la seconda sospensione, mi sentivo finito perché con lo stipendio ridotto a 700 euro non potevo più mantenere la famiglia», rammenta la pagina più umiliante della sua vita. Quindi due processi conclusisi allo stesso modo: la pubblica accusa che chiede la condanna, i giudici che lo assolvono con formula piena. Un arresto del tutto ingiusto. La Corte d’Appello menziona poche volte il suo nome nelle 42 pagine della sentenza con la quale sono stati invece condannati a 5 anni di reclusione gli ex colleghi Francesco Menolascina e Ignazio Mirigliani. L’inchiesta è quella nota delle operazioni antidroga dei carabinieri di Valdagno, tra il 2004 e 2005, giudicate in secondo grado illegali nell’utilizzo degli agenti provocatori. Per Marcon una vicenda anche straziante, perché nelle stesse ore in cui veniva assolto a Venezia definitivamente – la procura generale non ha presentato ricorso in Cassazione – il padre moriva a Torri di Quartesolo. Intanto, una decisione il maresciallo l’aveva presa. «Sono andato in pensione, nonostante avessi 52 anni, e in teoria pensassi di avere davanti a me ancora una decina d’anni di carriera. Ma con 700 euro al mese non si può vivere, avendo famiglia». Già, la famiglia. Con l’arresto è andata a pezzi. Tanto che nei momenti più bui, quando «la depressione ti assale e pensi perché un servizio fatto come mille altre volte stavolta è giudicato illegale, per giunta arrestando spacciatori», Marcon ha pensato «di farla finita». «Non mi vergogno a dire di essere andato a comprare la gomma per attaccarla al gas di scarico della macchina – insiste senza alcun velo d’infingimento – e se mi sono fermato all’ultimo è stato per mio figlio. Perché se sei innocente, come poi i giudici hanno per due volte stabilito, non te ne fai una ragione di essere invischiato in una storia allucinante». Marcon racconta di quando per andare a compiere le operazione antidroga usava la propria macchina, per non gravare sullo Stato. «Avevo sempre lavorato così e io non c’entravo davvero nulla con gli eventuali illeciti commessi – dice -, perché io comandavo il radiomobile, le indagini erano imbastite dai colleghi del nucleo e io intervenivo nella fase conclusiva, a supporto. Invece, sono stato preso in mezzo». Il maresciallo in pensione sottolinea con amarezza che non tutti sono uguali. «Io senza essere mai condannato – osserva – sono stato sospeso due volte dal servizio e in pratica costretto ad andarmene dall’Arma nonostante il mio stato di servizio fosse ineccepibile, mentre il generale dei carabinieri Ganzer, per indagini antidroga di ben altra dimensione e gravità, è stato condannato a 14 anni di carcere e non è mai stato sospeso. Io constato il trattamento diverso. Ci sono militari di seria A e serie B». La «grande famiglia» dell’Arma quando Marcon venne arrestato nei fatti «mi espulse». «Sono stato abbandonato da tutti – conclude – in particolare dall’Arma, nonostante una vita spesa a correre dietro ai banditi. Ne sono uscito a pezzi, perché a costo di sembrare retorico, io gli alamari li avevo cuciti sulla pelle. Adesso chiederò i danni allo Stato per l’ingiusta detenzione e per le spese che ho dovuto sostenere di avvocato, Lucio Zarantonello, che ringrazio perché mi ha sostenuto come un fratello. Ma per il resto…». (Fonte: Ivano Tolettini, Il Giornale di Vicenza, 5 febbraio 2012).

Chiara Baratteri. Era al bar a lavorare, altro che rubare: con quella banda di truffatori non c’entra. E’ notte fonda a Niella Tanaro, in provincia di Cuneo. A casa Baratteri, Chiara, la madre, dorme nella sua camera, nell’altra stanza c’è Jodie, il figlio adolescente, che è andato a letto presto perché domani c’è la scuola. Il silenzio ovattato viene interrotto dal campanello della porta: “Aprite, Carabinieri!”. Chiara, senza rendersene conto, si ritrova con le manette ai polsi, circondata da uomini dell’Arma, davanti al figlio che trema di paura. La donna crede di sognare, di trovarsi in un orrendo incubo. E’ invece è tutto vero. Chiara viene fatta salire sulla gazzella con il lampeggiante acceso e condotta prima nella stazione dei Carabinieri di Mondovì, poi nel carcere di Cuneo. Solo all’arrivo nel penitenziario piemontese viene messa al corrente dell’accusa di far parte di una banda di nomadi Sinti responsabile di una sessantina di truffe e raggiri ai danni di anziani della zona. E’ l’11 ottobre del 2007. Cinque giorni e cinque notti in una cella prima di dimostrare che lei, con quei due episodi, tentato furto e furto, commessi il 26 ottobre e il 24 novembre 2006, in due case di anziani di Carcare, non c’entrava nulla. Chiara, come sempre, era al lavoro dietro il bancone del bar “Caffè Le Olle”, lungo la statale 28 tra San Michele Mondovì e Vicoforte. “Sono stata arrestata sulla base di un riconoscimento fotografico, ma nei giorni in cui avrei tentato la truffa e il raggiro a Carcare, in provincia di Savona, ero a lavorare al bar, a Niella Tanaro, come ho dimostrato dai registri del locale. E’ stata un’esperienza allucinante che non auguro a nessuno”, ha spiegato la signora, 35 anni, assistita dall’avvocato Mario Almondo di Torino, che ne ha ottenuto la scarcerazione dopo l’interrogatorio di garanzia, “vista l’infondatezza delle notizie di reato”, come affermato dal Gip di Savona Emilio Fois. “Durante l’interrogatorio è emerso in maniera incontrovertibile che lei non aveva nulla a che fare con quei fatti. E anche le fattezze fisiche della mia assistita sono ben diverse da quelle riconosciute dall’anziana”, ha sottolineato il legale. Dopo due anni la posizione di Chiara Baratteri è stata archiviata e la donna, assistita dall’avvocato Gabriella Turco, del foro di Mondovì, ha chiesto un indennizzo per l’ingiusta detenzione. “Per il coinvolgimento in questa vicenda, la mia assistita ha subito danni all’integrità psico-fisica, patrimoniali, di immagine e morali, non soltanto per la privazione della libertà, ma anche per il discredito su di lei gettato dalle notizie di cronaca che la dipingevano come una persona costantemente dedita a reati odiosi, tanto più odiosi quanto deboli ed indifese sono le vittime”, ha precisato l’avvocato. Il 1 marzo 2012 la terza sezione penale d’Appello di Genova, presidente Paolo Galizia, relatore Vincenzo Papillo, consigliere Maurizio De Matteis, ha accolto la domanda di risarcimento riconoscendo alla Baratteri la somma di 6.180 euro, oltre agli interessi e alle spese legali.

Franco Moceri. Altro che trafficante di droga, doveva solo costruire un muro. Era rimasto coinvolto nell’operazione antidroga “El Dorado” nel 2008. Rimasto in carcere sei mesi, era stato poi rilasciato e prosciolto da ogni accusa. Un imprenditore di Mazara, Franco Moceri, rimasto coinvolto nell’operazione antidroga “El Dorado” del 2008 ha ottenuto, da parte della Corte di appello di Palermo, un risarcimento di 41 mila euro per l’ingiusta detenzione. Moceri, dopo avere subito una lunga detenzione cautelare, nel corso della quale si era sempre proclamato innocente, era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione, con l’accusa di associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti. E questo nonostante “anche gli altri imputati, durante gli interrogatori, abbiano più volte ricordato che l’operaio era una persona estranea ai fatti”, spiega il suo avvocato, Giuseppe Pinella. Ma in appello il verdetto della corte d’assise si è capovolto: Franco Moceri fu assolto per non aver commesso il fatto e riconosciuto come “un semplice operaio a cui era stato dato l’incarico di costruire un muro proprio nel luogo in cui, mesi dopo, sarebbero state sequestrate le piantagioni-bunker di cannabis”, dice ancora l’avvocato Pinella. Che immediatamente aveva presentato una richiesta di risarcimento danni collegata all’ingiusta detenzione (6 mesi in carcere) subita dal suo assistito. Ora, a risarcimento ottenuto, l’avvocato Pinella attacca: “Questo risarcimento è comunque inadeguato, pur essendo un ristoro per la carcerazione subita ingiustamente, perché certamente non potrà elidere il pregiudizio che si è formato a carico di Moceri, il quale da quella data non ha quasi più lavorato a causa del grave pregiudizio che la notizia del suo arresto e della lunga detenzione gli ha causato”. L’operazione “El Dorado” risale al febbraio 2008, quando i carabinieri di Trapani insieme alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, arrestarono dodici persone con l’accusa di traffico internazionale di sostanze stupefacenti. L’organizzazione criminale, operante tra Mazara, Campobello, Marsala e Petrosino, avrebbe goduto del sostegno di indiziati mafiosi imparentanti con boss di Cosa Nostra. Gli affiliati avevano inizialmente aperto dei canali di traffico di cocaina con la Spagna e il Marocco e, in seguito, avevano avviato la produzione di due piantagioni di cannabis, nelle campagne di Mazara del Vallo, per un totale di oltre 2 mila piante destinate a produrre più di 120 milioni di dosi. L’operazione portò alla condanna di 112 anni di carcere per nove persone. (fonte: il Giornale di Sicilia, 26 gennaio 2013).

Salvatore Ramella. Una vita devastata. E i giudici aumentano il risarcimento. Quanto valgono nove giorni in carcere da innocente? Quale risarcimento per ingiusta detenzione potrà mai soddisfare la vittima di un errore giudiziario grossolano, che sconvolge una vita in tutti i suoi aspetti: lavorativi, personali, privati? Stando ai parametri ufficiali previsti dalla legge, poco più di duemila euro dovrebbero rappresentare il giusto indennizzo per un dramma così grande come quello di finire in prigione senza colpa per più di una settimana. Ma talvolta anche i giudici capiscono che è il caso di andare oltre le fredde tabelle che impongono i parametri di calcolo della riparazione per ingiusta detenzione. E si rendono conto che è il caso di aumentare l’importo, perché pur nella consapevolezza che nessuna somma potrà mai risarcire una tragedia come questa, c’è un limite a tutto. E’ quello che è accaduto a Salvatore Ramella, funzionario di banca coinvolto in una storia di riciclaggio con cui non aveva nulla a che fare. In questo articolo, la sua storia. Il puro calcolo matematico per i nove giorni passati in carcere ingiustamente porterebbe a liquidare come indennizzo per l’ingiusta detenzione 2.122 euro, più 38 centesimi. Ma i giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria chiamati a pronunciarsi sull’istanza di risarcimento presentata dal funzionario di banca Salvatore Ramella, prima indagato e poi pienamente scagionato nell’ambito dell’inchiesta “Gioco d’azzardo”, nei giorni scorsi hanno deciso di innalzare l’entità del risarcimento a 15 mila euro. Ramella, che in questa vicenda è stato assistito dall’avvocato Bonaventura Candido, all’epoca quando scattò il blitz – siamo nel maggio del 2005 –, era direttore di una filiale della banca Unicredit e per nove giorni fu ristretto in carcere; successivamente lo stesso gip dispose la misura meno afflittiva dell’obbligo di dimora, e pochi giorni dopo il Tribunale del Riesame ne dispose la liberazione totale con annullamento dell’ordinanza di custodia in quanto «non sorrette le accuse di riciclaggio dal requisito della gravità indiziaria». E si arrivò fino all’ottobre del 2007 con l’archiviazione dell’inchiesta disposta dal gip di Reggio Calabria. Eppure, dopo l’arresto, il funzionario di banca, fino a quel momento con un posto di alta responsabilità nell’ambito del suo istituto di credito, fu sospeso cautelativamente dal datore di lavoro dal 12 maggio al 5 settembre del 2005, successivamente fu trasferito in una sede bancaria a Roma presso il Servizio crediti della Direzione regionale Centro Sud. I giudici d’appello nell’argomentare la decisione con cui hanno stabilito di concedere un indennizzo molto più alto rispetto al “freddo” calcolo matematico da effettuare in questi casi, scrivono che «…nella liquidazione dell’indennizzo, il giudice deve procedere in via equitativa, essendogli riconosciuta – entro i confini della ragionevolezza e coerenza –, ampia libertà di apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, avendo riguardo non solo alla durata della custodia cautelare ma anche e non marginalmente alle concrete conseguenze sociali, personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà».

E i giudici della Corte d’appello hanno riconosciuto che la vita di Ramella fu letteralmente “devastata” da questa vicenda. (fonte: Enrico Di Giacomo, Stampalibera.it, 14 gennaio 2011).

Salvatore Grasso. Undici anni in carcere per omicidio. Ma quel giorno lui era a centinaia di chilometri. Undici anni passati in carcere da innocente, fino all’arrivo di una lettera che lo scagiona da un omicidio mai compiuto. Ora Salvatore Grasso, 53 anni, è tornato a Giarre, il paese in provincia di Catania dove vive l’anziana madre. Ma nel frattempo ha perduto tutto: due figli, il lavoro, tutti i suoi progetti, i soldi che aveva messo da parte come agente immobiliare. “Ti chiedo scusa per non aver parlato prima ma tu e Iuculano siete innocenti ed io ora sono pronto a dirlo ai giudici”. Poche righe scritte di pugno da Agatino Di Bella, detenuto nel carcere di Porto Azzurro e reo confesso dell’omicidio di Salvatore Calì, siciliano emigrato in Germania, sono state decisive per la scarcerazione di Salvatore Grasso. “Quella busta è arrivata come un fulmine a ciel sereno – racconta l’uomo – ed è stata decisiva per la fine del mio incubo”. E’ un uomo provato Salvatore Grasso, dai problemi di salute, dall’ingiusta detenzione e dal travagliato iter giudiziario che va avanti dall’agosto dell’86, quando Salvatore Calì, un siciliano emigrato come lui in Germania viene misteriosamente ucciso in un boschetto alla porte di Haltberg. Dell’omicidio viene accusato, oltre a Grasso, un altro suo amico, Francesco Iuculano Cunga, anche lui condannato per omicidio dalla corte d’assise di Catania. Grasso, che si costituisce una prima volta in Francia, inutilmente cerca di dimostrare la sua innocenza. Così trascorre tre anni in carcere, fino al ’90 quando viene prosciolto in appello e torna in libertà. Un anno dopo però la corte di Cassazione annulla con rinvio la sentenza ed il nuovo verdetto, che lo condanna a 26 anni, gli fa crollare il mondo addosso. Per 5 anni Salvatore Grasso vive da latitante. “Certo – dice – avrei potuto restare dov’ero, probabilmente non avrei avuto problemi, ma non mi davo per vinto e poi, come si fa a difendersi se si è lontani?”. Nel giro di qualche mese Grasso perde i due figli, uno dei quali scompare in circostanze tragiche. “Nessuno potrà mai cancellare il sospetto terribile che su quella morte – ricorda con un filo di voce l’uomo – non pesi anche la mia tragedia personale, una vicenda che i miei figli vivevano come una macchia terribile che non si è fatto in tempo a cancellare…”. L’ emozione più grande, tanto intensa da essersi tradotta in un malore, è arrivata l’altro ieri quando Salvatore Grasso è stato convocato dal direttore del carcere di Brucoli. “Mi ha chiesto come mi sentissi – racconta Grasso – e poi mi ha dato un foglio su cui c’era scritto “Provvisoria sospensione dell’esecuzione della pena in attesa della revisione del processo”. Ho avuto bisogno di sedermi, poi mi sono sentito male e sono stato portato in infermeria”. E’ stata la corte d’assise d’appello di Messina, che a fine mese pronuncerà la sentenza al processo di revisione chiesto da Grasso, a disporre la sua scarcerazione. Oltre alla lettera inviata dal vero assassino, agli atti del processo c’è ora anche la testimonianza di un uomo che aveva telefonato a Grasso poco prima che venisse ucciso Salvatore Calì e che afferma che Grasso si trovava a centinaia di chilometri di distanza dal luogo dell’omicidio. (fonte: Michela Giuffrida, la Repubblica, 3 febbraio 2005).

Quindici anni di morti e suicidi nelle nostre carceri, scrive Barbara Alessandrini su “L’Opinione” del 21 ottobre 2015. Mancano solo due mesi al termine degli Stati Generali dell’esecuzione penale, il semestre di lavoro e confronto tra operatori penitenziari, magistrati, avvocati, docenti, esperti, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile inaugurato a maggio per volontà del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. È ovviamente presto per verificare se i 18 tavoli tematici impegnati in un’imponente mole di lavoro approderanno alla definizione di un nuovo e organico modello di esecuzione della pena individuando soluzioni materialmente utili al reinserimento, della tutela della dignità e del recupero dei detenuti e ad abbattere il muro culturale e politico contro cui regolarmente si schianta il disegno ed il senso che la Costituzione ha assegnato alla detenzione. Intanto, però, gli istituti di pena italiani seguitano ad inghiottirsi vite umane: 2459 decessi di cui 877 suicidi dal 2000 al 5 ottobre 2015. Sono i dati aggiornati contenuti nel dossier “Morire di carcere, dossier 2000-2015. Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose” curato dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, di cui pubblichiamo i dati, indegni per un paese civile. Numeri che dovrebbe dare la misura della prova cui sono chiamati gli Stati Generali delle carceri e delle ciclopiche dimensioni della sfida cui sono chiamati: riuscire a dare un decisiva spinta a capovolgere le tendenze attuali della politica nei confronti della pena detentiva e ricondurre l’esecuzione penale entro l’alveo dei principi sanciti dal dettato costituzionale e della giurisprudenza europea, di restituirle quel fine rieducativo e quella funzione risocializzante e di ricostruzione e proiezione del detenuto verso il reinserimento, insomma quel rispetto della dignità umana che i passati decenni pervasi di giustizialismo e di pulsioni punitive nei confronti di indagati e detenuti tanto hanno contribuito ad erodere. Non ci si deve stancare di ripetere che si tratta di un traguardo operativo e culturale insieme, che sarà raggiunto soltanto quando l’opinione pubblica si avvicinerà al mondo della detenzione e comprenderà che la certezza della pena significa innanzitutto riconoscerle le finalità rieducative ed eliminare dalla sua dimensione quello che già Platone nel “Protagora” definiva con efficacia il “desiderio di vendicarsi come una belva”. Tanto più alla luce delle ‘utilitaristiche’ ricadute virtuose che una pena volta al rispetto della dignità ed al reinserimento comporta in termini di sicurezza collettiva e calo delle recidive (il 68 per cento dei ristretti in condizioni meramente afflittive commette nuovi reati una volta fuori dal carcere mentre solo il 19% di chi ha avuto accesso a percorsi riabilitativi e formativi torna a delinquere). Solo quando gli elementari principi costituzionali e della civiltà giuridica, quindi della civiltà, faranno parte del bagaglio comune e verrà ritrovato e riconosciuto il senso reale dell’esecuzione penale la prospettiva dell’appuntamento elettorale cesserà progressivamente di premiare politiche intrise di quel populismo penale responsabile di irrigidimenti sanzionatori e di una visione della pena tiranneggiata dal carattere meramente afflittivo, punitivo e retributivo. Gli Stati Generali rappresentano dunque il primo faro acceso da decenni sulle storture del nostro sistema penitenziario per portare all’attenzione del dibattito pubblico e politico in modo maturo lo stato di illegalità in cui versa il nostro sistema carcerario e le condizioni disumane e degradanti a cui sono costretti i detenuti. “Sei mesi di ampio e approfondito confronto - spiega da mesi Orlando - che dovrà portare certamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto”. Che riescano ad aprire una breccia nell’imperante cultura e non si risolvano in una sfilata ad effetto che ha tenuto impegnati molti addetti ai lavori per una manciata di mesi, grossomodo gli stessi che è durato quell’Expò situato proprio accanto al carcere di Opera dove gli Stati Generali sono stati inaugurati, questo rimane, per adesso, soltanto un auspicio. L’immagine e la realtà del nostro sistema carcerario rimane, nel frattempo, spettrale e sebbene la minaccia delle sanzioni della Cedu abbia agito da propulsore per la presa in carico di un’emergenza che non era più differibile, i metodi con cui la si è fronteggiata hanno molto il segno dell’improvvisazione e della disumanità. Alcune misure come l’aver dato attuazione alla legge 67/2014 che regola la depenalizzazione e le pene detentive non carcerarie favoriscono senz’altro lo sfollamento degli istituti di pena. Ma ricordiamo che il contributo decisivo alla deflazione del sovraffollamento carcerario è stato dato dalla sentenza di incostituzionalità da parte della Consulta sulla Legge Fini- Giovanardi che ha decriminalizzato le droghe leggere e di conseguenza dato il via allo sfoltimento progressivo (le pene non superano i sei anni di detenzione) delle carceri di una buona parte di quel 40% di detenuti accalcati per anni per detenzione di sostanze stupefacenti leggere. Quel che si è invece fatto per affrontare l’emergenza illegalità/sovraffollamento delle nostre carceri, sempre sotto i riflettori della Cedu, è stato ricorrere ad inumani trasferimenti forzati, con la “deterritorializzazione” di molti detenuti dal loro istituto carcerario al fine di ottenere per ciascun ristretto lo spazio individuale minimo (3mq al netto degli arredi) stabilito dagli standard della Cedu: Una mera redistribuzione contabile lungo le carceri dello stivale realizzata a costo di amputare dignità, relazioni affettive e percorsi riabilitativi avviati nell’istituto di pena di origine. Sono solo alcune delle criticità che investono ancora il nostro sistema detentivo ed è di tutta evidenza che l’emergenza, che pone sul tavolo la razionalizzazione degli spazi detentivi, l’accesso ad attività lavorative, l’effettivo diritto alla salute, il disagio psichico, il miglioramento delle condizioni degli operatori penitenziari, le donne ed i minori con le loro esigenze di psicologiche e pedagogiche, il processo di reinserimento del condannato, è tutt’altro che superata. La pena rimarrà sempre, come è giusto che sia, l’aspetto più rigido e duro della giustizia, ma non le si deve permettere di uscire dal dettato costituzionale mortificando i diritti del singolo fino a spingerlo al suicidio o portandolo a morire in carcere nell’indifferenza politica, come accade invece nel nostro sistema penitenziario. I dati sullo stillicidio di morti e di suicidi all’interno degli istituti di pena dal 2000 ad oggi sono l’eloquente prova che al momento lo Stato merita soltanto un’inappellabile condanna.

Anno 2000, Suicidi 61, Totale morti 165;

Anno 2001, Suicidi 69, Totale morti 177;

Anno 2002, Suicidi 52, Totale morti 160;

Anno 2003, Suicidi 56, Totale morti 157;

Anno 2004, Suicidi 52, Totale morti 156;

Anno 2005, Suicidi 57, Totale morti 172;

Anno 2006, Suicidi 50, Totale morti 134;

Anno 2007, Suicidi 45, Totale morti 123;

Anno 2008, Suicidi 46, Totale morti 142;

Anno 2009, Suicidi 72, Totale morti 177;

Anno 2010, Suicidi 66, Totale morti 184;

Anno 2011, Suicidi 66, Totale morti 186;

Anno 2012, Suicidi 60, Totale morti 154;

Anno 2013, Suicidi 49, Totale morti 153;

Anno 2014, Suicidi 44, Totale morti 132;

Anno 2015 (*), Suicidi 34, Totale morti 88; Per un totale di 877 suicidi e 2.459 morti

(*) Aggiornamento al 5 ottobre 2015

Dossier “Morire di Carcere” 2015 (Aggiornamento al 5 ottobre 2015) 

ANTONIO GIANGRANDE, GABRIELLA NUZZI, SILVIO BERLUSCONI: LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI.

IO, MAGISTRATO OLTRAGGIATA. Gabriella Nuzzi: Come si uccide un’inchiesta. Da Il Fatto Quotidiano del 6 Agosto 2010. "Ho scelto di percorrere in questi mesi la strada della riflessione e del silenzio. Non certo per timore, né per rassegnazione. L’esame introspettivo degli eventi consente di trovare soluzioni, le migliori possibili, per sé e per gli altri. Di fronte all’ingiustizia, e più di tutto se gli è inflitta, un magistrato, che sia davvero tale, non cerca vie di fuga, né comodi ripari. Perciò, ho continuato a credere nella magistratura e nel suo operato. La Grande Bugia della guerra tra le procure di Salerno e Catanzaro, creata ad arte per sottrarre a me e ai colleghi salernitani le inchieste sugli uffici giudiziari calabresi e privarci delle funzioni inquirenti, non può non trovare risposte giuridiche e giudiziarie. Macigni e ostacoli sulla verità. Quando il 2 dicembre 2008 furono eseguiti il sequestro probatorio del fascicolo “Why Not” e le perquisizioni ai magistrati che l’avevano gestito a colpi di stralci e archiviazioni, si accusarono i Pubblici ministeri salernitani di aver redatto provvedimenti “abnormi” ed eversivi, manifestando in tal modo “un’eccezionale mancanza di equilibrio, un’assoluta spregiudicatezza nell’esercizio delle funzioni ed un’assenza del senso delle istituzioni e del rispetto dell’Ordine giudiziario”. Con queste motivazioni, l’8 gennaio 2009, su proposta del capo dell’Ispettorato Arcibaldo Miller (coinvolto nello scandalo P3), il ministro della Giustizia Alfano richiese, in via d’urgenza, alla Sezione Disciplinare del Csm, presieduta da Nicola Mancino, l’applicazione di “misure cautelari” disciplinari nei miei confronti, del collega Verasani e del procuratore Apicella. Intervento preannunciato in Parlamento dal sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo (coinvolto nello scandalo P3) ai suoi amici di partito On.li Amedeo Laboccetta & C., che, in difesa dei calabresi, chiedevano la testa del dott. De Magistris e di noi altri suoi “sodali”. L’intero mondo politico-giudiziario, spalleggiato dalla grande “libera” stampa, che scatenò una tempesta mediatica, condannò la nostra scelta investigativa come un atto di “terrorismo giudiziario”, un attacco “senza precedenti” alle istituzioni democratiche, ispirato al perseguimento di fini personalistici e politici, di pericolosità tale da esigere una repressione esemplare e immediata. La Prima Commissione del Csm presieduta da Ugo Bergamo avviò il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, poi sospeso in attesa degli esiti disciplinari. L’Associazione Nazionale Magistrati accettò di buon grado l’epurazione, nell’illusione di una futura pace dei sensi. Dopo appena dieci giorni, con un processo da Santa Inquisizione, ci strapparono le funzioni inquirenti, allontanandoci dalla nostra Regione. Una cortina di silenzio e indifferenza s’innalzò intorno al “caso Salerno”. I magistrati calabresi inquisiti, autori del contro-sequestro del “Why Not”, instaurarono un procedimento penale a nostro carico e del dott. De Magistris, trasmettendolo poi alla Procura di Roma che, con l’Aggiunto Achille Toro (indagato sullo scandalo G8 Sardegna), si mise a investigare liberamente sulle nostre vite private, senza alcun fondamento. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione presiedute dal dott. Vincenzo Carbone (coinvolto nello scandalo P3) chiusero in gran fretta il capitolo disciplinare con una pronuncia sommaria, storico esempio di come sia possibile, in tema di etica giudiziaria, affermare tutto e il contrario di tutto. Si aprirono a nostro carico ulteriori procedimenti penali e disciplinari, branditi come clave, affinché ci sentissimo sotto perenne minaccia. Il 19 ottobre 2009, la stessa Sezione Disciplinare, su relazione dell’avv. Michele Saponara, accolse l’azione disciplinare promossa dal Procuratore generale della Cassazione Esposito, infliggendo a me e al collega Verasani la sanzione della perdita di anzianità (rispettivamente, sei e quattro mesi) e del trasferimento d’ufficio di sede e funzione. Non è stato facile resistere a tanta violenza morale. Una violenza frutto di arbitrio, che ha indecentemente calpestato ogni regola, senza arretrare neppure di fronte al riconoscimento giurisdizionale della legalità e necessità dei nostri comportamenti. La delegittimazione, l’isolamento, l’eliminazione sono metodi di distruzione mafio-massonici. E noi abbiamo pagato per aver osato far luce sulla massoneria politico-giudiziaria. Da allora, pazientemente, ho atteso che a parlare fossero i fatti. E i fatti, nel tempo, come tasselli di un incomprensibile puzzle, si stanno lentamente ricomponendo. Logge, cappucci e grandi vecchi. Alcuni di coloro che hanno concorso alla nostra epurazione pare avessero incontri con presunti appartenenti ad un’associazione segreta. Dunque, di fronte a innegabili evidenze, parlare oggi di consorterie massoniche interne anche agli apparati giudiziari non è più atto eversivo o scandaloso. Ampi dibattiti si sono aperti sulla “questione morale” delle nostre istituzioni. L’Associazione Nazionale Magistrati, rimembrando proprio la nostra vicenda, ha stigmatizzato la “caduta nel vuoto” delle sue richieste di rigore, gridate a gran voce. Sicché contro l’ennesima ipocrisia del “sistema” s’infrange oggi il mio silenzio. Mi rivolgo agli illustri attivisti del correntismo giudiziario, quelli che mai sono stati sfiorati da un dubbio o da un ripensamento, trovando superfluo finanche articolare il pensiero. Esprimano, nella loro purezza, e possibilmente con cognizione di causa, una posizione precisa su ciò che di illecito è stato compiuto ai nostri danni, sull’“etica” che l’avrebbe ispirato, sulle scandalose ingiustizie di un “sistema” che, ancora oggi, incredibilmente, avalla l’impunità, lasciando che i potenti, corrotti o collusi, continuino a rimanere ai loro posti o peggio, siano premiati. Non sono i loro rappresentanti più degni a spartirsi gli scranni del nostro “autogoverno”, a decidere nomine, promozioni, trasferimenti, punizioni disciplinari? O forse l’associazionismo sta dissociandosi da se stesso? Non vi sono oggi “questioni morali” che non lo fossero anche ieri. E allora occorre ripartire da zero, passando attraverso un profondo mea culpa. Questa pericolosa caduta libera di credibilità può arrestarsi soltanto con il ripristino del primato del Diritto e il ripudio definitivo delle logiche di appartenenza e protezionismo. Solo proponendosi tali obiettivi e scegliendo figure di guida autorevoli, per integrità, indipendenza e competenza, l’Ordine giudiziario può sperare in un autentico rinnovamento morale, nell’interesse supremo del popolo e della democrazia."

Nubi minacciose si addensano sul futuro delle «toghe» coinvolte nell’inchiesta romana sulla P3. Dopo il presidente della Corte d’Appello di Milano, Alfonso Marra, tocca a un altro magistrato subire l’onta del procedimento disciplinare, scrive Fulvio Milone su "La Stampa".

L’inchiesta della procura romana ha provocato un terremoto nella magistratura. Oltre alla Cassazione, si è mosso il Csm, che dopo avere avviato una procedura di trasferimento per il giudice Marra, ha adottato un provvedimento analogo per incompatibilità ambientale nei confronti di Umberto Marconi.

La Prima Commissione del Csm ha avviato una procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale a carico di Umberto Marconi, scrive "Il Corriere della Sera", il presidente della Corte di Appello di Salerno il cui nome compare nella mole delle intercettazioni dell’inchiesta sulla cosiddetta P3.  Anche il suo nome compare nelle carte del procedimento. A lui i carabinieri attribuiscono un ruolo determinante nella fabbricazione del dossier falso che avrebbe dovuto fare affondare la candidatura a Governatore della Campania di Stefano Caldoro: una faida all’interno del Pdl, organizzata da Carboni e soci che si muovevano per favorire Nicola Cosentino. Marconi, però, ha anticipato le mosse del Csm: ha già chiesto il trasferimento, anche se giura di essere «assolutamente estraneo» alla vicenda. «Ho anche chiesto alla procura di Roma di essere sentito per quello che ritengo essere un complotto ordito contro di me», ha detto.

Signor Presidente, le comunico l'irrevocabile decisione di lasciare l'Associazione Nazionale Magistrati. Il plauso da lei pubblicamente reso all'ingiustizia subita, per mano politica, da noi magistrati della Procura della Repubblica di Salerno è per me insopportabilmente oltraggioso. Oltraggioso per la mia dignità di Persona e di essere Magistrato. Sono stata, nel generale vile silenzio, pubblicamente ingiuriata; incolpata di ignoranza, negligenza, spregiudicatezza, assenza del senso delle istituzioni; infine, allontanata dalla mia sede e privata delle funzioni inquirenti, così, in un battito di ciglia, sulla base del nulla giuridico e di un processo sommario. Per bocca sua e dei suoi amici e colleghi, la posizione dell'Associazione era già nota, sin dall'inizio. Quale la colpa? Avere, contrariamente alla profusa apparenza, doverosamente adottato ed eseguito atti giudiziari legittimi e necessari, tali ritenuti nelle sedi giurisdizionali competenti. Avere risposto ad istanze di verità e di giustizia. Avere accertato una sconcertante realtà che, però, doveva rimanere occultata. Né lei, né alcuno dei componenti dell'associazione che oggi degnamente rappresenta ha sentito l'esigenza di capire e spiegare ciò che è davvero accaduto, la gravità e drammaticità di una vicenda che chiama a riflessioni profonde l'intera Magistratura, sul suo passato, su ciò che è, sul suo futuro; e non certo nell'interesse personale del singolo o del suo sponsor associativo, ma in forza di una superiore ragione ideale, che è - o dovrebbe essere - costantemente e perennemente viva nella coscienza di ogni Magistrato: la ricerca della verità. Più facile far finta di credere alla menzogna: il conflitto, la guerra tra Procure, la isolata follia di "schegge impazzite". Il disordine desta scandalo: immediatamente va sedato e severamente punito. Il popolo saprà che è giusto così. E il sacrificio di pochi varrà la Ragion di Stato. L'Associazione non intende entrare nel merito. Chiuso. Nel dolore di questi giorni, Signor Presidente, il mio pensiero corre alle solenni parole che da Lei (secondo quanto riportato dalla stampa) sarebbero state pubblicamente pronunciate pochi attimi dopo l'esemplare "condanna": «Il sistema dimostra di avere gli anticorpi». Dunque, il sistema, ancora una volta, ha dimostrato di saper funzionare. Mi chiedo, allora, inquieta, a quale "sistema" Lei faccia riferimento. Quale il "sistema" di cui si sente così orgogliosamente rappresentante e garante. Un "sistema" che non è in grado di assicurare l'osservanza minima delle regole del vivere civile, l'applicazione e l'esecuzione delle pene? Un "sistema" in cui vana è resa anche l'affermazione giurisdizionale dei fondamentali diritti dell'essere umano; ove le istanze dei più deboli sono oppresse e calpestato il dolore di chi ancora piange le vittime di sangue? Un "sistema" in cui l'impegno e il sacrificio silente dei singoli è schiacciato dal peso di una macchina infernale, dagli ingranaggi vetusti ed ormai irrimediabilmente inceppati? Un "sistema" asservito agli interessi del potere, nel quale è più conveniente rinchiudere la verità in polverosi cassetti e continuare a costellare la carriera di brillanti successi? Mi dica, Signor Presidente, quali sarebbero gli anticorpi che esso è in grado di generare? Punizioni esemplari a chi è ligio e coraggioso e impunità a chi palesemente delinque? E quali i virus? E mi spieghi, ancora, quale sarebbe «il modello di magistrato adeguato al ruolo costituzionale e alla rilevanza degli interessi coinvolti dall'esercizio della giurisdizione» che l'Associazione intenderebbe promuovere? Ora, il "sistema" che io vedo non è affatto in grado di saper funzionare. Al contrario, esso è malato, moribondo, affetto da un cancro incurabile, che lo condurrà inesorabilmente alla morte. E io non voglio farne parte, perché sono viva e voglio costruire qualcosa di buono per i nostri figli. Ho giurato fedeltà al solo Ordine Giudiziario e allo Stato della Repubblica Italiana. La repentina violenza con la quale, in risposta ad un gradimento politico, si è sommariamente decisa la privazione delle funzioni inquirenti e l'allontanamento da inchieste in pieno svolgimento nei confronti di Magistrati che hanno solo adempiuto ai propri doveri, rende, francamente, assai sconcertanti i vostri stanchi e vuoti proclami, ormai recitati solo a voi stessi, come in uno specchio spaccato. Mentre siete distratti dalla visione di qualche accattivante miraggio, faccio un fischio e vi dico che qui sono in gioco i principi dell'autonomia e dell'indipendenza della Giurisdizione. Non gli orticelli privati. Non vale mai la pena calpestare e lasciar calpestare la dignità degli esseri umani. Per quanto mi riguarda, so che saprò adempiere con la stessa forza, onestà e professionalità anche funzioni diverse da quelle che mi sono state ingiustamente strappate, nel rispetto assoluto, come sempre, dei principi costituzionali, primo tra tutti quello per cui la Legge deve essere eguale per deboli e potenti. So di avere accanto le coscienze forti e pure di chi ancora oggi, nonostante tutto, crede e combatte quotidianamente per l'affermazione della legalità. Ed è per essa che continuerò sempre ad amare ed onorare profondamente questo lavoro. Signor Presidente, continui a rappresentare se stesso e questa Associazione. Io preferisco rappresentarmi da sola. Gabriella Nuzzi, Sostituto Procuratore Salerno (tratta dall'edizione salernitana de "Il Mattino).

Chi spiegherà al pm Carbone di sinistra (espressione di Area: Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia) che le leggi si applicano e si rispettano, e non si contestano? Scrive “Il Corriere del Giorno” il 6 luglio 2015. “No comment e musi lunghi tra i magistrati tarantini all’indomani dell’ennesimo decreto del governo salva Ilva, l’ottavo, che dissequestra l’altoforno 2 dell’Ilva di Taranto, azzerando il provvedimento cautelare era stato deciso dalla procura dopo l’incidente dell’8 giugno scorso in cui ha perso la vita l’operaio trentacinquenne, Alessandro Morricella, investito da una colata di ghisa fusa. Per il magistrato inquirente prima, e per il gip dopo, l’impianto non era sicuro pertanto doveva essere fermato per evitare altri incidenti mortali. Questa presunta pericolosità è ora scomparsa per decreto” secondo quanto racconta il Corriere del Mezzogiorno, cioè l’edizione barese del Corriere della Sera – “Ad esprimere il malessere che serpeggia tra i magistrati tarantini, ma non solo, è il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Maurizio Carbone, egli stesso pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Taranto.”. Il segretario dell’Associazione nazionale dei magistrati, dimenticando che le Leggi si rispettano ed applicano, contesta quanto deciso dal Governo ed avvallato dal Presidente della Repubblica sostenendo che    “Il caso ILVA – dice – è la dimostrazione di come il legislatore tuteli l’interesse economico rispetto ad altri interessi come quelli sulla sicurezza dei lavoratori e della tutela ambientale». Il segretario dell’Anm– sempre secondo il Corriere del Mezzogiorno – mette in luce una pericolosa spaccatura tra i due poteri dello Stato. “Tutto questo – continua Carbone – crea una ulteriore contrapposizione tra potere giudiziario e potere legislativo sulla base di una evidente e più volte dimostrata priorità di quest’ultimo verso la tutela economiche rispetto ad altri diritti….  Ognuno –ha concluso Carbone – valuta le situazioni a modo suo. Certo è che scelte come questa sull’ ILVA, da parte della politica, non possono che lasciare perplessi e destare preoccupazione e non soltanto tra gli operatori della giustizia». Il dottor Carbone non spende nessuna parola però sulla circostanza che non risulta che  la Procura e tantomeno il gip abbiano richiesto a dei periti (da nominare)  una perizia tecnica sull’incidente mortale, nè tantomeno il magistrato si sofferma sulla circostanza che i soliti giornalisti “ventriloqui” di Palazzo Giustizia , abbiano censurato quanto circola in ambienti industriali interni (fornitori e dipendenti) allo stabilimento siderurgico dell’ ILVA, e cioè che il tragico incidente occorso all’operaio Alessandro Morricella sia stato provocato e determinato in realtà da comportamenti operativi di alcuni operai, molto lontani dalle note vigenti disposizioni aziendali in materia di sicurezza.  Comportamenti analoghi a quelli che proprio nei giorni scorsi hanno portato alla condanna di alcuni operai dell’ILVA, responsabili di “scherzi” poco piacevoli ad un loro collega. Secondo nostre fonti confidenziali infatti, sembrerebbe che l’operaio deceduto non indossasse l’abbigliamento tecnico di sicurezza necessario sul posto di lavoro, di cui infatti nei primi rilievi di polizia giudiziaria dicono non ci sia alcuna traccia. Ma tutto questo nessuno lo dice e racconta. Come nessuno in Procura si meraviglia che il marito di un magistrato ricopra incarichi di gestione e rappresentanza societaria in aziende municipali e pubbliche. O di altro “professionista” tarantino legato ad un altro magistrato che vive, lavora e guadagna fior di quattrini (letteralmente) grazie alle CTU cioè le “perizie” affidategli dal Tribunale di Taranto, come questo quotidiano in un recente articolo ha già raccontato e denunciato. Di questi conflitti d’interesse, l'Associazione Nazionale dei Magistrati ed il suo segretario none parlano. Strano vero? Poi qualcuno si meraviglia che in un recente passato a Taranto siano stati arrestati un magistrato ed un giudice! Tutto ciò probabilmente spiega anche le ragioni per cui il dr.Cataldo Motta, Procuratore della Repubblica di Lecce, che regge anche il vertice della Direzione Distrettuale Antimafia che sovrintende per competenza sul territorio di Taranto, ha ottenuto dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura con parere favorevole del Ministro di Giustizia, la deroga a reggere il suo incarico sino al 2017. Mentre invece per il dr. Franco Sebastio, procuratore capo della repubblica di Taranto, la deroga non è arrivata. P.S. nel frattempo attendiamo ancora risposta ad una richiesta “pubblica” al dr. Sebastio di intervista da video filmare (invito che estendiamo anche al dr. Carbone). O forse le nostre domande scomode danno un pò di fastidio…?

Perchè leggere Antonio Giangrande?

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI. Con procedimento n. 1833/13 il PM di Potenza d.ssa Daniela Pannone, chiedeva ed otteneva il rinvio a giudizio da parte della d.ssa Rosa Larocca per il processo tenuto dal dr Lucio Setola, ex PM.

Imputato: Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (Ta) il 02.06.1963 ed ivi elettivamente domiciliato, ex art. 161 c.p.p., alla via Manzoni, 41.

Persona Offesa: Rita Romano, nata a Roma il 30.05.1967, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto.

A) Reato previsto e punito dall’art. 595 comma 3 codice penale (diffamazione) perché, nella qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089/05 r.g.n.r, nell’atto di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore Generale di Taranto – depositata in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata di Manduria del Tribunale di Taranto – offendeva la reputazione della dott.ssa Rita Romano, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto, scrivendo che il predetto magistrato “abusando dell’ufficio adottava atti con intento persecutorio, lesivi degli interessi, dell’immagine e della sua persona, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove” e che “nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza; ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza”. In Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.

B) Reato previsto e punito dall’art. 368 Codice penale (calunnia) perché, nella qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089 RGNR, nell’atto di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore Generale di Taranto - depositato in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata di Manduria del Tribunale di Taranto – autorità che ha l’obbligo di riferirne, pur sapendola innocente, accusava la dott.ssa Rita Romano, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto, del reato di abuso d’ufficio, di falso in atto pubblico. In particolare, accusava il predetto magistrato utilizzando le seguenti frasi: “abusando dell’ufficio adottava atti con intento persecutorio, lesivi degli interessi, dell’immagine e della sua persona, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove” e “nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha adottato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza; ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza”. In Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.

Il procedimento penale su denuncia di Rita Romano. Denuncia per calunnia e diffamazione, questa è l’accusa che mi si oppone. Calunnia per aver presentato in data 27/01/2011 al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a sostegno dell’atto di ricusazione, in procedimenti penali per il quale il magistrato denunciato era decidente sulle mie sorti, una richiesta motivata e circostanziata di avocazione delle indagini inviata al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Taranto, ma anche di Potenza. Avocazione delle indagini presentata il 18 aprile 2008 a Taranto e Potenza. Magistrato già precedentemente denunciato alle procure di Taranto e Potenza ben prima del 18 aprile 2008, sapendolo colpevole con prove a sostegno. Denunce presentate in data 22/03/2006 e rimaste lettera morta.

Diffamazione per aver presentato in data 27/01/2011 tale richiesta di avocazione delle indagini al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a sostegno dell’atto di ricusazione in procedimenti penali per il quale il magistrato denunciato era decidente sulle mie sorti. Diffamazione perché denunciavo la grave inimicizia causa di persecuzione. Diffamazione tardiva perché richiesta simile di ricusazione era stata presentata già il 29/09/2010. Le ricusazioni (erano tre per tre distinti procedimenti), poi, non sono state rese operative, in quanto il magistrato ricusato ha presentato la denuncia contro di me per giustificare la sua astensione. Cosa che rimarca ogni volta in tutti i procedimenti nei quali, investita come magistrato titolare, sia costretta a rinunciare: «Mi astengo dal procedimento a carico dell’imputato in quanto ho presentato denuncia penale contro lo stesso per calunnia e diffamazione.» Intanto per quei processi, sempre per diffamazione a mezzo stampa, con condanna scontata se fossi rimasto inerte,  sono stato successivamente prosciolto dagli altri giudici subentranti.   

La grave inimicizia, causa della ricusazione di cui si pretendeva l’impedimento dell’esercizio del diritto, era palesata dai precedenti giudizi di causa cui tale magistrato era competente ed io sempre soccombente, quando io esercitavo la professione forense, per le quali io ero imputato o difensore di parte. Dalla lettura delle sentenze si evince tale pregiudizio.

In effetti, la denuncia nei miei confronti, è un atto ritorsivo. Non tanto per la richiesta di ricusazione ed avocazione delle indagini ed atti allegati, ma per la mia attività di scrittore noto nel mondo che denuncia le malefatte dei magistrati a Taranto e pubblica quanto gli altri non osano dire. Vedi caso killer delle vecchiette, Sarah Scazzi, Ilva, ecc.

D'altronde la calunnia non sussiste, sapendo il magistrato colpevole ed evidenziandolo in più atti di denuncia, né sussiste la diffamazione, in quanto, ai sensi dell’art. 596 c.p., come pubblico Ufficiale la prova della verità del fatto determinato è ammessa nel processo penale.

Oltretutto i reati sono ampiamente prescritti e decaduti, ove vi fosse bisogno della querela.

Questa è la denuncia penale, così come richiesta in sede di avocazioni delle indagini alla procura Generale della Corte di Appello di Potenza, e per la quale è stata presentata (a dire di Rita Romano) denuncia per calunnia.

DENUNCIA ALLA S.V.

Rita Romano, giudice monocratico del Tribunale di Taranto, sezione staccata di Manduria,

domiciliata in viale Piceno a Manduria,

per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476, 479 c.p., con applicazione delle circostanze aggravanti, comuni e speciali ed esclusione di tutte le attenuanti,

IN QUANTO

Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato continuamente atti del suo ufficio, con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli interessi, dell’immagine e della persona del sottoscritto, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove.

Nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza, o essa ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza.

PREMESSO CHE:

Giangrande Antonio, da difensore, è stato vittima di un aggressione in casa da parte del marito di una sua assistita in un procedimento di separazione, al fine di impedirgli la presenza all’udienza del giorno successivo. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio 2006,  la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo istruito, in cui il PM non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur indicanti in denuncia Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio Giangrande Mirko, la Romano sente solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le testimonianze, e definendo testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra.

Giangrande Antonio era accusato di esercizio abusivo della professione forense e per gli effetti di circonvenzione di incapace. Nel processo penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso PM riteneva il reato di esercizio abusivo della professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Romano condannava il Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà dell’onorario per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata assunta nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di difesa per mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso al gratuito patrocinio. E’ seguito appello. Da notare che il giorno della sentenza era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali portavano la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio era il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Era la prima volte che le vicende del Tribunale di Manduria avevano degna attenzione.

Giangrande Antonio era difensore di Natale Cosimo in una causa civile di sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario dichiara di non sapere nulla del sinistro. Esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007, la Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante lo stesso rendeva testimonianza contrastante a quella contestata. Lo assolveva nonostante affermava il vero e quindi il contrario di quanto falsamente dichiarato in separata causa. Lo assolveva nonostante a difenderlo ci fosse un difensore, Mario De Marco, impedito a farlo in quanto Sindaco pro tempore di Avetrana. Il De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio legale condiviso.

Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano accusati di calunnia, per aver denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro truffa, in cui definiva, in reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE ESCLUSIVA” del sinistro. Atti presentati due anni dopo la richiesta di risarcimento danni, che la compagnia di assicurazione ha ritenuto non evadere. Il Giangrande Antonio non aveva mai presentato denuncia. Antonio era fratello e difensore in causa di Monica. La posizione del Giangrande Antonio era stralciata per lesione del diritto di difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo penale n. 10306/06 RGD, in data 18 dicembre 2007, la Romano condannava Giangrande Monica e rinviava al PM la testimonianza di Nigro Giuseppa per falsità. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante la presunta vittima del sinistro non abbia riconosciuto l’auto investitrice, si sia contraddetto sulla posizione del guidatore, abbia riconosciuto Nigro Giuseppa quale responsabile del sinistro, anziché Giangrande Monica. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia testimoniato che la presunta vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che con le sue gambe sia andato via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.

Giangrande Antonio era difensore di Erroi Salvatore, marito di Giangrande Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui difensore della contro parte era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara falsità, palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21.  Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le prove della colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo.

"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).

Mallegni: "Non chiamatemi più Massimo della pena". Il sindaco di Pietrasanta dopo sei processi racconta la sua Odissea. Iniziata con l’esposto di una vigilessa che Renzi ha portato a Palazzo Chigi, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama” il 6 luglio 2015. "Ho una sola preghiera: non chiamatemi più Massimo della pena". Alla guida di una lista di centrodestra, Massimo Mallegni è stato appena rieletto per la terza volta e a furor di popolo sindaco di Pietrasanta, la città-gioiello della Versilia lucchese. Il nomignolo gliel’hanno affibbiato le malelingue toscane e non hanno tutti i torti: dal maggio 2001, pochi mesi dopo la prima elezione, Mallegni è finito sotto processo ininterrottamente per 13 anni. I processi sono stati sei e tutti duri, brutti e cattivi. Lui oggi scherza: "Silvio Berlusconi  si lamentava perché da presidente del Consiglio doveva dedicare un giorno a settimana ai suoi processi. Io ero costretto ad andare in tribunale tre volte a settimana". Sorride, Mallegni. Eppure è stato accusato di decine di reati, dalla A di abuso fino alla T di truffa. Lo hanno perfino arrestato, ha fatto 39 giorni di carcere e 119 agli arresti domiciliari. Ma tutto è sempre finito in nulla: proscioglimenti in istruttoria, assoluzioni con formula piena. Per qualche reato minore, prescritto, pende l’appello: "E solo perché mi sono sempre opposto alla prescrizione". Dall’ultimo procedimento è uscito definitivamente assolto nel febbraio 2014: un abuso d’ufficio ed edilizio per il quale, a lui albergatore già nel cuore della stagione turistica, il 4 agosto 2010 la Procura di Lucca aveva ordinato il sequestro della Spa dell’hotel. "Il sequestro" sottolinea Sandro Guerra, che del sindaco è (come da nome) il battagliero avvocato "l’aveva firmato un giudice che dopo l’arresto del 2006 aveva querelato Mallegni per diffamazione. Sicuramente non ha collegato le due vicende, ci mancherebbe". Era il momento in cui il già due volte sindaco era appena stato sbattuto, con padre e cinque assessori, nel carcere di Lucca. «Sezione 4, cella numero 17» dice Mallegni. «M’ha salvato la fede. Pensavo a mio figlio, a mia moglie…». Tornato a casa, ebbe la cattiva idea di pronunciare parole di sconforto, qualcosa sulla sua vita rovinata. Bastò a quel giudice per citarlo in giudizio. Il sindaco ricorda la cella: "Ero in isolamento, come i mafiosi al 41 bis, e sempre controllato dal foro nella porta, anche quando andavo al gabinetto. Ma gli agenti erano ottime persone". Questo va detto, di Mallegni. Non porta rancore, né si ritiene un perseguitato. Anzi, continua a ripetere che con lui "la giustizia ha funzionato". Un bel paradosso, non c’è dubbio. "Ho incontrato una ventina di giudici" spiega "e sono stati indipendenti. Hanno letto le carte, mi hanno ascoltato". L’avvocato Guerra è un po’ meno conciliante. Ricorda soprattutto i duelli in aula con il pubblico ministero "fratello". No, non massone, avete equivocato: fratello in senso stretto, di sangue. Perché all’origine dei peggiori guai di Mallegni ci sono stati gli esposti firmati da Antonella Manzione, ex comandante dei vigili urbani di Pietrasanta, e gestiti a livello giudiziario dal pm lucchese Domenico Manzione. Da allora fratello e sorella hanno fatto carriera. Domenico nell’ottobre 2009 fu nominato procuratore di Alba e dal maggio 2013è sottosegretario all’Interno, scelto da Enrico Letta e confermato da Matteo Renzi; Antonella invece è divenuta prima comandante dei vigili urbani di Firenze, con Renzi sindaco, e oggi è il suo capo dell’ufficio legislativo a palazzo Chigi. Mallegni non ce l’ha nemmeno con loro: "Si vede che lei è brava e lui è ancora più bravo" commenta. Ma torniamo alla querelle con la comandante dei vigili. Tutto inizia quando il sindaco si è da poco insediato a Pietrasanta, nel 2000. "Trovo una delibera firmata dal mio predecessore che riorganizza il Comune". La delibera pone fine a un’anomalia: la comandante è anche capo dello Sportello unico attività produttive, e le viene tolto il primo incarico. Mallegni conferma la delibera: "La signora non perde un euro" dice "ma evidentemente la cosa le provoca disagio. E presenta un esposto di 20 pagine alla Procura di Lucca". È da quelle pagine che partono tre processi, con 51 capi d’accusa. Manzione accusa Mallegni di avere abusato dell’auto di servizio ("Si dimostrò che in realtà era l’auto civetta dei carabinieri della scorta: avevo ricevuto 4 proiettili calibro 38 dal Partito comunista combattente"); di avere inalberato un lampeggiante blu sulla sua auto ("Altro errore: era la vettura di Gianfranco Fini, presidente della Camera"); di avere estorto a un vigile la remissione di una multa ("Ma era un’auto del Comune"). L’esposto, firmato da altri 5 vigili, si fa più delicato in campo urbanistico: qui Antonella Manzione accusa il sindaco di avere fatto sperticati maneggi. Ed è su questo tema che partono gli arresti del gennaio 2006, chiesti da Domenico Manzione per associazione a delinquere, truffa, abuso d’ufficio, voto di scambio, estorsione… "L’ex pm oggi nega di avere avuto un ruolo importante nel processo" polemizza l’avvocato Guerra "ma non è così. Lo seguì fino al suo trasferimento ad Alba, e ci sono i verbali delle udienze. Ricordo che, indispettito, uscì sbattendo la porta dall’aula alla fine di un lungo interrogatorio nel quale ponevo a testi e parti civili domande sul ruolo della sorella comandante dei vigili". Già nel 2006 la Cassazione stabilì che gli arresti erano stati illegittimi. "Intanto" ricorda Mallegni "avevo ricevuto 755 lettere di solidarietà dai miei concittadini". In Parlamento ci fu chi si rivolse al ministero della Giustizia, allora retto dal leghista Roberto Castelli, segnalando l’anomalia di Lucca, dove un pm agiva su esposti firmati da sua sorella: in procura arrivarono gli ispettori, poi il governo cadde e tutto finì in niente. Sei anni dopo il processo terminò allo stesso modo. Oggi Mallegni è di nuovo lì. Paura? "No" risponde. "Fare il politico da imprenditore non è conveniente, ma si deve andare avanti". E con il nuovo capo dei vigili urbani è tutto a posto? O si rischiano nuovi guai? "È uno dei cinque che mi aveva denunciato con la sua comandante. Ma è un tipo in gamba. E poi io non porto rancore".

Il Cav? È l'unico corruttore al mondo. La condanna di Silvio Berlusconi per il "tradimento" dell'ex senatore De Gregorio mostra la totale parzialità di una giustizia che vede solo quel che vuole vedere, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama” il 9 luglio 2015. A che cosa deve servire una sentenza di tribunale penale? A fare giustizia, risponderete voi. Errato: serve “a offrire una funzione generalpreventiva". Così ha detto ieri il pubblico ministero napoletano John Henry Woodcock nell'aula del processo sulla presunta compravendita dell'ex senatore Sergio De Gregorio. Il processo di primo grado si è concluso proprio ieri con la condanna di Silvio Berlusconi, il presunto corruttore, a tre anni di reclusione (ma l'accusa ne aveva chiesti cinque). L'altro condannato è Valter Lavitola, presunto tramite del passaggio di denaro (tre milioni di euro, due dei quali in nero) che pure si è visto assegnare tre anni. Strana maniera di vedere la giustizia, quella del pm Woodcock. Il processo, destinato a concludersi per l'intervenuta prescrizione, lascerà proprio per questo a metà ogni certezza giuridica. Non sarà quindi certa né l'attribuzione del reato, né la sua configurazione storica. Parlare di giustizia "generalpreventiva", in questo caso, è davvero improprio. Inoltre, la questione di cui si è dibattuto a Napoli è decisamente controversa: non solo nella verità storica dei fatti, negata con forza dagli imputati, ma anche in punto di diritto. È infatti la prima volta in Italia (ma forse anche nel mondo) che un "cambio di casacca" parlamentare viene punito con una condanna. In Italia, peraltro, la Costituzione prevede all'articolo 67 che nessun deputato o senatore possa essere soggetto a un "vincolo di mandato": questo vuol dire che è libero di esprimersi nel voto parlamentare come meglio crede, e anche di cambiare gruppo. Il procuratore di Napoli, Giovanni Colangelo, ha dichiarato però che a essere punita in questo caso "non è l'insindacabilità del voto, ma il condizionamento del voto: espresso non per libera scelta politica, ma per un pagamento. E il reato di corruzione non si riferisce all'espressione di un voto, ma alla promessa di un voto". Ma anche quella del procuratore Colangelo è una ben strana maniera di vedere le cose. Perché l'alto magistrato pare dimenticare le centinaia, migliaia di altri passaggi di campo che si sono verificati nella Storia parlamentare italiana, e pare dimenticare soprattutto che molti di questi hanno di certo avuto avuto alla loro base scambi di qualche utilità. Quante volte si è saputo (e scritto sui giornali) delle prebende o dei vantaggi ottenuti dal "traditore" di turno? Quanti senatori e deputati sono "migrati" soltanto in virtù delle garanzie di una successiva elezione, o della promessa del successivo ottenimento di posti importanti negli enti pubblici, o della facile carriera garantita in altro settore? Certo, il trasformismo è purtroppo costume trasversale, in questo Paese, fin dai tempi di Agostino Depretis. E non è certo pratica commendevole. Ma allora perché per le altre centinaia e migliaia di "cambi di casacca" parlamentari, comunque premiati con un vantaggio evidente, non si è mai ipotizzato che potesse trattarsi di corruzione? Eppure l'articolo 318 del Codice penale individua la corruzione nello scambio di un atto con "denaro o altra utilità". Non dovrebbe allora essere punito chi ha costretto decine di deputati berlusconiani a passare con il centrosinistra nelle precedenti legislature, per poi ottenere in cambio un seggio più sicuro alle successive elezioni?

Per di più, in questo caso, la ricostruzione giudiziaria del passaggio di De Gregorio con il centrodestra ha stravolto anche la verità storica. L'ex senatore infatti aveva trascorso tutta la sua vita politica nel centrodestra, per poi passare da ultimo (e strumentalmente) con il centrosinistra. Il suo "ritorno a casa" in realtà avviene nel 2006, all'inizio della legislatura. Questa circostanza nega con evidenza la "verità giudiziaria" uscita da Napoli, dove si è sentenziato che il tradimento di De Gregorio avrebbe causato la caduta del governo di Romano Prodi. In realtà il fragilissimo esecutivo di Prodi, che per lunghi mesi si era sostenuto soltanto con l'aiuto dei senatori a vita, avvenne nel 2008 per tutt'altro motivo: le crescenti turbolenze giudiziarie sul suo ministro della Giustizia, Clemente Mastella, e la sua uscita dalla maggioranza.

Silvio Berlusconi è decaduto da senatore e non è stato più candidabile per effetto della legge Severino, scrive "Il Corriere della Sera". Malgrado la stessa legge, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris (eletto nelle fila dell’Idv) e il neo-governatore della Campania Vincenzo De Luca del PD possono invece restare in carica, per effetto di sentenze sospensive a loro favorevoli. Come quella del 2 luglio 2015 che di fatto consente a De Luca di prendere pieno possesso delle proprie funzioni dopo la sua sospensione decretata nei giorni prima dal governo Renzi. Una diversità di applicazione della norma che fa insorgere il centrodestra: «Dopo il trattamento favorevole a de Magistris e De Luca, non chiamatela più legge Severino ma con il suo vero nome: legge anti-Berlusconi - commenta la deputata di Forza Italia, Elvira Savino -. Ormai è chiaro a tutti che è una legge, applicata addirittura retroattivamente, che è servita solo per estromettere vergognosamente il presidente Berlusconi dal Senato». Stesso concetto ribadito da Maria Stella Gelmini, per la quale si è trattato di una legge «contra-personam» («visto che dopo il caso Berlusconi non è stata più applicata o, laddove applicata, i suoi effetti sono stati cancellati con sentenze del Tar»), che aggiunge: «Ora è chiaro perché il governo non ritiene utile una revisione della legge Severino. Per la semplice ragione che essa viene interpretata per gli amici e applicata ai nemici. Con buona pace dello stato di diritto». Il capogruppo alla Camera di Forza Italia, Renato Brunetta, fa notare via Twitter che «la decisione del Tribunale di Napoli riabilita Berlusconi, ma il caso De Luca resta aperto. Sinistra giustizialista chieda scusa a Cav. Severino da cambiare!». E con un paio di tweet interviene anche Giorgia Meloni, già ministro del governo Berlusconi, secondo cui la legge Severino è «l’unica vera legge ad personam. #superioritamoraleuncorno». E ancora: «De Luca te lo avevamo detto che potevi stare sereno: la Severino vale solo per Berlusconi e il centrodestra. La sinistra è al di sopra della legge». In una nota, i legali del leader FI, Franco Coppi, Piero Longo e Niccolò Ghedini, parlano di «gravissima ingiustizia» osservando come siano «quasi due anni che inascoltati sosteniamo la assoluta inapplicabilità della legge Severino ai fatti precedenti, per il fondamentale principio di irretroattività. Finalmente alcune decisioni stanno riconoscendo la evidente correttezza di questa impostazione».

«Renzi può intervenire con una modifica alla legge Severino, cosa che non ha ritenuto di fare quando si è trattato di Silvio Berlusconi. - Così l’ex Cavaliere a Radio anch’io, commentando la vicenda del candidato Pd alle regionali campane Vincenzo De Luca, candidabile ma ineleggibile per la legge sulla “repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione". - Io chiedevo – ha sostenuto Berlusconi – una cosa semplice, cioè di aggiungere una norma che dice che la presente legge si applica a fatti successivi alla sua entrata in vigore. Cosa addirittura pleonastica ma che è stata dimenticata, e la legge Severino con me è stata applicata retroattivamente. Così sono riusciti a farmi decadere dal Senato e rendermi incandidabile per sei anni. Tuttavia sto aspettando la Corte dei diritti di Strasburgo e spero che la sentenza verrà ribaltata».

«Fino ad ieri potevamo, politicamente, solo sospettare che la legge Severino fosse stata fatta per espellere Berlusconi dal Senato. Da ieri, invece, dopo tre indizi abbiamo raggiunto la prova “regina”, storica e politica al tempo stesso: la legge Severino fu fatta contro e ad personam». Maria Stella Gelmini attacca nonostante siano trascorsi ormai di due anni da quando, all’indomani della sentenza Mediaset della Cassazione, il Senato espulse Silvio Berlusconi. Proprio per effetto della legge Severino, scrive Antonio Manzo su “Il Mattino”.

Quali sono i tre indizi, onorevole Gelmini, che la fanno raggiungere la prova?

«De Luca uno, con il Governo che si guarda bene dal sospenderlo subito; De Luca due, con l’ordinanza urgente del tribunale di Napoli; De Magistris tre, salvato sempre dallo stesso giudice civile del caso De Luca. Abbiamo avuto così la dimostrazione che tra ordinanze e sentenze, la legge Severino è stata interpretata, favorevolmente, per gli amici ed è stata applicata, implacabilmente, per i nemici. Altro che garantismo, qui è la morte dello stato di diritto».

Scusi, ma uno dei presupposti delle valutazioni dei magistrati è che sia nel caso di De Luca, che in quello di de Magistris fossero in gioco valori costituzionalmente protetti come quelli espressi da rappresentanti istituzionali eletti dal popolo?

«Se c’è un leader politico che in Italia può dichiarare, a piena voce, di essere un eletto dal popolo è Silvio Berlusconi. Che poi anche De Luca e de Magistris siano stati eletti dal popolo per governare la Regione Campania ed il Comune di Napoli, è altra storia. Nel caso di Silvio Berlusconi è stata minata, stracciata, distrutta la volontà popolare e il valore elettivo, quello sì costituzionalmente protetto ed universale, incarnato da un membro del Parlamento, massima espressione della democrazia repubblicana. È un vulnus più grave. Non le pare?»

La legge Severino fu votata anche da voi di Forza Italia. È mai possibile che nessuno si sia accorto all’epoca dei fatti dei profili di incostituzionalità che oggi vengono a più riprese evidenziati?

«Vogliamo ricordare in che clima e in che contesto fu varata la legge Severino? Ebbene, contestualizziamo l’epoca, è quella del Governo Monti che cacciò Berlusconi, eletto dal popolo».

Governo votato dal Parlamento, l’unità nazionale con lo spread in salita quotidiana...

«Quella fu la cacciata di Silvio Berlusconi, eletto dal popolo, che inaugurò la stagione dei nominati a Palazzo Chigi, Monti, Letta e Renzi». 

Ma è anche il tempo, ricorderà, degli scandali Fiorito, Lusi, Belsito, tutta gente che aveva preso in ostaggio le casse dei rispettivi partiti rimpinguate dal finanziamento pubblico come un bancomat personale.

«Non vorrà mica farmi dire che la ricostruzione del contesto politico dell’epoca, con la cacciata di Berlusconi da palazzo Chigi, annulli le responsabilità di chi aveva fatto dei partiti un bancomat personale? E allora, che ci volesse una reazione con norme più incisive alla corruzione, che facessero riguadagnare la faccia alla politica, è cosa scontata ed ineludibile. Ma che quella della legge Severino fosse una reazione emotiva è altrettanto vero. Anzi, come poi abbiamo registrato, sottintendeva l’idea piuttosto obliqua di prefigurare una risposta repressiva contro il leader dell’opposizione parlamentare, Silvio Berlusconi. Altro che questione morale...».

La prova definitiva: in Italia la legge non è uguale per tutti, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. La legge non è uguale per tutti. Per qualcuno è più uguale di altri, nel senso che è più rigida, soprattutto se ci si chiama Silvio Berlusconi. Ricordate la sentenza con cui l’ex Cavaliere è stato condannato a quattro anni di detenzione e sospeso dai pubblici uffici? Cioè quella misura che ha consentito la sua estromissione dal Parlamento e ha stabilito la sua ineleggibilità? Per i giudici della Corte di Cassazione il fondatore di Forza Italia fu l’artefice di una frode fiscale ai danni dell’erario e per questo fu costretto non solo a lasciare il suo seggio da senatore, ma anche a risarcire l’agenzia delle entrate. Peccato che in una sentenza del 20 maggio 2014, cioè emessa dieci mesi dopo quella pronunciata contro Berlusconi, la suprema corte si rimangi tutto, sostenendo che non si può condannare un contribuente solo in base alla presunzione di colpevolezza. Per stabilire che ha frodato il fisco ci vuole ben altro, ad esempio un atto fondamentale, ossia che l’accusato abbia materialmente partecipato alla frode compiendo l’atto finale: la dichiarazione dei redditi. Testuale: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione annuale». Ancor più esplicita: i reati di frode non possono essere provati «dalla mera condotta di utilizzazione, ma da un comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione, alla quale in base alla disciplina in vigore non dev'essere allegata alcuna documentazione probatoria». Tradotto, tutto quel che succede prima, tutta la fase di valutazione antecedente al fatto, non ha importanza, perché «il comportamento precedente alla dichiarazione, quindi si configura come ante factum meramente strumentale e prodromico per la realizzazione dell'illecito, e perciò non punibile». La Cassazione, assolvendo nel maggio scorso un imputato di frode fiscale, nega dunque la rilevanza penale delle violazioni «a monte» della dichiarazione e lo fa facendosi forte di una serie di pronunciamenti passati. A qualcuno il discorso potrà sembrare ostico e forse anche ininfluente, in quanto la sentenza si riferisce a un caso diverso rispetto a quello di Silvio Berlusconi e, come è a tutti noto, ogni processo fa caso a sé, anche perché ogni giudice fa caso a sé. E per questo appunto c'è la Cassazione e le sezioni unite che fissano i principi inderogabili. I principi valgono per tutti e non si possono cambiare le carte in tavola a seconda di chi finisce alla sbarra. Dunque «i comportamenti di un soggetto quando era ancora amministratore di una società e che si era dimesso prima della presentazione della dichiarazione dei redditi, non possono essere valorizzati neppure in termini di concorso con colui che, rivestendo successivamente la carica di amministratore, aveva indicato nella dichiarazione gli elementi fittizi». Tutto ciò messo nero su bianco da una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, un provvedimento che fa giurisprudenza e al quale ci si deve attenere.

"Ora la revisione del processo Mediaset". Una sentenza di assoluzione della Cassazione su un caso analogo a quello di Berlusconi riapre la partita. L'annuncio di Ghedini, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. C'è una sentenza della Cassazione che, dieci mesi dopo quella Mediaset di condanna di Silvio Berlusconi, la bolla esplicitamente come sbagliata. Si regge su una tesi, spiega la motivazione, «che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte e al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari». Il caso è del tutto analogo a quello Mediaset, frode fiscale, le conclusioni opposte: sentenza di condanna confermata per il leader azzurro il primo agosto 2013, sentenza di condanna annullata per il signor X il 20 maggio 2014. Colpisce che il relatore sia lo stesso, il giudice Amedeo Franco, che già aveva firmato precedentemente altre sentenze «conformi» a quest'ultima. E che la sezione sia la Terza penale, cui era naturalmente destinato il processo Mediaset prima di venire dirottato a quella Feriale, presieduta da Antonio Esposito, per il timore (poi, a quanto sembra, rivelatosi infondato) che nei mesi estivi potesse scattare la prescrizione. «Questo dimostra - spiega il legale di Berlusconi, Niccolò Ghedini - che la condanna Mediaset ha rappresentato un unicum nella giurisprudenza della Cassazione. Che prima e dopo la legge è stata interpretata in maniera diversa, con un orientamento univoco. Se il processo Mediaset fosse arrivato alla Terza Sezione e non in quella Feriale, e con quello stesso relatore, sarebbero cambiate le sorti di Berlusconi e del Paese, sarebbe cambiata la storia. Questo sarà un elemento importante per la decisione della Corte europea per i diritti dell'uomo, che attendiamo. Ma soprattutto, sulla base di questa sentenza e delle nuove prove che abbiamo raccolto, chiederemo la revisione del processo». La difformità nella giurisprudenza di per sé non produce effetti sulla condanna Mediaset, ma potrebbe convalidare una violazione del principio del giusto processo, tra le ipotesi che giustificano la revisione del processo. E la strada sarebbe aperta se la Corte di Strasburgo, nella pronuncia attesa dopo l'estate, affermasse appunto che questa violazione c'è stata. È vero che ogni giudice e ogni collegio fa giurisprudenza a sé, ma è anche vero che la Suprema Corte ha proprio la funzione di uniformare l'interpretazione e l'applicazione del diritto. È lecito chiedersi perché prima della sentenza Mediaset si è seguita una strada precisa per il reato di frode fiscale e anche dopo è stato così, mentre in quel caso isolato ha prevalso proprio la teoria rivelata dal presidente Esposito in un'intervista al Mattino che gli ha procurato un processo disciplinare: Berlusconi fu condannato «perché sapeva», fu informato da altri della frode, non per il principio astratto del «non poteva non sapere», essendo il capo. Proprio qui sta il punto in cui la sentenza depositata in Cassazione il 19 dicembre scorso contraddice quella Mediaset, che cita esplicitamente, con data e numero di serie. Contestando la condanna dell'imputato, i Supremi giudici scrivono: «In sostanza, la corte d'appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione feriale 1-8-2013, n.35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un "coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento... che ha consentito... di avvalersi della documentazione fiscale fittizia", al sottoscrittore della dichiarazione». Invece, continua la sentenza, questo non è affatto sufficiente. E le massime che l'accompagnano, quelle che per il futuro indicano ai giudici come interpretare la legge, dicono chiaro che: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione dei redditi». Le fasi preparatorie, il sapere o non sapere, non contano.

La Cassazione si rimangia la sentenza su Berlusconi, scrive Davide Giacalone su “Libero Quotidiano”. Il condannato Silvio Berlusconi ha terminato di espiare la pena. E questo è noto a tutti. Quel che non è noto, però, è che nel frattempo la corte di Cassazione ha condannato la sentenza che lo condannava. La considera un’eccezione, da non prendere ad esempio, perché sbagliata. Il nome del condannato agita le tifoserie. Gli capitava da imprenditore, ancor più da politico. La condotta di quelle trincee vocianti non è per nulla interessante. Talora neanche ragionevole. La linea cui ci si deve attenere, quando si affrontano questioni di giustizia, consiste nel non cedere alla contrapposizione fra innocentisti e colpevolisti, ma di attenersi alla difesa del diritto e dei diritti. Solo in questo modo non ci si limita a discutere casi personali, sollevando questioni che, sempre, riguardano tutti. Il che vale anche questa volta. Ma non faccio il falso ingenuo, so bene che il nome di Berlusconi è divisivo, capace, per i simpatizzanti e gli antipatizzanti, di distorcere la percezione della realtà. Chiedo uno sforzo, però: prima si capisca quel che è successo, poi si passi alle considerazioni, anche politiche e personali, che se ne possono far discendere. Con sentenza della Cassazione, emessa il primo agosto del 2013 (numero 35729), è stata confermata la condanna inflitta agli imputati in appello. Per Berlusconi la Cassazione chiese anche il ricalcolo della pena accessoria. Il reato contestato era la frode fiscale, con violazione (scusate la pedanteria, ma fra poco ne sarà chiara la ragione) del decreto legislativo 10 marzo 2000, numero 74. Detto in soldoni: la dichiarazione dei redditi della società (Mediaset) era mendace, giacché contenente riferimenti e contabilizzazioni di documenti falsi (fatture). Il seguito lo conoscono tutti: decadenza da parlamentare e affidamento ai servizi sociali. Il 20 maggio del 2014, quasi un anno dopo, quindi, la terza sezione della corte di Cassazione si è trovata ad esaminare un caso del tutto analogo, emettendo una sentenza, depositata in cancelleria il 19 dicembre successivo. L’imputato era stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Osserva la Cassazione, a pagina 10 della sentenza: «In sostanza, la corte d’appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione Feriale 1/8/2013, n. 35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un “coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento (…) che ha consentito (…) di avvalersi della documentazione fiscale fittizia” al sottoscrittore della dichiarazione» (corsivo e omissioni come da sentenza). Tenetevi forte, perché le parole che seguono vanno valutate una per una. Scrive la Corte: «Si tratta però di una tesi che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte ed al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari introdotto dal legislatore con il decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74». Detto in altro modo: le ragioni per cui Berlusconi, assieme ad altri, è stato condannato non solo sono difformi dalla «contraria» e «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza» della Cassazione, ma sono in contrasto con quanto stabilisce la legge. Tanto che, quel 20 maggio dell’anno scorso, la Cassazione annullò la sentenza che le era stata sottoposta. Il primo agosto del 2013, invece, la confermò. Non è finita. Alla sentenza si accompagnano delle «massime», che sono delle brevi citazioni, utili a fissare i principi di diritto che la sentenza afferma. La Cassazione, infatti, esiste quale giudice di legittimità ed ha una funzione nomofilattica, che significa: garantire l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto. Le massime aiutano i futuri giudici di merito (e gli avvocati, naturalmente) ad attenersi a quell’uniforme interpretazione e applicazione. Ebbene, la sentenza di cui parliamo è accompagnata da alcune massime, in calce alle quali ci sono i riferimenti a varie sentenze, sempre della Cassazione, «conformi», vale a dire che sostengono la stessa cosa. E c’è la difforme: la numero 35729. Quella che condannò Berlusconi. Nelle motivazioni e nella massime si legge la corretta interpretazione della legge: la frode fiscale nasce e si concretizza nel momento in cui è firmata la dichiarazione mendace, mentre nessuno degli atti preparatori può, in nessun caso, essere utilizzato per dimostrarla e indicarne il colpevole. Tale, del resto, è chi firma il falso, ovvero nessuno degli imputati allora condannati. Ma colpevole può anche essere chi induce l’amministratore di una società in errore, mediante l’inganno. Circostanza negata dalla sentenza d’appello, quindi, ove la si voglia contestare, sarebbe stato un motivo di annullamento (con rinvio), non di conferma. Colpevole può anche essere l’amministratore di fatto, ovvero la persona che non figura come amministratore, ma che ne esercita le funzioni. Nel qual caso, però, si deve dimostrarlo. Senza nulla di ciò non può esserci condanna, questo stabilisce la Cassazione, con «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza». Vengo all’ultimo aspetto, che a sua volta ha un peso dirompente. I contrasti di giurisprudenza esistono fin da quando esiste la giurisprudenza. Per quanto la Cassazione s’affanni a perseguire l’uniformità, agguantarla in modo assoluto è impossibile. Quindi, se due giudici emettono sentenze diverse non è una cosa poi così terribile. Peccato, però, che la Cassazione esiste proprio per correggere, non per produrre le difformità. E peccato che, in questo caso, non ci sono due giudici, ma uno solo. I due collegi, quello del 2013 e quello del 2014, si compongono complessivamente di dieci giudici, ma, come si vede dal frontespizio delle due sentenze, il «consigliere relatore» è uno solo. La stessa persona. Che ad agosto del 2013 scrive una cosa e a maggio del 2014 la demolisce. Anche in modo sprezzante, e ben più a lungo e dettagliatamente di quanto qui riportato. Nessuno pensi di cavarsela supponendo uno sdoppiamento della personalità. Meno ancora in un cambio di opinione, perché ha messo nero su bianco che l’orientamento era univoco sia prima che dopo. In quelle parole, dure e inequivocabili, io leggo il dolore. Un cultore del diritto cui si è storto fra le mani. E siccome la legge impedisce a un giudice di manifestare e rendere noto il proprio dissenso (in altri sistemi di diritto si verbalizza il diverso parere e, anzi, lo si utilizza pubblicamente per aiutare l’interpretazione della sentenza), quello ha preso la forma di una sentenza successiva. Tutto questo dice una cosa terribile: s’è scassata la Cassazione. La prova ce l’avete sotto gli occhi, contenuta nelle due sentenze. Questo è il punto che considero più rilevante e, ovviamente, di valore generale. Ma so benissimo che tutti guarderanno al nome del condannato, sicché aggiungo un dettaglio, che le tifoserie interpreteranno da par loro, mentre a me preme perché conferma quanto appena, tristemente, constatato: quel condannato, quando ancora era imputato, sarebbe dovuto finire davanti alla terza sezione, perché così stabilisce la Costituzione, affermando che il giudice non lo sceglie nessuno, ma è precostituito per legge, invece finì davanti alla sezione feriale. Perché accadde? Allora si disse, e ovunque si scrisse, perché i reati contestati sarebbero andati in prescrizione di lì a qualche settimana. In questi casi, giustamente, non si lascia che le ferie dei giudici mandino al macero le sentenze. Ma l’autorità giudiziaria di Milano, dove si era svolto il processo e dove risiedeva la procura che aveva sostenuto l’accusa, aveva inviato un fax con il quale dimostrava che la prescrizione, correttamente conteggiata, non era così imminente. Le tifoserie pro Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci il complotto. Le tifoserie anti Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci la delegittimazione di giudici e sentenza. Lasciatemi accudire l’orrore silente, per una giustizia che si fatica a considerare tale.

I giudici Esposito e Berlusconi: il figlio gli chiedeva favori, il padre lo condannava, scrive  "Articolo 3". Si torna a parlare degli anomali rapporti tra i giudici Esposito, padre e figlio, e l'ex premier Silvio Berlusconi. Il motivo è chiaro: nell'agosto del 2013, il collegio della Corte di Cassazione, presieduta da Antonio Esposito, aveva confermato la condanna di 4 anni per evasione fiscale nei confronti di Berlusconi, nell'ambito del processo Mediaset. Nello stesso periodo, però, il figlio di Antonio, Ferdinando Esposito, giudice a Brescia, aveva avuto rapporti con l'ex premier. E non solo: ci sarebbero state anche delle visite, ad Arcore, e regali. Il rapporto "sconveniente" è emerso nell'ambito di un altro processo, che con quello Mediaset non c'entra niente: Ferdinando Esposito è indagato per “tentata induzione indebita” e “tentata estorsione”. Secondo gli inquirenti, avrebbe fatto pressioni indebite per spingere un avvocato, oggi suo accusatore, a subentrare nell'affitto da 32mila euro annui della casa in cui il pm abitava. L'accusatore di Esposito, nel raccontare il tutto, aveva anche rivelato appunto i rapporti con Berlusconi. E il giudice, da parte sua, li ha confermati: ha rivelato di aver conosciuto l'ex premier attraverso la parlamentare di Forza Italia Michela Brambilla e, tra il 2009 e il 2013, vi furono anche delle visite ad Arcore che, secondo il pm, riguardavano una sua «possibile entrata in politica», cosa che poi non è avvenuta. "Io mai e poi mai nella maniera più assoluta ho trattato questioni che avessero a che fare con i processi Ruby e Mediaset”, ha precisato, pur confessando di aver anche ricevuto dei regali da Berlusconi: «Soltanto regalie d’uso che è solito dare a tutti quando si presentano lì», ossia cravatte.

Con questo sistema si mettono in carcere gli innocenti.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: "Per l'Europa è tortura anche il carcere duro. I forcaioli che dicono?". Se fosse introdotto il reato di tortura allora dovremmo abrogare anche il 41 bis, il cosiddetto carcere duro: come la mettiamo? Il paradosso è decisamente sfuggito all’ampio fronte che ieri ha plaudito alla decisione della Corte Europea di condannare l’Italia per il reato appunto di tortura, che da noi non esiste: ed è interessante che trattasi dello stesso fronte che considera il 41 bis come un moloch sacro e intoccabile, anzi, vorrebbe estenderne l’applicazione. Tocca citare il solito Fatto Quotidiano (che ieri ha ufficialmente scoperto la Corte Europea per i diritti umani) ma anche il Corriere della Sera e nondimeno ampi settori del Pd, tutta gente che invoca una legge che sembra eternamente pronta, sempre in dirittura d’arrivo: ma di cui, di fatto, si parla e basta dal 1984, anno in cui l’Italia firmò la convenzione Onu contro la tortura. La condanna del 2008 - E quel che non si ricorda - dicevamo - è che la stessa Corte Europea ha condannato lo Stato italiano per il regime del 41 bis: il 16 gennaio 2008 fu deliberato che quel regime violava due articoli della Convenzione, al punto che l’avvocato del ricorrente dichiarò che «il 41 bis è una Guantanamo italiana». Ma non c’è solo la Corte Europea. Più di un giudice statunitense, negli anni passati, condannò il carcere duro all’italiana come un regime di detenzione al quale la giustizia americana non voleva prestare il fianco. Uno dei casi più noti risale all’11 settembre 2007, quando un magistrato di Los Angeles negò l’estradizione in Italia del narcotrafficante Rosario Gambino - che aveva già scontato 22 anni - perché a suo dire il 41 bis aveva caratteristiche «che costituiscono una forma di tortura» e violavano la convenzione delle Nazioni Unite in materia: le stesse motivazioni della Corte Europea. Ma le fonti sono anche altre: basta rileggere i rilievi del Dipartimento di Stato americano sul rispetto dei diritti umani nel nostro Paese, quelli di Amnesty International, così pure i rapporti degli ispettori europei che visitarono il nostro sistema penitenziario: nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (C.P.T.) disse che il 41 bis italiano era risultato il più duro tra tutti quelli esaminati dagli ispettori: la delegazione parlò di trattamenti inumani e degradanti che potevano tradursi in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili. Ultime ma non ultime, ci sono le denunce solitarie e puntuali di Amnesty Italia e di Nessuno tocchi Caino. Risale a meno di due settimane fa, poi, la denuncia del senatore Giuseppe De Cristofaro di Sinistra Ecologia e Libertà: «Se la ratio del 41 bis resta quella di costringere al pentimento, allora è una tortura». Celebrazioni selettive - Insomma: questa celebrazione selettiva delle sentenze della Corte Europea - soprattutto da parte del fronte forcaiolo - può diventare imbarazzante, perché è la stessa Corte che ci ha condannato non solo per il 41 bis (tortura anche quella) ma anche per  durata eccessiva dei procedimenti e per il sovraffollamento carcerario. Da non confondere con la Corte di giustizia europea, quella che nel novembre 2011 ha detto che dovevamo aggiornare la norma sulla responsabilità civile dei giudici. Morale: è un attimo santificare le cortei e trovarle, subito dopo, tremendamente impiccione.

Quante vittime della giustizia condannate a perdere la testa. Dal dirigente convinto che Borrelli fosse un clone al «vendicatore» che suonava «Bella ciao» Stritolati da attese infinite e sentenze inaccettabili, molti crollano. E diventano casi clinici. Ci sono quelli che sparano. Quelli che si mettono a suonare la fisarmonica sotto il tribunale. E poi c'è l'infinito numero di quelli che si consumano nel chiuso delle loro case e delle loro teste, e dissolvono anni e patrimoni in carte bollate e fotocopie, sempre più voluminose e sempre meno comprensibili. Non sono matti. Ma sono tutti, in diverso modo e misura, vittime della psicosi da giustizia. Una malattia reale e inguaribile, che chiunque frequenti i tribunali conosce bene. E talmente pervasiva da far ritenere quasi consolatorio che i casi come quelli Claudio Giardiello, cui il senso di persecuzione ha armato la calibro 9 e la voglia di sangue, siano così pochi. É una psicosi che non ha nulla a che vedere con la delegittimazione della magistratura berlusconiana o renziana; ma che nemmeno è figlia di particolari brutalità di questo o quel magistrato. Se si vanno ad analizzare una per una le cento storie di cittadini che hanno perso il senno inseguendo il mito di una giustizia giusta, l'impressione che se ne cava è che a stritolarli non sia stata l'effettiva iniquità del loro caso, ma la potenza distruttiva del sistema giudiziario in quanto tale. La macchina del processo parte, viaggia coi suoi ritmi imperscrutabili, trita. Non solo quando si occupa di delitti o di anni di galera, ma anche - e anzi più spesso - quando piccoli, quasi futili diritti (l'avanzamento di carriera; il prato usurpato; eccetera) veri o immaginari che siano non trovano soddisfazione. Davanti alla sentenza contraria c'è chi si rassegna. E c'è chi si avvita in un mondo tutto suo, dove giudici, avvocati, testimoni contrari finiscono per impersonare gli attori di un unico gigantesco complotto ai loro danni. Nel palazzo di giustizia di Milano, quello che l'altro ieri Giardiello ha trasformato in mattatoio, la galleria di queste vittime dell'illusione di giustizia è lunga: e potrebbe apparire persino pittoresca se dietro ognuno di questi casi non si celassero tragedie profonde. Ai tempi di Mani Pulite, un dirigente di banca urlava la sua rabbia nei corridoi della Procura, sostenendo che il Borrelli che vi si aggirava fosse in realtà un sosia del vero procuratore, finito agli arresti per le sue malefatte. A portare il dirigente sull'abisso era stata una causa contro la sua banca, in cui si era visto dare torto; aveva denunciato i giudici ad altri giudici, e questi ad altri ancora. Uno dei vice di Borrelli aveva un suo stalker personale, un maestro di musica che accusava la cantante Mietta di avergli rubato una canzone: tra magistrato e visionario si stabilì una sorta di simbiosi, al punto che quando il primo cambiò procura se lo portò appresso. Un medico accusato e poi prosciolto dall'accusa di avere ucciso in collega si è aggirato a lungo, tuonando o ragionando a seconda dell'umore, nei corridoi del tribunale. Oggi a incarnare queste tristezze è un ingegnere di profonda cultura, che nella sua rabbia sommerge l'intera magistratura di insulti irriferibili, e si vendica suonando Bella Ciao sotto le finestre del palazzo di giustizia, fin quando a ondate successive di Tso - trattamenti sanitari obbligatori, il destino di tanti di questi sventurati - lo spediscono a venire sedato in un reparto ospedaliero. Questi sono i casi estremi. Ma il punto di non ritorno lo superano in tanti. Certo, la lentezza estenuante della giustizia italiana ha il suo peso, nel logorare l'equilibrio, nell'ingigantire la portata dei torti subiti e dei diritti negati; a spezzare l'equilibrio della gente però è soprattutto la distanza siderale tra il proprio carico emotivo e la freddezza della giustizia: che ha nei suoi simboli a volte la spada, a volte la bilancia, ma mai il cuore. Nell'autunno scorso, quando il Giornale aprì la sua casella di mail alle storie di malagiustizia, insieme a tante vicenda gravi e oggettivamente scandalose, fu impressionante il numero di racconti dove era difficile districarsi tra paranoia, delirio di persecuzione, battaglie contro i mulini a vento. Forse affidare nell'immaginario collettivo una visione salvifica della Giustizia con la «G» maiuscola ha incrementato il numero di queste catastrofiche disillusioni. Ma le psicosi da diritto negato sono sempre esistite, e probabilmente esisteranno per sempre.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi. Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

A conferma di ciò mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano  i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali  con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis  ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova  per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati  della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

I magistrati sanno solo dire: “Lei non sa chi sono io?”

Giudice insulta il vigile che lo multa e finisce sotto processo al Csm. Ad aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Pier Franco Bruno una sanzione disciplinare, scrive Fulvio Fiano su "Il Corriere della Sera”. «Ma tu sai chi sono io? Non mi riconosci o fingi di non riconoscermi? ». « Dispiacente, io in servizio non riconosco nessuno.... ». Non è il dialogo tra il sindaco Vittorio De Sica e il vigile Alberto Sordi, ma molto vi somiglia. Il più classico dei «Lei non sa chi sono io» l’ha pronunciato stavolta un giudice «infastidito» dall’insolenza di un pizzardone che pretendeva di multarlo. La sua reazione per l’auto sanzionata in divieto di sosta in pieno centro a Roma diventa ora materia per il Csm. «Io sono un magistrato della Corte costituzionale, la multa me la deve togliere e basta», avrebbe sostenuto in un rigurgito di «lesa maestà» il giudice del tribunale di sorveglianza Pier Franco Bruno di fronte al vigile e al suo blocchetto delle contravvenzioni. La lite è raccontata nell’atto di incolpazione redatto dalla procura generale della Cassazione. E quando il semplice titolo di magistrato non è bastato ad ammorbidire l’agente della municipale, il giudice sarebbe andato oltre, minacciandolo: «sappia che tutto questo avrà un seguito». Il 17 aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Bruno una sanzione disciplinare. Il magistrato si sarebbe spinto sino a offendere «l’onore e il decoro» del suo interlocutore. E lo avrebbe fatto sostenendo che l’80% delle violenze e degli oltraggi che ricevono i vigili sono provocati dai loro atteggiamenti. Insomma, una sceneggiata. Tra la divertita curiosità dei passanti e il «disagio e sconcerto» degli altri vigili accorsi. Per le sue escandescenze il giudice è finito anche sotto processo a Perugia,dove però il gip ha archiviato.

Intanto c'è chi marcisce in galera...

“Io, uomo ombra, crepo in carcere”. Su “Il Garantista”, la lettera inviata da Carmelo Musumeci, detenuto nel carcere di Padova e condannato all’ergastolo. "Caro Il Garantista, ho saputo che da qualche giorno sei in edicola e siccome sono davvero pochissimi i quotidiani disposti a darci voce, voglio subito chiedervi luce e spazio per gli uomini ombra, come chiamo io noi condannati alla “pena di morte viva”, l’ergastolo senza benefici penitenziari, vale a dire con un reale fine pena mai. Sono Carmelo Musumeci, attualmente detenuto nel carcere di Padova, condannato, in Italia – patria del diritto romano e di Cesare Beccaria – alla pena di morte viva: così viene chiamata tra di noi quella condanna che non ti dà nessuna possibilità, un giorno, di uscire. Ebbene è una vera condanna a morte, presa a gocce un po’ tutti i giorni e tutte le notti. Sul muro della mia cella ho scritto: “Io non sono né morto né vivo, sono solo un’ombra”. Da tanti anni combatto contro l’ergastolo. In particolare combatto l’ergastolo ostativo, perché, allo stato attuale delle leggi, molti di noi ergastolani usciranno solo cadaveri dal carcere. Ma se la nostra Costituzione dice che “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” (articolo 27) ai “buoni” che stanno fuori dal muro di cinta io continuo a chiedere che senso abbia rieducare qualcuno per portarlo rieducato alla tomba. L’ergastolo ostativo è una pena disumana. Ho una compagna che mi aspetta da 23 anni, ho 2 figli e 2 nipotini e so che la mia famiglia avrà di me soltanto il mio cadavere. Combattere contro la pena dell’ergastolo è un po’ come fare una partita a scacchi con la morte: non puoi vincere. Però io non posso nemmeno perdere, perché ho qualcuno che mi vuole bene e che mi aspetta, senza rassegnarsi. Anche tanti dei miei compagni non vogliono capire e molti di loro hanno scoperto che non usciranno mai solo dopo decenni di carcere. La legge dice che o collabori, cioè mandi in cella qualcun altro al posto tuo, o rimani dentro. Ma chi non se la sente di mettere in pericolo la vita dei propri cari, che dopo tanti anni ancora pagano per colpe che non sono loro? Per essere mogli, figli, nipoti di ergastolani? E chi vuol pagare la propria colpa senza farla pagare ad altri? A tanti che mi dicono: “non è possibile che una persona che viene condannata sia colpevole per sempre”, io rispondo che siamo in Italia, non negli Stati Uniti o in altri paesi che, bene o male, non sono così crudeli: ti mettono a morte e basta. Qui vogliono ammazzarti un po’ alla volta, lentamente tutti i giorni, con la scusa di rieducarti, appunto, per l’aldilà. Quando scrivo di queste cose c’è sempre chi mi ricorda di parlare anche delle vittime. Lo faccio molto volentieri, perché ciò che mi fa star male più di tutto è che la mia sofferenza, e soprattutto quella della mia famiglia, non è di consolazione a nessuno, perché il mio reato è per una guerra tra bande, non ci sono “vittime innocenti”. In realtà era così: io ammazzavo te o tu ammazzavi me. E questo vale per quasi tutti i condannati per reati associativi, cioè appunto quelli ostativi ai benefici penitenziari. Quello che mi fa più rabbia della mia sofferenza, e di quella della mia famiglia, è che non serve a nessuno. Se facesse bene a qualcuno, la accetterei, invece vedo che non ha alcuna utilità. Io sono entrato in carcere con la quinta elementare, poi ho preso la licenza media, mi sono diplomato, mi sono laureato in giurisprudenza e adesso mi sono iscritto alla facoltà di filosofia di Padova. Ma faccio tutto questo esclusivamente per passare il tempo, perché la società non mi darà mai la possibilità di rimediare al male che ho fatto facendo del bene. Eppure ci sarebbero tanti modi di scontare la pena Per esempio, preferirei spazzare le strade di qualche città, o fare volontariato in un Pronto Soccorso, perché credo che la pena si sconti quando esci dal carcere. Non chiuso in una cella senza far nulla. Io e altri 1.500 ergastolani dovremmo morire qui dentro per placare la sete di giustizia di una società che in realtà vuole vendetta? A chi giova tutto questo?

“Tor Scemenza”, il titolo dell’editoriale di Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano, lasciava sperare in una riflessione misurata sulla follia che si esprime quando il disagio diventa esasperazione e l’impellenza di bisogni mai soddisfatti rende l’altro estraneo e carnefice, reo dell’incessante lottare in difesa degli stessi bisogni, della stessa mesta umanità, scrive Maria Brucale su "Il Garantista". «Chi ha la pancia vuota è molto più giustizialista di chi l’ha piena», dice Travaglio – «e guardandosi intorno in cerca dei colpevoli, li individua negli ultimi arrivati, sentendosi sempre penultimo di qualcun altro». Sana considerazione, saggia. Questo è il germe delle esplosioni di rabbia di Tor Sapienza. Non un odio autentico, radicato nel razionale, nella lucida opposizione a un male riconoscibile, nella individuazione consapevole di un colpevole. È l’identificazione del sé e la contrapposizione con l’altro, diverso dal sé, la depauperazione dei diritti dell’estraneo appannaggio dei propri. È la polverosa cantilena del: «vengono a mangiare il nostro pane»; la squallida, grigia scena dei capponi manzoniani, legati insieme per le zampe e diretti allo stesso patibolo ma capaci solo di beccarsi l’un l’altro e di ferirsi mentre la stessa disgrazia li accomuna. Questo è il germe anche – ha ragione Travaglio – del giustizialismo. Non dell’amore per la giustizia, non dell’aspirazione alla legalità! Del giustizialismo. Il giustizialismo è un fenomeno malato. Un’esasperazione, anch’esso: la ricerca di un colpevole, uno, ad ogni costo; la possibilità di puntare il dito contro un male, la distruzione del quale offra l’illusione che una soluzione c’è. Ma l’individuazione del male è figlia adottiva della stessa tara: l’irrazionalità della pancia vuota. Quando le pance sono vuote è a loro che si deve parlare, le menti sono sopite, stanche, distanti. Gli istinti dominano, impellenti, rabbiosi e chiedono una gogna alla quale scagliare i propri sassi. E a loro parla Travaglio e offre pronto ristoro. Il nirvana è lo stesso di sempre, cerbero, il tintinnar di manette, pianto e stridore di denti. Purificazione. Il disagio sociale ha un volto: approda alla Camera la legge «salva ladri», così la definisce. Una legge che tende a moderare l’abuso della carcerazione preventiva e che, in sé, è mera espressione di principi costituzionali dal valore assoluto seppur trascurati al punto da costringere il legislatore ordinario a una specificazione ed a un chiarimento. Una legge della quale non ci sarebbe bisogno, in realtà, ove di quei principi fondamentali venisse fatta corretta e coerente applicazione. La misura cautelare in carcere è, infatti, nel nostro ordinamento estrema ratio, quando ogni altra misura risulti inadeguata a rispondere alle esigenze cautelari, nell’ottica della prevenzione del crimine e della sicurezza. Per dirlo con le parole di Papa Francesco: la carcerazione preventiva, «quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto», costituisce «un’altra forma di pena illecita e occulta, al di là di ogni patina di legalità». E ancora: «Il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuta verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte». Ed è solo una patina di legalità che sorregge la custodia in carcere quando al giudice che dovrebbe applicarla appare chiaro che la pena eventualmente irrogata in caso di condanna dovrà essere sospesa (una delle ovvietà introdotte dalla “salva ladri”). Che senso avrebbe mettere in carcere chi ancora deve essere giudicato se una volta dichiarato colpevole con sentenza deve essere scarcerato? La legge specifica il principio di residualità secondo cui la custodia cautelare in carcere può essere irrogata quando altre misure coercitive o interdittive risultino inadeguate. Per i reati più gravi le soglie di accertamento delle esigenze cautelari rimangono immutate mentre, per tutti gli altri reati, si prevede che, nel disporre la custodia cautelare in carcere, il giudice debba indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari. Qualora i vincoli imposti a chi è ristretto agli arresti domiciliari vengano violati, viene disposta la custodia in carcere. Una legge, dunque, quella che approda alla Camera che, assai lontana dal fare rivoluzioni normative, offre delle linee guida di adattamento a parametri costituzionali preesistenti e forse mai adeguatamente osservati. Una legge, pertanto, necessaria a fronte di due dati: la drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri tutt’altro che risolta dalle normative di urgenza, blanda e inefficace risposta alla sentenza Torreggiani e alle sonore bacchettate inferte e promesse dall’Unione Europea; l’esistenza di un dato statistico circa la tendenza inversamente proporzionale tra ammissione a misure alternative al carcere e tasso di recidiva. In parole povere, spazio all’ovvio: se il carcere si prospetta come reinserimento e rieducazione, si riduce il rinnovato ricorso al crimine. Afferma, ancora, Travaglio che a un cittadino che veda qualcuno commettere un reato è difficile spiegare che «bisogna lasciarlo libero (magari a casa sua, senza controlli) per una decina d’anni, in attesa della fine delle indagini, dell’udienza preliminare, del processo in tribunale, in appello e in cassazione». E, allora, caro Travaglio, a chi venga colto in flagranza di reato, ricorrendone i presupposti di legge, potrà essere applicata anche una misura diversa dalla custodia in carcere, quale quella degli arresti domiciliari, non senza controlli ma con i consueti, rigorosi controlli che a tale misura sono correlati. E magari si eviterà l’atroce abuso del tenere in carcere per anni, in attesa delle esasperanti lentezze giudiziarie, chi non avrebbe mai dovuto entrarci; si alleggerirà la decomposizione delle patrie galere, la brutalizzazione di uomini, l’incancrenirsi della società.

Accendi la televisione, ti dicono che il sistema carcerario italiano costa circa 2.8 miliardi di euro ogni anno, e che quindi ogni detenuto pesa sulle nostre tasche per circa 4.000 euro al mese, scrive Mario Di Vito, Giornalista e conduttore del programma “Al di sopra di ogni sospetto” di Radio Città Aperta, su "Il Garantista". Questo il passaggio che più ha fatto scalpore della puntata di Report andata in onda domenica scorsa su Raitre, in prima serata. Messa giù così, i risultati possono essere solo due, e molto simili tra loro: da una parte si pensa che, come al solito, lo Stato va sperperando cifre inverosimili invece di stringere la cinghia come stanno facendo un po’ tutti, dall’altra parte si è portati a pensare che ancora lo Stato dia ricche prebende a ladri-stupratori- assassini-e-mafiosi. In fondo, comunque, tutto questo rientra nell’assurda normalità di questi ultimi tempi: il tono dell’italiano medio quando si parla di carcere e giustizia è sempre apocalittico, e la linea di pensiero (ahinoi, molto in voga pure a sinistra) è che, in Italia, ci sono troppo pochi arresti e siamo immersi in un regime d’impunità permanente nel nome del latrocinio e del buonismo generalizzato. Nell’immaginario comune, il carcerato è colui che vive senza fare niente nella stanza di un hotel a cinque stelle, con tre pasti al giorno, la televisione e il parquet lucido per terra. A questo punto, in epoca di populismo esasperato e demagogia a buonissimo mercato, arriva Report e rilancia: lavoro obbligatorio per i detenuti. Spunta pure il supermagistrato Nicola Gratteri a pontificare che «i carcerati che rifiutano il lavoro, rifiutano lo Stato ». Questo però vuol dire, allo stesso tempo, dare un’informazione sbagliata e un punto di vista disonesto sulla reale situazione delle patrie galere. L’informazione sbagliata riguarda il costo di ogni detenuto: nei 4.000 euro calcolati dalla trasmissione di Raitre vanno considerate anche le spese per il personale, la manutenzione, le uscite fisse. Nessuno ha mai fatto un discorso del genere sulle scuole o sugli ospedali: provate a fare il calcolo di quanto costano i malati di cancro, metteteci dentro il prezzo delle medicine che passa la mutua, gli interventi, gli stipendi dei chirurghi e dei primari. Seguendo questa linea di pensiero si può arrivare a sostenere che i malati di cancro siano una spesa sociale elevatissima e che quindi andrebbero eliminati. Spostate il modello di cui sopra sui carcerati e giungete alla conclusione: ammazzarli non si può – farebbe troppo «soluzione finale» – ma si possono sempre tirare fuori i cari vecchi lavori forzati come viatico per mettere a posto gli asfalti dis-sestati delle nostre città, abbattendo le spese della manodopera. L’inviata di Report è pure andata a sentire qualche funzionario pubblico, mettendolo alle strette perché non conosce la legge italiana sul lavoro volontario dei detenuti per le opere di pubblica utilità. La verità però è che questa possibilità negata non va imputata agli enti pubblici, ma alla magistratura di sorveglianza che, dati alla mano, di permessi lavorativi ai detenuti ne concede con il contagocce. Fin qui le notizie sbagliate. Il punto di vista disonesto, invece, è nel ricatto morale alla base di tutto il discorso: se voi foste un imprenditore in crisi di liquidità o un comune strozzato dal Patto di stabilità, per fare un lavoro chi scegliereste, un lavoratore che poi va pagato o un carcerato che fa tutto gratis? La domanda, va da sé, è da respingere come ennesimo tentativo di mettere gli ultimi contro i penultimi, sport parecchio in voga negli ultimi anni. Asso nella manica fondamentale per evitare i temi davvero importanti e focalizzare l’attenzione su particolari di sicuro effetto emotivo, ma, a conti fatti, irrilevanti. Se provi a spiegare che le carceri italiane versano in condizioni «disumane e degradanti» ti rispondono che, con la crisi economica, anche chi sta fuori dalle sbarre non se la passa bene e l’argomento ha scarsa presa su un’opinione pubblica sempre più cinica e individualista.  Vuoi mettere se insinui il dubbio che i carcerati sono dei nullafacenti che costano 4.000 euro la mese? Lo share è assicurato. Infine c’è un piano teorico: dall’Illuminismo in poi è prevalsa la tesi che la pena dovrebbe servire a riabilitare il reo; dovrebbe provare ad avere un senso cioè e non essere soltanto un modo facile per separare i buoni dai cattivi. Il lavoro gratuito, che a questo punto non sarebbe volontario ma obbligatorio, diventa così una grave violazione dei diritti, oltre che una pesante dose di concorrenza sleale nel mondo del lavoro. Senza considerare che – pochi e mal sovvenzionati, ma non è colpa dei detenuti – dei percorsi di reinserimento professionale per i detenuti già esistono in diversi istituti italiani. Report però ha parlato. E gli italiani, soprattutto quelli di sinistra, hanno ascoltato: basta farsi un giro veloce su Facebook o su Twitter per comprendere in che misura l’idea dei lavori forzati sia tornata di moda. In maniera soft, però, che in qualche modoci si dovrà pur distinguere dalla destra.

L'autrice storica di Report ormai è avviata sulla strada che conduce alla beatificazione in vita, scrive Vittorio Feltri su "Il Giornale". Milena Jole Gabanelli, autrice storica di Report, programma più duro e duraturo del carbonio, in onda su Rai 3, ormai è avviata sulla strada che conduce alla beatificazione in vita. La sua fama di indefessa fustigatrice di malcostumi è consolidata e nessuno osa scalfirla. È passata l'idea che la gentildonna sia la più brava organizzatrice di inchieste al vetriolo e ciò che ella afferma è considerato verbo televisivo, un esempio di libero giornalismo da prendersi quale pietra miliare. Ha vinto più premi lei con la telecamera che non Valentino Rossi con la motocicletta. Tutti meritati, per carità. La signora infatti è molto dotata, coraggiosa e astuta al punto da prendere un briciolo di verità e di saperlo tramutare in una montagna. Pertanto si deve riconoscere che la verità c'è, ma la montagna è di cartapesta. C'è chi monta la panna e chi, come la suddetta, si specializza nell'arte inimitabile di ingigantire i nani. Utilizzando potentissime lenti di ingrandimento, è riuscita perfino nell'ardua impresa di far apparire Renato Brunetta, capogruppo dei deputati di Forza Italia, un colosso (immobiliare, s'intende) attribuendogli un patrimonio in mattoni immenso, degno di essere filmato e proposto al pubblico allo scopo - colto in pieno - di suscitarne l'invidia. La tecnica della giornalista è raffinata ed efficace: consiste in pratica nell'abilità, fra l'altro, di definire tre monolocali «una serie di appartamenti». Dal punto di vista lessicale, nulla da eccepire: tre stanze in effetti sono tre alloggi; da quello della sostanza, restano tre vani. La retorica scandalistica, se ben articolata, fa miracoli sensazionali, come commutare l'acqua in vino: che poi sempre di liquido si tratta. Non vorremmo diminuire la professionalità proverbiale della curatrice di Report; anzi, desideriamo dire che essa viene esaltata da una mirabile faccia di bronzo. Milena Jole ha diverse frecce al suo arco e non ne spreca una. Oltre a essere capace di spacciare pagliuzze per travi, è in grado di demolire in dieci minuti reputazioni monumentali. Quella di Antonio Di Pietro, che aveva resistito ad attacchi violenti da ogni parte sferrati, è stata sbriciolata in mezza puntata. Intervistato con consumata malizia nel corso della rinomata trasmissione, l'ex magistrato fu steso, prima stordito con problematiche catastali e costretto a balbettare per spiegare questioni burocratiche, quindi colpito da un pugno micidiale. Fine di una carriera tra Palazzo di Giustizia e Palazzo Montecitorio. Tonino oggi arranca nelle retrovie dispersive della politica minore. La collega di Rai 3, oltre a un medagliere di riguardo, sfoggia una collezione di vittime illustri. Esibendo un servizio sulle oche spiumate, che ha inorridito anche animalisti tiepidi, ha contestualmente spennato Moncler, azienda leader in Italia e altrove nella confezione di piumini, provocando un disastro economico che neppure Maurizio Landini sarebbe stato all'altezza di eguagliare. Giustamente, la Gabanelli se ne vanta. Grazie a lei la lotta al capitalismo si è giovata di un contributo importante. In ordine di tempo, l'ultimo trofeo esposto nella bacheca della giornalista dall'infallibile mira è stato Pietro Ciucci, da dieci anni presidente dell'Anas. È bastato un raglio di Report per costringere costui a dimettersi.

La realtà, però, è un'altra cosa...

Valium, antipsicotici, antidepressivi, benzodiazepine, ipnotici e oppiacei, questi sono gli psicofarmaci somministrati ai detenuti per contenerli e sedarli, scrive Damiano Aliprandi su "Il Garantista". L’istituzione carceraria si serve così della psichiatria per stemperare il conflitto, e garantirsi una maggiore sopportazione, da parte dei detenuti, delle situazioni di degrado e sovraffollamento che sono costretti a subire. Inoltre c’è il sospetto che dietro alcuni suicidi che avvengono al carcere ci sia l’ombra dell’abuso degli psicofarmaci. C’è il caso di Alessandro Simone, il 28enne bitontino che si è tolto la vita il 28 maggio di quest’anno nel carcere di Bari, è che l’autopsia ha negato la presenza di lesioni e violenze esterne. Il calvario di Alessandro comincia il 13 marzo, quando è associato al carcere del capoluogo pugliese con le accuse di detenzione d’arma (non trovatagli addosso, ma in campagna e ricondotta a lui) e di maltrattamenti familiari (avrebbe picchiato la sua compagna, più grande di lui, che poi ha esporto denuncia). Una volta in carcere, il giovane bitontino viene posto nella sezione dei cosiddetti “sex offender”, cioè il reparto degli stupratori e di chi ha commesso violenze sessuali, ed è sottoposto a regime di sorveglianza h24, perché tenta due volte il suicidio (impiccagione e taglio delle vene) ed è considerato un “soggetto problematico”. Nonostante la sorveglianza, il ragazzo si sarebbe impiccato nel bagno.  Si sono aperte ben due inchieste per far luce su alcune zone ombra, soprattutto sulla sorveglianza che non c’è stata. La famiglia del giovane bitontino, però, vuole andare oltre e capire, per esempio, che ruolo abbiano avuto gli psicofarmaci che Alessandro assumeva in carcere, proprio perché “soggetto problematico”. Secondo la famiglia queste forti assunzioni di psicofarmaci, forse non bene coordinati tra loro, piuttosto che aiutarlo lo hanno indebolito e portato ad atti autolesionistici. Recente è anche la denuncia di Rita Bernardini, segreteria di radicali italiani, nel corso della scorsa audizione nella commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi, ove ha dichiarato che «nelle carceri si risparmia su tutto, anche nel materiale di pulizia della cella, tranne che sugli psicofarmaci, che consentono a persone provate dalla detenzione di poter superare questo stato. È molto alta infatti, intorno al 25% la percentuale di persone detenute che hanno precedenti di tossicodipendenza ». Molte richieste di psicofarmaci, infatti, sono fatte soprattutto dai detenuti tossicodipendenti che cercano di sostituire con essi la sostanza stupefacente.  Le maggiori richieste sono rivolte alle benzodiazepine, i tranquillanti che riuscivano a trovare e che usavano anche prima della carcerazione nei periodi di astinenza. I tossicodipendenti cercano di procurarsene dosi molto elevate. Fingendo di ingoiare la compressa per poi sputarla non appena l’infermiere o l’agente se ne va, riescono ad accumulare più dosi per ottenerne una consistente e quindi più forte, quasi quanto una vera dose di droga. Tutto ciò ha costretto il corpo dei medici penitenziari alla prescrizione di formulazioni farmaceutiche in gocce che, a differenza delle compresse, se assunte davanti all’infermiere, difficilmente possono essere nascoste sotto la lingua. Per l’esperienza accumulata all’esterno, i tossicodipendenti conoscono i farmaci molto bene. Scrive lo studioso del settore Daniel Gonin: «Il Transene 5 o 10 per esempio gli sembra ridicolo; per loro una vera prescrizione non ha senso che a partire da una compressa di 50 mg”; e frasi come ”La compressa rosa dottore, quella rosa e non la capsula rosa e bianca o tutta bianca” sono assai frequenti». Continua Gonin: «È con i drogati che ho imparato a conoscere i diversi colori delle medicine alle quali prima non sapevo che dare un nome, o attribuire una formula molecolare difficile da ricordare. Ma il valium bianco, giallo o blu, o meglio ancora il Xanax color pesca, li avevo ignorati!». È chiaro quindi che il problema della richiesta di psicofarmaci da parte dei tossicodipendenti è particolarmente difficile: da una parte l’inevitabile sofferenza del detenuto e dall’altra la necessità di tutelare la sua salute e di intraprendere la strada della disintossicazione. Il ”divezzamento” è fonte, secondo Gonin, di molteplici controversie. Egli si chiede se sia lecito fornire legalmente una droga illecita oppure somministrare una droga di sostituzione come il metadone, che crea minori rischi per la salute dei consumatori, permettendo loro al contempo, di ottenere un discreto inserimento sociale; o se sia più opportuno rimpiazzare la droga con dei medicinali dei quali si diminuirà progressivamente la dose per permettere una disintossicazione senza traumi: questo atteggiamento terapeutico ha il vantaggio di alleviare rapidamente l’astinenza e di procurarsi la riconoscenza del drogato, ma non è privo di effetti di natura tossicomanica. Inoltre risulta estremamente difficile ridurre le dosi dei medicinali prescritti, il che conferma chiaramente l’instaurazione di una nuova forma di tossicodipendenza nel soggetto. Infine l’autore si chiede se non sia più opportuno astenersi, rifiutando qualsiasi prescrizione di una molecola chimica e lasciare che il processo di disintossicazione segua il suo corso, onde evitare di cadere da una consumazione di sostanze tossiche in un’altra. In Toscana la terapia adottata in carcere per la disintossicazione è costituita dalla somministrazione del metadone cloridrato, uno sciroppo ad alta percentuale di zucchero contenente questa sostanza oppiacea (il metadone) che funziona da ”sostitutivo” coprendo le crisi di astinenza. Al primo ingresso in carcere la terapia viene iniziata con un dosaggio massimo di 30 cc di metadone per 2 o 3 giorni, dando modo all’organismo di assestarsi, per poi cominciare a scalare di 1 cc al giorno. Nel corso di 30 giorni lo scalaggio (il metandone) è più o meno finito. L’articolo 5 del decreto ministeriale (n. 445, 19 dicembre 1990) stabilisce che il trattamento della tossicodipendenza da oppioidi con farmaci sostitutivi è limitato ai soggetti con comprovata dipendenza fisica. I programmi con metadone sono riservati ai soggetti per i quali altri tipi di trattamento non abbiano determinato la cessazione di assunzione di eroina o di altri oppioidi.  Alla fine del trattamento con metadone, il detenuto tossicodipendente può chiedere la somministrazione del Naltrexone, farmaco chimico utilizzato come ”scudo” contro l’eroina. Devono trascorrere 7/8 giorni senza che il detenuto assuma nessuna sostanza, nemmeno il metadone, dopodiché viene somministrato il Naltrexone che impedisce all’eroina di produrre qualsiasi effetto. Tale farmaco deve essere assunto per un minimo di 6 mesi, tutti i giorni. Il consumo molto elevato di psicotropi in prigione è una caratteristica dell’incitamento alla tossicomania da medicinali (farmacodipendenza), tipica dell’ambiente carcerario. La prigione, che già di per sé causa numerosi disturbi postumi nel detenuto tornato alla vita libera, ”fabbrica” così dei tossicodipendenti da farmaci. Molti sono gli ex detenuti che non riescono più a vivere senza tranquillanti e sonniferi. Il timore di diventare vittime dell’assuefazione viene spesso sentito già durante il periodo della carcerazione; in questi casi è lo stesso detenuto a chiedere al medico che lo psicofarmaco prescritto sia leggero nell’effetto come nella dose e, il suo uso, limitato ad un particolare momento di crisi. Il consumo eccessivo di psicofarmaci all’interno della popolazione carceraria è un problema ancora non risolto, anche se c’è la volontà, rara, di sostituire i farmaci con la psicoterapia. Il ricorso ad essa però è ostacolato dall’organizzazione sanitaria carceraria che prevedendo un solo psichiatra a fronte di centinaia di detenuti, non permette una ”presa in carico” di tutti i pazienti che necessitano di cure psichiatriche. Ma resta il vero problema ancora non affrontato di petto: i tossicodipendenti in carcere non ci dovrebbero proprio stare.

Tagli al personale che incidono anche sulle morti in carcere, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Ogni anno oltre cento detenuti muoiono per ”cause naturali”. A volte la causa della morte è l’infarto, evento difficilmente prevedibile, ma altre volte sono le complicazioni di malanni trascurati o curati male e un lungo deperimento, dovuti a malattie croniche. L’articolo 1 del Decreto Legislativo 230/99, sul riordino della medicina penitenziaria stabilisce che: «I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali». Dall’entrata in vigore di questa legge sono trascorsi 14 anni, nel corso dei quali le competenze sull’assistenza sanitaria dei detenuti avrebbero dovuto gradualmente passare dal Ministero della Giustizia a quello della Sanità: invece, quello che si è sicuramente verificato è stato il taglio delle risorse economiche destinate alle cure mediche per i detenuti, mentre l’attribuzione delle pertinenze è tuttora argomento di discussione e di confusione. Nel frattempo i detenuti morti per problemi di salute sono aumentati d’anno in anno. Ma l’assistenza sanitaria in carcere è molto complicata anche perché a volte i detenuti ”usano” la propria salute per cercare di ottenere migliori condizioni di detenzione – una dieta speciale, una cella singola, l’autorizzazione a fare la doccia ogni giorno, farmaci con i quali ”sballarsi” – oppure la detenzione domiciliare o il rinvio della pena. I medici, a loro volta, tendono a considerare tutti i detenuti dei simulatori, a minimizzare di fronte ai sintomi di una malattia, a rassicurare il paziente – detenuto sul fatto che ”non è niente di grave”. Il comportamento di entrambe le parti impedisce l’instaurarsi di un rapporto di fiducia, che pure sarebbe necessario per l’effettività e l’efficacia delle cure. Così, quando un detenuto muore, una azione di ”depistaggio” viene spesso messa in campo per scaricare su altri la responsabilità dell’accaduto, sia all’interno del carcere – gli agenti non l’hanno sorvegliato, i medici non l’hanno curato, gli psicologi non l’hanno capito, i magistrati non l’hanno scarcerato -, sia all’esterno – non è morto in cella, ma durante la corsa verso l’ospedale, oppure subito dopo l’arrivo in ospedale -, il che vuol dire: «Noi non c’entriamo, il carcere non c’entra, da qui è uscito ancora vivo». Ed è vero che ci sono delle indagini, che un fascicolo viene aperto in Procura, però le notizie diffuse dai mezzi di  informazioni si basano quasi sempre sulle versioni ”addomesticate” che provengono dal carcere. Fanno  eccezione solo i casi nei quali i famigliari o gli avvocati del detenuto morto s’impegnano fortemente perché venga fatta chiarezza sulla fine del loro congiunto e, allora, si arriva anche all’accertamento delle responsabilità, a sentenze di condanna, a volte alla rimozione di direttori e dirigenti sanitari.

Giustizia: per l'Unione europea la presunzione d'innocenza è un diritto fondamentale, scrive Damiano Aliprandi su "Il Garantista" del 15 aprile 2015. Iniziato iter per la Direttiva. Il giustizialismo è diventato un problema europeo e la commissiono europarlamentare vuole correre ai ripari. "La presunzione d'innocenza è un diritto fondamentale e anzitutto un principio essenziale che intende garantire da abusi giudiziari e giudizi arbitrari nei procedimenti penali!", ha dichiarato la francese Nathalie Griesheck, relatore del provvedimento in Commissione Libertà civili che prevede una normativa in grado di dissuadere le autorità giudiziarie nazionali dal fare dichiarazioni sulla colpevolezza di un condannato prima del giudizio definitivo, o che violino i principi dell'onere della prova (che spetta alla pubblica accusa), quello di rimanere in silenzio durante gli interrogatori e quello di essere presenti fisicamente al proprio processo. Questa "proposta di direttiva nasce dal fatto che notiamo un'erosione del principio di presunzione di innocenza in diversi Paesi membri", ha aggiunto sempre la Griesheck, Il provvedimento della Commissione pone anche il problema dei mezzi di informazione molto spesso legati con le autorità giudiziarie che fanno da megafono. Infatti l'emendamento richiede ai Paesi membri di vietare alle autorità giudiziarie locali di dare informazioni - incluse interviste e comunicazioni in collaborazione con i media - che potrebbero creare pregiudizio o biasimo nei confronti di indagati o accusati prima della sentenza finale in tribunale. L'europarlamento in pratica chiede di promuovere un vero e proprio codice etico e di rispettarlo. Un altro aspetto dell'emendamento è quello di non far travisare - attraverso i mezzi di informazione - la legittima facoltà di non rispondere dell'imputato come "prova" di colpevolezza. "L'esercizio di questo diritto - spiega sempre la relatrice Nathalie Griesbeck - non deve mai essere considerato come una conferma dì una tesi sui fatti occorsi". Con l'approvazione della Commissione ora inizia il negoziato con il Consiglio Uè per poi arrivare alla formale proposta di direttiva. Sempre attraverso la suddetta Commissione, in questi giorni, ci si sta occupando della situazione carceraria e il commissario Nìls Muiznieks ha espresso gratitudine per i miglioramenti apportati per rimediare al nostro sovraffollamento penitenziario, ma ha precisato che ancora non abbiamo risolto definitivamente il problema. Nel corso di un'audizione della Commissione Libertà civili, è stato ascoltato il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri e consulente del Governo Renzi sui problemi della giustizia e la lotta alle mafie, ha dichiarato di non rallegrarsi per quello che è stato detto dal Consiglio d'Europa sullo svuotamento delle carceri in Italia. Ma sempre per Gratteri la soluzione è la costruzione di nuove carceri e non subire ciò che dice l'Europa. Gratteri, ricordiamo, solo per un soffio al momento della formazione del Governo Renzi non diventò ministro della Giustizia così come era stato annunciato.

Giustizia: mille carabinieri in piena notte circondarono il paese di Platì, scrive Ilario Ammendolia e pubblicato su Cronache del Garantista del 14 aprile 2015. Fu un’operazione di guerra, si inventarono anche una città sotterranea, ma era un errore di stampa. Mamme strappate ai bambini, un ragazzo handicappato trascinato via. Le sentenze di assoluzione pronunciate dalla Corte di appello di Reggio Calabria l’altro ieri fanno definitivamente scoppiare come una bolla di sapone la “brillante” operazione “Marine”. Una Caporetto per il pm Nicola Gratteri. Ricordiamo i fatti: era l’alba del 12 novembre del 2003, quando scatta l’operazione “Marine” dedicata ai morti di Nassirya. Le truppe si muovono circondando un piccolo paese della Calabria: Platì! Sono un vero esercito. Si parla di mille uomini che avanzano protetti dalle tenebre verso l’Aspromonte. All’alba, l’assalto. Abitazioni forzate, pianto di bimbi, urla di donne. Sembra un territorio controllato dall’Isis ma l’operazione si svolge in Calabria, nel cuore della notte. Quando il sole sorge, i notiziari nazionali riportano come prima notizia i risultati della operazione di polizia: circa 150 gli arrestati. Più di duecento le persone denunciate. Un numero enorme per un paese così piccolo. E come se a Roma, in una sola notte, ci fossero centomila arresti! Si sarebbe gridato al colpo di Stato, ma qui siamo in Calabria ed è tutta un’altra storia. Poi i cellulari carichi di prigionieri scendono verso valle e man mano che si allontanano da paese, il cuore della gente di Piatì diventa sempre più piccolo. Non possono far altro che suonare le campane e rifugiarsi in Chiesa. Si rivolgono alla Giustizia di Dio, avendo constatato la fallacia di quella umana. Quei corpi in catene rappresentano la mortificazione estrema della persona umana. Sono l’altra faccia dei morti ammazzati sulle nostre strade. Quanti sono gli innocenti? Secondo i giudici quasi tutti. Per giorni l’operazione Marine tiene le prime pagine dei giornali, perfino i titoli principali del NY Times e della Bbc. Nel frattempo l’operazione fornirà altri mattoni per costruire l’immagine della “Calabria criminale” su cui scrivere libri seriali, produrre fiction e film che rasentano il razzismo e la diffamazione sistematica verso i calabresi. Già nelle prime ore dell’operazione, l’opinione pubblica verrà messa a conoscenza della protervia dei pubblici amministratori di Platì, così spavaldi da realizzare una città sotterranea chiamandola “zona latitanti”. Una colossale e cinica bugia. Infatti, una correzione automatica del computer trasforma la parola “latistanti” (distanza da due lati) in latitanti. Però l’inesistente città sotterranea entra nella leggenda. Per anni all’opinione pubblica viene raccontata un’altra storia. Si continua a parlare di una “brillante operazione” e nessun rappresentante delle istituzioni, in questi lunghi anni, troverà il coraggio di dire che s’è scritta una pessima pagina di (ingiustizia sommaria che dissanguerà le casse dello Stato e rafforzerà enormemente la ndrangheta, saldando in un fronte unico ‘ndranghetisti e cittadini perbene. Si eviterà di dire che in quella operazione è stato arrestato anche un povero portatore di handicap che non sapeva pronunciare il proprio nome e che per farlo salire sul cellulare i suoi compaesani gli hanno raccontato la pietosa bugia che lo avrebbero portato a Lourdes. Ho riproposto questa storia solo perché l’Italia sappia che alle varie operazioni “Marine” abbiamo il dovere di contrapporre “l’operazione verità”. Verità sulla Calabria! Dobbiamo raccontare a noi stessi, all’Italia e al mondo una verità cinicamente oscurata, ferita, stravolta dall’informazione di regime e dai poteri forti. Rifletta la “commissione” presieduta dal dottor Gratteri, insediata al ministero della Giustizia, su quanto è successo a Piatì. Prenda atto che “Marine” non è stata una operazione contro la ‘ndrangheta ma contro la Calabria, un oggettivo favoreggiamento alle organizzazioni criminali. Si acquisisca la consapevolezza che la ‘ndrangheta s’è legittimata grazie ad operazioni insensate come quella di Platì. L’attuale classe dirigente che sa di pecorume continuerà a nascondere la testa nell’erba, parlando d’altro! Ciò ha reso possibile che in nome della falsa legalità venisse imposto un pesante basto e una stringente bardatura al popolo calabrese ed italiano. In nome della legalità si stanno colpendo al cuore i diritti dei cittadini soprattutto dei più deboli. Noi ci collochiamo in un altro emisfero e non abbasseremo la testa. Alla legalità formale contrapponiamo l’antindrangheta dei diritti. Diritto di fare impresa, diritto al lavoro, diritto alla vita ed alla sicurezza. Diritto di dormire tranquilli quando non si commettono reati né prepotenze di sorta, senza la paura che qualcuno ti metta una bomba estorsiva o, peggio ancora, che, nell’ombra qualcuno trami “legalmente” contro la tua libertà solo perché non intendi chinare la testa, né trovarti un “protettore”.

Il mostro è innocente, scrive Davide Varì su "Il Garantista" del 15 aprile 2015. Contrada era un servitore dello Stato e non un uomo al servizio dei boss. L’ha stabilito ieri la corte di Strasburgo: «L’accusa di concorso esterno non era sufficientemente chiara». Poche parole che radono al suolo 23 anni di indagini, centinaia di udienze, polemiche feroci, bugie e mezze verità.  Come quella di Antonino Caponnetto che in un’aula del Tribunale riferì che Giovanni Falcone «disprezzava» il poliziotto del Sisde. Di più, nel corso del processo di primo grado a Contrada, l’ex capo del pool di Palermo raccontò un episodio che avrebbe dovuto definitivamente chiarire il rapporto conflittuale e avvelenato tra l’ex uomo del Sisde, il traditore di Stato, e l’icona antimafia, Giovanni Falcone: «Quando Contrada venne interrogato sull’omicidio Mattarella – raccontò Caponnetto – mi rimase impresso un gesto di Falcone: una volta che Contrada ebbe terminato, entrambi, io e Falcone, ci alzammo per stringergli la mano. Poi Falcone la fissò per qualche istante e la pulì vistosamente sui pantaloni. Era un chiaro segno di ribrezzo». Ma qualcosa non torna: il fatto è che quel giorno il giudice Falcone non era in aula. Di più l’interrogatorio a Contrada non era stato verbalizzato dall’ufficio istruzione di Falcone ma dal procuratore della Repubblica Vincenzo Pajno in persona, come verificarono gli avvocati e pochi, coraggiosi, giornalisti. E di fronte alla richiesta di qualche straccio di prova di quel che andava dicendo, Caponnetto cambiò versione e, con un’alzata di spalle, disse che forse si era sbagliato, che Falcone non lo disse in aula ma, “eventualmente”, nel suo studio. Ma questa è solo anedottica che pure ha contribuito a distruggere la carriera, e la vita, dello 007 italiano. La vita di Bruno Contrada va in frantumi la notte di Natale del 1992. Quattro pentiti sostengono che lui è il riferimento della mafia siciliana e tanto basta a rinchiuderlo preventivamente nel carcere militare di Forte Boccea dal quale uscirà solo 31 mesi e 7 giorni dopo. «Non c’era nessuna necessità di arrestarmi la vigilia di Natale – racconterà molto tempo dopo Contrada -. Avevo il telefono sotto controllo, sapevano benissimo che avrei passato le feste a casa con i miei figli. In anni di servizio non mi è mai capitato di arrestare i criminali nel giorno di Natale…». Nel frattempo la pratica passa ad Antonio Ingroia che nel ‘95 – e anche grazie agli “aneddoti” di Caponnetto -ottiene una condanna a 10 anni di carcere per concorso esterno. Nella sua requisitoria, Ingroia accuserà Contrada di essere «un funzionario a totale servizio di Cosa nostra, l’anello di una catena all’interno di un patto scellerato tra pezzi dello Stato e la mafia, responsabile del tradimento nei confronti di Boris Giuliano e Ninì Cassarà fino ad arrivare alla strage di Capaci». Contrada cascò dalle nuvole, era legato da una fortissima amicizia con Cassarà, il poliziotto ucciso dai corleonesi nell’agosto dell’85:«Avevo un rapporto fraterno con Ninì, ci chiamavano Castore e Polluce. Quando lasciai il comando della Mobile di Palermo lo lasciai a lui, lo lasciai per lui…». Passano gli anni, 5 per la precisione, il processo arriva di fronte ai giudici della Corte d’Appello di Palermo che sconfessano l’istruttoria e ribaltano il primo grado: Contrada viene assolto perché il fatto non sussiste, ma nel 2002 la Cassazione decide che l’Appello va rifatto davanti a una diversa sezione della Corte di Palermo. Il nuovo appello, dopo 35 ore di camera di consiglio, conferma la condanna a 10 anni di carcere e nel 2007 la Cassazione conferma la sentenza.  Contrada torna in carcere, a Santa Maria Capua Vetere, e chiede la revisione del processo che, dopo un lungo tira e molla, viene negata: «La richiesta è inammissibile», scrivono i giudici. L’odissea giudiziaria, a quel punto, sembra finita. Per la giustizia italiana Bruno Contrada è un funzionario dei Servizi al soldo dei clan. Iniziano le pratiche per la richiesta di grazia che lui rifiuta: «Sono un servitore dello Stato e sono innocente, non voglio nessuna grazia. Dallo Stato mi aspetto un grazie e non una grazia», ripeterà dal carcere dove vive sempre più isolato e malato. Al solo sentir parlare di grazia, Rita Borsellino, la Fondazione Caponnetto e la Fondazione Scopelliti, levano gli scudi e, nonostante le gravi condizioni di salute dell’ex 007, chiedono un incontro con Napolitano per bloccare qualsiasi iniziativa. L’associazione delle vittime di via dei Georgofili tira addirittura in ballo presunti ricatti da parte di Cosa nostra allo Stato. Sono i primi indizi della teoria della trattativa tra Stato e mafia: «È importante da parte delle massime Istituzioni – spiega l’Associazione – ascoltare la voce di chi come noi ha pagato un prezzo incredibile, perché servitori dello Stato hanno tradito questo Paese. Ma soprattutto perché si sappia fino in fondo, che la mafia in carcere condannata per le stragi del 1993 sta giocando una partita per lei molto importante a suon di ricatti». E qui occorre aprire una parentesi. Contrada aveva infiltrati, confidenti e poteva contare su tutta quella serie di legami indispensabili per un uomo del Sisde. Chi lavora per i Servizi si muove su un crinale ambiguo, vive al confine della linea d’ombra, lì dove le regole del normale ingaggio saltano, si trasformano, diventano più flessibili. E proprio lì, lungo quel confine, si creano legami veri e legami ambigui, ci sono amici e nemici, si fanno patti che un minuto dopo si tradiscono. E proprio grazie a quei patti (o tradimenti) Contrada arrivò a un passo dalla cattura di Bernardo Provenzano. Siamo alla fine di novembre del ‘92. Lo 007 ottiene notizie confidenziali su alcune utenze che fanno riferimento al nascondiglio di Provenzano. Erano i numeri di un nipote del boss che faceva da tramite tra lo zio e gli uomini di Cosa nostra. Contrada si ferma: il suo compito è quello di raccogliere informazioni e passarle agli “operativi”. Allora va a raccontare tutto al capo della Criminalpol, il quale gli dà l’incarico di scegliersi gli uomini migliori per portare a termine l’operazione Provenzano. Contrada si mette immediatamente al lavoro e nel giro di poco tempo riesce a beccare il nascondiglio del boss. E con il covo sotto controllo la sua cattura era davvero a un passo. Lui riferisce ai superiori e rimane in attesa dell’ok, ma qualche giorno dopo arriva una velina dal ministero dell’Interno che chiede di sciogliere la squadra messa in piedi da Contrada con effetto immediato. Pochi giorni dopo lo 007 viene arrestato. Mistero. Due le ipotesi: o il ministero sapeva che su Contrada c’era un’indagine che di lì a poco lo avrebbe portato in galera, oppure l’ex 007 finisce in galera perché Provenzano doveva restare uccel di bosco. E se così fosse, non solo l’ex 007 non sarebbe un uomo della trattativa, ma una vittima sacrificale. Del resto le mancate catture di Provenzano hanno lasciato sul campo tante vittime e costruito nuovi eroi tra togati e giornalisti. Ma questa è un’altra (strana) storia. Torniamo al 2007 e a quella richiesta di grazia che viene regolarmente negata. Contrada a quel punto finisce in ospedale: ha perso 22 chili e i suoi avvocati chiedono il differimento della pena e la richiesta dei domiciliari proprio per le gravi condizioni di salute del condannato. Le associazioni protestano ancora una volta e il presidente Napolitano – memore delle “minacce” sulla trattativa Stato mafia – scrive al Guardasigilli per bloccare tutto: Bruno Contrada può tranquillamente morire in carcere. Lui è rassegnato da tempo e arriva addirittura a chiedere l’eutanasia. Uscirà dal carcere, malato e umiliato, solo nel 2012. Prima della sentenza di ieri, nel 2014 Strasburgo aveva già condannato l’Italia: «La detenzione era incompatibile con il suo stato di salute», e ora, a distanza di 23 anni da quel giorno di Natale in cui fu trascinato in carcere, sempre dall’Europa arriva una seconda sentenza che rade al suolo decenni di controversie legali: l’ipotesi di aver aiutato i boss siciliani non è sufficientemente chiara, dicono i giudici. Fin qui la fredda cronaca. Ma la storia di Contrada è piena di chiaroscuri, di detti e non detti, ed è attraversata da vicende che si impastano con la storia più cupa e contraddittoria della nostra Repubblica e dei nostri eroi presunti.

«Il mio strazio aiuterà a costruire la vera giustizia», scrive Errico Novi su “Il Garantista. Esultanza? Non proprio. Né a casa Contrada, né nello studio del suo simpaticissimo avvocato, Giuseppe Lipera. «Non va bene», dice il legale, che ha il quartier generale a Catania e fatica a comunicare con il suo assistito, letteralmente bombardato di telefonate. «Non va bene perché la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sì stabilito che Contrada non avrebbe potuto essere condannato per un reato non previsto all’epoca dei comportamenti contestati, ma è pur vero che i giudici di Strasburgo non mettono in discussione la sussistenza di quella assurda fattispecie». Cioè del concorso esterno in associazione mafiosa, che in effetti non è definita da uno specifico articolo del codice penale ma è l’esito della combinazione di più reati così come la giurisprudenza italiana li ha “armonizzati”. «Ci vediamo a Caltanissetta», dice dunque Lipera, «lì ho presentato due mesi fa la quarta domanda di revisione del processo e la Corte d’Appello mi ha fissato l’udienza per il 18 giugno». E la sentenza con cui i giudici della Cedu hanno condannato lo Stato italiano a risarcire l’ex numero due del Sisde? Possibile che non peserà, davanti ai magistrati italiani «Sarà un altro elemento per ottenere la revisione della condanna», dice il legale. Lui, il perseguitato, l’uomo che è stato stritolato per 23 anni da una macchina processuale infernale, ha invece per sé solo un aggettivo: «Sono frastornato».

Come ”frastornato”, dottor Contrada?

«E sì. Quando l’avvocato Lipera mi ha chiamato sono entrato un po’ in confusione. Sa com’è: dopo 23 anni non me l’aspettavo».

Stenta a crederci.

«Sì, non ci contavo. Anche se avevo già avuto una sentenza favorevole, dalla Corte europea, per l’ingiusta detenzione. Avrei avuto diritto ai domiciliari, anche per la mia età e il mio stato di salute. Ma la distruzione di una vita non si risarcisce neppure con 10 miliardi».

In pratica i giudici di Strasburgo dicono che lei ha fatto da ”cavia di laboratorio” per un reato definito successivamente.

«Sì è vero: ho fatto proprio da cavia. Si sono detti: se funziona, facciamo così anche con gli altri».

Un esperimento.

«Un preludio al processo Andreotti. Difatti, il processo Andreotti iniziò subito dopo la mia condanna. E il giudizio di primo grado a suo carico fu celebrato davanti alla stessa sezione penale che aveva condannato me. Stessa cosa: in appello: il processo di secondo grado ad Andreotti finì davanti alla stessa sezione che aveva condannato il sottoscritto».

Come andare sul sicuro. Ma la sentenza di Strasburgo segnala una giustizia italiana lasciata all’arbitrio assoluto dei magistrati?

«Non sono in grado di dare un giudizio del genere, andrei oltre i miei limiti. Allo stato attuale sono un cittadino condannato, non ho la veste per giudicare coloro che mi hanno giudicato. Ben altri organi possono valutare la condotta dei magistrati che si sono occupati di me: Csm, Parlamento, ministero della Giustizia. Un semplice cittadino non può».

E lei si aspetta che l’operato di giudici e pm del caso Contrada venga effettivamente messo in discussione?

«Non mi aspetto che il Csm se ne occupi, non penso lo farà. Ogni magistrato può valutare i fatti come vuole e il Csm non lo può sindacare».

La sentenza di Strasburgo peserà sulla richiesta di revisione del processo presentata dal suo avvocato a Caltanissetta?

«Vedremo, è un incrocio giuridico complesso. Ora so solo che secondo la Corte europea non avrei dovuto essere condannato».

Avverte almeno un sollievo?

«So di aver lottato per anni. Di aver fatto tutto il possibile per dimostrare che non era vero niente. Contro la sentenza di condanna ho prodotto dieci volumi di motivi di appello, più venti volumi di motivi aggiuntivi».

Erano sentenze già scritte?

«Sì, guardi, è così: io sono stato condannato nel momento stesso in cui mi hanno arrestato, il 24 dicembre 1992.

Ingroia dice che la Corte europea ha preso una cantonata.

«Posso fare un’obiezione?»

E siamo qui apposta, dottore.

«Lui deve dimenticare di essere stato magistrato inquirente e requirente al mio processo. È un avvocato, adesso, pensi ai suoi assistiti e non agli ex inquisiti o imputati. Il mio processo è il suo fiore all’occhiello, ma non è che può stare sempre lì a esibirlo».

Basta sventolare sempre la stessa bandiera.

«Faccia l’avvocato, adesso. Non è più un pm».

I processi si celebrano in tv e sui giornali più che in tribunale?

«Io non voglio accusare nessuno».

Che senso dà alle sofferenze che ha vissuto?

«Mi hanno rubato la vita, so solo questo».

La sua vicenda potrà contribuire a cambiare la giustizia?

«Sì, spero possa essere utile a qualcosa, indipendentemente da come si chiude il mio caso.

Che non si è ancora concluso. Mi interessa la giustizia italiana, devo dire, più che quella europea. La sentenza di Strasburgo è importante, senza dubbio, ma deve essere un tribunale italiano a dire che sono stato condannato e messo in prigione da innocente».

Non si sente risarcito?

«Nessuna cifra può ripagare la distruzione di un uomo da punto di vista morale e fisico, civile e sociale, professionale e familiare. Non è questione di prezzo, non mi interessa. Voglio essere giudicato innocente da un tribunale italiano. In nome del popolo italiano, va emessa la sentenza».

Il tempo è davvero galantuomo come dicono?

«E cosa posso dirle? Ho 84 anni, dall’arresto ne sono passati quasi 23. Comunque, guardi: mi farebbe piacere poter leggere il Garantista perché non lo distribuite in Sicilia?»

Siamo nati da poco, un passo per volta.

«Sì ma qui a Palermo la maggior parte dei giornali che mi piacerebbe sfogliare non è disponibile in edicola: il Garantista, il Foglio, il Tempo, l’Opinione. Non trovo neppure il Mattino di Napoli, che è il giornale della mia città».

Adesso non ci colpevolizzi, dottore. I distributori chiedono cifre folli, sa? E poi c’è la versione on line, potrebbe leggerci comodamente.

«E no. A internet non mi converto, può giurarci. Sono fermo a penna e calamaio».

Dottore, in questi anni l’ha aiutata la fede in Dio?

«Mi ha aiutato la mia forza morale. E la coscienza di non avere nulla da rimproverarmi».

Perchè leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

INGIUSTIZIA. PARLIAMO DI DANTE BRANCATISANO. DETENUTO SENZA COLPA.

Storia straordinaria di un uomo ordinario. Un caso di malagiustizia. Non bastano un libro, un corto, un disco per raccontare… Leggere la storia di uno è come leggere migliaia di storie analoghe, vicissitudini di persone e non di fascicoli giudiziari. Conoscerle non cambia nulla in fatto di risultato. Non si ha potere di intervento, ma si ha solo la capacità di divulgazione, dopo una doverosa indignazione. Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino, quando i media non vi abbiano posto attenzione, significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, da parte degli autori del misfatto. Per di più si incorre nel disinteresse generale. Invece, quando io scrivo delle vittime attenzionate dalla cronaca, io non parlo solo di questi, ma parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Con me nessuno dimentica, perché la cronaca diventa storia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per lei, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri. Io non me ne fotto degli altri.

Con il libro “Detenuto senza colpa” uscirà anche il cortometraggio che racconta la storia vera del cantante Dante Brancatisano, nelle radio italiane anche con il singolo “Certi giorni così” che anticipa l’omonimo Album (nei negozi da Gennaio 2015).

La storia: Dante oggi è un uomo libero, anche se manca ancora l’ultimo sigillo alla sua posizione processuale, e la sua corsa verso l’inferno l’ha raccontata nel libro “Detenuto senza colpa” , dopo che il carcere che gli ha rubato tre anni di vita senza nessun tipo di spiegazione. L’artista calabrese, accusato di aver portato la ‘Ndrangheta nel Nord Italia, per il suo ultimo album si è ispirato al carcere bergamasco dove è stato detenuto tre anni prima che la cassazione annullasse il definitivamente il processo: “Nelle mie canzoni non predico odio. Mi fa schifo la mafia e al sindaco di Ponteranica chiedo di rimettere la targa di Impastato”. Dante Brancatisano, infatti, ha passato tre anni della sua vita nel carcere di via Gleno, a Bergamo, per scontare una pena che la Cassazione, al terzo grado di giudizio, ha decretato essere ingiusta. L’accusa, pesantissima, parlava di associazione a stampo mafioso con la ‘Ndrangheta, ma non come “semplice” affiliato, addirittura come capo bastone. Portato nel carcere bergamasco di massima sicurezza, Dante, che fino a quel momento si stava costruendo una carriera con il suo gruppo, “I Pitagorici” (con i quali ha fatto anche una tournée mondiale che ha toccato Stati Uniti e Australia), si è visto la vita bloccata. Condannato in primo e secondo grado, è stato assolto in Cassazione, dopo che tutti i suoi presunti referenti nell’organizzazione sono stati prosciolti.

Il Corto: “Detenuto senza colpa”, per la regia di Andrea Costantini (aiuto Regista Francesca Farneti)

Con: Ettore Bassi, Euridice Axen, Giuseppe Zeno, Sergio Zecca, Biaggio Pica, Marco Iannone Rodolfo Castagna, Christian Marazziti, Nello Mascia nella parte del Boss Carmine Ferrato. Con l’amichevole partecipazione anche di Valentina Carnelutti.

DANTE BRANCATISANO STORIA STRAORDINARIA DI UN UOMO ORDINARIO. Un caso di malagiustizia. Calabria, terra meticcia e magnificente, bellicosa e arroccata, di contrasti e di mari. L’unica colpa che ho è di esserci nato e di amarla. Il libro racconta la vera storia di Dante Brancatisano che improvvisamente si trova nel tritacarne della Giustizia, di quella Giustizia che quando sbaglia cancella un uomo, i suoi diritti e la sua dignità. Il musicista calabrese viene ingiustamente accusato di far parte della ‘Ndrangheta e non come un “semplice” affiliato ma addirittura come “capo bastone”. La Procura di Milano lo arresta di notte a Samo, il suo paese in provincia di Reggio Calabria, e lo traduce al carcere di Bergamo dove resterà nel Reparto di Massima Sicurezza per ben tre anni e venticinque giorni. La Cassazione ne decreta l’assoluzione (tutti i suoi presunti referenti vengono assolti) ma lui continua a restare in detenzione. Ancora oggi la sua posizione processuale, sebbene Dante dal 2006 sia un uomo libero, non è ancora conclusa e definita (adesso tutto è in mano al Tribunale di Reggio Calabria). Un libro in cui si raccontano i fatti e la vita da innocente all’interno di un carcere. Grazie alla sua volontà, alla sua forza mentale, alla sua umanità e all’assoluta fede nella propria innocenza l’autore è riuscito a sopportare la detenzione, conquistandosi giorno dopo giorno (tanti, troppi) il rispetto umano e l’affetto dei carcerati e delle guardie. Un’esperienza dura e incredibile che Brancatisano racconta nel libro in maniera cruda, realistica e facendo tanto di nomi. Dopo essere uscito dal carcere, Dante è tornato solo una volta nella sua terra natale (per far visita agli anziani genitori). Ha ripreso però a fare il musicista e ora vive e lavora in Svizzera, nel Canton Ticino, dove ha fondato un’etichetta discografica e, come faceva in Calabria, una scuola di musica per giovani artisti. Davide Brancatisano, Musicista. Sin da giovanissimo cantante, chitarrista e compositore con il gruppo I Pitagorici. Con questa formazione incide due album che raccolgono un buon successo in tutta Italia e si esibisce in tanti concerti nelle piazze italiane, in particolare al Sud, e diverse ospitate in televisione e in radio. Nel ’98 intraprende la strada da solista con la produzione statunitense del duo Marasco e Alongi. Il risultato è un disco “Il Mio Grido”, prodotto in America, e un tour negli USA e in Australia. Rientra in Italia nel ‘99 per partecipare al TELETHON, che ogni anno lo vedrà protagonista e organizzatore nelle piazze del Sud fino al 2002. Dal 2003 fino a maggio 2006 la sua carriera subisce un improvviso e imprevisto stop. Incarcerato con false accuse. Uscito di prigione fonda la “Eden Music”, etichetta discografica indipendente, e ricomincia le produzioni proprie e di numerosi altri artisti. Nel 2008 incide il singolo “Hope” il cui videoclip viene selezionato da Videoitalia e trasmesso anche da altre emittenti. È un brano lontano dal suo genere ma assai vicino alle sue disavventure personali. Altre produzioni musicali e ora un libro che racconta con chiarezza l’intera vicenda che l’ha portato in carcere. Storia che naturalmente ha messo anche in musica e che  sarà protagonista del suo nuovo lavoro discografico.

L'incubo di Dante, il cantante finito nel girone della giustizia. Cantava contro la 'ndrangheta, poi Dante Brancatisano è stato accusato di farne parte. Dopo tre anni passati in carcere, la Cassazione ha annullato la sentenza, ma lui continua a vivere nel girone infernale della giustizia. In un cd e in un libro canta e racconta il suo calvario, scrive Domenico Ferrara su "Il Giornale”. “Salivamo sul palco vestiti di nero per protestare contro i continui omicidi che avvenivano in Calabria, le canzoni che scrivevo erano inni di libertà per smuovere le piazze, la gente ci manifestava affetto, cantavamo contro la 'ndrangheta e per questo quando i giudici mi hanno accusato di fare parte di questa associazione criminale è stata la vergogna delle vergogne”. Dante Brancatisano aveva 22 anni quando ha iniziato la sua carriera da cantante rock con I Pitagorici. A Samo, in provincia di Reggio Calabria, il gruppo era molto conosciuto. La sua carriera prosegue, il gruppo gira il mondo, fa un tour in America e in Australia. Poi, la data dell'8 aprile 2003 segna uno spartiacque indelebile. Dante a.C e Dante d.C. Dove la C sta per carcere.

Cosa è successo?

“Hanno fatto irruzione a casa mia, mi hanno portato in galera e solo dopo giorni ho saputo che mi accusavano di essere il nuovo capo emergente a Milano della cosca dei Morabito, il tutto solo sulla base di alcune intercettazioni fatte a Reggio Calabria”.

Poi?

“Il mio avvocato ha chiesto sin da subito che la competenza territoriale venisse data alla procura calabrese e non a quella milanese che si stava occupando del mio caso, ma niente. Vengo condannato in primo e in secondo grado”.

Fino alla sentenza di Cassazione.

“Sì, la Corte Suprema annulla la sentenza rilevando un vizio di competenza territoriale. Nel frattempo, la corte d'Appello di Milano assolve tutti gli altri imputati di associazione mafiosa. Ma il mio caso rimane aperto. Gli atti vengono inviati alla procura di Reggio Calabria che non recepisce la sentenza della Cassazione e mi condanna a cinque anni".

Dal primo grado fino alla Cassazione, tu sei stato in carcere.

"Sì, tre anni e 25 giorni in carcere. Sono stato anche sei mesi in isolamento, contavo le mattonelle delle pareti per non impazzire”.

Via Gleno è il titolo del tuo album, in riferimento alla via del carcere di massima sicurezza di Bergamo. La galera ha cambiato il tuo modo di fare musica?

“Sicuramente, mi ha lasciato sensazioni e danni permanenti che poi ho riversato sui miei testi. Non vedere i miei genitori per così tanto tempo è un dolore che nessuno potrà mai risarcire”.

Com'era la vita dentro le mura?

“Nella sfortuna ho avuto la fortuna di farmi voler bene, volevano darmi una chitarra e una cella singola, ma ho rifiutato perché con il sovraffollamento che c'è, sarei passato per un infame. Ma anche senza una chitarra, io volavo con la fantasia. Grazie all'immaginazione riuscivo a essere altrove e a sentirmi libero anche dietro le sbarre”.

Tu eri nello stesso posto in cui erano rinchiusi esponenti della 'Ndrangheta. Che effetto ti faceva essere considerato come loro?

“Io non sono come loro. Durante l'ora d'aria, uscivo in pantaloncini e maglietta a maniche corte per prendere un po' di sole. Loro non uscivano, erano tutti abbottonati, in tiro, con i vestiti che brillavano. Come ho scritto nel mio libro, sono “pupazzi che non sono degni della loro libertà”. Io non sono uno di loro e non lo sarò mai, la divisa che mi hanno messo con la scritta 'ndrangheta mi fa male”.

“Storia straordinaria di un uomo ordinario” (Ed. Vololibero, pp.160, euro 15) è infatti il titolo del libro che hai scritto e nel quale racconti dettagliatamente quello che tu definisci un caso di malagiustizia. Tu che sei un cantante, come mai hai deciso di scrivere la tua storia?

“L'ho fatto nella speranza che altre vita non vengano spezzate, il potere non può essere usato in queste modo per distruggere la vite delle persone”.

Tu adesso sei libero, non hai restrizioni di alcun tipo e vivi in Ticino. Ma sei ancora in attesa del secondo grado di giudizio, dopo più di dieci anni. Hai ancora fiducia nello Stato?

“Sì, non l'ho mai persa. Credo ancora nella giustizia. Il tribunale di Reggio non ha recepito la sentenza della Cassazione e mi ha condannato senza uno stralcio di prova”.

Adesso come vedi il tuo futuro?

“Io sono libero, sto facendo la mia battaglia per uscirne pulito e potere ripartire con una nuova vita”.

Dante Brancatisano: la musica mi ha salvato la vita. Reduce da una disavventure giudiziaria, il cantautore calabrese torna sulla scena con un album in cui grida forte il suo amore per la musica e la libertà, scrive Alberto Rivaroli su "Panorama". Ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma purtroppo di lui si è parlato molto anche per motivi extramusicali: colpa di un incubo iniziato nel 2003, quando Dante Brancatisano ha smesso di essere solo un artista e si è trovato addosso un'accusa terribile: quella di far parte della 'ndrangheta. Condannato, ha scontato tre anni di carcere prima che la Cassazione annullasse le sentenze a suo carico. Nel frattempo è tornato a fare musica, nell'attesa di mettersi definitivamente alle spalle quello che definisce un esempio di malagiustizia. Oggi esce il suo nuovo album, Sono ancora qui, prodotto da Eden Music e disponibile sia nei negozi tradizionali che sulle piattaforme digitali. Lanciato dal singolo «Così come sei», contiene nove brani che si ispirano alla canzone d'autore e possono vantare la collaborazione di alcuni nomi importanti della scena musicale italiana.

Dante, la prima cosa che colpisce di questo lavoro è la solarità: ci si aspetterebbe solo rabbia, invece si parla anche d'amore...

«C'è anche l'amarezza, ma non ho voluto che prevalesse. Intendiamoci, quello che ho dovuto patire, senza avere alcuna colpa, nessuno me lo potrà mai risarcire. Io però non odio nessuno, anche se quello che mi è capitato è incredibile. Può darsi che nel mio villaggio della musica (la scuola per giovani talenti che gestiva in Calabria,ndr) sia entrato qualche ragazzino proveniente da famiglie poco raccomandabili, ma io non ne sapevo niente, e comunque che colpa è?».

Resta il fatto che la sua vita si è trasformata in un incubo...

«Purtroppo è così, e l'ho raccontato l'anno scorso nel libro “Storia straordinaria di un uomo ordinario”, dedicato proprio alla mia odissea. Oa però preferisco pensare al futuro: la voglia di fare musica non mi è mai passata, e anzi la sento più forte che mai».

E allora parliamo di musica: il singolo «Così come sei» sta andando forte in radio...

«Radio Italia lo sta programmando con regolarità, e anche il videoclip è piaciuto molto. È un brano dedicato a un amore speciale, che mi ha permesso di rivivere emozioni che avevo dimenticato e di godere momenti indimenticabili».

«Sono ancora qui», invece, quasi inevitabilmente ripercorre le sue disavventure.

«È la mia rivincita verso chi mi ha fatto del male; ho dimostrato a tutti che non sono un codardo».

Ha intenzione di portare il suo cd in giro per l'Italia?

«Certamente, stiamo preparando proprio in questi giorni una serie di concerti in giro per la Penisola. Con me ci saranno gli straordinari musicisti che hanno suonato nel disco: da quel grandissimo chitarrista che è Andrea Braido al bassista Paolo Costa, da Alfredo Golino - grande alla batteria - a Luca Colombo. Abbiamo lavorato insieme già in “Via Gleno” il mio album precedente, e stiamo già raccogliendo le idee per inciderne un terzo. Gliel'ho detto, l'amore per la musica e per la vita sono più forti che mai».

Detenuto ingiustamente Dante canta "Via Gleno": "A Bergamo tanta umanità", scrive Luca Bassi su “Bergamo News”. Con il grande Dante Alighieri non ha in comune solo il nome, ma anche l’inferno. Dante Brancatisano, infatti, ha passato tre anni della sua vita nel carcere di via Gleno, a Bergamo, per scontare una pena che la Cassazione, al terzo grado di giudizio, ha decretato essere ingiusta. L’accusa, pesantissima, parlava di associazione a stampo mafioso con la ‘Ndrangheta, ma non come “semplice” affiliato, addirittura come capo bastone. Portato nel carcere bergamasco di massima sicurezza, Dante, che fino a quel momento si stava costruendo una luminosa carriera con il suo gruppo, "I Pitagorici" (con i quali ha fatto anche una tournée mondiale che ha toccato Stati Uniti e Australia), si è visto la vita bloccata. Condannato in primo e secondo grado, è stato assolto in Cassazione, dopo che tutti i suoi presunti referenti nell'organizzazione sono stati prosciolti. Dante oggi è un uomo libero anche se manca ancora l'ultimo sigillo alla sua posizione processuale, e la sua corsa verso l'inferno l'ha raccontata nel libro “Storia straordinaria di un uomo ordinario” pubblicato a inizio novembre, pochi giorni prima dell’uscita del suo ultimo disco chiamato proprio “Via Gleno”, come il carcere che gli ha rubato tre anni di vita senza nessun tipo di spiegazione: “Mi hanno arrestato all’alba, nella mia abitazione di Samo, a Reggio Calabria – ha raccontato l’artista a BgNews – e, nonostante continuassi a chiedere cosa avessi fatto di tanto grave, nessuno mi voleva parlare. Dopo tre giorni di isolamento sono stato trasferito a Milano prima e a Bergamo poi, in via Gleno”.

Immaginiamo che i suoi ricordi “bergamaschi” siano tutt’altro che piacevoli.

“Ma sbagliate. A Bergamo ho trovato tante gente piena di umanità, dalle guardie del posto fino ai vertici della casa circondariale. E poi ricordo con grande affetto don Fausto Resmini, una persona straordinaria, un angelo. Mi ha rincuorato, dato notizie dei mieI familiari, aiutato a guardare avanti con ottimismo”.

Quindi lei non odia Bergamo?

“No, tutt’altro. E spero di tornarci molto presto, magari per presentare libro e disco”.

Nei testi delle sue canzoni non traspare né rabbia né odio. Com’è possibile dopo quello che ha vissuto?

“Non penso che con la vendetta possa riavere quello che mi è stato tolto, io ho sempre cercato di parlare di dialogo e di confronto. Sono stato vittima di quella che voi giornalisti chiamate malagiustizia, un cancro che qualcuno deve curare al più presto perché in quei tre anni vissuti dietro le sbarre ho sentito tante, troppe storie di ingiustizia”.

Quale sarebbe secondo lei la soluzione?

“La soluzione esiste: separare le carriere dei giudici e quelle dei pm”.

Se ripensa a quei tre anni come si sente?

“Mi sento sporco. Come il giorno in cui, senza spiegazioni, mi hanno messo su un furgone della polizia e mi hanno trasferito da Reggio Calabria a Milano. Puzzavo, ero stanco, avevo fame e sete, ma nessuno mi ascoltava. Le forze dell’ordine tre giorni prima avevano fatto irruzione a casa mia, ammanettandomi e devastando il mio studio”.

Sapeva perché stava finendo in manette?

“Assolutamente no, non ne avevo la minima idea. Ma quando ho provato a chiedere il motivo dell’arresto mi sono sentito dire: a Milano la vogliono sentire. Per cosa? chiedevo io, ma nessuno incredibilmente sapeva nulla”.

Quando ha scoperto di cosa l’accusavano?

“Nel carcere di Milano, prima del trasferimento a Bergamo. Sostenevano che io avessi portato la ‘Ndrangheta nel Nord Italia e mi accusavano di appalti truccati, prestanome, riciclaggio di denaro. Peccato che a Milano non ci fossi mai stato e che le persone alle quali mi collegavano non le avessi mai sentite nominare in vita mia. Ma il giudice che mi accusava, Maurizio Grigo, aveva uno scopo ben preciso”.

Quale?

“Arrestare pesci grossi, nomi che, probabilmente, gli avrebbero fatto fare carriera. Mi è stato detto più di una volta: se ammetti le tue responsabilità e racconti tutto ti diamo dei soldi e ti facciamo costruire una vita nuova”.

Lei come ha reagito?

“Cosa potevo fare? Inventare delle cose per salvarmi? No, non è nel mio stile. Non sono un mafioso, la mafia mi fa schifo e mi fanno schifo tutte quelle persone che hanno pensato anche solo per un secondo che potessi essere uno della ‘Ndrangheta”.

Com’è cambiata la sua vita da allora?

“Non sono più tornato nella mia terra, non vedo i miei genitori da più di sette anni: loro sono anziani e non mi possono raggiungere a Lugano, dove vivo oggi”.

Perché non torna nella sua Calabria?

“Perché so che basterebbe una mossa sbagliata per farmi incastrare, per farmi rivivere ancora quell’incubo dal quale mi sono svegliato nel 2006, dopo l’esito della Cassazione che mi ha completamente scagionato. E la cosa mi fa male, molto male: pensate che per tanti anni sono stato un attivista politico di Rifondazione Comunista – con tanto di tessera – per cercare di aiutare Reggio Calabria”.

Cosa direbbe oggi a Maurizio Grigo, il giudice che ha firmato il suo ordine d’arresto nel 2003?

“Cosa darei per poterlo guardare negli occhi per cinque minuti, per potermi confrontare con lui che, per tre lunghissimi anni, si è rifiutato di incontrarmi, di darmi quelle spiegazioni che mi spettavano. Perché in un Paese libero e democratico la legge dovrebbe tutelare i cittadini, difenderli dalle ingiustizie, aiutarli nei momenti duri. E con me non è stato fatto”.

Si sente in credito nei confronti dello Stato?

“Certo, ma non chiedo denaro, rimborsi, scuse. Vorrei solo che certe ingiustizie non ricapitassero più. Né con me né con nessun altro cittadino onesto”.

Sa che a Bergamo, più precisamente a Ponteranica, il sindaco Cristiano Aldegani ha fatto rimuovere la targa della biblioteca intitolata a Peppino Impastato, dedicandola poi a un parroco del paese?

“Non conoscevo la storia ma a quel sindaco vorrei ricordare che ci vuole rispetto per un uomo caduto durante la lotta alla mafia. Se dovesse leggere questa intervista ci ripensi e chieda scusa alla famiglia. Perché Peppino Impastato merita solo onore e rispetto”.

Dante Brancatisano, da Samo, provincia di Reggio Calabria, è un cantautore di un certo successo. Dopo aver dato vita al gruppo I Pitagorici, si dà alla carriera solista: un album, «Il mio grido», una tournée mondiale che tocca persino Stati Uniti e Australia. Ma l'8 aprile 2003 qualcosa cambia improvvisamente. La polizia fa irruzione nella sua abitazione. Il musicista calabrese viene accusato di far parte della 'Ndrangheta, nemmeno come semplice affiliato, ma addirittura come capo bastone. L'artista viene trasferito nel reparto di massima sicurezza del carcere di Bergamo: vi resta per 3 anni e 25 giorni. Condannato in primo e secondo grado, viene assolto in Cassazione, dopo che tutti i suoi presunti referenti nell'organizzazione sono stati prosciolti. Dante è un uomo libero anche se manca ancora l'ultimo sigillo alla sua posizione processuale. La sua corsa verso l'inferno, Dante l'ha raccontata nel libro «Storia straordinaria di un uomo ordinario» pubblicato pochi giorni fa. E il 26 novembre, il suo dramma diventa disco. «È stata proprio la vicenda allucinante che ho vissuto per 3 anni a ispirarmi questo nuovo lavoro discografico - dichiara il cantautore - Ho deciso di intitolarlo "Via Gleno". E, con il linguaggio del rock, ho illustrato tutte le sensazioni che in quel periodo hanno affollato il mio cuore, i miei pensieri». Brancatisano ha chiamato nel suo studio di Lugano solisti di assoluto valore. Alla batteria, Alfredo Golino (tra gli altri con Eros Ramazzotti, Laura Pausini, 883, Francesco De Gregori). Alla chitarra e al basso Andrea Braido (Patty Pravo, Mina, Vasco Rossi), a pianoforte e tastiere Ivan De Clemente e al sax Andrea Innesto, da sempre con il Blasco. «Nella musica di "Via Gleno" ho cercato di trasmettere la rabbia che ho provato stando dietro le sbarre del carcere bergamasco in uno stato di convivenza forzata. Un giorno, i Pooh sono venuti a suonare per noi carcerati. Ho provato emozioni fortissime e durante il loro concerto ho scritto "Piccola nomade" che ho inserito nel cd. Sono orgoglioso di aver suonato con i migliori solisti italiani. Con loro, ho accarezzato di nuovo la gioia della libertà». Santini Fabio Pagina 13 (09 novembre 2013) - Corriere della Sera

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

 “La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. 

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.  

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.  

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA……

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre o gli altri.

Per la Corte di Cassazione 12 denunce disattese valgono “la negligenza inescusabile” dei PM.

Commento di Antonio Giangrande. Scrittore e sociologo storico.

Trattare il caso di Marianna Manduca, anche in video, è come trattare miriadi di casi identici, così come ho fatto in “Ingiustiziopoli. Disfunzioni del sistema che colpiscono i singoli”, e mi porta ad affrontare un tema che tocca argomenti inclusi in vari saggi da me scritti e pubblicati su Amazon.it e su Lulu.com o su Createspace.com.

Per la verità la decisione della Corte di Cassazione, tanto enfatizzata dai media, è intervenuta solo per affermare un principio giuridico formale. La Suprema Corte ha accolto il ricorso con il quale il tutore dei tre bambini (Carmelo Calì che è un cugino della loro mamma che vive a Senigallia, nelle Marche) ha fatto valere il diritto dei piccoli a ottenere giustizia. La Corte di Appello di Messina non potrà più respingere la richiesta sostenendo che sono scaduti i termini e che l’azione andava esercitata entro i due anni dalla morte di Marianna. Per la Cassazione invece le argomentazioni dei magistrati messinesi «non hanno giuridico fondamento» perchè - spiegano i supremi giudici - il termine biennale, in un caso del genere, non può decorrere dal giorno della morte della donna ma «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», ovvero dal giorno in cui un adulto veniva ufficialmente nominato loro tutore.

La Corte Suprema, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, ha affermato che  i figli di Marianna ora potranno avere un risarcimento dallo Stato per la «negligenza inescusabile» dei pm che avrebbero dovuto invece occuparsi di quelle denunce.

Tanto si è parlato del caso di Marianna Manduca. Per la Cassazione i magistrati non diedero importanza alle denunce della donna poi uccisa dal marito ed è per questo che i suoi tre figli hanno diritto ad un risarcimento. Il padre uxoricida è stato condannato a soli venti anni di reclusione. Le aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo, nonostante le sue richieste di aiuto.

«Spesso la legge non tutela le donne, ma in questo caso anche quelle previste non sono state applicate - denuncia l'avvocato Corrado Canafoglia - è incredibile che dodici aggressioni avvenute in strada, pubblicamente e alla presenza di testimoni l'uomo non sia stato allontanato». Ergo: sbagliano le toghe, pagano gli italiani, muoiono le vittime.

Ma a tutti è sfuggito un particolare importante che porta a chiederci: per le toghe quante denunce insabbiate valgono una vita umana? Una, due, tre, dieci…Oppure fino a che punto lo stantio o l’inerzia provoca l’inevitabile evento denunciato?

E perché, come ai poveri cristi, alle toghe omissive non viene applicato il reato di omissione d’atti di ufficio, ex art. 328 C.P.? Non si paventa il dolo omissivo?

Non si pensi che la morte di Marianna Manduca sia un caso isolato e riferito solo alla trinacride magistratura. Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. «La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

La sua storia è esemplare: è il padre di Carmela. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.

Invece di perseguire chi l’aveva violentata, hanno di fatto perseguito una bambina rinchiudendola in vari istituti in cui Carmela non voleva stare. E, come ha denunciato il padre, usando il metodo facile di «calmarla» con psicofarmaci.

Fin qui la questione attinente al femminicidio.

L’uomo orco da scotennare? No! C’è un paradosso da non sottovalutare. Se i Pm insabbiano, i giudici sono punitivi.

«Giudici punitivi, sempre dalla parte delle madri. E padri disperati: troppe le storie quotidiane di sofferenza atroce». E’ agguerrito Alessandro Poniz di Martellago (Ve), coordinatore Veneto dell’associazione Papà Separati. Esprime la rabbia e la frustrazione che ogni giorno tanti genitori «vessati dall’ex coniuge» riversano su di lui. «Ci si scontra continuamente con madri “tigri” tutelate dalla legge - accusa Poniz - . Non mi stupisce il dramma del papà di Padova. Sì, sono convinto che per la disperazione si possa arrivare a togliersi la vita. Sapete quanti padri si presentano puntuali a prendere i figli, secondo le sentenze stabilite dai tribunali, suonano il campanello e vengono mandati via dalla madre con la scusa che il bimbo è ammalato? Escamotage simili vanno avanti per anni... E quanti scontano l’odio e il rancore di figli “plagiati” dalle madri?».

«Il sistema non è mai pronto a intervenire tempestivamente», sostiene Alessandro Sartori, presidente Veneto dell’associazione italiana avvocati per la famiglia e per i minori (Aiaf). «Ci vorrebbe una formazione specifica sia per i giudici che per i servizi sociali. A volte sono chiamati a pronunciarsi su questa materia delicatissima giudici che fino al giorno prima si occupavano di diritto condominiale...».

Divorzi e paternità: ecco come la donna violenta l'uomo. False denunce e false accuse tra violenze fisiche, verbali e paternità negate. Nella coppia la donna diventa sempre più violenta. Ecco i risultati sconcertanti del questionario, scrive Nadia Francalacci  su “Panorama”. “Sono prive di fondamento le teorie dominanti che circoscrivono ruoli stereotipati: donna/vittima e uomo/carnefice”. Ad affermarlo è la psicologa forense Sara Pezzuolo, dopo aver condotto in Italia la prima “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile”. “Dal questionario emerge come anche un soggetto di genere femminile sia in grado di mettere in atto una gamma estesa di violenze fisiche, sessuali e psicologiche - continua a spiegare a Panorama.it, l’esperta - che trasformano il soggetto di genere maschile in vittima”.

E quando gli affidi diventano scippi e le vittime sono i figli ed entrambi i genitori?

Ci sono i falsi abusi, ma che realizzano vere tragedie. Solo 3 denunce su 100 si concludono con una condanna.

Minori strappati dalle mura domestiche e rinchiusi all’interno di comunità.  Storie di sofferenze, abusi, maltrattamenti, ma anche di errori giudiziari, che segnano indelebilmente la vita di minori, costretti a vivere e crescere in comunità o famiglie affidatarie lontane dall’affetto dei genitori.

Da quanto detto si estrae una semplice conclusione. Il sistema esaspera gli animi ed il debole soccombe. Non vi è differenza di sesso od età. Solo i media esaltano il fenomeno del femminicidio. Lo fanno per non colpire i veri responsabili: i magistrati.

Bene. Anzi, male. Perché se è vero, come è vero, che  questo sistema della stagnazione delle denunce o la loro invereconda procedibilità viene applicato anche per qualsiasi altro tipo di reato violento, allora si è consapevoli del fatto che ogni vittima è rassegnata al peggio. Si badi bene. Qui si parla anche di vittime di estorsioni. Quindi vittime di mafia. Senza parlare poi delle vittime di errori giudiziari.

Ecco, allora, chiedo a Voi toghe. Quando scatterebbe la “la negligenza inescusabile” dei PM che provoca morte o rassegnazione, dopo una, due, tre, dieci…denunce? Ce lo dite con una vostra alta sonante pronuncia, in modo che noi vittime, poi, teniamo il conto di quelle già insabbiate. Se poi, in virtù dell’indifferenza sopravviene la morte, chissà, forse i nostri figli si potranno rivalere economicamente, non sui responsabili, come sarebbe giusto, ma, bontà vostra, sui nostri e vostri concittadini che pagano le tasse anche per quei risarcimenti del danno. Danni riferiti a responsabilità dei magistrati, ma non a questi addebitati. 

Giustizia per Marianna, uccisa dopo 12 denunce, scrive Gianluca Mercuri su “Il Corriere della Sera”. Marianna Manduca aveva 32 anni quando, il 3 ottobre 2007, il suo ex marito Saverio Nolfo la ammazzò con dodici coltellate. Dodici come le denunce che la ragazza aveva presentato alla Procura di Caltagirone, senza che nessuno prendesse sul serio le minacce e le aggressioni, perfino pubbliche, che subiva. Accadde a Palagonia, nel Catanese, e pochi giorni dopo Marianna avrebbe vinto la lunga battaglia giudiziaria per l’affidamento dei tre figli. L’uomo sconta una condanna a vent’anni, ma finora la vittima non aveva mai avuto vera giustizia, né in vita né in morte. Ora forse un inizio di giustizia c’è. Il 12 settembre la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del cugino di Marianna, tutore dei suoi figli, che vivono con lui e la sua famiglia nelle Marche. In base a questa sentenza, la Corte di Appello di Messina non potrà più respingere per scadenza dei termini la richiesta di risarcimento ai tre ragazzi per la “negligenza inescusabile” dei pubblici ministeri che avrebbero dovuto prendere in esame le denunce della madre. Per i giudici messinesi, l’istanza andava presentata entro due anni dalla morte di Marianna. La Cassazione li costringerà a ragionare: la scadenza dei termini va calcolata «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», cioè dal giorno in cui un adulto è stato nominato loro tutore, cosa avvenuta solo nel dicembre 2010. Il rifiuto di ammettere la richiesta di indennizzo era stato solo l’ultimo affronto della giustizia di questo paese a Marianna Manduca e alla sua memoria. Prima c’era stata l’inerzia di fronte alle sue denunce, e prima ancora l’incredibile decisione di affidare i bambini al padre, nullatenente e tossicodipendente ma capace – dopo avere di fatto sequestrato i figli e impedito per mesi alla madre di vederli – di plagiarli fino a indurli a mostrarsi ostili a Marianna nelle udienze in cui si discuteva la loro sorte. La giustizia ci cascò: quando stava finalmente per rimediare, arrivarono le pugnalate di Saverio Nolfo. Alla ragazza non era bastato il coraggio di lasciare il marito dopo anni di violenze. La sua storia (raccontata da Amore criminale su Raitre e visibile su YouTube) ricalca le tante lette e ascoltate troppe volte: un amore ingenuo, l’errore di cedere alla richiesta di rinunciare al proprio lavoro, l’inizio dell’incubo, la vergogna e il terrore di ribellarsi: «Capisco che è difficile, a chi non ha mai vissuto nulla di simile, comprendere tutto ciò, soprattutto comprendere come sia possibile patire tutto e sempre in silenzio, ma avevo molta paura e il clima in cui vivevo era davvero pesante». Sono parole di Marianna. Poi Marianna la paura seppe vincerla, ma non le bastò. L’invito giusto e ovvio che viene sempre rivolto alle donne nella sua situazione – smettete di subire, affidatevi alle istituzioni – lei lo accolse ma le istituzioni la presero a botte come il marito. Ora che finalmente la Cassazione ha cambiato il corso di questa storia, sarebbe bello che la Corte di Appello di Messina e la Presidenza del Consiglio – nei cui confronti è stata avanzata la richiesta di risarcimento per gli orfani – si arrendessero al buon senso e la dessero vinta, senza il minimo ostruzionismo, a chi si prende cura di quei ragazzi. In nome di Marianna Manduca, sette anni fa vittima di femminicidio.

La Cassazione: «Dai pm negligenza inescusabile. Ora lo Stato risarcisca i figli di Marianna», scrive “La Sicilia”. Per la Cassazione i magistrati non diedero importanza alle denunce di donna poi uccisa dal marito ed è per questo che i suoi tre figli hanno diritto ad un risarcimento. La vicenda si riferisce all’omicidio di Marianna Manduca - uccisa il 3 ottobre del 2007 con dodici coltellate a Palagonia – vittima delle furia del marito nonostante essa l’avesse già denunciato dodici volte alla Procura di Caltagirone le intenzioni omicide dell’ex marito Saverio Nolfo. La Corte Suprema, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, ora potranno avere un risarcimento dallo Stato per la «negligenza inescusabile» dei pm che avrebbero dovuto invece occuparsi di quelle denunce. La Cassazione ha insomma accolto la richiesta del legale dei tre adolescenti, l’ex pm antimafia Aurelio Galasso. La Suprema Corte ha accolto il ricorso con il quale il tutore dei tre bambini (che è un cugino della loro mamma che vive nelle Marche) ha fatto valere il diritto dei piccoli a ottenere giustizia. La Corte di Appello di Messina non potrà più respingere la richiesta sostenendo che sono scaduti i termini e che l’azione andava esercitata entro i due anni dalla morte di Marianna. Per la Cassazione invece le argomentazioni dei magistrati messinesi «non hanno giuridico fondamento» perchè - spiegano i supremi giudici - il termine biennale, in un caso del genere, non può decorrere dal giorno della morte della donna ma «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», ovvero dal giorno in cui un adulto veniva ufficialmente nominato loro tutore. La Corte di Appello ora deve considerare valida la domanda risarcitoria avanzata nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri a nome dei tre figli di Marianna. Il padre uxoricida è stato condannato a venti anni di reclusione. La aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini, e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo nonostante le sue richieste di aiuto. L’aggressione fatale avvenne alla vigilia della sentenza che doveva affidare i tre bambini alla mamma dopo la separazione. L’omicida accoltellò non solo la donna, ma colpì gravemente anche Salvatore Manduca (59 anni), il padre di Marianna, l’unico uomo che l’ha difesa.

Marianna Manduca, geometra di 32 anni di Pagonia, Catania aveva denunciato suo marito Saverio Nolfo ben 12 volte per percosse e minacce, tutte avvenute in pubblico, ma l'autorità giudiziaria non ha mai preso provvedimenti. Poi 12 coltellate hanno posto fine alla vita della donna, scrive Michele Pinoto su “Vivere Senigallia”. Ora i suoi tre figli, di 3, 5 e 6 anni, sono affidati ad una famiglia senigalliese. La storia di Marianna Manduca ha dell'incredibile. Dopo la separazione dal marito, Saverio Nolfo, 36 anni, tossicodipendente, è iniziato un vero e proprio inferno. Nolfo l'ha picchiata più e più volte, tanto che la donna ha presentato ai carabinieri ben 12 denuncie. Il presidente del tribunale ha in un primo momento affidato i tre figli della coppia al marito,  nonostante fosse nullatenente e tossicodipendente mentre Marianna aveva un lavoro fisso. Dopo una difficile e lunga battaglia legale la donna è riuscita a riprendere i bambini in via temporanea. A pochi giorni dalla sentenza che le avrebbe affidato i figli in via definitiva e le avrebbe quindi permesso di trasferirsi lontano, a Milano dove aveva dei parenti, il marito la tampona con l'auto, per costringerla a fermarsi, poi accoltella il padre della donna ed infine la uccide con 12 coltellate. "Spesso la legge non tutela le donne, ma in questo caso anche quelle previste non sono state applicate - denuncia l'avvocato Corrado Canafoglia - è incredibile che 12 dodici aggressioni avvenute in strada, pubblicamente e alla presenza di testimoni l'uomo non sia stato allontanato. Non appena sarà nominato il nuovo Ministro Guardasigilli chiederemo un ispezione ministeriale per sapere chi non ha svolto il proprio dovere e per intraprendere un'azione giudiziaria". Per rendersi conto dell'incubo vissuto dalla donna possiamo leggere alcune delle sue parole: "Ho riferito circostanze precise in merito all'ultima vile aggressione (non saprei definirla diversamente) perpetrata nei miei confronti culminata addirittura a colpi di sedia. Aggressione, che mi ha costretto ad abbandonare la residenza familiare per evitare ben più gravi conseguenze. In quella occasione i sanitari della guardia medica mi refertarono acchimosi in tutto il corpo. Ancora oggi porto i segni di tale aggressione. Purtroppo però quella non è stata l'unica volta che ho subito violenze. Mi ha sempre minacciato di morte se avessi raccontato a chiunque quello che mi faceva e a causa di ciò ho sempre temuto per la mia incolumità e per quella dei miei figli. Capisco che è difficile, a chi non ha mai vissuto nulla di simile, comprendere tutto ciò, soprattutto comprendere come sia possibile patire tutto e sempre in silenzio, ma avevo molta paura e il clima in cui vivevo era davvero pesante. Non ho mai raccontato prima di ora questi gravissimi episodi solo ed esclusivamente per paura ed anche perché mio marito minacciava ritorsioni contro i miei figli". Dopo l'omicidio Nolfo è stato arrestato ed i tre bambini sono stati affidati a Carmelo Calì, cugino di Marianna e residente a Senigallia. "Quando siamo andati a prendere i bambini, nell'ottobre del 2007, pochi giorni dopo l'omicidio di mia cugina, è stata necessaria la scorta delle forze dell'ordine, tale era il clima a Pagonia. Oggi i bambini stanno bene a casa mia, insieme ai miei due figli. Vorrei ringraziare il Comune di Senigallia per il sostegno: non è facile mantenere 5 figli, in particolare l'assessore Volpini e il dirigente Mandolini". La necessità di una scorta fa pensare che in questa storia non sia estranea la mafia, tanto che Calì ha anche oggi, a Senigallia, ha paura di ritorsioni.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

INNOCENTE PER LEGGE, MA ‘NDRANGHETISTA PER SEMPRE.

Mio marito, ’ndranghetista per sempre. Ma è innocente anche per la legge, scrive Yvone Graf su “Il Garantista".

«Racconto la mia storia, una storia qualunque di malagiustizia, di una vita segnata irrimediabilmente da un marchio posto sulle teste della mia famiglia e mai più rimosso: la ‘ndrangheta. Nel lontano 1991 ho incontrato l’uomo che oggi è mio marito. All’epoca lui era un sorvegliato speciale, doveva ancora scontare 4 anni di sorveglianza per una misura di prevenzione. Li abbiamo scontati insieme. Chi vive con un sorvegliato speciale patisce tutte le limitazioni e le conseguenze che ne derivano: andare tutti i giorni in questura a mettere la firma; non uscire da casa prima del alba e rincasare prima del tramonto; stare tutte le notti pronti a subire un controllo improvviso che può coglierti nel sonno profondo e farti rischiare una denuncia per evasione. Aveva 18 anni mio marito quando fu accusato di appartenere a una cosca della ‘ndrangheta e di essere il super killer di questa cosca. L’avevano accusato di una diecina di omicidi, altrettanti tentati omicidi, sequestri di persona, porto abusivo di armi da guerra e chi più ne ha più ne metta. Fu condannato in primo grado tenuto conto della sua giovane età a 101 anni e 6 mesi di carcere. Dopo i vari gradi di giudizio, nel 1990 fu assolto da tutte le incriminazioni per non aver commesso il fatto ma condannato per associazione a delinquere, art. 416 c.p. – all’epoca dei fatti il reato di associazione mafiosa non era ancora codificato. Mio marito si professava innocente. Le accuse specifiche erano cadute ma era rimasta in piedi quella associativa a salvare il teorema degli inquirenti e una misura di prevenzione, appunto, cinque anni di vigilanza. Condannato senza commettere un reato a tre anni di reclusione; cresciuto e vissuto in un paese dove tutti conoscono tutti e tutti si frequentano, giovani, nelle strade e nelle piazze di paese. Per quel ragazzo che era mio marito fu devastante, fu causa di un grave sbandamento. Era vittima di un’ingiustizia che gli stava distruggendo la giovinezza e la vita. Da detenuto si era ammalato di anoressia ed era stato messo ai arresti domiciliari a causa del suo deperimento organico. Poi mandato al confino nel Lazio, solo e lontano dalla famiglia , affetto da una grave depressione ed in balia di una assoluta incertezza sul suo futuro. Poi una sera, sbandato per come era all’epoca, commise il furto di una macchina e fu arrestato e condannato per questo a 4 mesi di reclusione. Dopo questa carcerazione e dopo di aver scontato la sua sorveglianza, nel dicembre del 1994 decidemmo di lasciare l’Italia e di venire in Svizzera, il mio paese di appartenenza. Speravamo di iniziare una vita serena, di trovarci un lavoro entrambi e di vivere lontano da tutto tranquillamente ma ancora una volta questo ci fu impedito dallo stato italiano. Dopo appena 4 mesi che eravamo in Svizzera siamo venuti a sapere che lui era di nuovo ricercato dalla giustizia italiana. Un pentito lo accusava, per sentito dire, di essere il killer di un duplice omicidio avvenuto nei primi anni 80. In primo grado per queste accuse ha preso una condanna a 26 anni di reclusione. Il pm in appello chiese l’ergastolo. Nel 1998 la polizia svizzera esegue l’arresto di mio marito che nel frattempo era stato inserito nella lista dei 500 latitanti più pericolosi d’Italia su mandato internazionale emesso dall’Italia nonostante da subito ci fossimo opposti all’estradizione. Mio marito si dichiarava un perseguitato dalla giustizia italiana. Intanto mio marito ancora lottava con gli effetti collaterali delle prime ingiustizie subite e le loro conseguenze: attacchi di panico, ansia, depressione maggiore. In quel periodo avviammo le pratiche per poterci sposare. Nel ’96 avevo partorito il mio primo figlio che lui non aveva potuto riconoscere in quanto latitante ed ero incinta al 5 mese, al momento del suo arresto, della mia seconda figlia. Nel dicembre del ’98 ci sposammo nel carcere in svizzera e ai miei figli fu riconosciuta la paternità. Nel febbraio 1999 arrivo l’estradizione e mio marito fu prelevato e portato via dalla Svizzera. Per giorni non sono riuscita a sapere dove l’avevano portato . Poi seppi che era nel carcere a Como. Partii subito e mi accompagnò al carcere un avvocato del posto cui il mio legale aveva chiesto una cortesia. Lo fece malvolentieri precisandomi che non era opportuno per un avvocato stare vicino a chi aveva quel genere di imputazioni. Non trovai mio marito a Como. Era stato trasferito in Calabria. Solo dopo tre settimane dall’estradizione ho potuto fare il primo colloquio con lui: devastante! Mio marito era l’ombra di sé, irriconoscibile, lo sguardo spento, movimenti spaventosamente rallentati, assente e incapace di formulare delle frasi compiute. Non gli somministravano la sua terapia e con delle punture di calmanti lo tenevano in quello stato. A marzo 1999 venne assolto con formula piena per non aver commesso il fatto! Ma non tornò libero subito. Continuavano a tenerlo in virtù di un’accusa fumosa e incomprensibile tanto che la Svizzera rifiutò l’estradizione. Mio marito restava però detenuto. Ho dovuto fare il diavolo a quattro con l’appoggio dell’ambasciatore che richiamava il ministero degli Interni al rispetto dei accordi. Per fortuna sul nostro cammino incontrammo un giudice onesto che dovette intimare la scarcerazione al direttore del carcere avvisandolo che rischiava una denuncia per sequestro di persona e mio marito tornò libero. Sembrava tutto finito, a parte le patologie depressive che ancora affliggono mio marito. Ma le conseguenze di una condanna per associazione sono immortali, ti seguono per sempre. Marchiano una persona e la sua famiglia in modo definitivo, incancellabile. La Svizzera nega a mio marito la cittadinanza in virtù di rapporti segreti e di una pericolosità sociale presunta ineluttabilmente e collegata alla qualifica di ‘ndranghetista. Mio marito non aveva commesso alcun reato ma è ‘ndranghetista per sempre per volontà dello Stato italiano, senza diritto di replica e senza speranza di redenzione. Mafioso da innocente, la sua vita, le nostre vite, proprietà dello stato, per sempre. I nostri figli, mafiosi per discendenza ereditaria e così, da padre in figlio, all’infinito.

LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.

Tortura, dopo 26 anni l’Italia ancora non riconosce il reato, scrive Andrea Oleandri su “Il Garantista”.

10 dicembre 1984. 3 novembre 1988. 10 dicembre 2004. 5 marzo 2014. 27 ottobre 2014. Cosa hanno in comune tra loro queste cinque date? Molto, per chi conosce la storia della mancata introduzione del reato di tortura nel nostro paese.

Era il 10 dicembre 1984 quando l’assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. All’articolo 1 si definiva tortura “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso [...] qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”.

Quasi quattro anni dopo, il 3 novembre 1988, nei prossimi giorni “festeggeremo” il ventiseiesimo anniversario, l’Italia ratificò questa Convenzione ma, in questi ventisei anni, il nostro paese non è stato in grado di dotare il proprio codice penale di questo reato.

Il 10 dicembre del 2004, a vent’anni dall’approvazione della Convenzione da parte dell’Onu, in un carcere italiano, quello di Asti, accadde un fatto che molto c’entra con la tortura o che molto avrebbe potuto averne a che fare. In quel giorno – e nei giorni successivi – due detenuti, protagonisti di un’aggressione ai danni di un agente penitenziario, vengono sottoposti a violenze e umiliazioni a scopo ritorsivo. Il fatto lo riporta Claudio Sarzotti nel n. 3-2013 della rivista di Antigone. “Nell’immediatezza dei fatti i due vengono denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri, nonostante il freddo dovuto alla stagione invernale, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello, razionandogli il cibo, impedendogli di dormire, insultandoli, strappandogli, nel caso di R.C., il codino e, in entrambi i casi, sottoponendoli nei giorni successivi a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo, giungendo anche, almeno per C.A., a schiacciargli la testa con i piedi”. Il processo parte solo nel luglio del 2011 – non per le denunce di altri che nel carcere lavoravano, ma solo per alcune intercettazioni che, inizialmente, nulla avevano a che fare con il caso – e si chiude in Cassazione il 27 luglio 2012. Secondo Riccardo Crucioli, giudice di primo grado “i fatti potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura”. Tuttavia, non essendoci il reato, lo stesso viene derubricato.

Il 5 marzo 2014 il Senato approva un disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Un testo che differisce dalla convenzione Onu in quanto non prevede la tortura come un reato proprio delle forze dell’ordine, ma lo rende generico con una aggravante per chi faccia parte di un corpo dello stato. Una volta approvato l’atto passa alla Camera dei Deputati dove è tutt’ora fermo.

Il 27 ottobre 2014, il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha giudicato l’Italia nell’ambito della Revisione Periodica Universale (UPR). Ancora non sono stati pubblicati i risultati di questa revisione, l’auspicio è, ovviamente, quello di una forte presa di posizione internazionale che spinga, finalmente e con ventisei anni di ritardo, il nostro paese a dotarsi di un reato irrinunciabile per qualsiasi democrazia avanzata.

Papa Francesco contro il Carcere. Sono queste le dure parole, pronunciate lo scorso 23 ottobre 2014 da Papa Francesco, del discorso tenuto da Papa Bergoglio di fronte ai membri dell'Associazione Internazionale di Diritto Penale.

Illustri Signori e Signore!

Vi saluto tutti cordialmente e desidero esprimervi il mio ringraziamento personale per il vostro servizio alla società e il prezioso contributo che rendete allo sviluppo di una giustizia che rispetti la dignità e i diritti della persona umana, senza discriminazioni.

Vorrei condividere con voi alcuni spunti su certe questioni che, pur essendo in parte opinabili – in parte! – toccano direttamente la dignità della persona umana e dunque interpellano la Chiesa nella sua missione di evangelizzazione, di promozione umana, di servizio alla giustizia e alla pace. Lo farò in forma riassuntiva e per capitoli, con uno stile piuttosto espositivo e sintetico.

Introduzione

Prima di tutto vorrei porre due premesse di natura sociologica che riguardano l’incitazione alla vendetta e il populismo penale.

a) Incitazione alla vendetta. Nella mitologia, come nelle società primitive, la folla scopre i poteri malefici delle sue vittime sacrificali, accusati delle disgrazie che colpiscono la comunità. Questa dinamica non è assente nemmeno nelle società moderne. La realtà mostra che l’esistenza di strumenti legali e politici necessari ad affrontare e risolvere conflitti non offre garanzie sufficienti ad evitare che alcuni individui vengano incolpati per i problemi di tutti. La vita in comune, strutturata intorno a comunità organizzate, ha bisogno di regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta adeguata. Tuttavia, viviamo in tempi nei quali, tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge.

b) Populismo penale. In questo contesto, negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale. Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici:figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste.

I. Sistemi penali fuori controllo e la missione dei giuristi. Il principio guida della cautela in poenam. Stando così le cose, il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte. C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative. In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni.

II. Circa il primato della vita e la dignità della persona umana. Primatus principii pro homine

a) Circa la pena di morte. È impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone. San Giovanni Paolo II ha condannato la pena di morte (cfr Lett. enc. Evangelium vitae, 56), come fa anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (N. 2267). Tuttavia, può verificarsi che gli Stati tolgano la vita non solo con la pena di morte e con le guerre, ma anche quando pubblici ufficiali si rifugiano all’ombra delle potestà statali per giustificare i loro crimini. Le cosiddette esecuzioni extragiudiziali o extralegali sono omicidi deliberati commessi da alcuni Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionale della forza per far applicare la legge. In questo modo, anche se tra i 60 Paesi che mantengono la pena di morte, 35 non l’hanno applicata negli ultimi dieci anni, la pena di morte, illegalmente e in diversi gradi, si applica in tutto il pianeta. Le stesse esecuzioni extragiudiziali vengono perpetrate in forma sistematica non solamente dagli Stati della comunità internazionale, ma anche da entità non riconosciute come tali, e rappresentano autentici crimini. Gli argomenti contrari alla pena di morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente sottolineato alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziale e l’uso che ne fanno i regimi totalitari e dittatoriali, che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive legislazioni sono “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta.

b) Sulle condizioni della carcerazione, i carcerati senza condanna e i condannati senza giudizio. – Queste non sono favole: voi lo sapete bene – La carcerazione preventiva – quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso – costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità. Questa situazione è particolarmente grave in alcuni Paesi e regioni del mondo, dove il numero dei detenuti senza condanna supera il 50% del totale. Questo fenomeno contribuisce al deterioramento ancora maggiore delle condizioni detentive, situazione che la costruzione di nuove carceri non riesce mai a risolvere, dal momento che ogni nuovo carcere esaurisce la sua capienza già prima di essere inaugurato. Inoltre è causa di un uso indebito di stazioni di polizia e militari come luoghi di detenzione. Il problema dei detenuti senza condanna va affrontato con la debita cautela, dal momento che si corre il rischio di creare un altro problema tanto grave quanto il primo se non peggiore: quello dei reclusi senza giudizio, condannati senza che si rispettino le regole del processo. Le deplorevoli condizioni detentive che si verificano in diverse parti del pianeta, costituiscono spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale, altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non sono altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà.

c) Sulla tortura e altre misure e pene crudeli, inumane e degradanti. – L’aggettivo “crudele”; sotto queste figure che ho menzionato, c’è sempre quella radice: la capacità umana di crudeltà. Quella è una passione, una vera passione! – Una forma di tortura è a volte quella che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza. Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti, la sua principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno. Come dimostrano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio. Questo fenomeno, caratteristico delle carceri di massima sicurezza, si verifica anche in altri generi di penitenziari, insieme ad altre forme di tortura fisica e psichica la cui pratica si è diffusa. Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione – pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale – ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena. La stessa dottrina penale ha un’importante responsabilità in questo, con l’aver consentito in certi casi la legittimazione della tortura a certi presupposti, aprendo la via ad ulteriori e più estesi abusi. Molti Stati sono anche responsabili per aver praticato o tollerato il sequestro di persona nel proprio territorio, incluso quello di cittadini dei loro rispettivi Paesi, o per aver autorizzato l’uso del loro spazio aereo per un trasporto illegale verso centri di detenzione in cui si pratica la tortura. Questi abusi si potranno fermare unicamente con il fermo impegno della comunità internazionale a riconoscere il primato del principio pro homine, vale a dire della dignità della persona umana sopra ogni cosa.

d) Sull’applicazione delle sanzioni penali a bambini e vecchi e nei confronti di altre persone specialmente vulnerabili. Gli Stati devono astenersi dal castigare penalmente i bambini, che ancora non hanno completato il loro sviluppo verso la maturità e per tale motivo non possono essere imputabili. Essi invece devono essere i destinatari di tutti i privilegi che lo Stato è in grado di offrire, tanto per quanto riguarda politiche di inclusione quanto per pratiche orientate a far crescere in loro il rispetto per la vita e per i diritti degli altri. Gli anziani, per parte loro, sono coloro che a partire dai propri errori possono offrire insegnamenti al resto della società. Non si apprende unicamente dalle virtù dei santi, ma anche dalle mancanze e dagli errori dei peccatori e, tra di essi, di coloro che, per qualsiasi ragione, siano caduti e abbiano commesso delitti. Inoltre, ragioni umanitarie impongono che, come si deve escludere o limitare il castigo di chi patisce infermità gravi o terminali, di donne incinte, di persone handicappate, di madri e padri che siano gli unici responsabili di minori o di disabili, così trattamenti particolari meritano gli adulti ormai avanzati in età.

III. Considerazioni su alcune forme di criminalità che ledono gravemente la dignità della persona e il bene comune. Alcune forme di criminalità, perpetrate da privati, ledono gravemente la dignità delle persone e il bene comune. Molte di tali forme di criminalità non potrebbero mai essere commesse senza la complicità, attiva od omissiva, delle pubbliche autorità.

a) Sul delitto della tratta delle persone. La schiavitù, inclusa la tratta delle persone, è riconosciuta come crimine contro l’umanità e come crimine di guerra, tanto dal diritto internazionale quanto da molte legislazioni nazionali. E’ un reato di lesa umanità. E, dal momento che non è possibile commettere un delitto tanto complesso come la tratta delle persone senza la complicità, con azione od omissione, degli Stati, è evidente che, quando gli sforzi per prevenire e combattere questo fenomeno non sono sufficienti, siamo di nuovo davanti ad un crimine contro l’umanità. Più ancora, se accade che chi è preposto a proteggere le persone e garantire la loro libertà, invece si rende complice di coloro che praticano il commercio di esseri umani, allora, in tali casi, gli Stati sono responsabili davanti ai loro cittadini e di fronte alla comunità internazionale. Si può parlare di un miliardo di persone intrappolate nella povertà assoluta. Un miliardo e mezzo non hanno accesso ai servizi igienici, all’acqua potabile, all’elettricità, all’educazione elementare o al sistema sanitario e devono sopportare privazioni economiche incompatibili con una vita degna (2014 Human Development Report, UNPD). Anche se il numero totale di persone in questa situazione è diminuito in questi ultimi anni, si è incrementata la loro vulnerabilità, a causa delle accresciute difficoltà che devono affrontare per uscire da tale situazione. Ciò è dovuto alla sempre crescente quantità di persone che vivono in Paesi in conflitto. Quarantacinque milioni di persone sono state costrette a fuggire a causa di situazioni di violenza o persecuzione solo nel 2012; di queste, quindici milioni sono rifugiati, la cifra più alta in diciotto anni. Il 70% di queste persone sono donne. Inoltre, si stima che nel mondo, sette su dieci tra coloro che muoiono di fame, sono donne e bambine (Fondo delle Nazioni Unite per le Donne, UNIFEM).

b) Circa il delitto di corruzione. La scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile a causa della connivenza di responsabili della cosa pubblica con i poteri forti. La corruzione è essa stessa anche un processo di morte: quando la vita muore, c’è corruzione. Ci sono poche cose più difficili che aprire una breccia in un cuore corrotto: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,21). Quando la situazione personale del corrotto diventa complicata, egli conosce tutte le scappatoie per sfuggirvi come fece l’amministratore disonesto del Vangelo (cfr Lc 16,1-8). Il corrotto attraversa la vita con le scorciatoie dell’opportunismo, con l’aria di chi dice: “Non sono stato io”, arrivando a interiorizzare la sua maschera di uomo onesto. E’ un processo di interiorizzazione. Il corrotto non può accettare la critica, squalifica chi la fa, cerca di sminuire qualsiasi autorità morale che possa metterlo in discussione, non valorizza gli altri e attacca con l’insulto chiunque pensa in modo diverso. Se i rapporti di forza lo permettono, perseguita chiunque lo contraddica. La corruzione si esprime in un’atmosfera di trionfalismo perché il corrotto si crede un vincitore. In quell’ambiente si pavoneggia per sminuire gli altri. Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità e l’inimicizia. Il corrotto non percepisce la sua corruzione. Accade un po’ quello che succede con l’alito cattivo: difficilmente chi lo ha se ne accorge; sono gli altri ad accorgersene e glielo devono dire. Per tale motivo difficilmente il corrotto potrà uscire dal suo stato per interno rimorso della coscienza. La corruzione è un male più grande del peccato. Più che perdonato, questo male deve essere curato. La corruzione è diventata naturale, al punto da arrivare a costituire uno stato personale e sociale legato al costume, una pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla discrezione onorevole. Tuttavia, il Signore non si stanca di bussare alle porte dei corrotti. La corruzione non può nulla contro la speranza. Che cosa può fare il diritto penale contro la corruzione? Sono ormai molte le convenzioni e i trattati internazionali in materia e hanno proliferato le ipotesi di reato orientate a proteggere non tanto i cittadini, che in definitiva sono le vittime ultime – in particolare i più vulnerabili – quanto a proteggere gli interessi degli operatori dei mercati economici e finanziari. La sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare. Le forme di corruzione che bisogna perseguire con la maggior severità sono quelle che causano gravi danni sociali, sia in materia economica e sociale – come per esempio gravi frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione – come in qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per le proprie malefatte o per quelle di terzi.

Conclusione. La cautela nell’applicazione della pena dev’essere il principio che regge i sistemi penali, e la piena vigenza e operatività del principio pro homine deve garantire che gli Stati non vengano abilitati, giuridicamente o in via di fatto, a subordinare il rispetto della dignità della persona umana a qualsiasi altra finalità, anche quando si riesca a raggiungere una qualche sorta di utilità sociale. Il rispetto della dignità umana non solo deve operare come limite all’arbitrarietà e agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona umana. Cari amici, vi ringrazio nuovamente per questo incontro, e vi assicuro che continuerò ad essere vicino al vostro impegnativo lavoro al servizio dell’uomo nel campo della giustizia. Non c’è dubbio che, per quanti tra voi sono chiamati a vivere la vocazione cristiana del proprio Battesimo, questo è un campo privilegiato di animazione evangelica del mondo. Per tutti, anche quelli tra voi che non sono cristiani, in ogni caso, c’è bisogno dell’aiuto di Dio, fonte di ogni ragione e giustizia. Invoco pertanto per ciascuno di voi, con l’intercessione della Vergine Madre, la luce e la forza dello Spirito Santo. Vi benedico di cuore e per favore, vi chiedo di pregare per me. Grazie.

Decreto Legge Carceri, 8 euro ai detenuti mentre si muore di carcere, scrive Cristina Amoroso su “Il Faro sul mondo”. Altri due detenuti suicidi nei giorni in cui la Camera si apprestava a discutere il decreto legge sulle carceri. Il primo a Padova, un detenuto di 44 anni trovato morto nella cella di un carcere in emergenza nazionale; il secondo a Trento, un detenuto di 32 anni suicida in quello che è considerato un carcere modello. Intanto il decreto legge sulle carceri è approvato in prima lettura alla Camera con 305 sì, 110 no e 30 astenuti. Il decreto completa il “Pacchetto normativo” già approvato nei mesi scorsi in risposta alla sentenza “Torreggiani” della corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condannato l’Italia per la situazione delle carceri. Sentenza scaturita dall’esposto avanzato da Torreggiani ed altri quattromila detenuti per sovraffollamento delle strutture carcerarie tale da determinare un trattamento disumano. Essendo una sentenza pilota, l’Italia aveva un anno di tempo per evitare che la situazione persistesse nel sistema penitenziario. Il provvedimento, che prevede un risarcimento giornaliero in denaro oppure uno sconto di pena ai detenuti che si trovano in condizioni degradanti ed umilianti ed abbiano quindi subito una violazione dei diritti umani, passa ora al Senato. Nel dettaglio, se la pena è ancora da espiare è previsto un abbuono di un giorno ogni dieci passati in celle sovraffollate. Qualora lo sconto di pena non è applicabile interviene il risarcimento in denaro pari ad otto euro giornalieri da consegnare ai detenuti già usciti dal carcere, per cui sono stati previsti 20,3 milioni di euro fino al 2016. Resta difficile non considerare il provvedimento uno “svuotarceri”, destinato a favorire anche mafiosi, nella convinzione dell’assoluta priorità di altri provvedimenti, come il reddito di cittadinanza o l’abolizione di Equitalia, come hanno dichiarato alcuni parlamentari, mentre con il contentino in denaro o lo sconto di qualche giorno non si affronta il problema reale delle carceri italiane: il disumano sovraffollamento in cui i detenuti vivono. Con otto euro passa la paura o passa la tortura? Intanto nel giro di una settimana l’Italia ha riportato altre due condanne. Entrambe dinanzi alla Corte europea dei diritti umani: una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia). Entrambe a conferma della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 della Convenzione). Esse ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in Stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni e molte storie rimangono soltanto dei numeri. Perché i detenuti non rimangono semplici nomi ha provveduto il Dossier 2000-2014, “Morire di carcere”, aggiornato fino al 25 luglio, ad opera di Ristretti Orizzonti, che ha evidenziato i casi di suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose, elencando i detenuti morti dal 2002 al 2014: per cognome, età, data e luogo del decesso. I morti totali nelle carceri dal 2000 al 2014 sono stati 2320, di cui 825 suicidi, nel 2014 i morti in carcere sono stati 82, di cui 24 suicidi. Il dossier “Morire di carcere” rappresenta un contributo importante per far conoscere all’opinione pubblica le reali condizioni del carcere, a cominciare dallo stato di difficoltà e, a volte, di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria. La parte principale del dossier è costituita dalle storie (alcune di poche righe, altre di una pagina) dei detenuti morti nelle carceri italiane, per suicidio, per malattia, per overdose, per “cause non accertate”, riuscendo a restituire un’identità a centinaia di loro, togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli “eventi critici”. Per altrettante persone, morte in carcere, non c’è stato modo di sapere nulla nonostante la rassegna stampa (che ha fatto da base per l’indagine) contenesse notizie tratte da tutti i principali quotidiani nazionali e da molti giornali locali: la conclusione più logica è che, ogni due detenuti che muoiono, uno passa “inosservato”, si legge nella presentazione del Dossier.

Carceri affollate, risarcimento ai detenuti. Così l'Italia prova a salvarsi dai ricorsi. La Camera ha stabilito per ogni recluso che ha vissuto in uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati un indennizzo di 8 euro al giorno o uno sconto di pena. Una decisione per evitare sanzioni dalla Corte europea, che ha spesso richiamato l'Italia. Soddisfatte le associazioni per i diritti, protestano Lega e Movimento 5 Stelle, scrive Federico Formica su “L’Espresso”. L'Italia ci mette una pezza. E per evitare guai peggiori, garantirà un risarcimento in denaro o uno sconto di pena ai detenuti costretti a vivere in situazioni di sovraffollamento talmente gravi da ledere l'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo, secondo il quale “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Camera dei deputati ha infatti approvato con 305 voti favorevoli, 110 contrari e 30 astensioni il “decreto Carceri”, che ora dovrà passare al vaglio del Senato. È un testo destinato a lasciare il segno, dal valore simbolico - e non solo - molto forte. Cosa cambia. Il principio stabilito dal decreto legge è chiaro: chi vive o ha vissuto in condizioni inumane o degradanti nelle nostre carceri, deve essere risarcito in qualche modo. Il testo prevede due strade:

Risarcimento di 8 euro per ogni giorno trascorso in carcere in violazione dell'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo;

Lo sconto di un giorno di pena residua per ogni dieci vissuti, appunto, nelle condizioni già citate.

Il risarcimento in denaro verrà riconosciuto a chi è già uscito dal carcere oppure ai detenuti la cui pena residua è talmente breve che i giorni di “abbuono” sarebbero superiori rispetto a quelli da scontare. Oppure, ancora, a chi ha vissuto in condizioni “inumane o degradanti” per meno di quindici giorni. Lo sconto di pena invece si applicherà a chi è ancora ristretto - nelle condizioni già citate - nelle carceri del nostro Paese. Intendiamoci, il Parlamento italiano non ha scoperto tutto d'un tratto la solidarietà verso i detenuti. Con questo decreto, il nostro Paese cerca infatti di evitare una pioggia di risarcimenti di entità imprevedibile, visto che oltre 6000 detenuti hanno già presentato ricorso alla Corte europea per violazione dell'articolo 3. Non è difficile prevedere l'esito di questi procedimenti, visto che il precedente è già stato fissato dalla sentenza Torreggiani, dal nome di un ex detenuto nel carcere di Busto Arsizio che si rivolse alla Corte Ue. L'8 gennaio 2013, infatti, la Corte ha certificato che il nostro sistema carcerario non solo funziona male, ma lede i diritti più elementari degli esseri umani. Tra i quali, appunto, quelli stabiliti dall'articolo 3. Come conseguenza, i giudici hanno dato all'Italia un anno di tempo per mettere la famosa “pezza”. Cioè per approvare una legge che prevedesse compensazioni e garantisse “una riparazione effettiva” per le violazioni della Convenzione. “Il decreto legge appena approvato a Montecitorio non è una sorpresa, visto che era una procedura obbligata. Ma è sicuramente una buona notizia, nel nome della dignità e del rispetto dei diritti” è il commento di Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone. Il fondo per i risarcimenti ammonterà a 20,3 milioni di euro fino al 2016. Una cifra che potrebbe sembrare piuttosto esigua. Secondo Gonnella, però, “è un calcolo tutto sommato esatto. Teniamo presente infatti che dal gennaio 2013 a oggi il numero dei detenuti è calato da 66.000 a 58.000. I detenuti reclusi in meno di tre metri quadrati sono, al momento, poche decine. La ratio del decreto è quella di risarcire chi, in passato, ha vissuto in quelle condizioni”. Il riferimento ai 3 metri quadrati non è casuale. Nel 2009, infatti, un'altra sentenza della corte europea dei diritti dell'uomo - che tra gli addetti ai lavori è nota come “sentenza Sulejmanovic” - accertò che il detenuto bosniaco che aveva fatto ricorso, Izet Sulejmanovic, era stato recluso in uno spazio di 2,7 metri quadri in una cella del carcere di Rebibbia. Una condizione che violava l'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo. Il Comitato per la prevenzione della tortura ha infatti fissato lo spazio minimo in 7 metri quadri. Il calcolo fu piuttosto semplice: Sulejmanovic - che ottenne un indennizzo di 1000 euro - aveva condiviso una cella da 16,20 metri quadri insieme ad altre cinque persone. Di qui l'assunto: nel momento in cui lo Stato obbliga un detenuto a vivere in meno di tre metri quadrati, gli infligge un trattamento “disumano e degradante”. Stabilita l'entità dei risarcimenti, bisognerà capire in quali casi concederli e in quali no. Insomma, capire di caso in caso quand'è che le condizioni di un detenuto violano la Convenzione. “Il principio finalmente è passato: lo Stato riconosce che una situazione di sovraffollamento grave esiste. In passato era stato messo in dubbio persino questo. Ora è tutta una questione di interpretazione” spiega Alessandro Stomeo, avvocato di Lecce che da anni si occupa di diritti dei detenuti. “I magistrati si rifaranno ai parametri della sentenza Sulejmanovic oppure no? E se il detenuto, pur avendo vissuto in meno di tre metri quadrati, ha comunque passato diverse ore al di fuori della cella, magari perché il direttore della struttura ha consentito il regime delle sezioni aperte, cosa accadrà? In quel caso, dubito che possa essere riconosciuto il risarcimento”. Il regime delle sezioni aperte consente ai detenuti meno pericolosi di muoversi liberamente all'interno di un braccio del carcere, in orari prestabiliti. Alessandro Stomeo non è un avvocato qualunque. Nel 2011 il legale salentino vinse una causa storica che, in un certo senso, anticipò di tre anni il decreto carceri ora al vaglio di palazzo Madama. Stomeo riuscì infatti a fare ottenere al suo assistito, un ex detenuto tunisino che era stato recluso nel carcere di Lecce, un risarcimento di 220 euro per le “lesioni alla dignità umana” patite in un mese di reclusione. A differenza del caso Sulejmanovic la sentenza di Lecce proveniva da un magistrato di sorveglianza italiano e non dalla corte europea. Altre novità. Il decreto carceri ha stabilito anche un aumento del personale di Polizia penitenziaria di 204 unità. La differenza tra i 703 ispettori e vice ispettori in meno e i 907 tra agenti e assistenti in più. “I sindacati di Polizia saranno sicuramente soddisfatti, tuttavia le lacune sono altrove: mancano psicologi, educatori,assistenti sociali, magistrati di sorveglianza - ammonisce Patrizio Gonnella - e proprio le recenti leggi approvate attribuiscono ulteriori compiti e una maggiore mole di lavoro sia ad assistenti sociali che ai magistrati di sorveglianza”. Il decreto appena approvato, infatti, attribuisce a questi ultimi il potere di risarcire i detenuti, mentre un'altra legge, passata nell'aprile scorso, consente agli imputati di chiedere la sospensione del processo in cambio di un periodo di lavori di pubblica utilità. Con l'affidamento, appunto, ai servizi sociali. Dopo l'approvazione del decreto, da Lega Nord e Cinque Stelle sono piovute critiche. I grillini hanno parlato di “indulto mascherato” mentre secondo il leghista Nicola Molteni “un Paese che dà la paghetta ai criminali non è un paese né normale, né civile”. “Chi parla di indulto oggi è in malafede - risponde Patrizio Gonnella di Antigone - il decreto approvato in questi giorni è un tentativo di rimediare (con i soldi di tutti gli italiani) al disastro prodotto da leggi che hanno stipato le nostre carceri all'inverosimile. Curioso che molte critiche partano proprio da chi quelle leggi le promosse e le approvò”.

Risarcimenti: 8 euro per torturarti, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Dopo la “pena sospesa” da parte della Corte Europea che, in data 28 maggio ha riconosciuto i buoni propositi dell’Italia e le ha concesso una proroga per sanare la situazione di drammatica afflizione che vivono i detenuti nelle nostre carceri, il governo Renzi partorisce un decreto: risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Un giorno di tortura, dunque, vale 8 euro. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10 %. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più fino a 21, così ritardando l’ingresso dei non più “minori” nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. Il decreto guarderebbe anche ai problemi di gestione, anch’essi derivanti da un numero di detenuti sempre in esubero rispetto agli istituti penitenziari, da parte della polizia penitenziaria, attraverso provvedimenti tesi ad aumentare la consistenza dell’organico. Un provvedimento certamente insufficiente ed inadeguato che creerà e sta già creando ulteriori momenti di tensione nelle note aree forcaiole che hanno gridato il loro sdegno per il precedente decreto, inopinatamente definito “svuota carceri”, che, nella sua originaria formulazione, in aderenza al dettato costituzionale, estendeva anche ai reati di mafia e a tutti quelli inclusi nel famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la propria valenza risarcitoria per una carcerazione inumana e degradante, prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. La legge di conversione ha stabilito che i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come “più gravi” dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono un po’ meno persone degli altri, che per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi!!! E, dunque, attendiamo le reazioni. Non possiamo però non osservare che se il governo avesse emanato provvedimenti di immediata concretezza deflattiva, non avrebbe dovuto oggi “sbloccare fondi” utili ad uscire dall’emergenza, per erogare l’elemosina degli otto euro, e per salvare dal collasso la polizia penitenziaria, fondi che in qualche modo saremo tutti chiamati a reintegrare. Il grido di amnistia e di indulto fatto proprio dal Papa e dal Presidente della Repubblica rimane inascoltato, la situazione rimane drammatica. Intanto, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece – lo stesso che affermava riguardo alla morte di Stefano Cucchi: “ i nostri colleghi che lavorano nelle camere di sicurezza del tribunale, sono persone tranquille e al di sopra di ogni sospetto” – così commenta il provvedimento sui risarcimenti ai detenuti deciso dal Consiglio dei Ministri: «Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate». E ancora: «a noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infrante e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca e mi auguro che il Capo dello Stato ed il Parlamento rivedano questa norma assurda, tanto più se si considerano quanti milioni di famiglie italiane affrontano da tempo con difficoltà la grave crisi economica che ha colpito il Paese».

La giustizia è ingiusta, scrive Giuseppe Rossodivita su “Il Tempo”. Dopo la condanna dei giudici di Strasburgo con la «sentenza Torreggiani» - ai quali occorrerà fornire risposte entro il prossimo 28 maggio - arriva anche quella dei parlamentari europei giunti in Italia per vedere con i loro occhi le condizioni delle nostre carceri. Peggio di noi solo Serbia e Grecia, scrivono nel rapporto i membri della Commissione Libertà Civili preoccupatissimi, come i giudici di Strasburgo, per l’abuso della detenzione preventiva, che è patologia del processo penale nostrano. Nei fatti è una vera e propria pena anticipata in assenza di condanna, la custodia cautelare in Italia, che pesa circa il 40% delle presenze in carcere. La metà di questo 40% sarà poi assolto, dicono le statistiche del Ministero della Giustizia e le decine di milioni di euro per risarcire le migliaia di ingiuste detenzioni sono prelevate dalle nostre tasse, giammai dalle tasche dei giudici che sbagliano con così tanta preoccupante frequenza. In realtà il carcere disumano e degradante italiano non è altro che il dietro le quinte di uno spettacolo quotidiano osceno: quello dello sfascio del sistema giustizia. Oggi sarà decisa la sorte di Berlusconi, affidamento ai servizi sociali o detenzione domiciliare, condannato eccellente che per vent’anni ha parlato di riforma della giustizia senza però mai muovere un dito.

Giudici che sbagliano e celle-loculi. In un anno quasi nulla è cambiato, scrive Maurizio Gallo su “Il Tempo”. Innocenti dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei giudici. I primi spesso orfani di risarcimento dopo l’ingiustizia subita. I secondi impuniti nella maggior parte dei casi, malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. E comunque tutti, vittime del sistema giudiziario e «sicuri» colpevoli, costretti a subire la stessa barbara sorte in carceri sovraffollate, in celle che assomigliano a loculi. Era il quadro che abbiamo dipinto oltre un anno fa sulle colonne de «Il Tempo». Sono trascorsi tredici mesi. Poco o nulla è cambiato. Il ddl sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione di Anm (l’associazione delle toghe) e Csm (il loro organo di autogoverno). E le patrie galere? Sono sempre strapiene, anche se un po’ meno. In realtà il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà. Inoltre stabilisce che venga eliminato il «filtro» in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l’ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Nel 2013 scrivemmo che, negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo. Ma, considerando che le domande rigettate si aggiravano su due terzi del totale, si arrivava per difetto a circa 50 mila, 50 mila innocenti in galera, appunto. Il tutto per una spesa pubblica di circa 600 milioni di euro. Facendo un paragone fra l’anno scorso e quello in corso, sembrerebbe che i giudici sbaglino meno. Se, infatti, nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni erano stati 1368 e per gli errori giudiziari 25, nei primi dieci mesi del 2014 siamo a 431 ingiuste detenzioni e a 9 errori (fonte il sito «Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. Ma la statistica inganna, come insegna Trilussa. E anche in questo caso la parola magica è «ammissibilità»: dal ministero dell’Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l’ammissibilità della domanda di risarcimento. Non ci sono meno errori, ci sono meno soldi per le vittime degli errori e più richieste gettate nel cestino. Il 28 maggio 2014 è scaduto l’«ultimatum» della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. Noi siamo corsi ai ripari con provvedimenti come il decreto «svuota carceri», il perfezionamento di accordi e procedure per l’espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. E siamo stati promossi. Per ora. Ma non del tutto a ragione. Al 31 luglio 2013 dietro le sbarre c’erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Ma i radicali, da sempre impegnati sul fronte carceri, spiegano che dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43 mila posti. Insomma, se dodici mesi orsono, prima della verifica Ue, eravamo fuorilegge per 17.414 detenuti in più, adesso lo siamo «solo» per 4.848. Una bella consolazione. Ma non basta. Grazie alla possibilità che i carcerati hanno di uscire dalla cella oltre che per la classica ora d’aria e a causa dello scarso numero dei sorveglianti, sono aumentate le aggressioni agli agenti della penitenziaria: per il sindacato Sappe, del 70 per cento da quando c’è questa «vigilanza dinamica». E sono aumentati i suicidi degli agenti, che sono già 10 contro gli 8 di tutto il 2013. Quelli dei detenuti sono scesi ma soprattutto per il calo della popolazione carceraria. E anche lo sfruttamento dei 2000 «braccialetti elettronici», prima non impiegati, non ha risolto il problema, poiché per il Sappe ne occorrerebbero almeno il triplo. Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti il 14 ottobre ha rivolto al Governo un’interrogazione con cui segnalava che «alcuni magistrati di sorveglianza» stanno «rigettando» le richieste di risarcimento dei detenuti ristretti in condizioni che violavano l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, quello utilizzata dalla Corte Ue per bacchettarci. Anche in questo caso, il motivo è «una ritenuta inammissibilità dei reclami» per le detenzioni pregresse» o quelle che «si protraggono in diversi istituti». Insomma, il detenuto deve sperare che la richiesta arrivi al magistrato prima del suo trasferimento in un’altra prigione e, nel secondo caso, dovrebbe adire al giudice civile». Cosa, quest’ultima, praticamente impossibile nelle sue condizioni. Giachetti, poi, fa notare che la Corte non faceva solo riferimento allo spazio a disposizione dei carcerati, ma anche alla «possibilità di usare i servizi igienici in modo riservato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce naturale e all’aria, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base». Un altro punto, infine, è se la superficie «vitale» (3 metri quadri) debba o meno comprendere gli arredi. E il Governo che ha risposto? Non ha risposto.

Niente responsabilità del magistrato, il calvario dei risarcimenti, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Tempo di bilanci, delle mille promesse, delle mille assicurazioni, e dopo la quantità di battimani per la presa di posizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, giunto a inviare un solenne messaggio alle Camere, il suo primo e unico messaggio, dopo le clamorose sentenze della Corte Costituzionale e delle giurisdizioni nazionali e internazionali; e dopo la clamorosa denuncia di papa Francesco che ha raccolto l’appello di Marco Pannella sulle carceri e levato la sua voce contro l’ergastolo, in concreto cos’è cambiato? Purtroppo poco o nulla. Innocenti continuano a languire dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei magistrati; per ulteriore beffa raramente vengono risarciti per il danno subito. I magistrati, a loro volta, quasi sempre se la cavano, nella maggior parte dei casi restano impuniti, e questo malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. Andiamo per punti: il disegno di legge sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione dell’Associazione Nazionale dei Magistrati e del Consiglio Superiore della Magistratura. Il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà dello stipendio. Inoltre stabilisce che venga eliminato il "filtro" in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l'ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo; ma vanno considerate anche le domande rigettate: circa i due terzi del totale; arriviamo così, per approssimazione a circa 50 mila persone innocenti che per qualche tempo hanno soggiornato in carcere. Non consideriamo i danni fisici e psicologici, irrisarcibili e impagabili. Consideriamo solo i costi “vivi” del tenere un detenuto in carcere. Quei 50 mila sono costati alle tasche del contribuente almeno 600 milioni di euro. Tanto sono costati quei 50 mila detenuti innocenti. Compariamo altri dati. Nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni sono state 1.368, e per gli errori giudiziari 25; nei primi dieci mesi del 2014 le ingiuste detenzioni sono state 431 e nove gli errori (la fonte è il sito "Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. C’è una spiegazione: dal ministero dell'Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l'ammissibilità della domanda di risarcimento. Quindi non è che si sbaglia di meno, è che ci sono meno fondi per le vittime degli errori, e di conseguenza più richieste rigettate. Passiamo al sovraffollamento delle carceri. Nel maggio scorso è scaduto l'ultimatum della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. L’Italia ci ha messo una toppa con provvedimenti come il decreto "svuota carceri", il perfezionamento di accordi e procedure per l'espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. A Strasburgo hanno chiuso un occhio. Per ora. Ma dietro le sbarre c'erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Obietta la segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini, che da sempre segue le vicende della giustizia ed è unanimemente considerata un’autorità in materia, ci spiega che “dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6.000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43mila posti”. Se un anno fa, prima della verifica UE, l’Italia era fuorilegge per 17.414 detenuti in più, lo è "solo" per 4.848; e proseguono i suicidi tra i detenuti e, anche,  degli agenti di custodia: quest’anno già dieci (nel 2013 furono otto). Torniamo alla questione dei risarcimenti per ingiusta detenzione. La procedura è lenta, farraginosa; la dimostrazione di quanto la burocrazia possa essere insensata. Il diritto al risarcimento, secondo elementare logica, nasce da un danno subito ingiustamente, in questo caso la privazione della libertà. Una volta accertato che il cittadino è innocente, il risarcimento dovrebbe essere automatico. Diventa invece un calvario di burocrazia e di ostacoli che appaiono frapposti ad arte: la richiesta deve essere presentata nella sezione di appello preposta, due fascicoli, ciascuno con indice, tre copie dell'istanza, una serie impressionante di allegazioni. La persona che ha patito la carcerazione ingiusta deve rintracciare il fascicolo dibattimentale e quello del pubblico ministero ed estrapolare dal loro interno copie, alcune in forma autentica, dì atti dibattimentali e predibattimentali. Spesso si tratta di processi corposi con molti imputati e mentre l'assoluzione dell'istante diviene definitiva, altri imputati condannati propongono impugnazione. Il fascicolo si sposta. Altra cancelleria. Alcuni atti vanno in archivio,spesso si tratta di numerosi faldoni. Quando il richiedente cerca i documenti necessari, il primo sbarramento è dato proprio dalla ricerca del materiale. Il viaggio inizia nella cancelleria di origine e si snoda per archivi e uffici sotterranei alla ricerca degli atti da allegare. Poi, una volta trovati bisogna chiedere che i fascicoli vengano inviati all'ufficio addetto al rilascio copie. Il personale spesso è carente, quindi occorrono giorni per soddisfare la richiesta. Quando finalmente tutti i documenti sono all'ufficio copie, spillati e catalogati, ciascuno nel suo faldone impaginato il richiedente può compilare la richiesta copie. Quando poi finalmente il materiale necessario è raccolto, naturalmente corredato dall’istanza di risarcimento, i fascicoli ordinari e completi di indice, allora non resta che incrociare le dita e toccare ferro e tutto il toccabile. Bisogna attendere che l‘udienza sia fissata, e sperare che il risarcimento sia riconosciuto.

Per gli errori dei magistrati spesi 600 milioni in 20 anni. Prime Palermo e Catanzaro, scrive Dino Martirano su “Il Corriere della Sera”. Oltre ventiduemila risarcimenti. Perugia la più virtuosa. La cifra media pagata è di 6-700 euro al giorno. L'anno peggiore è stato il 2011. Nel 1983 la lettera di Tortora che soffriva l'errore giudiziario sollevò il caso. Il 17 giugno del 1983, quando venne arrestato su richiesta dei pm di Napoli con accuse pesantissime poi liquefatte come neve al sole, Enzo Tortora non immaginava nemmeno cosa fosse l'inferno del carcere preventivo: «La stregonesca e medioevale iniquità del rito giustizia in ferie come una rivendita di gelati, scriveva ad un amico il presentatore tv nel torrido agosto di quell'estate, mentre la spazzatura umana è lasciata fermentare nei bidoni di ferro delle carceri... Sventurati non interrogati e, come me, innocenti... Fate qualcosa, vi prego...».Quella lettera, scritta su un foglio a righe color paglierino, oggi campeggia nell'ufficio del vice ministro della Giustizia, Enrico Costa (Ncd), che la conserva incorniciata perché Tortora la spedì a suo padre, Raffaele Costa, sottosegretario e ministro negli anni 80. Da quel pezzo di carta, per il giovane vice ministro, è nata la curiosità di capire con le cifre cosa sia successo in questi 30 anni: il caso Tortora, conclusosi con un'assoluzione piena, generò, un anno prima della morte del presentatore, il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (1987), il nuovo codice di procedura penale (1988) che introdusse la riparazione per ingiusta detenzione e la legge Carotti (1999) che ha portato da 100 milioni a 516 mila euro il tetto del risarcimento. Negli ultimi 20 anni, i fascicoli R.I.D. (Riparazione per ingiusta detenzione) liquidati dal ministero dell'Economia sono 22.689 per un totale di 567 milioni 744 mila 479 euro e 12 centesimi. I risarcimenti (le richieste fino ad oggi sono state 32.998) sono andati a chi è stato sottoposto a custodia cautelare e poi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile. Ma i soldi sono andati anche a chi ha subito una ingiustizia formale a causa dell'applicazione illegittima della custodia in carcere a prescindere dalla successiva sentenza di assoluzione. Nella geografia delle procure e degli uffici Gip che sono costati di più in termini di risarcimenti spicca la piccola Catanzaro: nei primi sei mesi del 2014 ha prodotto 65 fascicoli R.I.D. liquidati per 2 milioni 303 mila 163 euro. La cifra media dei risarcimenti è di 6-700 euro al giorno. Per cui a Palermo (i reati di mafia prevedono una custodia cautelare più lunga e, dunque, risarcimenti più pesanti), i 35 casi di ingiusta detenzione hanno inciso solo quest'anno per 2 milioni 790 mila 476 euro. Mentre a Napoli, sempre nel 2014, i risarciti sono stati 48 per un totale di oltre un milione e 200 mila euro. Virtuose,anche perché piccole, le corti d'Appello di Perugia (2 casi, circa 12 mila euro) e di Trento (1 caso, circa 27 mila euro). Si tratta, spiega Costa, «di cifre importanti ma fredde: sono numeri che non raccontano le storie umane e i drammi di chi ha dovuto conoscere il carcere a causa dell'errore, o quanto meno della superficialità, di un pm o di un gip». Oggi i magistrati del caso Tortora, gli ex pm Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, l'ex giudice istruttore Giorgio Fontana, non sono degli sconosciuti «ma tutti gli altri magistrati che fine hanno fatto?», è la domanda provocatoria di Costa: «Proporrò che venga avviata una commissione ministeriale per monitorare gli errori e le leggerezze che sono all'origine dei risarcimenti». È certo che questa proposta, nei giorni in cui alla Camera sono calendarizzate le regole più stingenti sulla custodia cautelare e al Senato si affronta la responsabilità civile dei magistrati, rischia di aprire più di qualche crepa tra Ncd e Pd.

Modifiche alla Legge Pinto: oltre al danno, la beffa! Il Dl Sviluppo cambia la Legge Pinto: procedure più snelle, parametri fissi ma eccessiva discrezionalità decisoria del giudice, scrive Lucia Polizzi su “Leggi Oggi”. Il Decreto- legge n. 83 del 22 giugno 2012, convertito in legge n.134/2012, cambia le regole e le procedure della celebre Legge Pinto (L. n. 89/2001), che consente di ottenere un’equa riparazione a chi abbia subito un danno patrimoniale e/o non patrimoniale dall’ingiusta durata di un processo. Da un lato, la novella legislativa snellisce le modalità di ricorso: decide infatti, con decreto inaudita altera parte, un giudice monocratico di Corte d’Appello su una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento. La riforma introduce inoltre parametri fissi sia sul quantum risarcitorio che sui tempi di durata ragionevole del giudizio : il giudice liquiderà infatti una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro, per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo, e che comunque non potrà mai essere superiore al valore della causa. Invece il danno sarà considerato integrato ed esistente solo se risultino superati i sei anni di durata del giudizio (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità). Viene ribadito il termine decadenziale della domanda: il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, e non sarà più possibile invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio. Da un’altra angolazione però, le modifiche normative apportate dilatano oltremodo la discrezionalità decisoria del Collegio rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti , nell’accertare la violazione il giudice valuta:

- la complessità del caso,

- l’oggetto del procedimento,

- il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia:

- in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria,

- nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa,

- nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa,

- nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso;

- e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento.

E, dulcis in fundo, al comma 5 quater, si manifesta la beffa: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge!- è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!

La Legge Pinto e la riparazione del danno per irragionevole durata del processo, scrive Studio Legale De Vivo. Con l’articolo di oggi, iniziamo una serie di interventi dedicati a quella che comunemente viene definita Legge Pinto (dal nome del suo estensore, Michele Pinto o legge 24 marzo 2001, n. 89). Tale legge disciplina il diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo. In questo primo articolo ne esamineremo la nascita e la sua evoluzione con il decreto Legge n. 201 del 2002. Negli interventi delle prossime settimane andremo poi ad analizzarne la riforma attuata con il Governo Monti e l’attuale situazione. La cosiddetta Legge Pinto  nasceva con l’intento di salvaguardare l’Italia dalle condanne della Corte di Strasburgo a fronte dei ripetuti ritardi nella definizione dei procedimenti giudiziari ed anche per evitare l’intasamento della Corte medesima per i tantissimi ricorsi provenienti dall’Italia. Veniva così “nazionalizzato” il diritto all’equa riparazione per la durata irragionevole del processo, rendendo effettivo a livello interno il principio della “durata ragionevole” introdotto dalla Costituzione italiana a seguito della riforma  dell’art. 111 ispirato all’art . 6, paragrafo 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo  e delle libertà fondamentali che riconosce il diritto di ogni persona a che la causa, di cui è parte, sia esaminata e decisa entro un lasso di tempo ragionevole e dell’art. 13 che afferma invece il diritto dei cittadini ad un ricorso effettivo contro ogni possibile violazione della Convenzione. Concretamente la legge disciplina il caso di chi in un procedimento civile, penale o amministrativo, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della convenzione suddetta, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata. Ligio alle direttive e dotato di buone intenzioni il legislatore italiano approntava una disciplina semplice e (fatto raro) di facile applicazione. Senza pagare nulla in termini di costi di accesso alla giustizia (bolli, notifiche, contributi unificati, tassazione degli atti, copie ecc.) seguendo un procedimento snello e semplice, si poteva proporre un ricorso alla Corte di Appello competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p., durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assumeva verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che concludeva il medesimo procedimento, era divenuta definitiva. Il danno liquidato è quello riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Senza disciplinare altro, era la giurisprudenza ad integrare le lacune legislative sulla scorta delle sentenze della Corte di Strasburgo, indicando alcuni parametri: innanzi tutto la durata consona di ogni grado di giudizio, ovvero per il primo grado 3 anni, per il secondo 2 anni, per il terzo 1 anno. Quindi la forbice entro la quale liquidare gli indennizzi variabile da 500,00 € a 1500,00 € per ogni anno eccedente la ragionevole durata. Premesso che, parimenti alla legge in questione, il legislatore italiano avrebbe dovuto attivarsi per velocizzare i processi  ma che non è mai riuscito nell’intento, a seguito di una sempre maggiore mole di ricorsi ai sensi della legge Pinto il legislatore comprese subito di aver aperto la strada ad una pericoloso fronte per le esangui casse statali, impegnando oltremodo la giustizia delle Corti di Appello. E’ da questa preoccupazione che nacque e prese forma l’esigenza di un nuovo intervento effettuato con il decreto legge n. 201 del 2002, teso ad introdurre una “pregiudiziale conciliativa” nell’originario meccanismo della suddetta legge. Il decreto Legge n. 201 del 2002 introdusse, anche se per poco tempo, nel tessuto originario della legge Pinto una conciliazione stragiudiziale in cui gli unici protagonisti divenivano l’Avvocatura dello Stato e l’interessato danneggiato dall’eccessiva durata del processo. Il nuovo articolo 2 bis subordinava la domanda di un’equa riparazione del danno al fatto che fossero decorsi 90 giorni da quello della comunicazione della volontà di introdurre l’azione da parte del futuro ricorrente, diretta all’Avvocatura dello Stato. Al termine del suddetto incontro o le parti raggiungevano un accordo, sottoscrivendo il relativo atto di transazione, oppure non pervenivano ad un’intesa con l’ovvia conseguenza che l’interessato poteva così finalmente procedere all’azione per un’equa riparazione del danno.
Durante questa fase conciliativa il legislatore non aveva però previsto per il ricorrente l’assistenza di un difensore (necessario per affrontare e risolvere i diversi balzelli di questa fase introduttiva) che rimaneva, eventualmente, a carico esclusivo della parte. Il Decreto Legge 201 del 2002, inoltre, si occupava anche del regolamento delle spese della fase contenziosa giungendo ad autorizzare, nelle ipotesi più nefaste, l’eventuale deroga al criterio della soccombenza nel caso in cui una parte non avesse motivato il rifiuto di aderire alla proposta formulata in sede precontenziosa creando un incentivo psicologico e materiale ad accettare la proposta dell’Avvocatura. Tuttavia, come spesso accade alle riforme introdotte per decreto legge, in sede di conversione il legislatore con la Legge n 259 del 2002, decideva di sopprimere il capo I del Decreto legge n. 201 del 2002 disciplinante la suddetta condizione di procedibilità, determinando l’eliminazione del “neo-obbligo” di esperire preventivamente il discusso tentativo di conciliazione. Come prevedibile quindi, stante l’inefficienza della macchina della giustizia, si verificò una richiesta sempre maggiore di indennizzi che portò ad un lento ma inesorabile ritardo della loro liquidazione per mancanza di fondi, sicché al ritardo relativo ai tempi processuali si aggiunse il ritardo relativo ai tempi della liquidazione dell’indennizzo. Ritardi su ritardi! La situazione creatasi però, lungi dal costituire un disincentivo per i cittadini danneggiati, ne aumentava l’aggressività concretizzantesi nell’attuazione delle procedure esecutive nei confronti dello Stato e/o delle amministrazioni  e dei ministeri. Gli indennizzi e le aggiuntive spese per le esecuzioni rappresentavano un onere troppo grande per l’inefficiente Stato Italiano ed è per questo che con varie leggi venne assicurata l’impignorabilità dei fondi destinati alla giustizia. A bloccare il credito del cittadino vi era anche un sistema di verifiche in base a cui  “…le amministrazioni pubbliche, prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore e diecimila euro, verificano, anche in via telematica, se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento …e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo”. Ecco quindi che con tali leggi di dubbia legittimità costituzionale, si precludeva la soddisfazione del credito dei cittadini doppiamente lesi dallo Stato nel loro diritto all’equo processo. La prossima settimana vedremo come il Governo Monti, con il D.L n. 83 del 22 giugno 2012, ha inteso riformare tale situazione….

Continuiamo la serie di interventi dedicati alla Legge Pinto relativa al diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo continua Studio Legale De Vivo. In questo secondo articolo andiamo ad analizzarne la riforma attuata con il Governo Monti. La riforma della Legge Pinto è avvenuta con il Decreto legge n. 83 del 22 giugno 2012 convertito in L. n. 134/2012. Positiva la parte di semplificazione procedimentale: decide infatti, con decreto inaudita altera parte da emettere entro 30 gg dalla proposizione del ricorso, un giudice monocratico di Corte d’Appello su una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento. Apprezzabile è anche la codificazione dei parametri già stabiliti dalla giurisprudenza sia sul quantum risarcitorio che sui tempi di durata ragionevole del giudizio: il giudice liquiderà infatti una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. Criticabile è invece la norma che limita l’indennizzo che non potrà mai essere superiore al valore della causa. Altrettanto criticabile è aver stabilito che il danno sarà considerato integrato ed esistente solo se risultino superati i sei anni di durata del giudizio (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità), quando precedentemente era sufficiente aver superato i soli 3 anni nel primo grado. Nel ribadire poi il termine decadenziale della domanda, secondo cui il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, è discutibile la limitazione che vieta di invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio come era stato finora possibile. Le altre modifiche normative  dilatano la discrezionalità decisoria del Giudice rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti, nell’accertare l’entità della violazione valuta: la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione. Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia: in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria; nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa; nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa; nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso; e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento. Criticabile è la previsione del comma 5 quater, laddove si minaccia che, qualora la domanda sia ritenuta dal giudicante inammissibile o manifestamente infondatail ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1.000 euro e non superiore a 10. 000 euro in favore della Cassa delle Ammende! (Trattasi di un grande disincentivo, essendo ormai risaputa la vasta discrezionalità interpretativa dei giudici). Non solo! Altro aspetto degno rilievo (che stravolge l’iniziale giusta logica della gratuità dell’azione) è la modifica dell’art. 3, comma 3 della legge ai cui sensi “unitamente al ricorso deve essere depositata copia autentica dei seguenti atti:a) l’atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata;b) i verbali di causa e i provvedimenti del giudice;c) il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili.” Considerando che prima della modifica era possibile produrre copia semplice degli atti e/o chiedere l’acquisizione del fascicolo di causa, si può capire come la copia autentica costituisca un peso ulteriore che dovrà sopportare il ricorrente già danneggiato dallo Stato. Un comune cittadino può legittimamente pensare che il legislatore prima di varare una riforma si preoccupi della compatibilità della stessa con le norme di rango superiore e pensa anche che se la legge persegue una finalità la stessa legge non può frapporre ostacoli al conseguimento dei suoi scopi. Purtroppo questo cittadino o non è italiano oppure assomiglia al Pangloss “singolare” precettore del Candido di Voltaire secondo cui tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili! In realtà il fine non troppo recondito perseguito dal legislatore italiano è quello di ostacolare (per il tempo occorrente alla dichiarazione di incostituzionalità della norma) l’esercizio del diritto riconosciuto per la risaputa ragione che lo Stato non è in grado né di far fronte ai pagamenti degli indennizzi né di evadere la gran mole dei ricorsi che per suoi inadempimenti si riversano nelle Corti di Appello competenti. Vediamo ora se le modifiche alla legge Pinto possano essere considerate compatibili e in che misura, con il sistema adottato dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, così come ricostruito dai giudici della CEDU, al cui rispetto l’Italia è tenuta. Come abbiamo rilevato l’obiettivo perseguito con la modifica è lo snellimento del ricorso e delle procedure. E pare che almeno su questo punto il legislatore abbia centrato il suo scopo. Peccato che il ricorrente ora debba sopportare il costo delle copie autentiche degli atti quando nel sistema previgente questa spesa non era prevista.

Considerazioni critiche. Relativamente al quantum dell’indennizzo che non può superare il valore della causa o del diritto in concreto accertato dal giudice nel procedimento in cui è violata la ragionevole durata (art. 2 bis co. III) è bene chiarire che si tratta di un limite non previsto né dalla Convenzione né dalla giurisprudenza CEDU.

Altro punto critico attiene alla previsione contenuta nell’art. 2 comma 2 ter, secondo cui l’indennizzo può essere richiesto solo se il procedimento non si è concluso nell’arco di 6 anni. A tal proposito la giurisprudenza CEDU ha ripetutamente stabilito che anche i procedimenti di durata inferiore ai sei anni possono legittimare l’ottenimento dell’indennizzo (Pelosi / Italia n. 51165/99; Di Meo – Masotta / Italia n. 52813/1999; Nuvoli / Italia n. 41424/1998).

Altro punto critico è quello relativo all’art. 4 della novella in forza del quale la parte ricorrente è obbligata ad attendere la conclusione definitiva del giudizio prima di adire lo strumento previsto dalla legge Pinto. Anche questa limitazione è decisamente contraria alla giurisprudenza CEDU che ha più volte stabilito (per tutti LEsjak / Slovenia n. 33946/03) che si può richiedere l’indennizzo prima della conclusione definitiva del giudizio quando questo eccede la ragionevole durata.

Viene inoltre confermata la precedente previsione della legge in forza della quale il giudice liquiderà l’indennizzo solo in relazione al periodo di tempo eccedente la durata ragionevole (art. 2 bis comma 1). Però anche tale previsione contrasta con la giurisprudenza CEDU che ha più volte ribadito che, ecceduti i termini della ragionevole durata, il procedimento nel suo complesso risulta essere in violazione della convenzione europea (ex plurimis Apicella / Italia n. 64890/01; Cocchiarella / Italia n. 64886/01).

Appare criticabile la nuova previsione in forza della quale l’indennizzo è escluso se una parte abbia rifiutato la proposta di definizione effettuata dal giudice. Si tratta infatti di altro limite non previsto nella convenzione e nella giurisprudenza CEDU.

Le nuove previsioni di cui all’art. 2 co. 2 sembrano attribuire al giudice notevoli margini di discrezionalità (oltre a notevoli già connaturati) nella valutazione delle circostanze del caso e in relazione al comportamento delle parti. Tuttavia tali previsioni, insieme alla tipizzazione delle preclusioni (art 2 quinquies), sollevano dubbi di coerenza con il sistema della convenzione perché l’obbligo di assicurare la ragionevole durata del procedimento grava sugli organi dello Stato che dovrebbero garantire un processo in tempi ragionevoli anche quando le Parti avessero assunto comportamenti dilatori.

Infine la previsione naturale per cui l’indennizzo viene pagato nei limiti delle risorse disponibili non è coerente con il sistema della convenzione europea, perché lo stato dovrebbe preoccuparsi di realizzare un sistema di finanziamento adeguato per far fronte ai propri obblighi (sentenza Simaldone / Italia n. 22644/2003; Gaglione / Italia n. 45867/07).

Perplessità desta la previsione di cui al nuovo art. 5 quater che facoltizza il giudice se accerta che la domanda di indennizzo è inammissibile o manifestamente infondata di condannare il ricorrente al pagamento di una salata ammenda da 1.000 a 10.000 euro, svolgendo questa una funzione dissuasiva per la presentazione del ricorso .

RISARCIMENTO LEGGE PINTO: per farmi risarcire dallo Stato per le cause troppo lunghe mi tocca anche pagarmi l'avvocato? Forse, NO!, scrive l'avv. Alberto Vigani. I tempi della giustizia: la risposta: patto di quota lite o gratuito patrocinio? Tutti, ma proprio tutti, ormai sanno che in Italia i processi durano ere geologiche. E, siccome quasi tutti ci sono passati, anche i sassi hanno capito che non dipende dalle scelte delle parti processuali o dagli avvocati, ma dal sistema! La macchina ha smesso di funzionare già decenni fa, schiacciata dal peso dei troppi procedimenti e da regole che in passato erano ancor più farraginose di oggi. Non devi però credere che ora il meccanismo processuale sia stato snellito e si viva solo del peso delle colpe di ieri. Il codice processuale italiano targato anni 40 era stato concepito per una gestione processuale con tempi da carta carbone e 30.000 avvocati in tutta Italia. Oggi la produzione processuale viaggia sui ritmi del “copia incolla” e gli avvocati in Italia sono 220.000 con quasi 10.000.000 milioni di fascicoli processuali aperti, fra civili e penali. Le regole erano forse perfette allora, nella prima metà del 900, e non tenevano conto delle esigenze e dei ritmi del terzo millennio; senza calcolare che pure le riformette di questi settantanni hanno anche complicato il funzionamento arrivando a prevedere ben 33 percorsi processuali diversi a seconda della tipologia di lite. Insomma, la macchina processuale non funziona più e le cause si trascinano per tempistiche che sono ormai sconnesse dalla vita reale. Un processo civile dura di media una dozzina di anni (12) fra primo e secondo grado. Nella speranza che nessuno degli avvocati delle parti tenti il ricorso per cassazione, che si ruba da solo almeno altri 3 anni. E se una lite riesce a prolungarsi per 15 anni significa che si è presa un quarto della vita operativa di una persona. Questa non è giustizia. I romani, intesi come coloro che parlavano latino e non come tifosi di una squadra di calcio, riuscivano a sintetizzare brillantemente istanti della loro cultura in pochissime parole. Avevano pensato anche a questo con il brocardo: œiustitia dilatio est quam dilatio.

Una giustizia che arriva tardi è una negazione della giustizia. Per fare fronte a questa situazione inaccettabile per democrazie come quelle occidentali, la Comunità Europea ha sanzionato moltissime volte la nostra amata Repubblica Italiana imponendole almeno il risarcimento dei danni causati da questi ritardi ingiustificabili ai cittadini che hanno svolto richiesta. Alla stratificazione dei procedimenti sanzionatori, l'Italia ha risposto con una legge che tutela il cittadino: parlo della legge 89/2001, più conosciuta come Legge Pinto, che ha istituzionalizzato le modalità  del risarcimento. Oggi, se il tuo processo è durato più di 3 anni in primo grado e più di due in secondo, puoi chiedere un risarcimento per il danno subito sia che esso sia patrimoniale, e in questo caso va dimostrato per come effettivamente subito, sia nel caso di danno non patrimoniale, e in quest'altro caso esso è presunto. Si, hai capito bene. Anche se non sei in grado di dare esatta quantificazione del tuo danno economico hai comunque diritto a ricevere una somma di indennizzo per ogni anno di eccessiva durata del processo. L'importo annuale da calcolare in moltiplicazione per il numero di annualità di durata processuale è di euro 1.500,00, e ne hai diritto ha prescindere che tu abbia vinto o perso la causa. La somma è dovuta anche se il processo è ancora in corso ma ha già superato le durate massime previste per ogni grado. In quest'ultimo caso il risarcimento non sarà però definitivo e potrà essere integrato, con apposita richiesta, all'esito finale della causa. Le somme in gioco possono quindi essere di rilevante interesse perchè superano facilmente i 10.000,00 euro per ogni parte processuale. Vediamo assieme perchè.  Oggi una causa media dura in primo grado circa 6 anni e mezzo mentre in appello supera spesso i 5 anni e mezzo. Sommando le durate di primo e secondo grado arriviamo a 13 anni di durata media. E 1.500,00 per 13 anni fa ammontare il risarcimento richiedibili in 4.500,00: questo perchè la norma parla di indennizzo per ogni anno di eccessiva durata del processo, e non di risarcimento per gli anni che superano la normale durata. Ma anche a conteggiare solo gli anni che superano i limiti di legge, ovvero 3 e 2 anni per i primi due gradi, si arriva a 12.000,00 euro (13-5= 8 anni x 1.500 euro). Gli importi sono quindi di tutto rispetto per ogni famiglia italiana.

Come si fa ad averne diritto??? Semplice: devi fare causa allo Stato! E devi avere l'assistenza di un avvocato! Sembra quasi una beffa: dopo esser stato prigionieri di una causa che non finiva più, ti trovi a doverne iniziare un'altra per ottenere giustizia del ritardo! In questi condizioni, molti mollano! Mollano perchè non sono informati. Impauriti dall'iniziare un nuovo processo e dalla necessità di dotarsi di un altro avvocato, rinunciano ad un risarcimento sicuro perchè non sanno che la causa per avere l'indennizzo dura solo 4 mesi e l'avvocato possono averlo a costo zero. I due passaggi critici del processo, durata e costo, si risolvono fin dall'inizio perchè la legge prevede espressamente che il risarcimento deve essere deciso entro il termine massimo di 4 mensilità mentre l'avvocato può essere ottenuto sempre o con il gratuito patrocinio o con il patto di quota lite. Esatto, hai capito benissimo: il primo caso è quello dell’avvocato pagato direttamente dallo Stato in presenza dei requisiti di legge. Con il Dpr 115/2002 è previsto che tutte le persone con un reddito inferiore a 10.766,33 euro hanno diritto ad avere la difesa processuale sostenuta dallo Stato pur potendosi scegliere l'avvocato che preferiscono fra coloro che sono abilitati all'attività specifica. Tutte le volte in cui invece non si hanno i requisiti reddituali per avere l'assistenza a carico dello Stato, si può avvalersi dell'opportunità concessa dalla riforma Bersani. Si, hai letto bene: Bersani ha messo mani anche a questa materia eliminando le tariffe minime e rimuovendo il divieto di patto quota lite. Dal 2008 puoi concordare con il tuo avvocato il suo compenso pattuendo che lui incassi soltanto se vinci ed in ragione di una percentuale di quanto riesci ad ottenere a tuo favore in sentenza. Fine dei rischi!

Se vinci, paghi. Se perdi, amici come prima. Questo vale doppiamente per i ricorsi per la cosiddetta Equa Riparazione da eccessiva durata del processo:

non sono previsti costi processuali, perchè vi sono l'esenzione del contributo unificato, dei costi di notifica e dei bolli, il risarcimento è assicurato e quindi il tuo avvocato sa che non è un terno al lotto, potendo così facilmente accettare l'accordo che gli proporrai. In quel caso, infatti, nessuno rischia. Basta perciò concordare il compenso in una quota dell'indennizzo e presentare il ricorso entro il termine di legge. Questa è la cosa più importante e la ho lasciata per ultima appositamente perchè non sfuggisse all'attenzione: la richiesta di indennizzo deve essere presentata entro 6 mesi dal passaggio in giudicato del provvedimento che chiude la controversia processuale che ha avuto una durata irragionevole. Che sia la sentenza di primo grado, quella di appello od il decreto di chiusura del fallimento, dal momento in cui questo provvedimento del giudice diventerà definitivo e non sarà più impugnabile (ovvero passerà in giudicato) scatterà il decorso dei sei mesi entro cui potrai chiedere il tuo risarcimento. Ricordalo, è importante. Dopo quel termine (di 6 mesi) perderai il diritto ad ogni richiesta risarcitoria!

Ricapitoliamo: tutti hanno diritto ad essere risarciti per la prigionia processuale ed i soldi sono assicurati perchè il debitore è lo stesso Stato che ha causato il ritardo. Per ottenere l'indennizzo basta un tempo brevissimo (4 mesi) ma devi chiederlo entro 6 mesi dalla fine della causa con l’assistenza di un avvocato, che puoi avere anche senza costi aggiuntivi. Basta concordare prima il patto di quota lite o, se ve ne sono i presupposti reddituali, il patrocinio a spese dello Stato.

Durata ragionevole del processo: la ''Pinto su Pinto'' al vaglio della Consulta. Corte d'Appello Firenze, sez. II civile, ordinanza 13.05.2014. Pasquale Tancredi su “Altalex”. La Corte di Appello di Firenze con ordinanza del 13 maggio 2014 promuoveva giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della Legge 24 marzo 2001, n. 89 - “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo” - nella parte in cui essi trovano applicazione anche ai procedimenti di equa riparazione previsti dalla stessa Legge n. 89 del 2001, per contrasto con gli artt. 111, comma 2, e 117, comma 1, Costituzione. L’ordinanza è stata infatti emessa a seguito della promozione di un c.d. giudizio “Pinto su Pinto”, in cui il ricorrente con ricorso ex art. 2, L. 89/2001 proponeva domanda di equa riparazione davanti la Corte di Appello di Firenze lamentando l’eccessiva durata di un precedente giudizio di equa riparazione svoltosi innanzi la Corte di Appello di Perugia, durato complessivamente anni 2, mesi 9, e giorni 16. La Corte di Appello fiorentina sollevava la questione di legittimità costituzionale dell’articolo prima menzionato sulla scorta di valutazioni condivisibili. La Corte infatti ravvisava un contrasto tra la normativa vigente, in particolare tra:

l’art. 2, commi 2 bis e ter, i quali – a seguito delle modifiche del D.L. 83/2012 - prevedono che un giudizio di merito possa considerarsi dalla durata ragionevole allorquando abbia avuto una durata di tre anni in primo grado e comunque quando il giudizio sia stato definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni, e la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte di Cassazione la quale invece individua per un procedimento di Equa Riparazione una durata ragionevole in circa un anno e sei mesi (per un grado di giudizio, più la fase dell’esecuzione) e in due anni e sei mesi (per due gradi di giudizio, compresa la fase di esecuzione). Secondo la Corte rimettente il “diritto vivente” (uniforme alla interpretazione di CEDU e Corte di Cassazione) individua la durata complessiva di un processo ex lege 89 in due anni e tale interpretazione trova tra l’altro conforto anche nella nuova formulazione della stessa legge la quale fissa un termine di 30 giorni per l’emissione del decreto nella fase monitoria (art. 4, comma 3) e un ulteriore termine massimo di quattro mesi per l’eventuale fase di opposizione (art. 5 ter, comma 5). Lo Corte fiorentina, inoltre, rilevava fondatamente che “l’individuazione del principio costituzionale della “ragionevole durata” di cui all’art. 111 secondo comma Cost. non può essere infatti avulsa dalla natura del procedimento stesso, e dalla sua “naturale” durata, che dipende in primo luogo dalla sua maggiore o minore complessità; in questo quadro, il procedimento di equa riparazione è per sua natura destinato a durare assai meno di un giudizio ordinario di cognizione, data la semplicità dei fatti che deve accertare (la durata di un procedimento, e le ragioni della sua protrazione, di regola evincibili dalla mera produzione degli atti processuali), e le finalità a cui tende (indennizzare la violazione di un diritto fondamentale leso proprio da una precedente eccessiva durata), oltre che per la mancanza di un doppio grado nel merito; la previsione di una “ragionevole durata” pari a sei anni risulta pertanto incongrua, e lesiva del predetto art. 111 secondo comma Cost., oltre che dell’art. 117 primo comma, per violazione degli obblighi internazionali derivanti all’Italia dall’art. 6 (CEDU) […]”. L’ordinanza si inserisce quindi all’interno di un dibattito giurisprudenziale attuale ed accesso in cui ultimamente anche le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (19 marzo 2014, n. 6313) hanno aderito ai principi della giurisprudenza CEDU precisando che “nel caso in cui la fase della cognizione del processo Pinto si sia conclusa - non rileva se in senso favorevole o sfavorevole al ricorrente - in un tempo eccedente il termine complessivo di due anni (secondo il consolidato orientamento di questa Corte, conforme alla giurisprudenza della Corte EDU: cfr., ex plurimis, le sentenze n. 5924 e n. 8283 del 2012), il ricorrente può far valere, nelle forme e nei termini di cui alla medesima L. n. 89 del 2001, il diritto all'equa riparazione per la durata irragionevole di tale fase del processo Pinto eccedente i due anni. Caso, questo, che non comporta particolari difficoltà interpretative od applicative della legge n. 89 del 2001 ed è agevolmente riconducibile ai consolidati principi e criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di equa riparazione in generale nonché, specificamente, di durata del processo Pinto e dei relativi criteri di liquidazione del danno non patrimoniale (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 5924 e n. 8283 del 2012 citt.)”.

La Corte Costituzionale è quindi di nuovo chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della Legge 89/2001. La stessa Corte nella sentenza n. 30 dello scorso 27 febbraio 2014 ne aveva fortemente criticato il contenuto invitando il legislatore a riformare il meccanismo indennitario disciplinato dalla legge Pinto in quanto “il vulnus riscontrato e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo, se non inficiano – per le ragioni già esposte – la ritenuta inammissibilità della questione e se non pregiudicano la «priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario» (sentenza n. 23 del 2013), impongono tuttavia di evidenziare che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa […]”. Infine, ancor più di recente – con l’ordinanza 9 maggio 2014, n. 124 – il Giudice delle Leggi ha ribadito che l’indennizzo ex lege Pinto spetta anche alla parte soccombente del giudizio di cui si lamenta l’irragionevole durata “alla stregua del canone che impone di attribuire alla legge, nei limiti in cui ciò sia permesso dal suo testo, un significato conforme alla CEDU, tenuto conto che la Corte europea dei diritti dell’uomo interpreta l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nel senso della spettanza dell’equa soddisfazione per la lesione del diritto alla durata ragionevole del processo a tutte le parti di esso e, in particolare, anche alla parte che sia risultata soccombente”. (Altalex, 27 maggio 2014. Nota di Pasquale Tancredi)

Legge Pinto: e se lo Stato non paga? La risposta dell'Avv. Fabrizio Bartolini Vogliamo affrontare un problema particolare inerente i risarcimenti dovuti in base alla Legge Pinto e cioè quello legato alla effettiva riscossione del risarcimento una volta ottenuto. Infatti sia con la finanziaria del 2007 sia , successivamente con la L. 181/2008 lo Stato ha reso impignorabili i propri beni e quindi il danneggiato-creditore non potrà far altro che attendere i lunghi tempi di liquidazione subendo così, al danno, un altro danno sempre per lo stesso motivo. Questa pagina nasce da alcune denunce e richieste che ci sono state inoltrate  su questo problema ad oggi irrisolvibile se non ricorrendo alla Corte Europea che può condannare, come ha già fatto, al risarcimento lo Stato italiano per non aver provveduto in tempi congrui alla liquidazione. Pensiamo che però singoli ricorsi o testimonianze non diano un quadro ben preciso del problema ad oggi diffusissimo. E’ per questo che abbiamo deciso di raccogliere le vostre esperienze e testimonianze sul problema per poi inviarle, una volta raggiunto un numero ragguardevole, alla Corte Europea nonchè diffonderle via web. Una denuncia collettiva che potrà con il tempo far sentire questa nostra voce ad oggi flebile su questo problema che aggiunge al danno già subito la beffa di essere nuovamente danneggiati con tempi lunghi per attendere la liquidazione del dovuto.

UN ESEMPIO PRATICO

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 16 aprile scorso ha condannato il nostro Stato oltre che per la durata eccessiva dei processi anche per l’esiguità degli indennizzi ex Legge Pinto. Otto condanne in una sola sentenza per processi durati 22 anni e 4 mesi per un grado di giudizio in materia di successione in quanto la liquidazione non era stata calcolata sui criteri dettati da Strasburgo.Alla Corte si erano rivolti otto ricorrenti in quanto i processi erano durati troppo a lungo. Lo stato Italiano aveva sostenuto, costituendosi in giudizio. Che era stata violata la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. Tale eccezioni è stata però respinta dai Giudici di Strasburgo i quali , tra l’altro, hanno considerata esigua la somma risarcitoria riconosciuta dallo Stato Italiano in base alla Legge Pinto. Inoltre gli indennizzi erano stati versati ben oltre in termine di 6 mesi fissato dalla legge: in 5 casi 21i mesi dopo il deposito della sentenza, in un procedimento dopo 30 mesi e negli altri due, rispettivamente 17 e 19 mesi dalla pronuncia. Quindi oltre a durare troppo i processi è troppo lungo il tempo di attesa per ottenere il risarcimento; di attesa si tratta, infatti, in quanto il danneggiato/creditore non ha azioni contro lo Stato per recuperare forzatamente il dovuto potendo solo attendere e denunciare la propria situazione ancora una volta alla CE. Da qui la condanna ad un doppio indennizzo. La Corte ha infatti stabilito che non solo lo Stato deve integrare l’indennizzo troppo esiguo disposto dai giudici interni ma deve anche versare una riparazione per i ritardi nel pagamento. La Corte ha quindi accordato euro 1.400 di risarcimento per il ritardo nel pagamento.

Carte e cavilli: ecco l’inferno di chi deve essere risarcito, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Si discute in questi giorni la riforma della responsabilità civile dei magistrati per gli errori giudiziari; la possibilità dell’erario di rivalersi sul magistrato che ha sbagliato, l’automaticità del meccanismo di rivalsa, la misura di essa. Si affronta il tema della qualificazione dell’errore rilevante, idoneo a comportare l’obbligo risarcitorio. Si annusa il solito trend di supina deferenza all’Anm a dispetto delle dichiarazioni di Renzi che circa un mese fa tuonava: «L’Anm è insorta? Brrrr, che paura. Noi andremo avanti… Deve valere la responsabilità civile dei magistrati: quando sbagliano, devono pagare». La sensazione è che si vada verso una riforma apparente e, nella sostanza, inutile che perseguendo la sacrosanta libertà dei magistrati ne preservi, infine, l’arbitrio. Eppure dagli errori giudiziari possono discendere autentici drammi umani, la completa ed irreversibile distruzione di vite. La carcerazione di una persona innocente è in sé sempre una tragedia che strazia una cellula viva della società. È un cancro, una necrosi, un fenomeno distruttivo con effetti di portata devastante che si dispiegano senza esaurirsi nel nucleo in cui si produce e si sviluppa. La tutela per chi ha subito ingiustamente il carcere – al di là delle ipotesi di sanzione a carico del magistrato che ha determinato la condizione patologica – è lenta, oltremodo farraginosa e scoraggiante, connotata da una burocratizzazione cavillosa e spesso insensata. Chi è stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ed è stato poi, all’esito del procedimento penale, prosciolto con sentenza di assoluzione diventata irrevocabile, ha diritto a ricevere un equo risarcimento del danno subito. Riparazione per ingiusta detenzione, questo l’istituto giuridico. Sembra facile: sei stato in carcere e poi assolto con pronuncia definitiva? Verrai risarcito. Un risarcimento che prescinde dalle responsabilità del giudice che aveva emesso la misura custodiale o la pronuncia di condanna poi riformata. Il diritto al ristoro economico nasce da una lesione di oggettiva gravità: la compressione immotivata di un diritto supremo, la libertà. Inizia, invece, un calvario di burocrazia e di ostacoli di varia natura che appaiono frapposti ad arte per rendere meno accessibile il doveroso rimedio. La richiesta deve essere presentata nella sezione di appello preposta: due fascicoli, ciascuno con indice, tre copie dell’istanza, una serie impressionante di allegazioni. La persona che ha patito la carcerazione ingiusta deve rintracciare il fascicolo dibattimentale e quello del pubblico ministero ed estrapolare dal loro interno copie, alcune in forma autentica, di atti dibattimentali e pre-dibattimentali. Spesso si tratta di processi corposi con molti imputati e mentre l’assoluzione dell’istante diviene definitiva, altri imputati condannati propongono impugnazione. Il fascicolo si sposta. Altra cancelleria. Alcuni atti vanno in archivio (spesso si tratta di numerosi faldoni). Così quando lo sventurato richiedente va in cerca dei documenti necessari, il primo sbarramento è dato proprio dalla ricerca del materiale. Il viaggio ha inizio nella cancelleria di origine e si snoda per archivi e uffici sotterranei alla disperata cerca di tutti gli atti da allegare. Occorrerà poi chiedere che i fascicoli vengano spostati da dove si trovano all’ufficio addetto al rilascio copie. Ci vogliono giorni! Il personale manca. L’interessato – o il suo avvocato – non può per ragioni di privacy e sicurezza portare a termine questa delicata operazione di trasferimento. Finalmente tutti i documenti sono all’ufficio copie, spillati e catalogati, ciascuno nel suo faldone impaginato con scientifica progressione numerica (dell’indice, spesso, rade tracce). Lo speranzoso richiedente compila infine la richiesta copie. Il rilascio è gratuito, anche per quelle autentiche. Il personale di cancelleria, però, avverte che la gratuità delle copie fa sì che loro non possano spendere in tale attività il loro tempo. All’avventore sconfortato – l’interessato o il suo difensore – verrà detto: “se le faccia lei”. Ed ecco allora che il malcapitato si trova per ore in un ufficio polveroso a togliere spille, slacciare documenti con meticolosa attenzione, affrontare macchine fotocopiatrici e risme di carta con la collaborazione (se finisce la carta, se si inceppa la macchina) amabile del personale di cancelleria, interrotto centinaia di volte perché la macchina che sta usando deve assolvere anche a tante altre esigenze più importanti e urgenti: c’è gente ancora da condannare, deve avere la priorità! Infine, quando avrà raccolto il necessario, corredato l’istanza come di dovere, predisposto fascicoli ed indice, aspetterà la fissazione dell’udienza e forse anche il risarcimento.

L’ERRORE GIUDIZIARIO: INNOCENTI IN CELLA, ASSOLTI ED ARCHIVIATI.

Immunità e impunità. Tutti uguali di fronte alla legge, tutti tranne i magistrati. Perché? Si chiede “Il Foglio”. Mentre sulle prime pagine dei giornali campeggia la polemica sull’immunità per i parlamentari – che in realtà dell’immunità ha solo il nome – la corporazione giudiziaria difende con successo la propria fattuale impunità, opponendosi a ogni forma di applicazione di effettiva responsabilità civile. Si tratta di una violazione palese del principio costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, peraltro confermata da un’espressione diretta della volontà popolare attraverso un referendum, completamente disatteso. Fa scandalo che i membri di un’Assemblea legislativa non possano essere privati della libertà personale ma non si vede l’enormità della pretesa di una categoria che può commettere, anche con “dolo o colpa grave”, ingiustizie senza pagarne mai le conseguenze. Secondo la legge in vigore, se un consesso di magistrati decide che un cittadino ha subìto un’ingiustizia, sarà lo stato a rispondere del danno arrecato. Teoricamente poi potrebbe rivalersi in parte sul magistrato responsabile, ma questo non accade praticamente mai. Va detto, peraltro, che quello che verrebbe sanzionato da una legge sulla responsabilità civile dei magistrati non è il semplice errore giudiziario, che è sempre possibile e che peraltro può essere corretto grazie all’esistenza di più gradi di giudizio. Si tratta di sanzionare comportamenti gravissimi che volontariamente o per inaccuratezza producono danni irreparabili a cittadini ingiustamente sottoposti a procedimenti giudiziari infondati o manipolati. E’ questo il senso del “dolo o colpa grave”: un comportamento di cui tutti sono tenuti a rispondere, esclusi solo i magistrati.

Le prigioni degli innocenti: l’errore giudiziario da Jules Mary a Pierre Boulle, scrive Michela Gardini. L’oggetto del nostro articolo consiste nella rappresentazione dell’errore giudiziario prevalentemente nella letteratura francese, in testi che si collocano tra la seconda metà dell’Ottocento (Jules Mary, Xavier de Montépin) e gli anni Cinquanta del Novecento (Léo Malet, Georges Simenon, Pierre Boulle). Il tema si inserisce nella più ampia prospettiva della relazione tra diritto e letteratura, alle cui connessioni sono stati dedicati anche recentemente svariati studi, a testimoniare l’interesse che l’incontro tra discipline eterogenee riveste, inaugurando una prospettiva di riflessione e di ricerca quanto mai produttiva. Privilegiando casi giudiziari frutto d’immaginazione, non entreremo nel merito dell' Affaire Dreyfus, su cui esiste già una vastissima bibliografia. Che cos’è un processo penale se non, esattamente come un’opera letteraria, una narrazione e una interpretazione di fatti che perdono totalmente la loro oggettività? Come argomenta Domenico Corradini H. Broussard, il processo al quale si assiste “sul palcoscenico dei tribunali” è un “play”, in cui “ciascun litigante è figlio del suo romanzo, di un romanzo in cui le azioni rappresentate non sono più le azioni storiche da lui compiute in un determinato locus e in un determinato punctum temporis” (2010:34). A dispetto della ricerca di una scientificità del diritto e del sistema penale, è l’arbitrarietà della ricostruzione dei fatti nonché la soggettività delle sentenze che spesso caratterizzano la cronaca giudiziaria. Ancora Domenico Corradini H. Broussard: L’omicida, come il mutuante o il mutuatario, ciascuno dal proprio punto di vista, raccontano il fatto ai loro difensori. I difensori, ciascuno dal proprio punto di vista, raccontano il racconto dei loro assistiti. I testimoni, ciascuno dal proprio punto di vista, raccontano. Il pubblico ministero, dal proprio punto di vista, racconta l’omicidio. L’imputato, dal proprio punto di vista, racconta lo stesso omicidio, anche avvalendosi dello ius tacendi e dello ius mentendi. I documenti prodotti, ciascuno dal proprio punto di vista, raccontano. Le perizie depositate, ciascuna dal proprio punto di vista, raccontano, il giudice, dal proprio punto di vista, racconta nella sentenza che emana. […] Tutti raccontano. Raccontano non l’eventum, che è rimasto fuori dalla porta del procedimento giurisdizionale. Ma raccontano l’inventum, che dalla porta del procedimento giurisdizionale è entrato. Per raccontare, devono inventare. […] E raccontando, tutti rappresentano a loro modo la realtà di ciò che è stato. (2010:36). Recenti studi di psicologia, d’altro canto, hanno dimostrato le influenze psicologiche che non di rado inducono i giudici a emettere sentenze non adeguate sulla base di vere e proprie distorsioni nella ricostruzione degli avvenimenti. La macchina giudiziaria può così diventare una terribile fabbrica di errori giudiziari, in balia dei fattori più svariati, di ordine psicologico, politico e sociale, dall’istintività dell’opinione pubblica all’arbitrarietà della stampa, dalle false testimonianze alle perizie fantasiosamente interpretate. Pierre Boulle, nel romanzo La faccia o Il procuratore di Bergerane, pubblicato nel 1953, rappresenta tutte le fasi che scandiscono la costruzione dell’errore giudiziario, tanto più tragico in quanto artatamente prodotto dalla mente spietata del procuratore Jean Berthier. Avendo assistito inerme all’incidente che porta la giovane Solange Grenier a scivolare nel fiume Rodano dove troverà la morte, il neonominato procuratore si cala totalmente nel ruolo del magistrato integerrimo, fermamente deciso a placare gli animi degli abitanti della cittadina di Bergerane, desiderosi a tutti i costi di avere un colpevole assicurato alla giustizia che possa dare loro l’illusione del trionfo della legalità. Guillaume Vauban, l’irascibile fidanzato della vittima, visto con lei poco prima della scomparsa della ragazza da testimoni colpevolisti a priori, appare come il capro espiatorio designato di un delitto inesistente. Non solo l’opinione pubblica lo condanna prima ancora che l’indagine venga svolta: “L’astio dell’opinione pubblica – si legge – si scagliava spontaneamente su quel figlio di ricchi ozioso, buono a nulla, traviato, che s’era attaccato a una ragazza di condizioni modeste” (Pierre Boulle 2007:138), ma, ancor più, la logica perversa dell’errore giudiziario porta la vittima stessa a confessare un omicidio mai commesso, irretito dalla strategia della difesa che convince Vauban, suo malgrado, ad ammettere la propria colpevolezza per poter ottenere le attenuanti. Molto spesso, come scrive Jacques Vergès, è come se l’errore giudiziario si alimentasse da solo, senza lasciare scampo alla vittima innocente ed ignara: Come un verme nella frutta, l’errore si situa a monte dell’inchiesta, negli a priori dell’inquirente, ed è a giusto titolo che l’avvocato Devedjian ha potuto desumere come una legge generale dell’errore giudiziario: “L’inchiesta preliminare è generalmente la fonte di tutti gli errori giudiziari perché è il momento in cui l’emozione è al culmine e i pregiudizi sono fortissimi”. Basta che l’accusato faccia prova di un’attitudine percepita come equivoca o sospetta, ed ecco che la macchina s’imballa (2011:71. Traduzione nostra). L’inautenticità che sta alla base della costruzione dell’errore giudiziario nel romanzo di Boulle raggiunge il parossismo nella simulazione del delitto che lo stesso Vauban è costretto ad interpretare sul luogo in cui venne ritrovata la bicicletta di Solange. E’ come se nel romanzo irrompesse la scena di una pièce teatrale o di un film, con tanto di atti, recitanti, prove. Vauban si trova a recitare la parte dell’assassino, remissivo, docile, ormai piegato alla macchina distorta della “giustizia”. Come in una mise en abyme, viene rappresentato un delitto inesistente sì, ma già raccontato nelle pagine precedenti, che si nutre della propria finzione e il cui copione è stato scritto dall’efficientissimo procuratore Berthier e dai suoi collaboratori: Come un regista che fa ripetere all’infinito la stessa scena, Charvin fece rimettere nella posizione di partenza i due attori, il criminale e la vittima, quest’ultima impersonata ora dal brigadiere Langelin. Vi furono ancora dei tentativi falliti, ma alla fine, grazie all’impegno dimostrato dal brigadiere, riuscirono a ricostruire con sufficiente fedeltà il dramma che sin dal primo giorno aveva tanto colpito l’opinione pubblica, che era stato pian piano ricostruito in corso d’istruttoria e la cui effettività era stata confermata dalla confessione del reo (Pierre Boulle 2011: 160-61). La mente senza scrupoli di Berthier, che vuole camuffare la propria viltà indossando la maschera del magistrato che assicura il colpevole alla giustizia, inventa spietatamente un reato non commesso giungendo a chiedere la pena capitale per l’accusato. La requisitoria si configura come una narrazione completamente slegata dalla veridicità dei fatti, ma tanto più convincente quanto più riesce ad incontrare le attese del pubblico colpevolista. D’altra parte, la storia del diritto penale in Francia a partire dalla Rivoluzione Francese sino alla fine dell’Ottocento se, da un lato, testimonia del tentativo di fondare una scienza giuridica, dall’altro, tuttavia, mostra tutta la sua arbitrarietà e la sua dipendenza da fattori esterni al diritto stesso. In particolare, alla fine del XIX secolo, si assiste, contemporaneamente all’equazione proletariato=delinquenza, proprio alla fabbrica dell’errore giudiziario. A dispetto di quanto si leggeva sulla Gazette des Tribunaux nel 1851 :”Grazie alle garanzie che le nostre leggi penali hanno creato a vantaggio degli accusati, la condanna di un innocente è oggi divenuta quasi impossibile” (cit. da Joëlle Deluche 1994:336. Traduzione nostra), la realtà dei fatti smentisce tragicamente questo ottimismo, in un’epoca in cui l’aumento della criminalità aveva reso cruciale il problema della repressione e della sicurezza sociale, al punto da rendere solo teorica la presunzione di innocenza introdotta dalla Rivoluzione Francese, come ricorda Joëlle Deluche: “In realtà, a partire dal momento in cui un individuo viene sospettato, è una presunzione di colpevolezza che si impossessa degli animi” (1994:344. Traduzione nostra). Nel suo saggio sul diritto penale francese nel corso del XIX secolo, “Du châtiment inflexible à la peine modulée: le droit pénal français au XIX e siècle” (2009), Bernard Schnapper denuncia quanto esso sia stato influenzato dalla storia politica del paese. Le conquiste della Rivoluzione Francese che, in campo giuridico, cercarono di porre rimedio all’arbitrarietà del diritto dell’Ancien Régime introducendo delle leggi scritte che si ispiravano alla Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789 e che vennero raccolte nel Codice penale del 25 settembre/6 ottobre 1791, conobbero talvolta, nel corso dei decenni, delle riformulazioni in senso involutivo. L’elezione dei giudici introdotta dalla Rivoluzione, che sarebbero poi stati controllati da un ministero pubblico, venne abolita da Napoleone Bonaparte che stabilì che i giudici fossero nominati direttamente dal capo dello Stato, addomesticando in tal modo la magistratura ed assumendone il potere. Di fatto Bonaparte elaborò un sistema penale di compromesso, che tenesse parzialmente conto del Codice penale della Rivoluzione ma che allo stesso tempo recuperasse alcune prerogative dell’Ancien Régime, nella direzione di un inasprimento della repressione e del rafforzamento del proprio potere. La svolta liberale del 1830 sino alla fine della II Repubblica cercò di riformare il sistema giuridico, ma il colpo di stato di Napoleone III pose fine al cammino di riforme introducendo, al contrario, un regime autoritario che si riflesse anche nel sistema penale. Bisognerà aspettare la caduta del Secondo Impero e l’avvento della III Repubblica perché venga rimessa mano al tentativo di riforma liberale della II Repubblica, promulgando, per esempio, una legge che permettesse agli accusati di essere assistiti da un avvocato. Tuttavia, la recrudescenza di eventi delittuosi, seminando il sospetto e la paura nella popolazione, spinse nella direzione di un rafforzamento della repressione, innescando in misura direttamente proporzionale una serie inaudita di errori giudiziari. Come documenta Frédéric Chauvaud nel suo saggio “Un «sujet de deuil» au XIXe siècle. La fabrique des erreurs judiciaires » (2004), tra gli anni 1860 e la fine degli anni 1890 la letteratura giuridica produce un numero importante di pubblicazioni proprio sul tema degli errori della giustizia. L’infallibilità dei giudici non è che un mito, come scrive nella propria tesi di dottorato Gaetan Péan, avvocato alla corte d’appello di Parigi: “è una verità antica e troppo banale per insistervi, e forse anche per pensarvi molto, che gli uomini sono condannati all’errore, e i giudici, essendo uomini…” (cit. in Frédéric Chauvaud 2004:155. Traduzione nostra). Nel corso dell’Ottocento l’errore giudiziario diventa sempre meno un episodio isolato per diventare un fenomeno collettivo, che può minacciare qualsiasi individuo del corpo sociale. La fretta nelle indagini, l’eccessiva fiducia accordata ai testimoni non sempre attendibili, la troppa importanza data alle presunzioni di colpevolezza e agli indizi sono tra i fattori che predispongono all’errore, ai quali va ad aggiungersi la pressione esercitata dall’opinione pubblica che desidera ad ogni costo trovare un colpevole, anche in mancanza di certezze irrefutabili. Questo spiega anche il fatto che “il destino dell’accusato innocente dipende ben poco da lui stesso. Rassegnato o ribelle, egli indossa gli abiti del colpevole” (Frédéric Chauvaud 2004:160. Traduzione nostra). In questo contesto emozionale, la stampa che dà voce all’opinione pubblica alimentandola, designa il colpevole prima che la giustizia abbia fatto il suo corso. “Bisogna far condividere delle emozioni – scrive Chauvaud – far fremere i lettori nello stesso modo in cui fremeva la folla che assisteva ai supplizi, e soprattutto tenerli in sospeso. Per fare ciò, vengono pubblicate parti dell’istruttoria, vengono condotte delle inchieste parallele e degli innocenti sono d’un tratto presentati come dei colpevoli” (2004:167. Traduzione nostra). Come emerge dai Souvenirs de la cour d’assises (1913) di André Gide, spesso le istituzioni appaiono meno preoccupate di far trionfare la giustizia che di dare prova di forza e di efficienza di fronte alla crescente criminalità. Auspicando che “delle riforme, poco a poco, potranno essere introdotte, sia riguardo al giudice e all’interrogatorio che riguardo ai giurati” (2009:13. Traduzione nostra), Gide non può che testimoniare la fragilità del sistema giudiziario, avendolo perlopiù conosciuto dall’interno grazie all’esperienza di giurato: ”sino a che punto la giustizia sia una cosa dubbia e precaria – scrive – è ciò che, durante dodici giorni, ho potuto sentire sino all’angoscia” (2009:12. Traduzione nostra). Dalle riflessioni di Gide emerge un’applicazione del diritto per molti versi lombrosiana: “L’opinione della giuria è che, dopo tutto, se non è del tutto sicuro che abbiano commesso questi furti, hanno dovuto commetterne altri; o che ne commetteranno; che, dunque, sono capaci di rubare. […] Colpevoli senza dubbio, ma forse non precisamente di questi crimini” (2009:17. Traduzione nostra). In quest’ottica di dubbio e di incertezza, Gide spiega il ricorso alle circostanze attenuanti come sintomo dell’esitazione della giuria che, in questo modo, opta per un verdetto di compromesso tra colpevolezza e innocenza. Tra gli errori giudiziari involontari e quelli volontari, si situano, dunque, quelli che nascono dal dubbio. Scrive Gide: Quante volte (e nello stesso caso Dreyfus) queste «circostanze attenuanti» indicano soltanto l’immensa perplessità della giuria! […] Ciò significa: sì, il reato è molto grave, ma non siamo del tutto certi che sia costui ad averlo commesso. Eppure ci vuole una punizione: per ogni evenienza puniamo costui, poiché è lui che ci offrite come vittima; ma, nel dubbio, non puniamolo troppo (2009:62. Traduzione nostra). Gide, infine, termina i suoi Souvenirs de la cour d’assises citando un conclamato errore giudiziario che portò in carcere per ventisette anni un innocente, scagionato soltanto dalla confessione, in punto di morte, del vero reo, attirando l’attenzione sul fatto che in casi come questo è la giustizia stessa a commettere un reato. Come non ricordare il drammatico film di Nanni Loy, Detenuto in attesa di giudizio (1971), in cui Alberto Sordi interpreta la parte di un uomo arrestato e incarcerato per errore. Quando i funzionari della giustizia, nella figura dell’avvocato e del giudice ammettono l’errore e comunicano al detenuto l’imminente scarcerazione, ne fanno tuttavia ricadere la responsabilità sul detenuto stesso (“in parte anche per colpa sua signor Di Noi”), non mettendo quindi affatto in discussione l’istituzione e non riconoscendo l’errore giudiziario come un reato commesso dalla giustizia stessa. Nemmeno la scarcerazione ormai può ricompensare la vittima della distruzione fisica e psicologica subita. Il detenuto, che dal carcere è stato trasferito nel manicomio giudiziario, è ora un essere ammansito, senza più reazioni, un corpo docile e una mente inerme, schiacciati dall’attesa frustrata di dare un senso alla terribile esperienza vissuta. Proprio l’impossibilità da parte dei personaggi di attribuire un senso all’esperienza vissuta permette di interpretare il film come una rivisitazione del Processo di Kafka (1925). Entrambe le vicende, sia di Josef K. che di Giuseppe Di Noi, infatti, arrestati senza aver commesso nulla e senza che vengano date loro spiegazioni, oltre a denunciare la mostruosità del labirinto giudiziario che trasforma il condannato in una pratica burocratica, pongono il problema esistenziale dell’uomo che equivale ad un eterno esilio rispetto alla legge, in un mondo sempre esposto all’errore e senza possibilità di giustizia. L’attesa e l’angoscia dell’imputato di conoscere il motivo dell’arresto tanto nel film di Nanni Loy quanto nel romanzo di Kafka presentano la questione cruciale della colpa che viene ad assumere una connotazione metafisica: il condannato, colpevole o innocente che sia rispetto ad un reato specifico, si comporta come se dovesse comunque espiare una colpa, partecipando all’erogazione della pena di cui è vittima. Si tratta perlopiù di un retaggio giudaico-cristiano che induce il condannato ad una sorta di rassegnazione rispetto ad una macchia originaria, la medesima rassegnazione che spinge Dmitrij nei Fratelli Karamazov (1879) ad accettare la condanna per il parricidio, in realtà commesso da Smerdjakov, poiché si sente comunque colpevole per il fatto di aver desiderato la morte del padre. “Tutti i protagonisti fittizi o reali di un errore giudiziario hanno così, nella loro vita, una falla” scrive Joëlle Deluche, cosicché la loro innocenza legale non è sufficiente a metterli al riparo (1994:340. Traduzione nostra). Il fatto che Josef K. non venga portato in prigione nonostante l’arresto, lo priva comunque della libertà, trasformando in una prigione tutti i luoghi che frequenta a cominciare dalla sede di lavoro, nei quali di fatto non è più padrone delle proprie azioni. L’umiliazione e il degrado di sé devono essere totali: Josef K. verrà giustiziato “come un cane”, mentre Giuseppe Di Noi è talmente piegato dal potere di cui è vittima, da comportarsi come il protagonista di un altro celebre testo di Kafka, La colonia penale (1914), dove “il condannato aveva talmente l’aspetto di un cane sottomesso, da dare l’impressione che lo si poteva lasciar correre liberamente per i pendii e che bastava chiamarlo poi con un fischio all’inizio dell’esecuzione, perché accorresse” (Kafka 1992:285). Il condannato subisce la sua pena come un destino ineluttabile, una “fatalità”, per utilizzare l’espressione di Léo Malet nella Premessa al suo romanzo L’ombra del grande muro (1942): Queste pagine, traversate da spari di rivoltelle automatiche, da corse furiose di auto lanciate a tutta velocità, sputando fuoco e morte, costituiscono la storia di un innocente che la fatalità spinge nel fango sanguinoso del crimine, fino a sprofondarvi definitivamente; di un uomo sul quale pesa certo più della lapide della tomba, al punto di fargli credere che il sole non sia per lui, l’ombra terribile del grande muro” (Léo Malet 2004: 7-8). Il condannato innocente subisce l’errore giudiziario come un eroe tragico che nulla può contro l’imperscrutabilità del Fato. La Pocharde, protagonista dei due romanzi di Jules Mary La Pocharde e Les Filles de la Pocharde (1897-1898), imprigionata ingiustamente, si sente come l’eroina di una tragedia antica, vittima impotente della fatalità: “Le fornaci da gesso! Tutta la sua disgrazia veniva da loro! Esse avevano svolto, nella sua vita, il ruolo della fatalità nelle tragedie antiche” (Jules Mary 2001:1054. Traduzione nostra). Nella rappresentazione letteraria dell’errore giudiziario assistiamo, tuttavia, ad un’evoluzione del genere tra la fine dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento. Il romanzo popolare della fine dell’Ottocento, pur nella sua ridondanza e iperbolicità, di fronte ad un pubblico ormai di massa, si offre come lo specchio della società della sua epoca. Non stupisce, in quest’ottica, che molto spesso le vicende narrate riguardino il problema della criminalità e della repressione, una vera e propria urgenza nel contesto sociale della seconda metà dell’Ottocento. In particolare, si sviluppa quello che potremmo definire il genere dell’errore giudiziario, avente come protagonisti degli innocenti condannati ingiustamente. Maestro del genere è Jules Mary, nato nel 1851 e morto nel 1922, autore di decine di romanzi perlopiù apparsi come feuilletons sui giornali parigini e della provincia. La nostra attenzione si è rivolta a due romanzi principali con le loro rispettive continuazioni: Roger-la-Honte, seguito da La Revanche di Roger-la-Honte (1886-1887); La Pocharde, seguito da Les Filles de la Pocharde (1897-1898). Lo schema vi appare rigidamente il medesimo: il protagonista viene accusato e condannato ingiustamente, anche a fronte di una serie di indizi che effettivamente sembra deporre a sfavore del presunto colpevole, rendendo in tal modo la vicenda più movimentata ed accattivante. Ma né la deportazione di Roger Laroque, soprannominato la Honte (Vergogna) in Nuova Caledonia, né la lunga prigionia di Charlotte Lamarche soprannominata la Pocharde (Ubriacona) producono sulle vittime alcun cambiamento né alcuna lacerazione psichica. Essi restano fedeli a loro stessi e la loro identità non viene scalfita dalle prove patite durante la reclusione. Il loro unico desiderio è riuscire a dimostrare la propria innocenza ed ottenere pubblicamente la piena riabilitazione. Il loro è un percorso di dannazione e redenzione, che li rende figure cristiche, pronte al sacrificio in nome della verità. Non li anima nemmeno l’impulso della vendetta di Edmond Dantès, bensì, piuttosto, la ricerca di un’apoteosi finale che sancisca anche la riconciliazione sociale tra la vittima e il corpo della società da cui era stata iniquamente espulsa. In questo senso, del resto, il romanzo popolare assolve la propria funzione didattica e moralizzatrice. Questi romanzi sono specchio dell’epoca anche nella misura in cui mostrano come la stampa e la medicina legale svolgano un ruolo nevralgico nella cronaca giudiziaria tardo-ottocentesca. Roger Laroque, accusato di omicidio e di furto, condannato ai lavori forzati, evaso dal penitenziario in Nuova Caledonia per poter riabbracciare la figlia Suzanne, prima ancora di venire riabilitato davanti alla legge grazie alla confessione di Luversan in punto di morte, gode già della riabilitazione da parte dell’opinione pubblica che sostiene la sua causa dalle testate dei giornali. Il romanzo di Jules Mary mostra il potere detenuto dalla stampa, ora colpevolista ora innocentista, capace di influenzare i processi giudiziari in corso. “Roger Laroque – si legge nel romanzo – si stupì che la stampa fosse già al corrente delle informazioni confidenziali che egli aveva dato ai giudici. Ma poco gli importava. Aveva l’opinione pubblica dalla sua parte, questa era la cosa principale” (Jules Mary 2001:449. Traduzione nostra). Ancora: “La stampa parigina intraprendeva già una campagna in favore della sua riabilitazione. […] Sì, la stampa prendeva in mano e vigorosamente il suo caso. Numerosi strilloni gridavano per le vie i fogli pubblici annunciando: Il crimine di Ville-d’Avray! Un errore giudiziario! Agonia dell’assassino nella casa della vittima! Dettagli completi! (Jules Mary 2001:448. Traduzione nostra). Nella condanna di Charlotte Lamarche, invece, gioca un ruolo essenziale la perizia medico-legale. Il sospetto che Charlotte abbia avvelenato il figlioletto viene suffragato proprio dall’esame autoptico, che conferma la morte per avvelenamento, salvo scoprire che il veleno responsabile del decesso altro non è che l’esalazione dei fumi di gesso provenienti dalle fornaci ubicate vicino all’abitazione della donna. Come argomenta Frédéric Chauvaud nel saggio già citato, mentre nei processi le deposizioni dei testimoni e le confessioni stesse vengono sempre più contestate, la perizia medico-legale diventa protagonista nel processo penale proprio alla fine dell’Ottocento, sollevando talvolta il magistrato dalla responsabilità della sentenza. Altre volte, invece, i magistrati stessi denunciano la soggettività delle cosiddette prove scientifiche, come fu il caso nel 1880 da parte del procuratore generale Dauphin che non esitò a parlare di “opinioni personali scientifiche” (Frédéric Chauvaud 2004:166. Traduzione nostra) alla base degli errori giudiziari. La riabilitazione della Pocharde sarà possibile soltanto quando cadrà la prova medico-legale, allorché in punto di morte il dottor Marignan confesserà il proprio errore, taciuto per tanti anni per non compromettere il proprio prestigio. L’apoteosi finale che sancisce la piena riabilitazione della vittima innocente si configura come il tratto distintivo della letteratura popolare, come emergeva già nel 1863 nel romanzo di Xavier de Montépin L’Homme aux figures de cire. Anche in questo caso la ricerca della riabilitazione non ammette alcuna tentazione di accettare la grazia, per il fatto che essa non restituisce alla vittima la sua onorabilità. Vaubaron viene accusato ingiustamente dell’omicidio compiuto dallo spregiudicato Rodille che costruisce abilmente le prove contro Vaubaron che, “nato vittima”, come scrive Joëlle Deluche, “incarna la figura del manque” (Joëlle Deluche 1994:339), designato dal destino a subire l’ingiustizia celebrando non più solo l’equivalenza miseria=delinquenza ma piuttosto miseria=errore giudiziario. Ma, di fronte ad una giustizia insufficiente e fallace, Vaubaron sarà salvato dal suo stesso ingegno realizzando parossisticamente anche la propria ambizione di diventare artista: animando degli automi di cera con il sembiante delle vittime di Rodille, quest’ultimo crede di essere perseguitato dai fantasmi e confessa i propri delitti restituendo a Vaubaron pubblicamente la propria innocenza. Dannazione e redenzione ancora una volta dunque, come cifra del romanzo popolare. Ma questo binomio che sinora è parso ineludibile è destinato a cadere nella letteratura contemporanea. Nei testi in cui vi è la rappresentazione dell’errore giudiziario, infatti, per la vittima non vi è più alcuna riabilitazione possibile, ma solo un’inarrestabile caduta. Negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, quando i traumi della storia hanno ormai impresso la propria ombra sulla letteratura, il romanzo dell’errore giudiziario viene assorbito dal genere poliziesco che, lungi dal configurarsi come letteratura di evasione, si interroga sulle questioni sociali più cruciali quali, appunto, la giustizia nelle sue molteplici declinazioni, dal problema delle prove di colpevolezza alla pena di morte. Se la vittima tardo-ottocentesca in prigione manteneva intatta la sua forza, come se la privazione della libertà alimentasse in misura direttamente proporzionale il desiderio di riscatto e di ricongiungimento al corpo sociale, a sancire comunque il trionfo finale dell’istituzione giudiziaria, al contrario la vittima novecentesca in prigione subisce una trasformazione profonda e irreversibile. La reclusione si rivela un’esperienza di frammentazione dell’io, inteso sia come soggetto privato sia come soggetto sociale. Nel romanzo di Léo Malet L’ombra del grande muro (1942) il dottor Crawford, sulla base di incerte testimonianze e dell’assenza di un alibi, viene accusato dell’uccisione di Evelyn Stacy. La condanna per “omicidio involontario ed esercizio disonesto della medicina” a tre anni di prigione e a cinque di interdizione dalla professione a partire dalla fine della pena, del resto, diventa inevitabile dal momento che Crawford, per non coinvolgere la donna con cui aveva una relazione clandestina e con cui, di fatto, si trovava la sera del delitto, finisce per confessare il reato mai commesso, ormai intrappolato nell’ingranaggio perverso della giustizia: “Ma al processo avevo temuto che un supplemento d’indagine facesse scoprire la verità e, per evitare tale temibile eventualità, avevo ammesso il crimine di cui ero innocente” (Léo Malet 2004:36) afferma il dottor Crawford, come se, benché estraneo all’omicidio, dovesse espiare comunque un’infrazione, una macchia, la trasgressione legata alla sua segreta vita sentimentale. Rinchiuso nella prigione di Ossining, nello Stato di New York, Crawford cambia pelle e il giorno della sua liberazione la prigione non apre le proprie porte all’uomo che era tre anni prima, bensì ad un uomo ormai anestetizzato, marchiato a fuoco dal numero di matricola 9204, che sta per fare il suo ingresso realmente nel mondo del crimine: In seguito vagai come un’anima in pena. Era strano essere libero… era comunque un po’ sgradevole. Pensandoci bene, non era il fatto di essere libero ad essere sgradevole… era il sentirsi solo, vedere gli amici di un tempo voltarti le spalle, sentirsi segnato e smarrito al centro di una sorda ostilità, un’ostilità che sembrava manifestarsi persino in coloro che ignoravano la tua condizione, come se il numero di matricola restasse anche sul completo nuovo (Léo Malet 2004:40). Entrato a far parte di una banda di criminali prestando dapprima il proprio servizio come medico, Crawford arriva ad uccidere senza provare alcuna emozione né rimorso: «E’ morto», dissi rialzandomi e asciugandomi meccanicamente le mani sporche di sangue sulla coscia. Avevo appena ucciso un uomo con una facilità sconcertante. I tre anni di Ossining dovevano in buona parte avere a che fare con tale calma (Léo Malet 2004:65). Se le vittime innocenti dei romanzi popolari della seconda metà dell’Ottocento, come abbiamo analizzato, avevano come unico desiderio quello di veder riconosciuta la propria innocenza, il romanzo di Malet termina con il ritorno di Crawford in carcere dopo che questi ha compiuto la propria vendetta, uccidendo il marito dell’amante di allora, che altri non era che il vero assassino di Evelyn Stacy. La prigione, dunque, foucaultianamente come produttrice di delinquenza, il “grande muro” che getta un’ombra indelebile: “Lo so. – afferma Crawford – Trascinavo con me l’ombra del grande muro e sulla mia persona l’impronta della griglia dalle sbarre d’acciaio, cruciverba nel quale non si scrive mai l’aggettivo libero” (Léo Malet 2004:79). Anche Simenon non manca di denunciare le distorsioni della giustizia, come avviene nei due romanzi Corte d’assise (1941) e Maigret e una vita in gioco (1957), per i cui protagonisti, vittime di un errore giudiziario, non vi è redenzione possibile. Petit Louis, nel primo romanzo, è il capro espiatorio perfetto per salvare i veri colpevoli, protetti da una giustizia connivente con il crimine. Come nel romanzo di Pierre Boulle, l’errore giudiziario viene fabbricato ad arte, condannando Petit Louis, che ascolta il verdetto completamente inerme, a vent’anni di lavori forzati, vent’anni di divieto di residenza e alla perdita dei diritti civili. Dopo la sentenza, i ruoli tra l’istituzione e il condannato paiono beffardamente ribaltati: Erano tutti colpevoli, magistrati, giurati, giornalisti, belle spettatrici e spettatori, tutti, compresi gli avvocati, che all’improvviso trovarono qualcosa di urgente da fare, sentirono il bisogno di muoversi, di precipitarsi verso qualcuno o verso una porta, perché non ce n’era uno che non avesse un motivo per non vergognarsi (Georges Simenon 2010:180). Dal comportamento che mostra in carcere Joseph Heurtin, protagonista del secondo romanzo, il commissario Maigret deduce che “è pazzo o è innocente” (Georges Simenon 1957:37,38), decidendo di voler dimostrare la sua estraneità al duplice omicidio per il quale è stato condannato. Ma la prigione ha ormai trasformato Heurtin, come tutti gli altri condannati a morte, in un numero: “Venivano a prendere il numero 9 – si legge - per condurlo al patibolo. L’indomani Heurtin, divenuto il numero 11, singhiozzava. Ma non parlò. Steso sul lettuccio, il viso volto verso il muro, si limitava a battere i denti” (Georges Simenon 1957:37). L’unico orizzonte che la prigione schiude per Heurtin è quello della morte, per questo quando verrà liberato a sorpresa affinché conduca al vero assassino, il giovane, nascosto nella casa paterna, viene ritrovato impiccato. Il suicidio è la forma estrema che assume la distruzione del soggetto recluso a fronte dell’impossibilità della riabilitazione, come avviene anche in un altro romanzo dedicato all’errore giudiziario: Il caso Maurizius di Jakob Wassermann, pubblicato nel 1928, ispirato ad un fatto di cronaca e da cui il regista Julien Duvivier trasse nel 1954 il film L’Affaire Maurizius. Anche in questo romanzo ritroviamo la dicotomia tra grazia e riabilitazione: dopo 19 anni Maurizius esce di prigione essendo stato graziato, ma ne prova una profonda insoddisfazione, poiché la libertà, così ottenuta, non può restituirgli l’innocenza. Il carcere ha ormai irreversibilmente ucciso in lui la vita: “Ma no, non esiste conforto. Anche il sesso è stato ucciso, in lui. Ora è evidente: lui non fa più parte del mondo. Anche il sesso è morto” (Jakob Wassermann 2001:490). Mentre i personaggi dei romanzi popolari venivano reintegrati nel tessuto sociale, per Maurizius l’unica verità è la sua totale esclusione: “lui non fa più parte del mondo”. Nella vicenda Maurizius, il carcere si rivela il luogo di un pervasivo annientamento. Emblematico, in tal senso, il dialogo tra il carcerato e il secondino: alla domanda se lo crede innocente o colpevole, la guardia risponde che all’indomani avrebbe avuto la risposta, facendosi poi trovare impiccato, perché se si credesse nell’innocenza di un detenuto “e poi si deve stare a vedere come si rodono il fegato, dico io, se si sapesse per certo, allora… […] Be’, allora, disse lui, a rigore non si potrebbe più continuare a vivere” (Jakob Wassermann 2001:435). Nei romanzi popolari ottocenteschi analizzati è evidente come la trama avventurosa porti alla creazione di personaggi nel complesso stereotipati, senza spessore psicologico, proprio perché funzionali alla dimostrazione della tesi contenuta nel binomio dannazione/redenzione. Nei romanzi novecenteschi che abbiamo evocato, invece, la presentazione dei personaggi è innanzitutto introspettiva. Vengono descritte le reazioni e le sensazioni che la reclusione, subita ingiustamente, suscita in loro. Maurizius, condannato all’ergastolo, attraversa tutte le fasi della discesa all’inferno: la perdita del sonno, le ruminazioni mentali, “la tortura del «se avessi»” (Jakob Wassermann 2001:412), rimorsi, rimpianti e il senno di poi. Ma la prova più difficile si rivela “l’imprigionamento della volontà […]. Si continua a volere sempre, sì, la volontà non è morta, ma non c’è più nulla da volere e questo finisce per fare impazzire” (Jakob Wassermann 2001:413). Laddove la rappresentazione romantica della reclusione prevedeva come compensazione alla perdita della libertà la creazione letteraria e artistica, rifugio privilegiato del prigioniero affetto da claustrofilia, significativamente la caduta di Maurizius trasforma anche l’atto della lettura e della scrittura in un’operazione meccanica, nonché in una recita apatica. Schiacciato dal peso di questa messa in scena, Maurizius decide di non scrivere più: “Mi alzai e buttai la penna nel secchio delle immondizie, dicendo: basta, basta! E mi sentii così male che vomitai” (Jakob Wassermann 2001:423). La discontinuità con la tradizione romantica non potrebbe essere più completa, sino ad approdare al genere del legal thriller che trova in John Grisham l’interprete attualmente maggiormente riconosciuto. Se nel romanzo Io confesso (2010) la riabilitazione post mortem può servire a tutelare la memoria di Donté Brumm, vittima innocente condannata all’iniezione letale e, ancor più, a stemperare la sofferenza della famiglia, di fatto essa nulla concede al condannato.

Innocenti in cella, assolti e archiviati. Ecco l’esercito (potenziale) del Cav, scrive Maurizio Gallo su “Il Tempo”.

ERRORI GIUDIZIARI. Se l'annuncio di Berlusconi di fondare un partito a loro dedicato si trasformerà in realtà, potrebbero entrarci in migliaia. C’è chi non ha fatto neanche un giorno di prigione. Ma per anni, prima di essere assolto, ha dovuto lottare, soffrire e pagare per dimostrare la sua innocenza. È accaduto a Raniero Busco, accusato dell’omicidio di Simonetta Cesaroni. C’è chi ha trascorso quasi ventidue anni in una cella e ha rivisto la luce solo grazie a una revisione del processo, come Giuseppe Gullotta. Chi ha ottenuto solo una giustizia postuma, come Giovanni Mandalà, accusato assieme a Gullotta della strage di Alcamo del 1976, condannato all’ergastolo nell’81 e riconosciuto del tutto estraneo ai fatti all’inizio del 2012, quando era già defunto. C’è chi si è visto archiviare ogni accusa senza neanche dover entrare in un tribunale e chi è stato prosciolto prima del dibattimento, ma è stato costretto a spendere soldi e tempo per difendersi, ha trascorso notti in bianco, ha perso il lavoro, è stato lasciato dalla moglie, è finito sul lastrico. Sotto tutte vittime di un sistema giudiziario che non funziona. Sono tante e, se l’annuncio di Berlusconi di fondare un partito a loro «dedicato» si trasformasse in realtà, nella nuova formazione potrebbero entrare a migliaia. A loro si aggiungono i cittadini italiani che devono subire i ritardi di procedimenti civili, pendenze pari a otto processi ogni cento abitanti. In questo caso, per ottenere una sentenza di primo grado ci vogliono 600 giorni e una media di quattro anni per arrivare a un verdetto definitivo. Ma torniamo al penale. A settembre, nell’inchiesta pubblicata da «Il Tempo», abbiamo parlato di ingiusta detenzione e di errori giudiziari. Il dato-base, raccolto dal Censis, è che nella storia della Repubblica circa quattro milioni di persone sono state coinvolte in inchieste e sono risultate innocenti. È una stima, certo. Solo dal 1989, infatti, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, esistono statistiche precise e attendibili. E sono numeri che fanno venire i brividi. In ventitrè anni, fino al 2012, quasi 25 mila italiani e stranieri sono stati incarcerati ingiustamente. Lo Stato ha speso per risarcirli quasi 550 milioni di euro. Se a questi sommiamo altri 30 milioni rimborsati per errori giudiziari, arriviamo a quasi 600 milioni di euro. Ma non basta. Perché ai 25 mila ne dobbiamo aggiungere altrettanti. Secondo Eurispes e Unione delle camere penali, infatti, ogni anno vengono inoltrate 2500 domande di rimborso per ingiusta detenzione, ma solo 800 (meno di un terzo) vengono accolte a causa di alcuni cavilli. Le cifre più recenti (raccolte dal sito specializzato «Errori giudiziari.com») confermano la tendenza: nel 2013 il totale dei casi di ingiusta detenzione è stato di 1368, quello dei casi di errore giudiziario 25; la spesa dei risarcimenti per ingiusta detenzione in un solo anno arriva a 35.853.732,58 euro, quella per i rimborsi per errori giudiziari a 852.922,57 euro. Il distretto di Corte d'appello che ha speso di più per ingiusta detenzione è stato quello di Napoli (251 casi, 8.381.158,49 euro) e quello che ha sborsato più soldi per errori giudiziari, quello di Lecce (2 casi, 325.029,60 euro). Secondo il rapporto annuale del National Registry of Exoneration statunitense (il registro degli errori di giustizia) nel Belpaese si sbaglia dodici volte più che negli Usa. Non solo. Le ingiuste detenzioni in America sono state «appena» 1304 contro le nostre venticinquemila. Mettendocene altrettante che non hanno ottenuto denaro in cambio del tempo trascorso dietro le sbarre, arriviamo a quasi 40 volte il totale degli Stati Uniti. Ma, come dicevamo, anche chi è stato assolto ha dovuto subire il calvario delle accuse, utilizzare i servizi di un legale e sopportare le relative ansie. La direzione generale di statistica del Ministero della Giustizia fa sapere (dati aggiornati al novembre 2011) che nel 2009 nel tribunali tricolori sono state 46.656 le persone assolte durante un giudizio ordinario che ne aveva coinvolte 152.601, quindi parliamo del 30,6%; 5.217 lo sono state dopo un giudizio immediato o in seguito all’opposizione a un decreto penale (su 14.645,); 1749 dopo un direttissimo; 3.889 dopo un abbreviato in sede di direttissimo e 7.379 dopo un abbreviato in sede di ordinario. Il totale sfiora le 65 mila unità. Nel 2010 la situazione è addirittura peggiorata: siamo a 72.467 assolti, cioè 7.578 in più dei dodici mesi precedenti. Questo senza contare i giudici di pace, che hanno totalizzato 7.657 «assoluzioni» nel 2009 (10,9%) e 8.856 nel 2010 (11%). Poi ci sono gli imputati condannati in primo grado e riconosciuti innocenti in secondo o in terzo. Qualche anno fa il presidente di Corte d’appello di Roma disse che la metà circa delle sentenze del tribunale veniva riformata in seconda istanza. Anche se non esistono informazioni ufficiali, la stima del magistrato dovrebbe bastare a farsi un’idea (e il caso via Poma docet) di quanti vengono considerati colpevoli nel primo processo, magari finiscono in prigione (se vengono riconosciuti i «pericoli» previsti dal codice: reiterazione del reato, fuga e inquinamento delle prove) per essere riconosciuti estranei ai fatti mesi o, più probabilmente, anni dopo. Un esercito che ingrossa le sue file con chi è stato prosciolto senza dover entrare in un’aula di giustizia e con quanti sono stati indagati ed esposti alla gogna mediatica per vedere, più tardi, la propria posizione archiviata su richiesta dello stesso pubblico ministero o in base alla decisione del giudice per l’udienza preliminare. Nella sua recente relazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario il presidente della Corte d’appello romana Catello Pandolfi ha sottolineato come, dal primo luglio 2012 al 30 giugno 2013, nella Capitale ci sono state 19.235 archiviazioni su un totale di 23.002 procedimenti avviati. Capita, infine, che nel corso del procedimento penale intervenga la prescrizione, che non vuol dire incolpevolezza ma soltanto che non si è riusciti a raggiungere una decisione in tempo utile. Anche così, comunque, le vite degli imputati restano «appese» alla loro sorte giudiziaria. E non sono poche, visto che in nove anni, dal 2001 al 2010 sono state la bellezza di un milione e 694.827, per una media annua di quasi 170 mila. Insomma, sono tanti quelli che hanno subito un ingiustizia dalla Giustizia. E alcuni magistrati, da questo punto di vista, rappresentano un record. Sono talmente tanti, ad esempio, i «mostri» sbattuti in prima pagina per le inchieste dell’attuale sindaco di Napoli (poi scarcerati con tanto di scuse e risarcimenti a carico dello Stato) che, alcuni cittadini esasperati hanno fondato «l’associazione vittime di De Magistris», nata nel 2008. Associazione che lega tra loro alcuni degli indagati delle inchieste dell’ex pm di Catanzaro, molte delle quali finite nel nulla. Vite distrutte per errori che rimangono puntualmente impuniti.

In ventidue anni l’Italia ha pagato 600 milioni di euro per ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, scrive Chiara Rizzo “Tempi”. I dati del ministero dell’Economia raccontano il disastro della nostra giustizia. Ma dal 1988 al 2011, solo quattro magistrati sono stati civilmente riconosciuti responsabili. Circa cinquanta mila persone sono state vittime di errori giudiziari, solo dal 1988 ad oggi: e lo Stato ha versato come risarcimento in questi 22 anni quasi 600 milioni di euro. Le cifre stanno lì, ben chiare e visibili a tutti, in un documento dell’Ufficio IX del ministero dell’Economia e delle Finanze che per primo ha consultato, e divulgato, il sito errorigiudiziari.com.

L’INGIUSTA DETENZIONE. La riparazione per ingiusta detenzione è stata istituita in Italia con il codice di procedura penale Vassalli nel 1988, insieme a quella per errore giudiziario. Nel primo caso, la riparazione è prevista per chi ha subìto custodia cautelare ma poi si vede assolto con sentenza irrevocabile, nel secondo per chi è stato condannato alla pena detentiva con sentenza definitiva e poi si vede assolto dopo un processo di revisione. Secondo i dati del ministero dell’Economia per questi motivi, dal 1991 quando si sono verificati i primi cinque risarcimenti, lo Stato ha versato per l’esattezza la bellezza di 575 milioni 698 mila euro, di cui 30 milioni per gli errori giudiziari (545 milioni 460 mila solo per le ingiuste detenzioni: oggi in Italia il 40 per cento dei detenuti è in custodia cautelare). In media, ogni anno, lo Stato versa circa 30 milioni di euro per indennizzi e in particolare nel 2004 è arrivato al picco di 56 milioni, nel 2002 di 49 milioni, nel 2001 ha superato i 47 milioni di euro.

GLI ERRORI GIUDIZIARI. Per gli errori giudiziari invece il picco si è avuto nel 2012, con ben 7 milioni di euro. Tempi.it ha ulteriormente spulciato il web, e scoperto che nel 2013 al momento è presentato un conto, nelle voci del Bilancio, con la richiesta di 16 milioni 782 euro per entrambe le voci (sono cumulate sia le ingiuste detenzioni che gli errori), mentre ulteriori 35 milioni di euro sono da corrispondere per la violazione del termine ragionevole del processo e per il mancato rispetto della convenzione europea dei diritti dell’uomo. E proprio quest’anno l’Italia ha ricevuto una sentenza definitiva di condanna dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni delle carceri, fuori dalle leggi, e per il sovraffollamento «sistemico e strutturale», che impone al nostro Paese di trovare una soluzione entro tre anni, anche con un maggiore ricorso alle misure alternative e ad una riduzione della custodia cautelare.

MAXI RISARCIMENTO E IMPUNITA’. Prima di diventare ministro della Giustizia, l’allora avvocato penalista Paola Severino, nel 2010 raccontava che «ci sono statistiche ufficiali secondo cui tra il 2003 e il 2007 ci sono stati 20mila errori giudiziari». Un numero impressionante, considerato il breve lasso di tempo di soli 4 anni. Tra i casi di maxirisarcimento sicuramente il più celebre è rimasto quello di Daniele Barillà, imprenditore che nel 1992 venne arrestato, poi condannato, perché scambiato per un trafficante di droga, salvo poi essere definitivamente assolto da un processo di revisione e risarcito con una cifra record, di 4,6 milioni di euro. Ha richiesto – giustamente – un risarcimento ancora più elevato nel gennaio 2013 Giuseppe Gulotta, l’uomo che ha trascorso 22 anni in carcere prima di essere definitivamente dichiarato innocente con formula piena. Oggi Gulotta chiede 69 milioni di euro, ma ancora non si sa se la sua causa verrà accolta. Errorigiudiziari calcola che tra uno e due terzi delle domande inoltrate per i risarcimenti (non esistono statistiche ufficiali e i dati sono variabili in base alle fonti) vengono accolte. Di fronte a questi numeri che mostra allo specchio lo stato mostruoso della giustizia italiana, fa riflettere un altro significativo dato. Nel 1988 venne introdotto anche l’istituto della responsabilità civile dei magistrati per errori giudiziari. Dal 1988 fino al 2011 solo 400 cause hanno superato il filtro preliminare, ma poi il 63 per cento sono state dichiarate inammissibili. Di queste sono giunte a sentenza 18, e con condanna del magistrato solo 4.

Quegli errori giudiziari che costano come una manovra, scrive Francesco Viviano su “La Repubblica”. Indagini approssimative. Magistrati (e legali) che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. Ma qualcosa adesso dovrebbe cambiare. Lo ha detto anche il ministro Severino. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni. Nei prossimi mesi, se i giudici della Corte d'appello crederanno alla "verità" riscritta dalle perizie, sarà assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990.  Se così dovesse accadere, il caso di Busco rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Parola di Guardasigilli, messa nero su bianco dal neoministro Paola Severino nella sua relazione sullo stato della Giustizia in Italia, presentata alla Camera a gennaio: "Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari". I condannati della strage di via D'Amelio. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno scorso, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio scorso, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali   insegnava   anche   a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole".  Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà". Proprio questo aveva dichiarato, nel dicembre del 2010, l'allora l'avvocato e docente universitario Paola Severino, commentando la pista falsa che, durante le indagini sul rapimento della piccola Yara Gambirasio, aveva portato in carcere il cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero quattro milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. "Nell'ultimo decennio ci sono state 8 mila richieste l'anno di risarcimento per ingiusta detenzione. E ben 2.500 sono state accolte. Ma la legge attuale non consente un adeguato risarcimento perché fissa il tetto massimo in 516 mila euro" afferma l'avvocato Gabriele Magno, bolognese, fondatore dell'Associazione nazionale vittime errori giudiziari. "Noi chiediamo l'abolizione di questo tetto, così come chiediamo che sia tolto il limite di tempo entro il quale si può avviare la causa di riparazione, che oggi è fissato in due anni dalla revisione del processo e dall'assoluzione". 213 milioni di risarcimento nel triennio 2004-2007. Senza considerare che ogni detenuto costa allo Stato 235 euro al giorno (la metà se è ai domiciliari): quanto pesano in termini di soldi gli errori giudiziari? I dati per i periodo 2004- 2007, forniti dal ministero dell'Economia, in quanto ufficiale pagatore parlano di 213 milioni di euro. I risarciti sono 3.600, per il 90 per cento italiani, per il resto stranieri. Il risarcimento più alto, di 4,6 milioni, lo ha ottenuto Daniele Barillà, scambiato nel 1992 per un trafficante internazionale di droga per il semplice fatto che aveva un'auto e una targa molto simili a quelle di un narcotrafficante pedinato dai carabinieri. Per Barillà, come per molti altri, oltre all'errore giudiziario, c'era il problema dell'ingiusta detenzione: cinque anni e mezzo, nel suo caso. "La vera novità è che per la prima volta, per lui, è stato accolto il concetto di risarcire il danno esistenziale" dice l'avvocato Magno. "Un danno che va ad aggiungersi a quello morale, biologico ed economico". Ma è sempre dei magistrati la colpa? No: l'avvocato Magno se la prende anche con i suoi colleghi: "In base alla mia esperienza, la responsabilità è dei giudici nella metà dei casi, per il resto è di noi avvocati: per i ricorsi presentati in ritardo, le scelte difensive sbagliate o gli errori procedurali. I magistrati possono sbagliare, come tutti: non ci interessa punirli, ma vogliamo venga risarcita la vittima e riabilitato il suo buon nome. E di fronte al rischio indennizzo, il giudice si autolimiterebbe e farebbe molta attenzione nell'adottare certi provvedimenti. Senza nulla togliere alla sua autonomia". L'attuale normativa sull'ingiusta detenzione e sugli errori giudiziari  -  secondo Magno  -  non sarebbe sufficiente per compensare chi ha subito danni quasi irreparabili. Così, la sua associazione ha già indicato alcune proposte di riforma: "La prima questione riguarda l'ingiusta detenzione e proprio il fatto che la richiesta di indennizzo è sottoposta a un limite di prescrizione di due anni dalla sentenza definitiva. Questo limite ci sembra assurdo, perché si crea una prescrizione brevissima che incide sull'efficacia reale della tutela di chi ha subito una simile ingiustizia. Vogliamo che quel limite di due anni sia sostituito con la clausola in ogni tempo, per dare modo a chiunque di rivalersi. Altra proposta: creare una sorta di automatismo che consideri le vittime di ingiusta detenzione privilegiate nel loro reingresso nel mondo del lavoro. Penso ai concorsi pubblici, dove la condizione di chi ha subito malagiustizia dovrebbe essere equiparata a quella dei portatori di handicap". Napoli, Le statistiche confermano che, negli ultimi 15 anni, sono state completamente scagionate oltre 300 mila persone. Soltanto tra il 1990 e il 1994, sono state quasi 24.500 le sentenze definitive pronunciate con la formula assolutoria più ampia: perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non ha commesso il fatto. Ad esse vanno aggiunte altre 73.326 persone assolte con una formula altrettanto liberatoria, ma più tecnica: il fatto non costituisce reato. In base ai dati disponibili, non proprio recentissimi, però, errori giudiziari o ingiuste detenzioni si registrano soprattutto al Sud. La Corte d'appello di Napoli guida questa classifica avendo riconosciuto il maggior numero di casi: 449 risarcimenti concessi nel 1999 (e 152 nel 2000), pari al 9,53 per cento del totale nazionale. In seconda posizione, la Corte di Reggio Calabria che, sempre nel 1999, ha dato al via libera a 420 autorizzazioni. Seguono Catanzaro e Palermo, con 412 e 406 sentenze nello stesso anno. Fino al 1999, oltre la metà dei risarcimenti sono stati riconosciuti da giudici del Sud, un quarto al Nord e un quinto al Centro. Ma altri indennizzi milionari, ben più consistenti di quello di Barillà, sono in arrivo. Se infatti, per i suoi cinque anni di prigione, lo Stato ha risarcito 4,6 milioni di euro, quanto dovrà rifondere agli ex ergastolani della strage Borsellino?

Troppi sbagli Ognuno di noi rischia la cella, scrive Valerio Spigarelli, Presidente dell’Unione Camere Penali, su “Il Tempo”.  Gli errori giudiziari ci saranno sempre. Il giudizio, infatti, come tutte le attività intellettuali, è fallibile per definizione ma, come dimostra l'inchiesta che Il Tempo... Gli errori giudiziari ci saranno sempre. Il giudizio, infatti, come tutte le attività intellettuali, è fallibile per definizione ma, come dimostra l'inchiesta che Il Tempo sta pubblicando in questi giorni, il grado e la diffusività degli errori e le modalità della loro riparazione testimoniano lo stato di salute di un sistema giudiziario. In Italia da tempo abbiamo accolto l'idea che la miglior ricostruzione dei fatti sia assicurata dal confronto tra le parti processuali, accusa e difesa, dinanzi ad un giudice terzo, equidistante tra i contendenti. Una condizione che ancora non si verifica, però, posto che pm e giudici fanno parte di un unico corpo giudiziario e dunque l'assetto è sicuramente sbilanciato a favore dell'accusa. Ebbene, una delle cause che alimentano la possibilità di errore giudiziario, è proprio l'appiattimento dei giudici rispetto alle richieste dei colleghi pm. Un effetto esiziale in un sistema accusatorio, sia in tema di custodia cautelare, sia nella conduzione del pubblico dibattimento. Quanto al carcere inflitto prima della condanna definitiva a chi, per precisa scelta costituzionale, si deve la qualifica di non colpevole, i numeri dimostrano questo squilibrio: oltre il 40 per cento dei detenuti italiani è in attesa di giudizio. Secondo il codice questo dovrebbe essere un avvenimento eccezionale ma è del tutto evidente che i giudici interpretano le regole in maniera assai largheggiante perché sono troppo sensibili alle richieste dei pm. Anche la riparazione dell'errore giudiziario soffre del medesimo problema: per stampellare le ragioni dello Stato la giurisprudenza è di manica stretta, tanto da imporre condizioni rigidissime, non previste dalle legge, per l'ottenimento degli indennizzi per ingiusta detenzione. Insomma, quando si finisce in cella per sbaglio, specie durante le indagini, si rischia di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano quando si chiede il conto dell'errore, e sempre per lo stesso motivo: la troppa vicinanza dei giudici agli interessi dello Stato. Una scelta sbagliata, che altera la ricostruzione dei fatti, aumenta il rischio di errore giudiziario, e frustra le aspettative di una riparazione equa. Per questo ci vuole la separazione delle carriere.

Scaglia e gli altri. I 10 errori giudiziari più clamorosi del 2013, scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Dieci vicende che coinvolgono personaggi noti e non, con alcuni aspetti in comune: l’insistenza dell’accusa anche davanti a prove di innocenza. Arresti cautelari seguiti da assoluzioni piene, condanne e scambi di persona, malfunzionamenti della burocrazia. I casi di errori giudiziari sono stati numerosi purtroppo anche in questo 2013, e spesso hanno in comune l’accanirsi dell’accusatore per anni, e malgrado vistose prove di innocenza. Qui una rassegna delle dieci vicende più clamorose del 2013, che coinvolgono personaggi noti e non, che con il loro pesante bilancio lasciano aperta la riflessione sul nostro sistema giustizia.

1. L’AFFAIRE SCAGLIA. Per il clamore suscitato, quello di Silvio Scaglia può essere definito sicuramente il caso giudiziario dell’anno. Scaglia, fondatore di Fastweb, nel 2010 è stato nominato da Forbes “13mo uomo più ricco d’Italia”, con un patrimonio di 1 miliardo di dollari Usa. Il 23 febbraio di quello stesso 2010, è stato arrestato in via cautelare dal Gip di Roma, accusato di associazione a delinquere per evasione fiscale. Si è sempre proclamato innocente, ma è stato ugualmente trasferito a Rebibbia, poi, dopo tre mesi, è stato messo agli arresti domiciliari. È stato scarcerato dopo un anno, il 24 febbraio 2011, ma solo il 17 ottobre del 2013 è stato assolto in primo grado da tutte le accuse, con formula piena.

2. IL MAXI RISARCIMENTO DI GULOTTA. Il 2013 si è aperto con la richiesta di maxi risarcimento più alta mai rivolta allo Stato italiano, 69 milioni di euro. La domanda è stata presentata da Giuseppe Gulotta, protagonista di una kafkiana vicenda. Arrestato quando aveva 19 anni, nel 1976, ha trascorso 22 anni dietro le sbarre, ed è stato condannato in via definitiva nel 1990 per omicidio e strage. Si è sempre proclamato innocente ma solo nel 2012, grazie alla testimonianza di un maresciallo dei carabinieri (che ha ammesso che le accuse contro Gulotta erano state ottenute con la tortura), si è celebrato il processo di revisione: a 36 anni dall’arresto, Gulotta è stato assolto da tutte le accuse con formula piena.

3. IL CASO D’AMICO. Il 12 aprile è morto, con il suicidio assistito in Svizzera, Pietro D’Amico, ex procuratore generale di Catanzaro. A spingerlo al gesto, sarebbe stata anche la forte depressione che lo accompagnava dal 2007, quando D’Amico è finito coinvolto negli “accertamenti tecnici” di Gioacchino Genchi e in un’indagine condotta dalla procura di Salerno. D’Amico è stato accusato di presunte fughe di notizie sull’inchiesta Poseidone, condotta dall’allora pm Luigi de Magistris. Nel 2011 la stessa procura di Salerno, non trovando alcun riscontro alle accuse, ha ottenuto l’archiviazione per D’Amico, ma il pg, amareggiato, aveva già abbandonato la toga.

4. FALLITO, MA ASSOLTO. Il 20 maggio a Salerno, prima ancora della conclusione del processo, il Tribunale su richiesta della procura ha assolto con formula piena l’imprenditore Lorenzo Maiolica e il padre 81enne Antonio, accusati di lottizzazione abusiva di un terreno industriale. Fino al 2003 i Maiolica sono stati proprietari di un’azienda leader nel territorio, con 30 punti vendita e 300 dipendenti: ma sono stati costretti a dichiarare il fallimento, perché coinvolti nell’indagine e perché in via cautelare la procura ha chiesto due volte il sequestro dei loro terreni, impedendo l’attività produttiva. Per due volte la Cassazione ha annullato i decreti di sequestro, ma ciò non è servito a evitare la bancarotta prima del giudizio di assoluzione dei Maiolica in tribunale.

5. QUATTRO ARRESTI PREVENTIVI. A luglio la corte d’Appello dell’Aquila ha riconosciuto un risarcimento di 55 mila euro per ingiusta detenzione a Antonio Lattanzi, ex assessore all’urbanistica di Martinsicuro (Te). Lattanzi è stato accusato di concussione nel corso di una “tangentopoli” locale, e arrestato in via cautelare nel 2002. Per quattro volte, in 83 giorni, la procura dell’Aquila ha chiesto e ottenuto dal Gip l’arresto cautelare, e per quattro volte il tribunale del Riesame ha annullato le ordinanze, per la mancanza di gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari. Lattanzi in seguito è stato assolto in tutti i gradi di giudizio, fino a quello definitivo, con formula piena.

6. DIECI ANNI IN CARCERE PER SCAMBIO DI PERSONA. A settembre si è aperto a Napoli il processo di revisione di Giovanni De Luise, 32 anni: da dieci anni in carcere, con una condanna definitiva per un omicidio di camorra, per il quale l’uomo si è sempre professato innocente. Solo nel 2013 la Procura di Napoli ha dato parere positivo alla revisione del processo, dopo che un pentito si è autoaccusato dell’omicidio, versione confermata anche da altri due ex camorristi. De Luise era stato scambiato per l’assassino solo perché come lui aveva «la faccia tonda».

7. ERRORE GIUDIZIARIO POST MORTEM. Il 7 ottobre, la Corte d’appello di Perugia ha riconosciuto il risarcimento di 6.800 euro per ingiusta detenzione cautelare a Fabrizio Reali Roscini: l’uomo nel 2007 è stato arrestato per 20 giorni, perché la procura di Perugia lo accusava di essere un anarco-insurrezionalista (i reati erano di banda armata, detenzione di armi e munizioni, danneggiamenti). Si è trattato di un clamoroso errore investigativo e prima della conclusione del processo la stessa procura ha chiesto il proscioglimento per Reali Roscini. L’errore giudiziario è stato riconosciuto, ma Reali Roscini non avrà mai il risarcimento: è morto nel 2010 per problemi di salute, amplificati dalla sofferenza psicologica per l’ingiustizia subìta.

8. INNOCENTE IN CARCERE. Vittorio Luigi Colitti, a 23 anni di Ugento (Le) ha già sulle spalle un drammatico errore giudiziario, e lo scorso 22 novembre ha chiesto un risarcimento da oltre 500 mila euro per 14 mesi di ingiusta detenzione. Colitti è stato accusato, a nemmeno 18 anni, di omicidio, in complicità con il nonno. Si è sempre proclamato innocente ed è stato assolto per ben due gradi di giudizio: l’ultima assoluzione, quella in appello nel 2012, è diventata definitiva. Per i mesi trascorsi ingiustamente carcere ha sviluppato, come ha accertato una perizia medica, «un disturbo post traumatico da stress di grado severo, attualmente in fase cronica».

9. BUFALA GIUDIZIARIA. Il 27 novembre il Giudice per l’udienza preliminare di Roma ha assolto con formula piena Ottavio Stefanini, commerciante di Selci, arrestato in via cautelare per spaccio di stupefacenti. Stefanini è stato riconosciuto innocente dopo 4 giorni in carcere e due mesi agli arresti domiciliari: è stato accusato per l’intercettazione di una telefonata in cui un uomo (in seguito condannato per spaccio) gli chiedeva «una treccia di bufala da 20 euro». La procura aveva pensato ad una frase in codice per indicare una partita di cocaina. Invece Stefanini effettivamente è un commerciante di mozzarelle di bufala, e non ha mai spacciato.

10. ASSOLTO, MA LO STATO GLI CHIEDE IL RISARCIMENTO. Vittorio Raffaele Gallo è un ex impiegato delle poste, ingiustamente accusato di essere stato il basista di una rapina a Roma. Dopo 13 anni di indagini e processi, un arresto in via cautelare e una condanna in primo grado, nel 2011 Gallo è stato assolto per non aver commesso il fatto, con sentenza definitiva, dalla corte d’Appello di Roma. Nel 2012, la stessa corte d’Appello gli ha riconosciuto un risarcimento di 75 mila euro per il drammatico errore giudiziario. Lo scorso 19 settembre la Corte dei conti ha emesso una sentenza con cui intima però all’ex impiegato delle poste di risarcire la rapina (557 mila euro) che non ha mai commesso: la sentenza della Corte dei conti è scattata in automatico dopo la condanna in primo grado, e non è stata mai aggiornata all’assoluzione definitiva.

Serena Grandi risarcita con 60mila euro, scrive “Il Tempo”. Serena Grandi ha ricevuto dalla Corte d'Appello di Roma un risarcimento di 60 mila euro per ingiusta detenzione. L'attrice era finita ai domiciliari per cinque mesi, dal novembre 2003 all'aprile 2004, con l'accusa di acquisto e spaccio di cocaina. A sei anni dall'apertura dell'inchiesta la sua posizione è stata definitivamente archiviata e alla Grandi, al secolo Serena Faggioli, è stato disposto un risarcimento. Lo hanno deciso i giudici della IV sezione penale della Corte d'appello di Roma, che hanno accolto l'istanza presentata dal difensore della star, l'avvocato Valerio Spigarelli. Nell'istanza del penalista si poneva in rilievo come anche la detenzione ai domiciliari avesse prodotto nell'attrice danni morali e materiali ingenti. In particolare, "danni psicofisici, costituiti da uno scompenso ormonale di rilevante gravità e da uno stato di depressione acuta; danni conseguenti alla lesione dell'immagine della rispettabilità sociale; e danni sul piano professionale, con riferimento particolare al mancato perfezionamento di numerose trattative in corso tramite l'agente Lele Mora, tra cui quella relativa alla partecipazione all'Isola dei famosi". La difesa della Grandi aveva per questo quantificato in poco meno di cinquecentomila euro l'ammontare del risarcimento. Per i giudici"le intercettazioni telefoniche, su cui unicamente si fondavano le accuse a carico di Serena Grandi, hanno un contenuto inidoneo a supportare quel quadro indiziario necessario per l'emissione della misura cautelare". La corte ha ritenuto che "appaiono rilevanti i danni morali onseguenti all'ingiusta detenzione, avuto soprattutto riguardo alla assoluta incensuratezza della Faggioli e alla gravità delle accuse e altrettanto rilevanti i danni conseguiti alla lesione dell'immagine e della rispettabilità sociale, anche per la notorietà acquisita dalla vicenda finita sugli organi di informazione".

Fratellini di Gravina 65mila euro al papà, scrive Michele De Feudis, su “Il Tempo”. Pagati i danni a Pappalardi in cella per errore. Un risarcimento per ingiusta detenzione, dal forte valore simbolico, è stato riconosciuto a Filippo Pappalardi, il papà dei fratellini di Gravina, Ciccio e Tore. La seconda sezione penale della Corte di Appello di Bari ha emesso una sentenza che indica in 65.500 euro l'indennità che gli spetta per aver subito una pesante privazione della libertà personale (100 giorni tra arresti domiciliari e detenzione in carcere) oltre a «gravissimi danni morali» legati all’attenzione dei media che ha accompagnato la vicenda della scomparsa dei due piccoli. Pappalardi, accusato di aver sequestrato i figli e di averli uccisi (poi scagionato da ogni addebito), per le misure cautelari non ebbe la possibilità di assistere al ritrovamento dei due bambini, morti in una cisterna, mentre partecipò, il 9 aprile 2008, ai funerali. Il legale dell'autotrasportatore barese, l'avvocato Angela Aliani, ha curato la richiesta di risarcimento danni: il Tribunale, smontando la strategia investigativa dell'accusa nelle dodici pagine del provvedimento di accoglimento, ha riconosciuto 20.500 euro per l'ingiusta detenzione (235 euro per 75 giorni in carcere e 117 euro per 25 giorni agli arresti domiciliari), e ben 45mila euro per danni morali, per danni «personali per non aver potuto vedere almeno per un’ultima volta i corpi dei figli», per i danni fisici conseguenti alla depressione generata da carcere e lutto. Nella cifra è compreso anche un risarcimento per i danni economici subiti, dal momento che fu allontanato dal lavoro. La vicenda giudiziaria di Pappalardi è emblematica di come indagini rivelatesi poi errate possano arrecare gravi danni ad un innocente: Pappalardi fu arrestato nel novembre 2007 per sequestro di persona, omicidio volontario e occultamento di cadavere, e solo dopo il ritrovamento dei figli (marzo 2008) il gip gli concesse i domiciliari. La libertà, dopo un autentico calvario mediatico e giudiziario, l'ha riacquistata quando le autopsie hanno certificato che i due bambini erano deceduti in seguito alla caduta accidentale in una voragine-pozzo a Gravina.

Ambrogio Crespi: «200 giorni in cella per colpa di un matto», scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Arrestato con l’accusa d’aver procacciato voti alla ’ndrangheta scopre da una perizia che il suo accusatore soffriva di gravissimi disturbi psichici. Ha trascorso 200 giorni in carcere, Ambrogio Crespi, 65 dei quali in isolamento. L’accusa? Aver procacciato 2500 voti in ambienti ’ndranghetisti milanesi per farli confluire sull’assessore lombardo Domenico Zambetti. L’inchiesta è quella che nell’ottobre del 2012 ha «terremotato» la Regione Lombardia. Ma a tirare in mezzo Ambrogio Crespi, fratello di Luigi, ex sondaggista di Berlusconi, è Eugenio Costantino, un millantatore reo confesso e compulsivo che ora una perizia psichiatrica descrive come affetto da «disturbi istrionici e narcisistici«. Un uomo instabile, dunque, capace d’inventarsi di tutto, anche di avere ottime conoscenze fra i malavitosi calabresi trapiantati a Milano. E di farlo solo perché, come disse in un interrogatorio, «è il mio modo d’essere». Un «modo d’essere» a cui i magistrati hanno però prestato più di un orecchio e che è costato a Crespi sette mesi di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa.

Crespi, forse è l’inizio della fine di un «incubo giudiziario»?

«Lo spero. La perizia psichiatrica del Tribunale dovrebbe fare finalmente chiarezza. Spero che i magistrati prendano atto degli errori commessi. L’8 maggio dovrebbe iniziare il processo. Vedremo cosa accadrà».

Il suo accusatore, già dopo il suo arresto, aveva confessato di essere un millantatore. Eppure nulla cambiava.

«Ho sempre detto di non conoscere né Zambetti né Costantino. Le mie presunte colpe si basano su un’intercettazione ambientale in cui Costantino afferma che io, controllando interi condomini milanesi, avrei procurato a Zambetti 2500 voti. Questo è del tutto falso. E Costantino lo disse subito che millantava. Non conosco i risvolti complessi di questa indagine, ma io ho detto e ridetto che non avevo nulla a che fare con questa vicenda. Eppure sono rimasto in carcere per sette mesi».

Le accuse dei magistrati, dunque, fanno acqua?

«Si basano sulle parole di Costantino, cioè sulle parole di un uomo giudicato instabile. Tutte le altre accuse sono state smontate dai miei avvocati già durante la detenzione».

Anche Zambetti, intercettato in carcere, la scagiona?

«Esatto. Afferma che non gli ho portato neanche un voto. Ma non solo, dice anche di non avermi mai conosciuto, com’è stato poi riscontrato. Io Zambetti l’ho conosciuto in carcere, se proprio dobbiamo dirla tutta».

Roberto D’Alimonte, studioso di flussi elettorali, ha “provato” che nelle zone che lei controllerebbe, Zambetti non ha avuto nessuno expolit elettorale.

«Zambetti ha preso meno voti proprio nelle sezioni sospette. Io sono cresciuto nel quartiere Baggio di Milano. Ma sa quante preferenze ha avuto Zambetti lì? Nove».

Sette mesi in carcere. Sarebbe dovuto uscire molto prima.

«Ho chiesto tre volte di essere scarcerato e per tre volte il Tribunal della Libertà di Milano mi ha detto di no. Anche in Cassazione è stata respinta la mia richiesta di scarcerazione. Mi ha colpito vedere nei filmati e nelle interviste, quando sono tornato in libertà, i miei due avvocati, Giuseppe Rossodivita e Marcello Elia, con le lacrime agli occhi dopo la decisione di farmi rimanere in galera.

Francesco Storace le aveva proposto la candidatura in parlamento.

«Quella richiesta, fatta pubblicamente da Storace, mi scaldò il cuore e mi diede molto coraggio. Ho rifiutato perché volevo uscire dal carcere senza nessun escamotage. Sono stato arrestato da normale cittadino e ho voluto essere liberato da normale cittadino».

Pensa di essere stata vittima di accanimento giudiziario?

«No, non lo credo, e spero di non dover annoverare il mio caso in quello di malagiustizia. Siamo ancora in tempo. Ho persino giustificato l’errore del mio arresto. Quello che faccio fatica a giustificare è il tempo che ancora corre in attesa di dichiararmi estraneo a questa vicenda».

Duecento giorni di carcere non sono già malagiustizia?

«Il carcere preventivo è un atto barbarico. Stare dentro da innocente è terribile. Adesso capisco perché le persone innocenti si ammalano, perché il carcere da innocente è insopportabile. Hai paura non di morire ma di vivere. Là dentro o ti ammali o ti uccidi».

Assolto dopo il suicidio, scrive Lorenzo Verrocchio su “Il Tempo”. Donato Ricci era accusato di aver truffato la Regione La moglie: «Vittima delle inchieste-spettacolo». Poco più di 24 ore di carcere bastarono ad insinuare nel cuore e nel cervello di un uomo disperato la lucida determinazione a farla finita. La sera di quel 9 febbraio del 1994 Donato Ricci portò una camomilla alla moglie, che si era già coricata, e scese in garage per mettere in atto la risoluta decisione di togliersi la vita utilizzando i gas di scarico dell’auto collegata con un tubo all’abitacolo. Ma chi era Donato Ricci e perché si tolse la vita? Oggi è solo un nome, uno dei tanti della sterminata schiera delle vittime della giustizia italiana (che abbiamo "scovato" negli archivi del Ministero dov’è rimasta per vent’anni), pagò un prezzo altissimo ad un clamoroso errore giudiziario, uno dei più intollerabili che si ricordino in Abruzzo; per la sua famiglia, per la moglie Loredana e i tre figli Marco, Stefano e Pieranna quel nome e quell’uomo hanno rappresentato invece un vuoto incolmabile, un’assenza dolorosa con la quale convivere per tutto questo tempo. «Mio marito - ci dice oggi al telefono la vedova Loredana Di Stefano - era un uomo solare e un marito devoto, desideroso di vivere, altruista e molto intelligente. Qualità che saltava subito agli occhi, tanto che in molti a Lanciano ancora oggi lo ricordano». Donato Ricci, insegnante all’istituto industriale di Chieti e ingegnere chimico laureatosi alla Sapienza, all’epoca presidente regionale dell’ente di formazione Enfap-Uil, era uno dei 23 arrestati, il 3 febbraio del 1994, nell’ambito dell’inchiesta Trafor (Trasporti e Formazione) della procura di Pescara sui fondi di formazione professionale impiegati per presunti corsi "fantasma". Si era nel pieno della tangentopoli abruzzese e la vicenda ebbe un grande risalto sui media locali e nazionali. Il sostituto Pietro Mennini, lavorando gomito a gomito col capo della Procura Enrico Di Nicola, aveva chiesto 23 misure cautelari in carcere per due filoni paralleli d’inchiesta, quello sui «pullman d’oro» e quello sui corsi fantasma di formazione professionale. Le manette scattarono ai polsi di ex assessori regionali, funzionari della Regione, imprenditori e, appunto, Donato Ricci. Il suo ruolo nell’organizzazione dei tre corsi "fantasma" risultò, per ammissione dello stesso Di Nicola, marginale; negli atti del procedimento l’ipotesi di reato riferiva che il Ricci «avrebbe procurato ad altri illecito beneficio». Per poter avviare le attività formative sull’uso delle nuove tecnologie occorreva però che un ente di formazione riconosciuto a livello nazionale facesse da garante. I corsi si dovevano tenere presso la società di trasporti Mazziotti, all’Assoform e alla Elea-Olivetti. Corsi che in gran parte, secondo i magistrati, restarono sulla carta ma per i quali le società interessate percepirono comunque i finanziamenti. Parte delle somme, secondo il duo Di Nicola-Mennini sarebbe andato anche al sindacato e allo stesso Ricci. «Una ricostruzione fantasiosa - continua Loredana, che lavorava allo stesso Enfap-Uil - In realtà due dei corsi erano stati unificati e, commettendo un gravissimo errore, si ritenne quindi che il 50 per cento del finanziamento fosse stato così indebitamente sottratto. Vi lascio immaginare che per l’intero insegnamento, pagato ai docenti centomila lire a ora per non più di dieci ore, parlare di "mazzette" appare quanto meno risibile, soprattutto per chi come noi aveva una consistente posizione economica». E allora, perché accadde tutto questo? «Di Nicola ha semplicemente sparato nel mucchio, alla cieca. Il suo obiettivo era quello di far emergere il marcio che in Abruzzo c’era, secondo lui, nel mondo della formazione professionale e in mezzo a tanta spazzatura sono rimaste anche le perle. Le indagini divennero uno spettacolo per l’opinione pubblica e mio marito è stato come altri una vittima di un sistema e di un determinato momento storico. Io non ce l’ho comunque con Di Nicola, nè conosco il sentimento dell’odio, come non lo conosceva mio marito. Non ho il diritto di giudicare, certo, ma oggi chiederei però a quel magistrato se abbia la coscienza a posto». Cosa ricorda di quel 9 febbraio, aveva sospettato che suo marito potesse arrivare a tanto? «Più che sospettare lo temevo. Ricordo di quella sera soprattutto le urla disperate dei nostri figli, il più grande aveva solo 16 anni. E rammento di essermi sentita offesa quando il capo della Procura dichiarò che non ci si può togliere la vita dopo un giorno in cella». Perché crede che Donato lo abbia fatto? «Mio marito amava la vita, per lui vivere significava gioire. Non avrebbe mai sopportato dopo tanto fango di leggere il dubbio negli occhi degli altri. Anche se la Corte d’Appello lo ha assolto nel Duemila "con formula piena" - e l’assoluzione post-mortem ha fatto giurisprudenza - non so se Donato sia mai stato del tutto riabilitato agli occhi della gente». Per l’ingiusta detenzione la famiglia Ricci ha avuto un risarcimento di 10 milioni di lire, donati alle famiglie bisognose di Lanciano.

Falso stupro, risarcito Ciavardini, scrive “Clemente Pistilli su “Il Tempo”. Un incubo l'esperienza vissuta quattro anni fa da Oscar Ciavardini, noto titolare di un'autoscuola con sede in via Fabio Filzi, e che ha portato ora la IV sezione della Corte d'Appello di Roma a riconoscere all'imprenditore 96.300 euro di risarcimento per l'ingiusta detenzione. Ciavardini era finito in manette, insieme al barista Douglas Molinari, a fine settembre 2005. Una 23enne di Latina, che lavorava nel bar di Molinari, aveva raccontato agli inquirenti di essere stata attirata in trappola, tre mesi prima, nella villetta del titolare dell'autoscuola, in via del Lido, e di essere stata vittima di abusi sessuali. I due passarono quindici giorni in carcere e otto mesi ai domiciliari e, fino alla conclusione del processo, furono sottoposti all'obbligo di firma. In aula, però, le difese iniziarono subito a battere su una serie di telefonate e di messaggi scritti dalla 23enne agli imputati, sulla cui autenticità si pronunciò poi un perito. Emerse così che lo stupro non era altro che un'invenzione della ragazza e, il 30 giugno 2006, fu lo stesso pubblico ministero, Raffaella De Pasquale, a chiedere l'assoluzione dei due latinensi. Quando la sentenza assolutoria pronunciata dal Tribunale di Latina divenne definitiva, Ciavardini e Molinari presentarono quindi ricorso per ingiusta detenzione e, dopo l'accoglimento di quello del barista, ora la Corte d'Appello ha riconosciuto l'indennizzo anche al titolare dell'autoscuola. Il difensore di Ciavardini, l'avvocato Oreste Palmieri, aveva presentato ai giudici romani un'articolata e lunga memoria. Il legale aveva evidenziato il forte danno subìto dall'imprenditore, sia morale che economico. «Quale padre manderebbe la propria figlia in un'autoscuola il cui titolare è stato arrestato per stupro?», aveva sottolineato l'avvocato. E, riconoscendo appunto quanto l'immagine di un uomo possa essere offuscata da accuse del genere in un centro di medio-piccole dimensioni come Latina, la Corte d'Appello ha riconosciuto a Ciavardini, un incensurato, un risarcimento notevole, 96.300 euro. A distanza di tre anni e mezzo dal blitz della Polizia sulla vicenda sembra chiuso definitivamente il sipario.

Galeotta fu la lettera «r». In cella 6 mesi senza colpa, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Il soprannome di Giancarlo era «Callo». Scambiato per il trafficante Carlo Elsa, barista considerata anarchica. Angelo, poliziotto arrestato per sbaglio. Sei mesi in carcere, tre ai domiciliari e altrettanti in libertà vigilata. E tutto per colpa di una «r» che nelle intercettazioni storpia il suo soprannome «Callo» nel nome di un trafficante di droga, Carlo. Gianfranco Callisti, dieci anni dopo, ha ottenuto l'assoluzione, le scuse del Tribunale di Bari e 50mila euro. Lo ammanettarono alle 5,30 del mattino i carabinieri spacciandosi per vigili del fuoco. La sua sfortuna è stata conoscere uno degli indagati nella maxi-inchiesta «Operazione fiume». Ci ha parlato un paio di volte al telefono ed è finito nel tritacarne. A Bologna, Elsa Caroli, si ritrova in manette nel blitz contro i bombaroli anarco-insurrezionalisti senza un perché. Resta in galera due settimane. Lo Stato le riconosce un indennizzo di 4mila euro. Ma, nel frattempo, è stata licenziata. Franco Moceri si fa sei mesi per aver costruito un muro che, tempo dopo, sarà utilizzato come «protezione» per una piantagione di cannabis. Ha preso 41mila euro. Per una (inesistente) mazzetta di 50 milioni di lire un (realissimo) indennizzo della stessa cifra per Baldassarre Furnari. Il pover’uomo «soggiornò» dietro le sbarre per venti giorni dopo essere stato ingiustamente accusato di concussione da un imprenditore. E che dire dell’ex comandante della polizia provinciale di Lodi, Angelo Ugoni, oltre due mesi e mezzo in carcere per corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio senza aver fatto nulla? È stato risarcito con 50mila euro. Ma la sua carriera è stata polverizzata.

50.000 VITTIME, scrive “Il Tempo”. Gezim Muca finisce in manette nel 1996 per sequestro di persona; trascorre 210 giorni di carcere: la Corte d'appello gli riconosce 120 milioni di risarcimento. Arben Kola, 1996, viene arrestato con...

Gezim Muca finisce in manette nel 1996 per sequestro di persona; trascorre 210 giorni di carcere: la Corte d'appello gli riconosce 120 milioni di risarcimento . Arben Kola , 1996, viene arrestato con l'accusa di sequestro di persona; resta 210 giorni di carcere: riceverà dallo Stato 120 milioni di lire di risarcimento. Dritain Peculi , 1996, sempre per sequestro di persona e sempre con una detenzione che arriva a 210 giorni di carcere, ottiene un assegno di 120 milioni di lire. Ardian Buzzani , 1999, lo fermano per prostituzione; trascorre 21 giorni in un penitenziario: il risarcimento per ingiusta detenzione ammonta a 12 milioni di lire. Anna Iacono , 1992, è indagata per associazione camorristica; in galera ci rimane 270 giorni, l'indennizzo è di appena 12 milioni. Roberto Salmoiraghi , 2006, viene accusato di corruzione dai pm; assolto, ottiene 11mila euro di risarcimento. Gino Protto , 1994, indagato per falso e truffa, sconta 14 giorni di carcere preventivo a fronte dei quali ottiene 11mila euro di risarcimento. Enzo Sindoni , 2012, deve rispondere di truffa: per 22 giorni di carcere, gli riconoscono appena 11mila euro. Gianluigi Centofanti , 2002, finisce dentro per omicidio preterintenzionale; ci resta 120 giorni e alla fine lo Stato lo rimborsa con 112mila euro. Norberto Molini , 1999, è accusato di spaccio di droga; sconta 180 giorni di carcere e viene rimborsato, dalla Corte d'appello, con un assegno da 110mila euro. Klaus Rainer , 1999, viene anche lui sottoposto a fermo per droga; il gip lo lascia 180 giornicarc di ere: alla fine, otterrà 110mila euro. Salvatore Pangallo , 1999, per i pm è un picciotto, un uomo d'onore: per 479 giorni di carcere, viene liquidato con 110mila euro. Karl Schweigkofler , 1999, lo mettono sott'inchiesta per droga; passa 160 giorni in stato di detenzione, alla fine, l'assegno è di 110mila euro. Francesco Adesso , 2013, è accusato di violenza; la sua detenzione dura 17 giorni, a fronte dei quali ottiene 10mila euro come "scuse" da parte dello Stato italiano. Claudio Pedicone , 2002, viene indagato per sfruttamento della prostituzione; accusa che gli costa 90 giorni di carcere e che lo Stato quantifica in appena 10mila euro di indennizzo. Luca Delli , 2002, è indagato per reati da paura: omicidio e soppressione di cadavere; si fa 38 giorni di carcere e si ritrova, dopo l'assoluzione, senza scusa e con una "mancia" da 10mila euro. Salvatore Cacace , 2004, lo ritengono colpevole di tentata violenza sessuale; 27 giorni di detenzione valgono 10mila euro. Walter Di Clemente , 2012, finisce in un fascicolo giudiziario per droga con un "soggiorno" detentivo di 12 giorni che vale 10mila euro tondi tondi. Daniele Perrucci , 2012, trascorre 2 giorni di carcere per l'accusa di omicidio, per lui, l'assegno sarà di 10mila euro. Z.C., 1999, un bel giorno si scopre mafioso: trascorre 365 giorni di carcere: dopo la sentenza di assoluzione, passa all'incasso dei 107mila euro di indennizzo. Sergio Marcello Gregorat , 1996, finisce nei guai con l'accusa di violenza sessuale; tutto falso, otterrà 100mila euro di "buonauscita". Ben Mansour , 2002, lo mettono in galera per terrorismo; dopo 540 giorni di custodia cautelare, ritirerà l'assegno firmato dal ministero del Tesoro: 100mila euro. Così il suo presunto complice, Mohamed Ikbal , 2003, anche lui accusato di terrorismo e anche lui per 540 giorni ospite delle patrie galere: il risarcimento è lo stesso, 100mila euro. Ottavio Zirilli , 2003, è indagato per corruzione; la custodia cautelare si ferma a 80 giorni per 100mila euro di indennizzo per ingiusta detenzione. Pino Torielli , 1993, lo ritengono addirittura un omicida; il suo incubo dura 131 giorni di carcere: il ministero gli riconoscere 100 milioni di lire di indennizzo. Giovanni Martelli , 1993, accusato di spaccio di droga, trascorre 165 giorni di detenzione preventiva: alla fine del processo in Cassazione, chiederà e otterrà 100 milioni di lire. Clelio Darida , 1993, finito nel mirino dei pm con l'accusa di corruzione, trascorre 54 giorni in custodia cautelare: i magistrati gli riconoscono il danno subito e lo liquidano in 100 milioni di lire. Altin Leka , 1997, è sottoposto a fermo con l'accusa di rapina; viene privato della libertà per 450 giorni: il risarcimento è di 100 milioni di lire. Vincenzo Deaglio , 1992, per il reato di abuso ufficio trascorre 25 giorni in stato di detenzione: l'indennizzo? Quasi da ridere: 10 milioni di lire. Ottavio Berardo , 1993, è indagato per rapina; così, trascorre 90 giorni in regime di custodia cautelare: l'errore della giustizia vale, per lui, 10 milioni di lire. Donato Ricci , 1994, viene travolto da una storia di tangenti e passa 7 giorni in carcere: i giudici gli riconosceranno 10 milioni di lire di indennizzo. Vincenzo Campana , 1994, trascorre 75 giorni di custodia cautelare per omicidio: 10 milioni di lire. Dario Ruggiero , 1994, è considerato un armiere dai pm, che lo spediscono 4 giorni in carcere; ricostruzione errata, risarcimento tocca quota 10 milioni di lire. Maurizio Corleone , 1994, è accusato di tentata estorsione; la misura cautelare sfonda il tetto dei 100 giorni (107 in realtà) ma per i giudici sono sufficienti 10 milioni di lire per ristorarlo. Leonard Zaimi , 1999, per i pubblici ministeri sarebbe uno dei capi di un giro di prostituzione; gli fanno fare 76 giorni di carcere, ma poi davanti all'assoluzione, il ministero dell'Economia gli deve 10 milioni di lire di risarcimento. Rudi Poli , 1999, secondo i magistrati, sarebbe un camorrista: le assoluzioni a raffica non gli fanno ottenere più di 10 milioni di lire. Francesco Sossi , 1992, deve rispondere di traffico di armi e ricettazione; 4 giorni di carcere gli "fruttano" 1 milione di lire. Vito Sacconi , 1992, viene ritenuto colpevole di truffa ed estorsione, e per questo sottoposto a una misura cautelare che dura 80 giorni, il risarcimento è tra i più alti mai pagati dal ministero del Tesoro: 1 miliardo di lire. Nicola Siccardi , 2003, finisce sott'inchiesta per corruzione; scattano le manette e una detenzione lunga 180 giorni: sarà risarcito. Naim Stafa , 1998, si ritrova davanti al giudice per violenza sessuale; in totale, trascorre 720 giorni di detenzione: sarà assolto e risarcito. Ines Pagnozzi , 2000, è processata per appartenenza a un clan di camorra; 91 giorni di detenzione, ottiene il risarcimento dopo l'ennesima assoluzione. Terenzio Mué , 2002, deve rispondere di ricettazione, corruzione e truffa; la detenzione è assai lunga: 900 giorni: anche lui, otterrà l'assegno firmato dal ministero del Tesoro. Turi Lombardo , 1994, lo mettono ai ceppi per corruzione e lo lasciano in custodia cautelare per 130 giorni: 210mila euro è l'entità del risarcimento che riesce ad ottenere. Adriana Iacob , 2013, passa 900 giorni di detenzione per l'accusa di omicidio: l'assegno porta questa cifra: 210mila euro. Anastasia Montanariello , 2000, finisce sott'inchiesta per corruzione di minori; sopporta la custodia cautelare, e alla fine le riconoscono 20mila euro; Calogero Giordano , 2004, è imputato per turbativa d'asta, passa 180 giorni di detenzione, e alla fine incassa 20mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. Gheorghe Florin , 2007, per l'accusa di violenza sessuale "soggiorna" 90 giorni in regime di custodia cautelare: otterrà solo 20mila euro. Donato Privitell i, 2012, sarebbe secondo i pm un corriere della droga: il gip lo lascia 101 giorni in custodia cautelare, salvo poi essere assolto e risarcito con 20mila euro per ingiusta detenzione. Vincenzo Fragapane , 2012, i giudici sono convinti che faccia parte della mafia siciliana: "dona" alla malagiustizia 500 giorni della sua vita, e la magistratura gli restituisce 204mila euro. Antonio Gava , 1993, è l'unico ex ministro dell'Interno finito in un'inchiesta per associazione camorristica: 180 giorni di detenzione domiciliare: assolto, e risarcito da quello stesso Stato che aveva rappresentato per tanti anni con un assegno da 200mila euro, Vincenzo Guarneri , 2004, lo tirano in ballo per una storiaccia di mafia; 780 giorni di detenzione non sono facili da smaltire, ma per i magistrati un assegno da 200mila euro può andar più che bene. Roberto Giannoni , 1992, anche lui è indagato per mafia; la sua detenzione cautelare dura giusto la metà: 365 giorni ma ottiene 200 milioni di lire. Piero Pizzi , 1993, agli occhi dei sostituti procuratori che lo ammanettano sarebbe un tangentista: gli unici soldi che incassa, invece, sono i 200 milioni di lire di risarcimento danni, dopo le assoluzioni. Adriatik Goga , 1994, è indagato per droga e un bel po' di reati minori: la custodia cautelare arriva a 440 giorni ma il risarcimento per ingiusta detenzione si ferma a 200 milioni di lire. Salvatore Giambrone , 1993, finisce in galera in un’inchiesta assai complessa: assai facile, invece, è la procedura per ottenere il risarcimento che tocca 20 milioni di lire. Filippo Portaro , 1995, droga, 27 milioni di lire; Filippo Portaro , 1999, droga, 1020 giorni di detenzione, 52 milioni di lire;  Claudio Sanna, continua “Il Tempo” , 1991, per i pm che gli mettono i ceppi ai polsi è un trafficante di droga; per questo, resta 130 giorni in stato di fermo: risarcimento? Appena 3 milioni di lire. Anche Fausto Giunta , 1993, accusato di corruzione, ottiene 3 milioni di lire di risarcimento. Daniele De Santis , 1994, per danneggiamento, passa 50 giorni di custodia cautelare, ma il suo risarcimento si ferma anche per lui a 3 milioni. Domenico Di Domenico , 2011, viene arrestato per guida in stato di ebbrezza; trascorre 10 ore in una camera di sicurezza e ottiene 2mila euro. L’ex manager di Stato Vito Gamberale , 1993, finisce in manette per concorso in tentata concussione; dopo 126 giorni di detenzione, ottiene 290 milioni di lire. Francesco Nangano , 1995, per mafia trascorre la “bellezza” (per modo di dire) di 1740 giorni di custodia cautelare: ottiene 270mila euro di risarcimento. Antonio Turia no , 1992, è accusato anche lui di mafia; 240 di detenzione e 27 milioni di lire di “buonauscita”. Salvatore Muroni , 2012, sotto processo per violenza sessuale, dopo 121 giorni di detenzione, ottiene 26mila euro. Domenico Frustagli , 1991, è sott’inchiesta per mafia; 13 giorni di detenzione, 26 milioni di lire di risarcimento. Antonio Commoda ri , 1991, è pure lui indagato per mafia, ma nel suo caso la custodia cautelare dura soltanto 13 giorni; ottiene, 26 milioni di lire. Il prefetto Ennio Blasco , 2001, viene ingiustamente arrestato per truffa e abuso d'ufficio; 16 giorni di detenzione domiciliare e appena 25mila euro per una carriera distrutta. Bortolo Mainardi , 1995, sott’inchiesta per estorsione e concussione; passa 18 giorni di custodia cautelare, ottiene in cambio 25mila euro di risarcimento. Paolo Garbano, 1998, per rapina, passa un solo (orribile) giorno di detenzione; gli riconoscono i giudici un indennizzo di 2500 euro. Nicolò Nicolosi , 1993, è accusato di voto di scambio, 63 giorni di detenzione e 250 milioni di lire. Bruno De Santis, 1991, viene ingiustamente arrestato per omicidio e, dopo 310 giorni di detenzione, rimborsato con 25 milioni di lire. Mario Mirko Barison , 1996, è colpevole di rapina secondo i giudici, che lo lasciano in arresto per 48 giorni, salvo poi rimborsarlo con 25 milioni di lire. Adrian Florian , 2007, è imputato per violenza sessuale; 90 giorni di custodia cautelare e 24mila euro di risarcimento. Edmondo Arapi , 2012, è coinvolto in un fascicolo per omicidio, e l’arresto ingiusto che ne consegue viene indennizzato con appena 24mila euro. Remo Molteni , 1993, sarebbe un traf ficante di droga secondo il capo di imputazione; dopo 164 giorni di detenzione, ottiene 24 milioni di lire. Gigi Sabani , 1995, viene arrestato per truffa e induzione alla prostituzione, passa 13 giorni di custodia cautelare: una carriera polverizzata “ripagata” con 24 milioni di lire. Duran Castillo , 2013, finisce in manette nove giorni per droga: indennizzo deciso dai giudizi? Appena 2250 euro. Valentino Tavolazzi , 1995, è per i pm il cervello di un giro di tangenti; 25 giorni di custodia cautelare e 22 milioni di lire di risarcimento. Antonio Cimino , 1994, per corruzione, passa in stato di arresto un bel po’ di tempo: l’assegno per ingiusta detenzione è di 21mila euro. Tanti quanti ne prende Emanuele Zanoncini , 2008, accusato di rapina che trascorre 120 giorni di detenzione. Angelo Ugoni ; 2007; è accusato di corruzione in atti giudiziari; passa 78 giorni in stato di detenzione; 50mila euro è il risarcimento che il suo avvocato riesce a ottenere dalla Corte d'appello. Antonio Di Nicola , 2011, viene ammanettato nell'ambito di una maxi-operazione per droga; resta quasi un anno in stato di fermo (210 giorni di detenzione) e ottiene, anche lui, 50mila euro. Gianfranco Callisti , 2013, viene anche lui indagato per reati legati al mondo della droga; i giorni di detenzione, nel suo caso, sono addirittura maggiori: 270, ma identico l'indennizzo liquidato dal ministero del Tesoro: 50mila euro. Serafino Generoso , 1992, è imputato per tentata concussione; per i 10 giorni trascorsi in stato di detenzione, ottiene 50 milioni di lire. Luigi Petrini, 1993, si ritrova al centro di un maxi-scandalo con ricatti e tangenti; trascorre 13 giorni di detenzione, e alla fine lo Stato lo "rimborsa" con 50 milioni di lire; Stefano Pala , 1993, accusato di rapina, passa 50 giorni di detenzione; la Corte d'appello lo "ripaga" con un rimborso di un milione al giorno: in totale, 50 milioni di lire. Ettore Scarfò, 1993, finisce in manette addirittura per omicidio; i giorni di detenzione sono 368 a fronte di un indennizzo di 50 milioni di lire. Giovanni Franzoso , 1994, finisce sott'inchiesta per falso in bilancio; dopo 6 giorni di detenzione, si ritrova tra le mani un assegno da 50 milioni di lire. Stessa cifra che arriva anche a Piero Bava , 1994, accusato ingiustamente di falso in bilancio e detenuto per 6 giorni. Carmelo Nista , 1994, processato e assolto per omicidio, viene liquidato con 50 milioni di lire. Anche Baldassarre Furnari , 1994, arrestato ingiustamente con l'accusa di concussione e "ospite" per 20 giorni dello Stato, ottiene la stessa cifra. Kuze Radulovic , 1992, 32 per giorni di detenzione, incassa la miseria di 5 milioni di lire. Così Giovanni Andreoni , 1993, trascinato in una storiaccia di reati contro la Pubblica amministrazione con appendice di 14 giorni di detenzione. E così anche Giuseppe Iannone , 1995, accusato di essere un usuraio; 30 giorni di detenzione, e 5 milioni di lire di risarcimento. Elsa Caroli , 2012, trascorre 14 giorni di detenzione con l'accusa (rivelatasi infondata) di associazione sovversiva; 4mila euro appena l'indennizzo. A Joy Idugbor , 2012, arrestato in un'indagine per riduzione in schiavitù, dopo 180 giorni di detenzione e assoluzioni a raffica, vanno 48mila euro. A Gianni Mastarone , 1996, accusato di omicidio, dopo 210 giorni di detenzione, vanno 47 milioni di lire. Giuseppe Pecorilli , 1999, viene arrestato per violenza sessuale; per 180 giorni di detenzione, 45mila euro. Carlo Iacovelli , 2010, messo sott'inchiesta per corruzione e abuso d'ufficio, dopo 90 giorni di detenzione, gli vengono riconosciuti 45mila euro. Adnan Peculi , 1996, accusato di sequestro di persona, dopo 60 giorni di detenzione, ottiene 45 milioni di lire. Francesco Lauria , 1996, finisce coi ceppi ai polsi per omicidio per 210 giorni: l'assegno? Appena 45 milioni di lire. Mohamed Hamzaoui, 2002, arrestato per droga, dopo 190 giorni di detenzione incassa 44mila euro. Vincenzo Federico , 1999, accusato di traffico di droga, dopo 240 giorni di detenzione, si ritrova con un assegno di appena 42mila euro. Hassan Issa , 2011, anche lui ammanettato con l'accusa di traffico di droga, per 150 giorni di detenzione, ottiene 42mila euro. Franco Moceri , 2013, arrestato sempre per droga, per 180 giorni di detenzione, ottiene un riconoscimento per ingiusta detenzione di 41mila euro. Vincenzo Daglio, 1992, sott'inchiesta per abuso d'ufficio, trascorre una custodia cautelare di 10 giorni in "cambio" di un indennizzo di 10 milioni di lire. Giuseppe Andronico, 2001, viene messo sotto processo per omicidio, dopo 1000 giorni di detenzione, ottiene un risarcimento pari a 150mila euro. Gianfranco Crenna, 1983, accusato ingiustamente di corruzione, dopo 11 giorni di detenzione, viene indennizzato con 15 milioni di lire. Ernesto Cavallero, 1983, anche lui indagato per corruzione, dopo una detenzione lunga 11 giorni, riceve la stessa cifra: 15 milioni di lire. Vita La Mari, 1993, mafia, per 480 giorni di detenzione, incassa 32 milioni di lire. Samuel Balou, 2006, accusato di violenza sessuale, passa 163 giorni in stato di fermo; la Corte d’appello non va oltre un indennizzo da 5810 euro. A Franco Covello , 1996, coinvolto in un processo per tangenti, dopo una detenzione carcere/domiciliari lunga, in totale, 285 giorni, vanno 100 milioni di lire.

HANNO CHIESTO IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE

Leke Prebibaj, 730 giorni in cella, Salvatore Natalino, 93 giorni, Emanuele M., 368, Giuseppe Valentini, 870, Giuseppe Gulotta, 7.920, Davide Matzeu, 26, Samuel Gino Apogeo, 26, Samuel Caforio, ergastolo (in attesa revisione processo), Giovanni Pedone, 2.520, Francesco Aiello, 2.520, Cosimo Bello, 2.520, Salvatore Donadei, 12, Yili Muca, 15, Mario Stracqualursi, 58, Carmine Torella, 10, Mauro Scatolini, due giorni, Abdelhamid Chaar, 17, F. G., 13, N. T., 13, Settimio Passalaqua, Paolino Di Marco, Fabrizio Barone, 21, Renato Bertozzi, 180, Giuseppe Acciaro, 1.440, Egidio Rangone, cinque giorni, Mario La Mari, 1.825, Flavia Verardi Pignanelli, 28, Florenc Seferi, 1.260, Sergio Ferrandino, dieci giorni, Maria Carella, dieci giorni, Giovanni De Luise, 2.920 giorni in carcere.

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Le Brigate nere del voyeurismo giudiziario. La Corte d’appello di Milano ha smontato il processo Ruby-Berlusconi, una fiction contrabbandata per processo penale, mentre un manipolo di giornalisti guardoni insiste nel tentativo di lapidazione pubblicando intercettazioni irrilevanti, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”.  Lo dico con assoluta certezza: sono stati anni di piombo. Anni putridi, in cui nel nome della superiore necessità di distruggere quel nemico personale e politico chiamato Silvio Berlusconi, s’è sparato ad alzo zero come negli anni più bui della Repubblica. Non abbiamo sentito il rimbombo dei colpi di P38 ma abbiamo sulla nostra pelle le cicatrici di micidiali pallottole di carta mentre le molotov sono state sostituite da vergognose serpentine televisive. E d’altronde l’humus quello era. Quello, cioè, di un gruppo di reduci del ’68 che occhieggiavano alla lotta armata senza impugnare una pistola perché tanto a fare il lavoro sporco ci pensavano i poveracci della classe proletaria. È il loro «stile», che inizia col lurido manifesto contro il commissario Calabresi dopo la morte di Giuseppe Pinelli. Venne pubblicato per tre settimane di fila dal settimanale L’Espresso nel giugno del 1971, meno di un anno dopo Luigi Calabresi veniva ucciso dalla manovalanza di Lotta continua su incarico dell’ideologo del gruppo Adriano Sofri. Quel manifesto agghiacciante che «ricusava» la legge e bollava come «torturatore» il commissario lo firmarono in 757 (andatevi a leggere chi lo sottoscrisse e vi sembrerà di partecipare a una riunione di redazione del gruppo L’Espresso). Non è stato perciò sorprendente, per me, leggere la scorsa settimana su L’Espresso un articolo che dava conto di una intercettazione telefonica del luglio 2013 tra me e Marina Berlusconi della quale ignoravo l’esistenza non essendomi mai stata consegnata dai signori magistrati. Ma all’Espresso, ribadisco, lo stile impunito della casa è questo. Che permette, nonostante una diffida legale, la pubblicazione di un atto penalmente irrilevante qual è questa conversazione tra il direttore e il suo editore, non indagato, in un procedimento comunque archiviato ben quattro mesi fa. Una barbarie assoluta. La cui presunta rilevanza pubblica viene giustificata meschinamente ai propri lettori con il bla bla politico che vuole Marina Berlusconi prossimo leader del centrodestra. Quell’intercettazione, tra l’altro, rappresenta uno dei punti più bassi nella storia giudiziaria italiana. Per settimane, infatti, sull’onda di un’ipotesi di reato offensiva e palesemente farlocca (si presumeva che io avessi corrotto qualcuno per avere uno scoop) vennero ascoltate migliaia di telefonate su 24 utenze in uso al sottoscritto, al vicedirettore esecutivo, al capo della redazione romana, a un giornalista e a un collaboratore. Una gigantesca operazione degna della peggiore Stasi. Un anno fa, appena seppi di questa enorme infamia mascherata da investigazione, misi in guardia dal fatto che «conversazioni personalissime» sarebbero potute finire «nelle mani di giornalisti guardoni» e invocai l’intervento del presidente della Repubblica in qualità di presidente del Consiglio superiore della magistratura, di garante della Costituzione laddove è contemplata la libertà di stampa. Il presidente Napolitano, che ha dimostrato anche recentemente di saper far sentire (eccome!) la sua voce al Csm, non ha mosso un dito. Non l’hanno fatto, se è per questo, neppure i miei colleghi conigli che rappresentano la categoria. Il risultato è che, certamente dall’interno di un ufficio giudiziario, è stata consegnata all’Espresso la telefonata numero 831 (vi rendete conto quante migliaia ne hanno ascoltate!) tra me e Marina Berlusconi. Invocare non un intervento, ma anche una sola parola di condanna da parte di Matteo Renzi sarebbe inutile: il ragazzino deve essere così atterrito dai signori in toga che – pensate in che mani siamo – ha smesso di mandare sms o rispondere ai miei da quando il 30 maggio scorso ho scritto che i nostri scambi sarebbero stati letti anche da «qualche pubblico ministero che controlla le mie comunicazioni».  Il silente ministro della Giustizia, che un giorno sì e l’altro pure corre a confessarsi con Repubblica, potrebbe trovare la favella visto che è alle prese con la riforma anche delle intercettazioni telefoniche. Faccia il seguente esercizio per sentire scorrere un brivido: provi a pensare se una sua conversazione intercettata in cui magari si sfoga e, che so io, dà dello stronzo a Renzi potrebbe finire sui giornali. Brutta roba, eh? Però, vedete, questa è ahimè l’Italia che negli anni di piombo ha lapidato Berlusconi e chiunque gli stesse vicino. È l’Italia che ha additato come «guardie armate» di Berlusconi facenti parte di un’orrida Struttura Delta alcuni direttori del gruppo Mondadori, Mediaset e del Giornale colpevoli, Repubblica dixit, di «propiziare “atti sediziosi” e inquinare fatti incontrovertibili» come l’indagine su Ruby. È l’Italia che ha calpestato la dignità di ragazze che frequentavano Arcore dandogli lo stigma di puttane a vita. È l’Italia dei maître-à-penser che nel 2011 sputavano sul proprio Paese scrivendo sul New York Times articolesse per spiegare «Why have italians, especially the women, tolerated Mr. Berlusconi for so long?». È l’Italia che ha criminalizzato chi si riconosceva in una parte politica e che si è bevuta, nel 2011, un colpo di Stato morbidissimo consumato sull’onda del voyeurismo giudiziario e sull’imbroglio dello spread. Adesso che la Corte d’appello di Milano ha smontato questa fiction agghiacciante contrabbandata per processo penale è il caso di ricordare ciò che Marina Berlusconi disse a Panorama, non intercettata ma in un’intervista, nel maggio del 2013 a proposito della vicenda Ruby: «Finirà tutto in una bolla di sapone, ma all’associazione della gogna non importa nulla di come andrà a finire, interessa solo la condanna mediatica. E, quando il teorema dell’accusa crollerà, quale interdizione dovrebbe essere chiesta per coloro che hanno costruito questa montatura infernale?». Vedremo adesso che cosa succederà nell’Italia del 2014 che si dice coraggiosa e che, finora a parole, vuol cambiare verso.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Ruby e Puttanopoli sono la più grande sconfitta di Ilda Boccassini. E di qualche giornalista. Forse sì, forse è la più grande sconfitta patita della procura di Milano in vent’anni di processi ad personam contro Silvio Berlusconi. Questa non è l’America, dove un procuratore sconfitto ha delle immediate ripercussioni sulla carriera: qui un procuratore sconfitto fa subito ricorso contro il malcapitato, s’infila in cento altri processi contro di lui, se necessario prosegue la sua campagna per quindici o vent’anni, certo, sì. Ma stavolta la sconfitta non ha rimedio perché è inequivoca, netta, il reato non esiste e stop, non ci sono margini (manca soltanto il sigillo della Cassazione) e stiamo parlando del processo più rumoroso, mondialmente sputtanante e al tempo stesso più semplice da capire, l’unico che era stato ampiamente pre-giudicato dall’opinione pubblica e l’unico, soprattutto, che a suo modo pareva perduto dalla procura anche dopo la vittoria in primo grado. Ora gli esterofili si divertirebbero nel chiedersi «in quale Paese al mondo» una procura possa processare un capo del governo per concussione e prostituzione minorile e poi, dopo la sconfitta, uscirsene come se nulla fosse, come se la sua azione in nome del popolo italiano non si fosse tradotta in un sostanziale danno al popolo italiano. In quale altro Paese - Di che parliamo? Di una campagna mediatica spaventosa, senza paragoni con qualsiasi altra, migliaia di intercettazioni che hanno sputtanato uomini e donne costrette in qualche caso a rifugiarsi all’estero, una task-force di magistrati che ha strapazzato le regole pur di aggiudicarsi un processo che spettava ad altri e che ha contribuito a sfaldare la procura davanti al Csm, e tutto per una domanda che da ieri è alla portata di tutti, cittadini e giornalisti e politici e giudici di ogni orientamento, ossia questa: ci voleva tanto? Ci voleva tanto a capire che era tutta un’immensa e pruriginosa cazzata? Era così difficile - anche senza scomodare procedure e giurisprudenze - capire che quella telefonata non era una concussione? Che una concussione senza concussi resta improbabile? Che la signorina Ruby si era facilmente spacciata per maggiorenne senza esserlo? Che una furbastra e una mitomane è da considerare sempre furbastra e sempre mitomane? Che un rapporto sessuale negato, in un’aula di giustizia, non si può dimostrare per teorema? Che per anni e anni e anni ci siamo occupati solo degli stracazzi personali di Silvio Berlusconi? C’erano quelli, nelle 500 pagine di allegati che giunsero alla Camera il 17 gennaio 2011 assieme alla richiesta di perquisizione per l’ufficio di Giuseppe Spinelli, ragioniere dal quale partivano bonifici per alcune «olgettine» già ospiti delle serate a villa San Martino: c’era il «sistema Arcore», quello in cui giovani donne facevano semplicemente quello che volevano e non facevano quello che non volevano. Un giorno s’infilò una minorenne che Ilda Boccassini definì di «furbizia orientale» (anche se era marocchina e il Marocco è a Occidente) ed ecco che la mitica procura di Milano si scaraventò a perseguire il reato notoriamente più grave e urgente: un caso di sospetta prostituzione minorile. E quattro anni dopo non è una sconfitta, è un’ecatombe. Egregio vicepresidente del Csm Michele Vietti, sono queste le mazzate che distruggono la credibilità di una procura davanti all’opinione pubblica: mica gli esposti di Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. Ecco, Bruti Liberati: mesi o anni passati a dividere l’ufficio, a favorire i suoi pubblici ministeri preferiti a scapito di altri, acrobazie procedurali per spiegare che Berlusconi era un concussore ma che i presunti concussi, i funzionari della Questura, avevano commesso solo delle scorrettezze amministrative. Paf, tutto disciolto in una sbrigativa camera di consiglio. Con la complicazione che alcuni funzionari poco collaborativi sono stati addirittura indagati per depistaggio, senza contare la complicazione ancora più complicata di un Ruby bis - il processo parallelo per corruzione di testimoni - che ora resta appeso al nulla. Il fatto non sussiste. Il fatto non costituisce reato. Senza contare che questa sentenza d’appello potrebbe ripercuotersi sulle residue puttanopoli sparse per il Paese. E poi c’è lei, Ilda Boccassini, una delle più grandi investigatrici del Paese - nessuna ironia - ma che ora rischia di gettare una luminosa carriera nell’ombra di questo processo ridicolo. Quando Berlusconi fu inquisito per la prima volta, nel 1994, lui aveva 58 anni ed era presidente del Consiglio; la Boccassini quell’anno ne aveva 45 ed era reduce da esperienze importanti in Sicilia sulle orme degli assassini di Falcone e Borsellino, e stava appunto per coinvolgere Berlusconi in inchieste pesantissime su corruzioni giudiziarie, roba tosta ma che l’hanno lasciato illeso. Poi c’è un terzo soggetto, Karima el Mahroug, detta Ruby, che in quel 1994 si limitava a ciucciare il biberon perché aveva un anno. Ora, cioè una ventina d’anni dopo, rieccoci con un Berlusconi che ha 78 anni, è ancora politicamente in sella e però è stato appena assolto da un processo imbastito ancora da lei, Ilda Boccassini, che ora ha 63 anni e l’anno scorso aveva finalmente ottenuto una pesante condanna: e per che cosa? Per una concussione e una prostituzione minorile alle quali non ha mai creduto nessuno. Imbarazzi - Non pochi, nel giorno della condanna di Berlusconi in primo grado, lessero nell’assenza di Ilda Boccassini un doppio imbarazzo: la possibile amarezza per una sconfitta o la possibile amarezza per una vittoria. Finì con la più improbabile delle vittorie, 7 anni e interdizione a vita, un collegio giudicante simbolicamente retto da tre donne. Bella figura anche la loro. Poi ci sarebbe tutto un discorso sui giornalisti, ma tanto è inutile. Ieri Marco Travaglio ha già tirato in ballo un possibile «errore giudiziario» e ha chiarito che «secondo me, a naso, hanno sbagliato i giudici d’appello». A naso: chissà con che cosa ha scritto il suo articolo, poi. «Sono curioso di vedere», ha aggiunto, «come il giudice motiva questa cosa e se è tutto regolare». All’erta, signor giudice. Infine è andato a rincarare la dose a Bersaglio Mobile, da Enrico Mentana, su La7: la parola all’esperto. «Il nostro giornale», ha concluso, «non ha una linea preconcetta per la quale Berlusconi è sempre colpevole». È simpatico, dài.

Ruby, rissa in procura a Milano: Armando Spataro contro Ilda Boccassini, scrive “Libero Quotidiano”. L'assoluzione di Silvio Berlusconi nel secondo grado del processo Ruby ha gettato nello sconforto la procura di Milano. O almeno parte della procura, che sulla vittoria del Cav ufficialmente non commenta, anche se tra i corridoi di palazzo di Giustizia si parla soltanto di quello. E se ne parla anche nella mailing list di categoria, con toni molto, molto accesi. Infatti il fronte uscito con le ossa rotte dalla sentenza, ossia quello che fa riferimento alla grande accusatrice Ilda Boccassini e al suo "capo", Edmondo Bruti Liberati, è partito un missile diretto contro il Consiglio superiore della magistratura. L'accusa rivolta all'organo di autocontrollo delle toghe è quella di aver indebolito il pool di Milano alla vigilia della sentenza, avviando il procedimento disciplinare contro Boccassini e Bruti in seguito agli esposti presentati da Alfredo Robledo. Botta e risposta - Un'accusa che viene accolta con sdegno dal fronte opposto. Portavoce dei malumori è Armando Spataro, nuovo procuratore di Torino, da sempre in aspra antitesi con Ilda la rossa. Ad innescare la sua rabbia non solo la mailing list, ma anche un articolo comparso su Repubblica in cui, citando fonti anonime, si scriveva della tesi complottista: "Chi sta con Bruti e Boccassini - scriveva il quotidiano diretto da Ezio Mauro - è convinto che a Roma non sarebbe andata come è andata (la sanzione disciplinare, ndr) se non ci fosse stata la voglia di colpire Milano proprio alla vigilia della sentenza Ruby". Durissimo il commento di Spataro: "Penso che quell'affermazione sia semplicemente ridicola, forse più della teoria che vuole le Twin Towers abbattute dalla Cia. La mia solidarietà dunque per queste anonime offese sia a tutti i componenti del Csm sia ai componenti della Corte di Milano che hanno emesso la sentenza". Orecchie che soffiano - Una dura replica, quella di Spataro, palesemente rivolta all'entourage-Boccassini, se non a Ilda la rossa stessa. La giornalista di Repubblica - che, come detto, citava fonti anonime - chiamata in causa da Spataro non ha però voluto rivelare da chi arrivasse la soffiata complottista. Una circostanza che ha fatto ulteriormente inalberare Spataro, che ha messo nuovamente nel mirino la parte della Procura che getta fango sul Csm: "Quando certi politici parlavano di giustizia a orologeria noi potevamo denunciarne la strumentale aggressione. Ma sempre noi, diversi da loro, possiamo definire ad orologeria le decisioni del Csm. Da non crederci!", chiosa Spataro. E alla Boccassini, che vive probabilmente il momento più difficile della sua carriera, soffiano le orecchie...

Effetto Ruby: in Procura volano gli stracci tra pm. Violento scambio di mail al vetriolo, Spataro contro la Boccassini e Repubblica, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Inevitabilmente, la «botta» della sentenza Ruby fa sentire i suoi effetti anche all'interno della magistratura. Nessuna dichiarazione ufficiale: ma nei corridoi degli uffici giudiziari (a Milano, e non solo) le toghe non parlano che della clamorosa assoluzione in appello di Berlusconi. E se ne parla con franchezza quasi brutale anche all'interno delle mailing list interne alla categoria. Dal fronte uscito sconfitto dal processo (l'asse tra Ilda Boccassini e il capo della Procura, Edmondo Bruti Liberati) parte un siluro contro il Consiglio superiore della magistratura, che viene accusato di avere indebolito - avviando il procedimento disciplinare contro la Boccassini e Bruti poco prima della sentenza Ruby -la procura milanese, per rendere possibile l'assoluzione del Cavaliere. Accusa pesante. Dal fronte opposto si risponde con altrettanta asprezza. Insomma: volano gli stracci. A lanciare l'attacco è il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, che da sempre mal sopporta la Boccassini. Il giorno dopo della sentenza, legge su Repubblica un articolo che citando fonti anonime ma immaginabili della Procura di Milano lancia la tesi del complotto: «Chi sta con Bruti e Boccassini - scrive il quotidiano - è convinto che a Roma non sarebbe andata come è andata - gli atti per entrambi ai titolari dell'azione disciplinare - se non ci fosse stata la voglia di colpire Milano proprio alla vigilia della sentenza Ruby». Spataro si infuria, scrive all'autrice che «già la tecnica dell'anonimo è fortemente criticabile specie in relazione a fatti così importanti», e poi attacca: «Autorizzo a girare questo mio commento all'anonimo o agli anonimi: penso che quell'affermazione (che tra l'altro allude alla permeabilità dei componenti il collegio che ha assolto B.) sia semplicemente ridicola, forse più della teoria che vuole le Twin Towers abbattute dalla Cia. La mia solidarietà dunque per queste anonime offese sia a tutti i componenti del Csm (comunque abbiano votato) sia ai componenti della Corte d'appello di Milano che ha emesso la sentenza».Chiamata in causa da Spataro, la giornalista di Repubblica rifiuta di indicare le sue fonti: «Rivendico il diritto, soprattutto in tempi di azioni disciplinari facili, di riprodurre un virgolettato anonimo in un articolo». Spataro si arrabbia ancora di più: ed è chiaro che nel mirino più di Repubblica sono i suoi contatti all'interno della Procura di Milano. «Quando certi politici parlavano di giustizia a orologeria noi potevamo denunciarne la strumentale aggressione. Ma sempre noi - diversi da loro - possiamo definire ad orologeria le decisioni del Csm. Da non crederci!». Accanto a Spataro scende in campo uno dei membri del Csm che ha deciso l'esito del «caso Milano», Paolo Carfì: che pure fu giudice del processo intentato dalla Boccassini a Cesare Previti, e accolse in pieno le sue tesi. Ma stavolta prende di petto la faccenda: spiega di sperare che la ricostruzione di Repubblica sia frutto di «una qualche incomprensione tra l'articolista e gli anonimi magistrati della Procura di Milano», ma poi aggiunge che in caso contrario «bisognerebbe concludere che c'è negli uffici giudiziari di Milano chi ritiene che la sentenza di assoluzione di Berlusconi non sia stata assunta in piena libertà dal collegio giudicante e che tra il Csm e la Corte d'appello di Milano sarebbe intercorso un filo rosso avente per fine ultimo la normalizzazione degli uffici giudiziari milanesi, in primis la Procura della Repubblica. Il che prima che offensivo è incredibilmente ridicolo». Dopodiché Carfì si spinge ancora più in là, e se la prende anche con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel pieno della discussione al Csm del «caso Milano» era intervenuto con una lettera in aperta difesa di Bruti Liberati: «Certo non ha aiutato il tutto sommato inutile (rispetto alla materia del contendere) messaggio del presidente della Repubblica e la gestione che del medesimo se n'è fatta». A togliersi un sassolino contro la Boccassini è anche Ferdinando Pomarici, grande vecchio della procura milanese: che affronta direttamente il tema per cui la Boccassini è finita sotto procedimento disciplinare, ovvero il pervicace rifiuto di fare circolare le notizie all'interno del pool antimafia e di comunicare le indagini alla Dna, la Procura nazionale antimafia. Il magistrato della Dna che aveva accusato la Boccassini, Filippo Spiezia, ha dovuto lasciare il posto dopo la furibonda reazione della dottoressa. E al suo posto a tenere i rapporti con Milano è arrivata Anna Canepa, leader di Magistratura Democratica e buona amica di Ilda. Al Csm, la Canepa, la Boccassini e Bruti Liberati hanno cercato di spiegare che a Milano va tutto bene, e che comunque una certa riservatezza fa parte delle tradizioni del pool antimafia meneghino. Ma Pomarici, che era capo dell'antimafia appena prima della Boccassini, insorge con una mail: «Per debito di verità, essendomi già doluto con Anna Canepa della rappresentazione non corretta della situazione, contesto assolutamente che sotto la mia gestione ci fossero delle criticità nell'inserimento dei dati per quanto concerne la Dda di Milano. Ignoro, e non mi interessa sapere, quale sia la situazione attuale, ma le mie disposizioni puntualmente attuate erano univoche: tutte le informative della polizia giudiziaria con i relativi seguiti, tutte le richieste di misure cautelari, tutte le relative ordinanze, tutte le sentenze di primo grado sono state inserite in banca dati e in tempo reale e trasmesse alla Dna. Chi riferisce di cose diverse afferma il falso, e viene da chiedersi il motivo. Ed eguale circolazione di informazioni è stata ovviamente assicurata all'interno della dea i cui magistrati ricevevano semestralmente relazione completa su tutte le indagini assegnate agli altri colleghi sul loro sviluppo e su tutti i nomi delle persone sottoposte a indagini». Esattamente ciò che la Boccassini è accusata ora di non avere fatto, e perciò rischia il procedimento disciplinare.

Il Cav? Critico condanna e assoluzione”, scrive Antonio Di Pietro (Già magistrato ed ora contadino) su “Il Garantista”. Le sentenze si rispettano sempre, sia quando piacciono che quando non piacciono, e a me francamente non piace né la sentenza di Appello che ha assolto Berlusconi per la vicenda Ruby, né la sentenza di primo grado che invece per gli stessi fatti lo aveva condannato a 7 anni di carcere. Ripeto, le sentenze vanno sempre rispettate e anche io stavolta mi atterrò a questo sacro principio. Le sentenze però possono essere serenamente commentate (pur rispettando i giudici, gli accusati e gli accusatori). Ciò premesso, a me pare che ci siano state due forzature di troppo: in primo grado aver condannato Berlusconi anche per “concussione per costrizione” ed in Appello averlo assolto anche per il reato di “prostituzione minorile”. Ma andiamo con ordine ed innanzitutto riassumiamo la vicenda. La procura della Repubblica di Milano, in relazione alla vicenda Ruby, aveva accusato Berlusconi di due specifici reati: quello di aver avuto rapporti sessuali con la minorenne Karima-Ruby El Marhouh (Ruby Rubacuori, appunto) punito dall’art. 600 bis del codice penale con la pena da uno a sei anni di reclusione e quello di concussione per costrizione punito dall’art. 317 del codice penale con la pena da sei a dodici anni di reclusione, per avere egli – nella sua qualità, all’epoca dei fatti, di presidente del Consiglio in carica – abusato di tale sua qualità per “costringere” il capo di Gabinetto della Questura di Milano, Pietro Ostuni, a far rilasciare la predetta Ruby (che, nel frattempo, era stata portata in questura dagli agenti di polizia ed ivi trattenuta per accertamenti) sostenendo che, altrimenti, sarebbe successa una diatriba internazionale in quanto la predetta era imparentata con l’allora presidente egiziano Hosni Mubarak (mentre invece, nella realtà era ed è una cittadina marocchina che nulla aveva a che vedere con l’Egitto). Ebbene, i giudici di primo grado hanno riconosciuto Berlusconi colpevole di entrambi i reati, ritenendo provato sia che Berlusconi fosse perfettamente al corrente che la signorina Ruby fosse minorenne (e quindi aveva il dovere di non avere rapporti sessuali con lei perché appunto la legge vieta ai maggiorenni di avere rapporti sessuali con minorenni) sia che il funzionario della questura, Ostuni, fosse stato costretto ad assecondare le richieste del presidente del Consiglio di far uscire dalla questura la signorina Ruby. I giudici di Appello, invece, hanno assolto Berlusconi da entrambi i reati, sebbene con motivazioni diverse. Egli infatti è stato assolto dall’accusa di concussione “perché il fatto non sussiste” e dall’accusa di prostituzione minorile “perché il fatto non costituisce reato”. Assoluzione che ho così tradotto “in dipietrese” a mia sorella Concetta che – qui a Montenero dove mi trovo – me ne ha appena chiesto spiegazione: i giudici di Appello hanno assolto Berlusconi dall’accusa di concussione perché Ostuni non era e non può essere considerato alla stregua di un “povero Cristo” che – siccome gli telefona il presidente del Consiglio – si impaurisce a tal punto da non potergli “resistere” e quindi da non potergli dire che Ruby non era e non poteva essere affatto parente di Mubarak e soprattutto che non poteva essere rilasciata nell’immediatezza in quanto anche nei suoi confronti dovevano essere effettuati gli accertamenti di rito che ogni ufficio stranieri di ogni questura d’Italia ha l’obbligo di svolgere in casi del genere. Insomma, ai giudici di Appello potrebbe essere sembrato più plausibile che il dottor Ostuni si sia volontariamente adeguato alle richieste di Berlusconi, pur essendo le stesse improprie e fuori luogo. Attenzione però: per capire meglio le ragioni per cui i giudici di Appello si sono determinati ad assolvere Berlusconi dobbiamo attendere la pubblicazione delle motivazioni perché non dobbiamo dimenticarci che nel frattempo è intervenuta le legge n. 190 del 6 novembre 2012 con cui è stato di fatto abolito il reato di “concussione per induzione”, reato tipico di chi vuole convincere spintaneamente – si ho scritto “spintaneamente” e non spontaneamente – un pubblico ufficiale a favorirlo, abolizione che è comunque intervenuta a fagiolo per risolvere anche questo caso (come anche il “caso Penati”, in verità). Quindi, e in conclusione, per la Corte di Appello di Milano – mancando un elemento essenziale per la commissione del reato (ovvero la “costrizione”) – il fatto-reato “non sussiste”, vale a dire che è come se non si fosse mai verificato. Berlusconi, però, è stato assolto dall’accusa di prostituzione minorile ma in questo caso non perché “il fatto non sussiste” bensì perché “il fatto non costituisce reato”, vale a dire che – sempre secondo i giudici di Appello – il “fatto” c’è o ci potrebbe essere stato ma non è reato in quanto Berlusconi non aveva avuto la percezione di avere a che fare con una minorenne (anche in questo caso, comunque è bene attendere la pubblicazione della sentenza per capire meglio su quali elementi di fatto i giudici sono arrivati a tale conclusione). Così stando le cose, e tornando all’inizio del mio discorso, ribadisco che a me – pur dovendo rispettare, come rispetto, entrambe le sentenze – nessuna delle due mi convince. Già non mi aveva convinto la sentenza di primo grado e cioè quella che aveva condannato Berlusconi per “concussione per costrizione” ai danni di Ostuni e ciò in quanto a me è sembrato sin dal primo momento più plausibile che tale funzionario della questura di Milano possa aver deciso di sua sponte di assecondare Berlusconi o quanto meno possa esservi stato “indotto” dal fatto che stava parlando con il presidente del Consiglio in persona ma in tal caso – come abbiamo sopra precisato – tale tipo di reato era stato nel frattempo abolito dalle legge n. 190 del 2012 (che fortunata coincidenza, eh!!!). Comunque per me – per come sono fatto io e per come mi sono sempre comportato – avrei preferito che il funzionario della questura avesse reagito come dovrebbe reagire sempre un pubblico ufficiale “con le palle” (scusate il termine), resistendo a qualsiasi pressione esterna, fosse pure del presidente del Consiglio!!! Bene quindi hanno fatto i giudici di Appello a rivedere questo passaggio della sentenza di primo grado, anche se, forse poteva essere meglio esplorata la figura processuale del nuovo reato pure introdotto dalla legge n. 190/12 (istigazione alla corruzione) e comunque attendiamo di leggere come si esprimeranno in relazione all’abolito reato di “concussione per induzione”. Parimenti non mi convince neanche l’assoluzione che in Appello i giudici hanno riconosciuto a Berlusconi per il reato di prostituzione minorile e ciò perché non vedo la ragione per cui costui si sia dato tanto da fare quella notte per far uscire dalla Questura la ragazzina Ruby Rubacuori e farla affidare addirittura alle cure della nota Nicole Minetti se non perché poteva sapere che la ragazza era minorenne e quindi poteva metterlo nei guai. Ma comunque, ripeto, le sentenze si rispettano ed io ho voluto esprimere le mie riserve, solo per far sapere come la penso e non già per pretendere di giudicare gli altri. Per il resto chi vivrà vedrà!!!

L’arresto di Galan è la fulminea rivincita del partito dei magistrati, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista” E così ne hanno spedito in prigione un altro. Bravi. Violando la legge, lo spirito della Costituzione, il codice di procedura penale. Prima i magistrati e poi la Camera dei deputati hanno commesso un atto illegale violando i principi della democrazia politica, le leggi della Repubblica e lo Stato di diritto. Non esiste nessuna autorità democratica in grado di mettere un argine a questo sopruso. Ed è esattamente questo che fa impazzire di rabbia. Anche un po’ di paura. La consapevolezza che le istituzioni non si possono opporre a una violenza illegale, perché le istituzione, tutte o in parte, sono le autrici di questa violenza. La magistratura ha deciso consapevolmente di chiedere l’arresto di una persona, in spregio dell’articolo 275 del codice di procedura. I magistrati sono pienamente consci dell’illegalità che compiono, ma sanno che nessuna autorità potrà contestargliela, o perché non ha le competenze o semplicemente per viltà. La Camera dei deputati ha mostrato senza neppure cercare di mascherarsi la sua viltà. Il Csm non interverrà. Né interverrà il ministro della Giustizia, che anzi ha votato a favore del sopruso. Diceva Manzoni che se uno il coraggio non ce l’ha non può darselo. Galan, seppure in gravi condizioni di salute, andrà in carcere, in barella, e questo atto sarà simbolicamente il grido d’accusa contro la vigliaccheria e l’ignoranza del nostro sistema politico. E il nostro sistema politico resterà schiacciato dall’atto di sottomissione, dall’umiliazione accettata con spirito lieve, ieri, nei confronti e da parte della magistratura, anzi – per essere più precisi – della corporazione dei Pm. E adesso? Ricomincia la partita che ha per posta la riforma della giustizia. Ma ricomincia in condizioni del tutto rovesciate rispetto a due giorni fa. L’assoluzione piena di Silvio Berlusconi, nel processo Ruby, e la conseguente delegittimazione del partito dei Pm appoggiato dalla grande stampa legalitaria (Repubblica, Il Fatto e tanti altri) poteva aprire uno spiraglio e rendere più sereno il clima nel quale ci si apprestava ad affrontare lo scoglio della riforma della giustizia. Ma il partito dei Pm, bisogna riconoscerlo, ha dimostrato di avere forza morale, coraggio e intelligenza infinitamente superiori rispetto al mondo politico. In due giorni è riuscito ad annullare gli effetti politici della sentenza Ruby e a ristabilire una posizione nettissimamente di forza. Prima con l’attacco feroce alla politica e alla democrazia del Pm di Palermo Di Matteo, che ha chiamato i giudici ad una azione compatta e sovversiva – la famosa sovversione delle classi dirigenti: vi ricordate Gramsci? Però ora non sono più classi, come immaginava lui, sono corporazioni, o caste, o gruppi di potere – una azione di sbarramento che impedisca la riforma e che avvii anzi una controriforma, per permettere una ulteriore riduzione dello Stato di diritto. Il partito dei Pm questo vuole, e lo dichiara: niente separazione delle carriere, niente responsabilità e punibilità dei giudici, niente revisione dell’obbligatorietà dell’azione penale, niente riduzione del carcere preventivo e delle intercettazioni, ma invece due drastiche misure: abolizione dell’appello e allungamento sine die della prescrizione. Di conseguenza aumento smisurato del potere dei magistrati, e soprattutto dell’accusa, riduzione degli spazi della difesa e quasi annullamento dei diritti del sospettato e poi dell’imputato. Ci spiace dirlo, senza lasciare neppure una lucetta accesa: i giudici ieri hanno vinto la partita.

Divisioni e sconfitte. L'anno terribile della Procura di Milano. La guerra intestina tra Robledo e Bruti, i difficili rapporti tra Ilda Boccassini e la Dna.  Così si è rotto un equilibrio che sembrava perfetto, scrive Giuseppe Vespo su “L’Unità”. Un anno fa oggi la procura di Milano incassava la seconda sentenza di condanna sul caso Ruby, quella a carico del trio Fede, Mora, Minetti. Un anno fa oggi nessuno avrebbe immaginato che il 2014 sarebbe stato così travagliato per i pm guidati da Edmondo Bruti Liberati. Invece l’equilibrio si è rotto, e alcuni dei commenti all’assoluzione Berlusconi lo ricordano senza appello. «La disfatta della procura», come si è affrettato a titolare l’ex fedelissimo Fabrizio Cicchitto, è solo l’ultimo di una serie di risultati negativi per i pm milanesi. Non certo dal punto di vista della produttività investigativa - basti ricordare i colpi inflitti alla corruzione, alla criminalità organizzata e le inchieste su Expo - quanto da quello dell’immagine. E non è poco in un Paese che da oltre venti anni si trova spesso diviso in due fazioni, pro e contro i magistrati. In questi mesi agli attacchi esterni si sono aggiunti i veleni interni all’ufficio. Alle notizie sulle indagini si sono affiancate quelle su chi le indagini le conduceva: esposti, lettere, audizioni al Csm e comportamenti affidati al vaglio dei cosiddetti titolari delle azioni disciplinari nei confronti dei togati. La «guerra» intestina è scoppiata a marzo con il primo esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo nei confronti del procuratore Capo Bruti Liberati. Il titolare del pool che indaga sui reati contro la pubblica amministrazione attacca il suo capo per i metodi usati nell’assegnazione dei fascicoli d’indagine. Bruti Liberati, in sostanza, avrebbe preferito affidare ad altri pm inchieste che per competenza spetterebbero a Robledo. La notizia svela le frizioni interne all’ufficio e scatena una serie di reazioni a catena che hanno quasi messo a rischio alcune inchieste. L’ultima è arrivata con la bocciatura da parte del Consiglio Giudiziario milanese della «area omogenea Expo», l’unità organizzativa con la quale il procuratore capo si assegna l’esclusivo e diretto coordinamento di tutte le indagini che riguardano l’evento. Mentre gli atti sulla «scarsa collaborazione» tra Ilda Boccasini, capo della Dda, e la Direzione nazionale antimafia, finiscono al pg di Cassazione e al ministro della Giustizia, titolari dell’azione disciplinare. La sentenza di assoluzione di Berlusconi dal caso Ruby arriva dunque in un momento poco felice per la procura, che aspetta di sapere se sarà ancora guidata dallo stesso capo o se ne arriverà uno nuovo. Il procuratore è in scadenza e si è candidato per un nuovo mandato. A questo proposito, dieci giorni fa Bruti Liberati ha scritto una lettera ai suoi pm: «A dispetto di qualche piccola, circoscritta polemica degli ultimissimi mesi - si legge - l’apprezzamento per l’opera della procura di Milano nel quadriennio corso è stato ampio e condiviso e il prestigio indiscusso». «Ma ciò che rileva - continua - sono i riscontri ottenuti a livello di giudizio, in termini di accoglimento delle richieste e dei tempi di definizione». Spetterà al Csm decidere sulla riconferma. una vittoria ai mondiali Ma intanto chi paga i danni subiti da Berlusconi per quella che adesso viene definita «un’autentica operazione non solo giudiziaria ma anche politica e mediatica»? Dietro questa domanda si ricompatta non solo Forza Italia, ma tutto il centro destra. L’attacco ai magistrati ritorna con «la disfatta della Procura di Milano e in primo luogo - aggiunge Cicchitto - sia di Bruti Liberati che della Boccassini, che hanno gestito questo processo in una chiave addirittura unilaterale ed esclusiva». Brunetta, capo gruppo di Fi alla Camera, vuole una commissione parlamentare d’inchiesta sulla caduta dell’ultimo governo Berlusconi, causata «anche grazie a questo fango». Mentre Micaela Biancofiore chiede che «i pm e i giudici di primo grado che hanno diffamato Berlusconi, a quel tempo presidente del Consiglio e dunque gettato fango internazionalmente sull’Italia intera, dovrebbero dimettersi spontaneamente lasciando spazio alla maggioranza della magistratura italiana, quella maggioritaria, indipendente, autonoma e terza». E così via, nelle parole degli altri parlamentari di centro destra è tutto un susseguirsi di bordate contro il quarto piano del palazzo di Giustizia di Milano: «Verità e giustizia», fine di «un accanimento senza precedenti», «milioni di euro spesi per il processo». Sollecitato sulla «sconfitta della procura di Milano», uno dei legali di Silvio Berlusconi, il professor Franco Coppi - che insieme all’avvocato Filippo Dinacci ha difeso l’ex premier nel processo d’Appello - dice: «Non ho mai considerato il processo penale come una specie di gara sportiva tra chi vince e chi perde». In molti invece lo considerano proprio così. C’è addirittura chi esulta, come il senatore siciliano e forzista Vincenzo Gibiino, «come se l’Italia avesse vinto i mondiali».

La toga rossa ammette: i giudici fanno quello che vogliono, scrive di Cristiana Lodi su “Libero Quotidiano”. La sintesi è che i giudici fanno quello che vogliono. Perché hanno margini di discrezionalità sconfinati nella ricostruzione e nella valutazione dei fatti. Perché anche le possibilità d’interpretazione delle norme non conoscono limiti. Perché in Tribunale il clima è cambiato (o forse è tornato ancora più uguale a quello di un tempo), nel senso che il principio dell’uguaglianza di tutti (deboli e forti) davanti alla legge, di fatto, non esiste. O, di fatto, non è proprio mai esistito. La sintesi che noi riportiamo, non l’ha esposta un individuo qualunque, ma una toga. Un magistrato che di nome fa Livio Pepino, membro del Consiglio superiore della magistratura (l’organo di autogoverno dei giudici) dal 2006 al 2010, ex sostituto procuratore generale a Torino. E presidente di Magistratura democratica. Dunque una toga rossa, anche. In un articolo pubblicato ieri sul giornale comunista il Manifesto, Livio Pepino spiega come la sentenza Ruby che assolve Silvio Berlusconi dai reati di concussione per costrizione e prostituzione minorile, sia la prova provata che i giudici - anche i più irreprensibili e convinti di agire in piena indipendenza - alla fine fanno quello che vogliono. Questo con buona pace dei giornalisti vari o dei sostenitori della giurisdizione, i quali si sono sprecati nel giudicare, considerare e spiegare l’assoluzione dell’ex capo del governo come «una conseguenza (quasi) obbligata della modifica del delitto di concussione operata con la cosiddetta legge Severino (in realtà, precedente alla sentenza di primo grado)». Ma vi pare? Tempo buttato cimentarsi in simili esercizi interpretativi. Perché, scrive il magistrato, «come sempre le ragioni di una decisione sono molte, ma certo le principali stanno non nelle modifiche legislative bensì nelle scelte dei giudici». Che fanno quel che gli gira in quel momento. «E l’esercizio di tale discrezionalità risente del clima in cui essi stessi operano». Con una disinvoltura che ricorda, dice ancora il giudice Pepino, il caso dell’ex ministro Scajola: «Accusato di avere ottenuto un illecito finanziamento mediante il pagamento di parte cospicua del prezzo di acquisto di un prestigioso alloggio romano e assolto in primo grado per essere tale pagamento avvenuto “a sua insaputa”». Come contraddirlo? Difficile. Così com’è complicato sostenere che il magistrato ha torto quando afferma che «mai» si è visto un pubblico ufficiale macchiarsi del reato di concussione per costrizione perché ha usato la minaccia di una pistola puntata alla tempia del concusso. Anche se, aggiungiamo noi, non lo ha certo inventato il prete che l’elemento costitutivo del delitto di concussione, dal quale Berlusconi viene assolto dalla Corte d’Appello, è proprio la minaccia grave ed esplicita (come ad esempio quella con armi). Le interpretazioni giuridiche, in tal caso possono sì essere infinite e lasciare gran margine di decisione ai giudici, ma se la minaccia grave non esiste, diventa improbabile inventarla. Perfino quando l’imputato si chiama Berlusconi Silvio, giudicato a Milano. Il quadro nei tribunali «è mutato», insiste Livio Pepino, «una fase si sta chiudendo. Accade quotidianamente. In forza del nuovo/antico ruolo attribuito alla giurisdizione si divaricano le regole di giudizio adottate nei processi contro i “briganti” (poveri o ribelli che siano) e in quelli contro i “galantuomini”: qui il canone probatorio del “non poteva non sapere” di Scajola è sacrilegio; là è regola». Dunque nessuno è uguale davanti alla legge. E i giudici decidono quel che loro garba. Ergo: fanno quello che vogliono. E se a dirlo è una toga. Per di più rossa...

GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.

Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe.

Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace?

«Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon.

Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione.

L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana.

Possibile che sia un bugiardo?  I dubbi mi han portato a fare delle ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso esimermi  dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero (salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei 1500 contati redazionali.

«Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino - scrive Michele Imperio -. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio - scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e su “La Notte on line” -  A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?). Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro, assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà.»

Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato...

«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».

Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare...

«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».

«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.

Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?

«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».

ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.

Riina: "Borsellino era intercettato". Il Capo dei capi parla in carcere: "Sapevamo doveva andare perché le ha detto 'domani mamma vengo'", scrive “La Repubblica”. Riina e il boss Lorusso ripresi in carcere Cosa nostra teneva sotto controllo il telefono del giudice Paolo Borsellino o dei suoi familiari. E' lo stesso Totò Riina, in una conversazione intercettata, a rivelarlo a un compagno di carcere. "Sapevamo che doveva andare là perché lui gli ha detto: 'domani mamma vengo'", racconta il boss, riferendo le parole dette dal magistrato alla madre. "Questa del campanello però è un fenomeno...Questa una volta il Signore l'ha fatta e poi basta. Arriva, suona e scoppia tutto". E' un pezzo della conversazione intercettata in cui il boss Totò Riina, racconta all'uomo con cui trascorre l'ora d'aria in carcere, Alberto Lorusso, che a innescare l'esplosione che uccise Paolo Borsellino fu lo stesso magistrato, suonando al citofono in cui era stato piazzato un telecomando. La conversazione - il cui contenuto era noto, ma non il testo - è stata depositata al processo sulla "trattativa". "Il fatto che è collegato là è un colpo geniale proprio. Perché siccome là era difficile stare sul posto per attivarla... Ma lui l'attiva lo stesso", commenta Lorusso il 29 agosto del 2013. Il boss detenuto racconta di avere cercato di uccidere Borsellino per anni. "Una vita ci ho combattuto - dice - una vita... Là a Marsala (il magistrato lavorava a Marsala ndr)".  "Ma chi glielo dice a lui di andare a suonare?" si chiede Riina. "Ma lui perché non si fa dare le chiavi da sua madre e apre", aggiunge confermando che a innescare l'esplosione sarebbe stato il telecomando piazzato nel citofono dello stabile della madre del magistrato in via D'Amelio. "Minchia - racconta - lui va a suonare a sua madre dove gli abbiamo messo la bomba. Lui va a suonare e si spara la bomba lui stesso. E' troppo forte questa". Secondo gli inquirenti Cosa nostra avrebbe predisposto una sorta di triangolazione: un primo telecomando avrebbe attivato la trasmittente, poi suonando al citofono il magistrato stesso avrebbe inviato alla ricevente, piazzata nell'autobomba, l'impulso che avrebbe innescato l'esplosione. La tecnica, per i magistrati, sarebbe analoga a quella usata per l'attentato al rapido 904 per cui Riina è stato recentemente rinviato a giudizio come mandante. Questo genere di innesco si renderebbe necessario quando è pericoloso o impossibile per chi deve agire restare nei pressi del luogo dell'esplosione.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI.

Assenteismo lavoro, alla Calabria la maglia nera. Secondo la Cgia di Mestre ogni dipendente è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La Calabria è la regione più "assenteista" a livello nazionale, scrivono i giornali. Nel 2012 ogni lavoratore dipendente calabrese è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La media sale addirittura a 41,8 nel settore privato. E' quanto emerge da uno studio condotto dalla Cgia di Mestre secondo cui nel 2012 (ultimo anno in cui i dati sono a disposizione) i giorni di malattia medi registrati tra i lavoratori del pubblico impiego in Italia sono stati 16,72 (con 2,62 eventi per lavoratore), nel settore privato, invece, le assenze per malattia hanno toccato i 18,11 giorni (con un numero medio di eventi per lavoratore uguale a 2,08). Complessivamente sono stati quasi 106 milioni i giorni di malattia persi durante tutto l'anno. Oltre il 30 per cento dei certificati medici che attestano l'impossibilità da parte di un operaio o di un impiegato di recarsi nel proprio posto di lavoro è stato presentato di lunedì. Nel 71,7 per cento dei casi la guarigione avviene entro i primi 5 giorni dalla presentazione del certificato medico.

E nel 2014 centinaia di arresti per assenteismo, scrive Diodato Pirone su “Il Messaggero”. Non lo sa nessuno ma in Italia l'assenteismo è un fenomeno criminologico. Secondo le statistiche delle forze dell'ordine gli arresti per truffa aggravata causati dalle assenze ingiustificate dal lavoro di dipendenti pubblici sono centinaia all'anno. Di certo si supera quota mille con denunce a piede libero e sospensioni. Contrariamente a quello che si crede, infatti, la vita dell'assenteista s'è fatta dura. Giusta o sbagliata che fosse, la crociata dell'ex ministro Renato Brunetta contro i fannulloni ha lasciato in eredità una regola ferrea. Eccola: «E' previsto l'arresto nei confronti dei dipendenti pubblici accusati di falsa attestazione della presenza in servizio». Poche righe che dal 2010 hanno trasformato gli uffici italiani in covi di microcamere e video-spia con codazzo di denunce, tribunali e manette. Una vitaccia, insomma, quella dell'assenteista. Giornaloni e tivvù non ne danno conto perché i singoli arresti, presi in sè, non fanno notizia e al massimo finiscono nelle brevi. Ma la loro massa critica è sbalorditiva: si resta basiti di fronte alla leggerezza con la quale tanta gente, convintissima che i furbi la facciano sempre da padrone in Italia, finisce per rovinarsi la vita. Qualche esempio? Gli arresti del 2014 sono addirittura tambureggianti: a gennaio scattano le manette per due ginecologhe (sorprese nei propri studi privati mentre risultano al lavoro per l'Azienda sanitaria) e quattro impiegati dell'Asl Napoli Nord; a febbraio tocca a 15 addetti ai servizi veterinari della Asl di Vibo Valentia in Calabria e a due giardinieri di un parco pubblico di Napoli. Il 7 marzo finisce in galera un agente della polizia penitenziaria di Piacenza che nei giorni di falsa malattia spacciava droga e qui - caso rarissimo - piovono sberle anche per il suo medico cui la Procura chiude lo studio per avere concesso certificati senza controllo. Ma l'elenco delle amministrazioni dove sono scattate le manette è infinito: ospedali Monaldi e Cotugno di Napoli; Comuni di Sant'Agnello e Torre Annunziata; Università di Trieste e Udine; ufficio del giudice di Pace di Latina; Day SurgerY di Cuneo; Comune di Ancona; provincia di Chieti (dove un capo cantoniere si assentava dal lavoro per effettuare traslochi con i mezzi pubblici di cui era responsabile). Non c'è pace, da Nord a Sud. A giugno si spara nel mucchio nel Consorzio di Bacino Salerno/1: 22 arresti per truffa aggravata e peculato (gli assenteisti si segnavano anche lo straordinario). Ma è da settembre che le retate si moltiplicano: a Montenero di Bisaccia (il paese di Di Pietro) viene arrestato il medico dell'Asl e un suo collaboratore per danni per 70 mila euro causati dalle loro assenze e poi la Calabria alza il tiro con la decisione della Regione di licenziare quattro assenteisti cronici di in un gruppo di impiegati finito totalmente fuori controllo. Impiegati che vengono puniti anche con 5 sospensioni e 41 rimproveri. Ma l'assenteismo di massa della Regione Calabria non è isolato. Alla Asl di Siracusa la Procura ha imposto 9 sospensioni dopo aver scattato 1.500 fotografie ed effettuato 600 ore di videoregistrazioni per provare l'abitudine di 33 fra medici e impiegati di recarsi spesso insieme in piscina invece che al lavoro. Naturalmente dopo aver fatto timbrare agli amici il loro cartellino.

Invece, in contrapposizione all'immagine nefasta della Calabria, a "Presa Diretta" vanno in onda potenzialità e disagi della Calabria raccontata da Iacona, scrive Domenico Grillone su “Strill”. La Calabria l’11 gennaio 2015 scorre sulle immagini di Rai3 nel programma “Presa Diretta” di Riccardo Iacona. Problematiche, risorse, qualità e bellezze della nostra regione sotto la lente d’ingrandimento e questa volta nessuno potrà maledire la Rai ed i suoi giornalisti, colpevoli, secondo una parte dell’opinione pubblica locale, di mostrare sempre una Calabria tutta ‘ndrangheta e malaffare. Nell’occuparsi di dissesto idrogeologico attraverso un viaggio da Sud a Nord fino alla Liguria, “Presa Diretta” ha raccontato le bellezze e soprattutto i tesori tutti da scoprire della Calabria. Nel denunciare “le bruttezze di una terra spesso generate dall’uomo avido di cemento e non solo”, nel nuovo ciclo di trasmissioni le telecamere di “Presa Diretta” si sono soffermate su “un tesoro di potenzialità che potrebbe produrre ricchezza e posti di lavoro: l’arte, il cibo, l’agricoltura, il paesaggio se solo fossero difesi e valorizzati, renderebbero più ricco il nostro paese”. Il racconto di Iacona, quindi, una sorta di viaggio attraverso il quale, pur mantenendo fede al suo classico stile di denuncia “delle promesse fatte e non mantenute, degli errori che si ripetono da sempre” e nel domandarsi “a chi conviene gestire in regime di eterna emergenza la fragilità del nostro territorio?”, riesce a mostrare tutte, o almeno in buona parte, quelle potenzialità che secondo il giornalista dovrebbero essere messe al centro dell’agenda politica. Ma c’è di più. Perché il conduttore, nel raccontare la bellezza che potrebbero arricchirci, ricorda come spesso la cerchiamo in luoghi lontanissimi “quando a pochi chilometri da casa nostra abbiamo dei tesori tutti da scoprire”. “Quello che abbiamo scoperto in Calabria vale per tutta l’Italia che è un tesoro da accarezzare”, spiega Iacona, “se solo si valorizzassero tutte queste risorse e non si abbandonasse il territorio la Calabria sarebbe una regione ricca”. “La Calabria non è solo ‘ndrangheta malaffare e malapolitica. C’è tanta gente che sta già costruendo la Calabria del futuro” che la dice lunga su uno stile di fare giornalismo che, a differenza di quanto qualcuno rimprovera, non è preconcetto ma, al contrario, racconta le storie con stile semplice e diretto. Una trasmissione andata in onda proprio a ridosso dei risultati dello studio di Demoskopica sul tema “L’anno che verrà – il 2015 nell’opinione dei calabresi”, in cui tra l’altro si evidenzia come la fiducia degli stessi calabresi verso la politica, le istituzioni, e soprattutto verso una possibile ripresa economica si attesta su livelli decisamente ai minimi. Iacona con la sua inchiesta dimostra che forse non tutto è perduto per la Calabria, basterebbe solo una presa….di coscienza vera per voltare pagina e riprogrammare il futuro.

Eppure si leggono queste cose.

PALMI: CAPOMAFIA A 14 ANNI, INDAGATA LA FIGLIA DI UN POTENTE DEI GALLICO. Ha 17 anni e sarebbe un capoclan, scrive Alessandro Bevilacqua su “Telemia”. E' l'incredibile storia di una ragazzina di Palmi finita al centro delle indagini della Procura di Reggio Calabria. Secondo gli investigatori la ragazza, figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca armata dei Gallico di Palmi, nel reggino, risulterebbe ancora incensurata. I fatti contestati risalirebbero a quando la giovanissima non aveva neppure 14 anni. Alcuni reati che le vengono imputati sarebbero stati collocati nel periodo successivo al giugno del 2011, mese in cui la ragazza avrebbe compiuto l'età minima prevista dalla legge sui minori per essere imputata di associazione mafiosa. La ragazza, ospite dal 2014 di una famiglia del nord Italia, entrerebbe in un inchiesta che ha consentito di decimare il clan Gallico, nello specifico quella concernente una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. A metà del 2011 gli uomini della Squadra mobile di Reggio Calabria e  del commissariato di Palmi piazzarono nella casa in cui viveva all'epoca la giovane delle cimici che catturarono conversazioni che, sembrerebbe, facessero chiaro riferimento  alle estorsioni. Tra i partecipanti al dialogo anche l'allora 13enne. Pochi minuti dopo la ragazza lasciò la casa in questione per salire in auto insieme ad una donna. Gli investigatori predisposero quel giorno un posto di blocco e il risultato è che finirono tutti in caserma dove si scoprì che la 13enne nascondeva negli slip un foglio di calendario contenente i dettagli delle estorsioni. Per gli investigatori  dal momento che tutti i suoi parenti e membri del clan si trovavano detenuti l'allora 14enne avrebbe svolto il ruolo di reggente e anello di congiunzione tra la famiglia e il territorio fungendo da figura visibile.

«Quella bambina di 14 anni è un capomafia», scrive Francesco Altomonte su “Il Garantista”. Mancano sei mesi al compimento dei suoi 17 anni, ma leggendo i capi di imputazione riportati nell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari sembra di avere a che fare con un boss di lunga data, di un criminale incallito che ha dedicato la sua vita a “mamma ‘ndrangheta”. Lei (sì, stiamo parlando di una ragazzina), figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca Gallico di Palmi, nel Reggino, risulta ancora incensurata, benché la procura dei minorenni di Reggio Calabria l’accusi non solo di associazione mafiosa, ma anche di essere un capo promotore del clan (armato) di riferimento dei suoi genitori. Il primo pensiero che passa nella mente del cronista (o perlomeno dovrebbe passare) è: ma un ragazzina che all’epoca dei fatti non aveva compiuto 14 anni, è imputabile? La risposta è, anzi dovrebbe essere no, ma la data posta in calce al documento che decreta la fine delle indagini preliminari dissiperebbe i dubbi: «Accertato in Palmi e territori limitrofi in epoca successiva al 12.05.2011». Nel giugno di quell’anno (il 2011), infatti, la ragazzina avrebbe compiuto 14 anni, quindi poteva essere perseguita per il delitto associativo. Alcuni fatti che le vengono contestati, infatti, risulterebbero compiuti nei mesi successivi. Da qui, la possibilità da parte della procura dei minori di poterla accusare di associazione mafiosa. La ragazza, che dall’inizio del 2014 è ospite di una famiglia nel nord Italia, entra in una delle tante inchieste che hanno permesso di decapitare il clan Gallico, in particolare quella in cui viene colpita una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. Suo padre e sua madre sono in carcere, lei vive in casa con dei partenti. Gli uomini della squadra mobile di Reggio Calabria e del commissariato di Palmi, che stanno conducendo le indagini, hanno piazzato delle microspie in quella casa e a metà del 2011 intercettano una conversazione nella quale alcuni indagati parlano di soldi e di qualcosa nascosto all’interno di quella abitazione. Tra i partecipanti alla discussione c’è anche l’allora tredicenne. La ragazza dopo alcuni minuti lascia la casa insieme a una donna finita in carcere alla fine del 2011, Loredana Rao, salendo in auto con lei. Gli investigatori, per capire dove e cosa trasportassero nell’autovettura, piazzano un posto di blocco appena fuori la città. Le due donne pochi minuti dopo intravedono la volante della polizia, fermano la macchina e fanno marcia indietro. Quella è la prova per i poliziotti che qualcosa non quadra. Partono all’inseguimento e bloccano non solo la macchina nella quale viaggiavano la Rao e la ragazzina, ma anche un’altra autovettura con a bordo alcuni uomini della famiglia. La mossa conseguente è il trasferimento di tutti in commissariato per la perquisizione. Per evitare fughe o altri problemi, due poliziotti salgono a bordo delle due macchine. Un agente, si legge nell’informativa redatta dagli uomini della Mobile, durante il tragitto nota che la ragazzina cercava di sistemare qualcosa che aveva nascosto all’altezza dell’inguine. Appena giunti in commissariato chiedono se vogliono essere assistiti da un legale, soprattutto lei che ancora non ha compiuto 14 anni, ma tutti declinano l’invito. La ragazza, però, non si fa neanche perquisire perché spontaneamente consegna alla poliziotta un foglietto contenuto all’interno dello slip. Si scoprirà nel novembre 2011 di cosa si tratta, quando la procura antimafia di Reggio Calabria emette un decreto di fermo con il quale finisce in carcere l’intera rete di presunti estortori. Si trattava di un foglio di calendario sul quale erano state annotate date e cifre. Per gli inquirenti quei dati parlano chiaro: sono appunti per la riscossione del pizzo imposto dal clan Gallico agli imprenditori e commercianti della città. Alcuni di loro, per inciso, collaboreranno alle indagini confermando quanto ricostruito dalle forze dell’ordine. All’interno di un’altra informativa, la ragazzina viene intercettata con il fratello. Per gli inquirenti il parente le starebbe impartendo degli ordini per andare a ritirare delle estorsioni, o per intimarne in pagamento. Siamo nel 2012 e, quindi, per la legge italiana la 14enne è perseguibile e può essere incriminata. L’equazione sembrerebbe questa: siccome tutti i suoi parenti e membri del clan sono dietro le sbarre, dai mammasantissima fino ai fiancheggiatori, l’allora 14enne svolgerebbe il compito di “reggente” della cosca, anello di congiunzione con i detenuti e figura “visibile” della famiglia sul territorio. La ragazzina, intanto, dopo l’arresto di tutti i suoi parenti, compreso suo fratello ancora minorenne, viene data in affidamento a una famiglia del nord Italia dalla quale la giovane, secondo quanto appreso, fugge con regolarità per ritornare a casa. Con altrettanta regolarità viene ripresa e riportata indietro. Secondo quanto saputo nella giornata di ieri, pare che solo ad agosto scorso, il Tribunale dei minori le abbia concesso la possibilità di visitare suo padre in carcere.

Mio marito, ’ndranghetista per sempre. Ma è innocente anche per la legge, scrive Yvone Graf su “Il Garantista". «Racconto la mia storia, una storia qualunque di malagiustizia, di una vita segnata irrimediabilmente da un marchio posto sulle teste della mia famiglia e mai più rimosso: la ‘ndrangheta. Nel lontano 1991 ho incontrato l’uomo che oggi è mio marito. All’epoca lui era un sorvegliato speciale, doveva ancora scontare 4 anni di sorveglianza per una misura di prevenzione. Li abbiamo scontati insieme. Chi vive con un sorvegliato speciale patisce tutte le limitazioni e le conseguenze che ne derivano: andare tutti i giorni in questura a mettere la firma; non uscire da casa prima del alba e rincasare prima del tramonto; stare tutte le notti pronti a subire un controllo improvviso che può coglierti nel sonno profondo e farti rischiare una denuncia per evasione. Aveva 18 anni mio marito quando fu accusato di appartenere a una cosca della ‘ndrangheta e di essere il super killer di questa cosca. L’avevano accusato di una diecina di omicidi, altrettanti tentati omicidi, sequestri di persona, porto abusivo di armi da guerra e chi più ne ha più ne metta. Fu condannato in primo grado tenuto conto della sua giovane età a 101 anni e 6 mesi di carcere. Dopo i vari gradi di giudizio, nel 1990 fu assolto da tutte le incriminazioni per non aver commesso il fatto ma condannato per associazione a delinquere, art. 416 c.p. – all’epoca dei fatti il reato di associazione mafiosa non era ancora codificato. Mio marito si professava innocente. Le accuse specifiche erano cadute ma era rimasta in piedi quella associativa a salvare il teorema degli inquirenti e una misura di prevenzione, appunto, cinque anni di vigilanza. Condannato senza commettere un reato a tre anni di reclusione; cresciuto e vissuto in un paese dove tutti conoscono tutti e tutti si frequentano, giovani, nelle strade e nelle piazze di paese. Per quel ragazzo che era mio marito fu devastante, fu causa di un grave sbandamento. Era vittima di un’ingiustizia che gli stava distruggendo la giovinezza e la vita. Da detenuto si era ammalato di anoressia ed era stato messo ai arresti domiciliari a causa del suo deperimento organico. Poi mandato al confino nel Lazio, solo e lontano dalla famiglia, affetto da una grave depressione ed in balia di una assoluta incertezza sul suo futuro. Poi una sera, sbandato per come era all’epoca, commise il furto di una macchina e fu arrestato e condannato per questo a 4 mesi di reclusione. Dopo questa carcerazione e dopo di aver scontato la sua sorveglianza, nel dicembre del 1994 decidemmo di lasciare l’Italia e di venire in Svizzera, il mio paese di appartenenza. Speravamo di iniziare una vita serena, di trovarci un lavoro entrambi e di vivere lontano da tutto tranquillamente ma ancora una volta questo ci fu impedito dallo stato italiano. Dopo appena 4 mesi che eravamo in Svizzera siamo venuti a sapere che lui era di nuovo ricercato dalla giustizia italiana. Un pentito lo accusava, per sentito dire, di essere il killer di un duplice omicidio avvenuto nei primi anni 80. In primo grado per queste accuse ha preso una condanna a 26 anni di reclusione. Il pm in appello chiese l’ergastolo. Nel 1998 la polizia svizzera esegue l’arresto di mio marito che nel frattempo era stato inserito nella lista dei 500 latitanti più pericolosi d’Italia su mandato internazionale emesso dall’Italia nonostante da subito ci fossimo opposti all’estradizione. Mio marito si dichiarava un perseguitato dalla giustizia italiana. Intanto mio marito ancora lottava con gli effetti collaterali delle prime ingiustizie subite e le loro conseguenze: attacchi di panico, ansia, depressione maggiore. In quel periodo avviammo le pratiche per poterci sposare. Nel ’96 avevo partorito il mio primo figlio che lui non aveva potuto riconoscere in quanto latitante ed ero incinta al 5 mese, al momento del suo arresto, della mia seconda figlia. Nel dicembre del ’98 ci sposammo nel carcere in svizzera e ai miei figli fu riconosciuta la paternità. Nel febbraio 1999 arrivo l’estradizione e mio marito fu prelevato e portato via dalla Svizzera. Per giorni non sono riuscita a sapere dove l’avevano portato. Poi seppi che era nel carcere a Como. Partii subito e mi accompagnò al carcere un avvocato del posto cui il mio legale aveva chiesto una cortesia. Lo fece malvolentieri precisandomi che non era opportuno per un avvocato stare vicino a chi aveva quel genere di imputazioni. Non trovai mio marito a Como. Era stato trasferito in Calabria. Solo dopo tre settimane dall’estradizione ho potuto fare il primo colloquio con lui: devastante! Mio marito era l’ombra di sé, irriconoscibile, lo sguardo spento, movimenti spaventosamente rallentati, assente e incapace di formulare delle frasi compiute. Non gli somministravano la sua terapia e con delle punture di calmanti lo tenevano in quello stato. A marzo 1999 venne assolto con formula piena per non aver commesso il fatto! Ma non tornò libero subito. Continuavano a tenerlo in virtù di un’accusa fumosa e incomprensibile tanto che la Svizzera rifiutò l’estradizione. Mio marito restava però detenuto. Ho dovuto fare il diavolo a quattro con l’appoggio dell’ambasciatore che richiamava il ministero degli Interni al rispetto dei accordi. Per fortuna sul nostro cammino incontrammo un giudice onesto che dovette intimare la scarcerazione al direttore del carcere avvisandolo che rischiava una denuncia per sequestro di persona e mio marito tornò libero. Sembrava tutto finito, a parte le patologie depressive che ancora affliggono mio marito. Ma le conseguenze di una condanna per associazione sono immortali, ti seguono per sempre. Marchiano una persona e la sua famiglia in modo definitivo, incancellabile. La Svizzera nega a mio marito la cittadinanza in virtù di rapporti segreti e di una pericolosità sociale presunta ineluttabilmente e collegata alla qualifica di ‘ndranghetista. Mio marito non aveva commesso alcun reato ma è ‘ndranghetista per sempre per volontà dello Stato italiano, senza diritto di replica e senza speranza di redenzione. Mafioso da innocente, la sua vita, le nostre vite, proprietà dello stato, per sempre. I nostri figli, mafiosi per discendenza ereditaria e così, da padre in figlio, all’infinito.

DETENUTO SUICIDA IN CARCERE? UNO DI MENO!!!

"Uno in meno". Bufera per insulti su Fb. Capo Dap sospende 16 agenti, scrive “L’Ansa”. I commenti choc sono stati ospitati e poi cancellati sul profilo Facebook di un sindacato minore di polizia penitenziaria. "Un rumeno di meno" o ancora "Speriamo abbia sofferto". Sono i commenti shock al suicidio, l'ennesimo, in carcere di un detenuto in ergastolo, pubblicati (e poi cancellati) sulla pagina Facebook dell'Alsippe, un sindacato minore della polizia penitenziaria. Una vicenda che ha scatenato una bufera con una dura presa di posizione del ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha parlato di "atti intollerabili" e ha convocato il capo del Dap. Il detenuto in questione, Ioan Gabriel Barbuta si è tolto la vita nel carcere milanese di Opera, dove si trovava in seguito a una condanna in appello all'ergastolo da parte della Corte d'assise di Venezia per aver ucciso, nel giugno del 2013, un vicino di casa durante una rapina finita male. Il capo del Dap, Santi Consolo, ha comunque immediatamente preso le distanze sottolineando di considerare i post "un'offesa al lavoro di tutti gli agenti che tutti i giorni sono impegnati a salvaguardare le persone che hanno in custodia". E dopo un colloquio con il ministro della Giustizia Orlando sospende alcuni agenti. "Ho firmato 16 provvedimenti cautelari di sospensione e ho concordato con il direttore del personale l'avvio del procedimento disciplinare" - ha annunciato -. Il capo del Dap non è entrato nel dettaglio delle possibili sanzioni per gli agenti, decisione che non compete a lui, perché come ha spiegato "sarà un organo terzo a decidere sulle sanzioni disciplinari". "Non si tratta - ha aggiunto il ministro della Giustizia Orlando, che insieme a Consolo ha tenuto una conferenza stampa - di un organo ad hoc, ma di una commissione disciplinare che interviene nel caso di rilievi". Consolo ha inoltre annunciato d'aver trasmesso gli atti alla procura: "Ho trasmesso un rapporto corposo predisposto dal nucleo investigativo centrale all'autorità giudiziaria perché faccia le sue valutazioni: se ci sono reati questa amministrazione si costituirà parte civile per danno all'immagine". Rispetto alla possibilità che nei comportamenti degli agenti possa esserci un rilievo penale e che possa essere contestato il reato di istigazione al suicidio, Consolo si è limitato a specificare che queste sono valutazioni che spettano ai magistrati. Quanto al fatto che tra i 16 agenti per cui è partito il provvedimento di sospensione ci siano anche appartenenti a organizzazioni sindacali del Corpo, Consolo ha precisato che gli accertamenti in questo senso sono appena iniziati e ancora in corso. L'organismo del Ministero da cui dipende la Polizia penitenziaria ha già avviato un'inchiesta interna per accertare che gli autori degli insulti siano davvero dei poliziotti e assicura che, in caso positivo, scatteranno le dovute sanzioni dal momento che la faccenda è ritenuta una "follia intollerabile". Prende le parti degli agenti il leader leghista Matteo Salvini: "conoscendo quali sono le condizioni in cui lavorano gli agenti della Polizia Penitenziaria non dico che giustifico ma capisco". Chiedono, invece, di fare luce sulla vicenda il Pd e Sel, mentre Patrizio Gonnella di 'Antigone' invita il Dap a chiudere ogni rapporto con l'Aslippe se sarà dimostrato che sono tesserati di questo sindacato quelli che hanno scritto "le frasi volgari e offensive". "Se è vero - dice Gonnella - che si tratta di agenti penitenziari questi hanno contravvenuto a un dovere di lealtà e legalità, tradendo la loro missione e il loro impegno istituzionale". Dura condanna arriva anche da uno dei principali sindacati degli agenti, il Sappe che, nel dare la notizia del suicidio di Barbuta, aveva spiegato: "Purtroppo, nonostante il prezioso e costante lavoro svolto dalla Polizia Penitenziaria, pur con le criticità che l'affliggono, non si e' riusciti ad evitare tempestivamente cio' che il detenuto ha posto in essere nella propria cella". Il segretario del Sappe, Donato Capece attacca inoltre i presunti colleghi "esultare per la morte di un detenuto - dice - è cosa ignobile e vergognosa".

Suicida: capo Dap firma 16 provvedimenti sospensione, scrive invece “La Repubblica”. Prime misure per la vicenda, rivelata da Repubblica.it, delle offese pubblicate da agenti sulla pagina Facebook di un sindacato di polizia penitenziaria. Il ministro Orlando: "Assumeremo iniziative congrue". "Sedici provvedimenti cautelari di sospensione" per la vicenda degli insulti via Facebook a un detenuto suicida da parte di agenti della polizia penitenziaria. Li ha firmati il capo del Dap Santi Consolo, che ha annunciato di aver anche "concordato con il direttore del personale l'avvio del procedimento disciplinare". "Ho trasmesso un rapporto corposo predisposto dal nucleo investigativo centrale all'autorità giudiziaria perché faccia le sue valutazioni: se ci sono reati questa amministrazione si costituirà parte civile per danno all'immagine", ha aggiunto Consolo. Durissimo anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Assumeremo i provvedimenti del caso", ha detto a margine dell'inaugurazione dell'anno giudiziario delle commissioni tributarie, assicurando che verranno portate avanti "iniziative congrue". Il comportamento degli agenti penitenziari, ha ribadito il Guardasigilli, "è inammissibile, tanto più in un momento di grandi tensioni come questo è importante che nelle carceri venga assicurato il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti e della vita umana". Però, ha tenuto a precisare Orlando, "va anche detto che gli agenti della polizia penitenziaria sono di norma quelli che sventano i suicidi non quelli che esultano quando ne avviene uno". Sulla questione intervengono anche gli avvocati che aderiscono alla Camera penale di Milano che definiscono le frasi pronunciate dagli alcuni agenti di polizia penitenziaria come parole che "fanno rabbrividire", perché "ogni suicidio in carcere è di per sé inaccettabile", è "il segno del fallimento di un sistema penitenziario che dovrebbe avviare le persone alla revisione di scelte devianti ed accompagnarle di nuovo nel mondo".

Suicidio in carcere, atroci commenti di agenti su Fb: "Uno di meno". Interviene Orlando. Le frasi sono apparse sulla pagina del sindacato di polizia penitenziaria Alsippe, che poi ha deciso di rimuoverle. Il Dap avvia un'inchiesta interna. Il ministro della Giustizia convoca i vertici dell'amministrazione, scrivono Giuliano Foschini e Marco Mensurati su “La Repubblica”. Un uomo si suicida nel carcere di Opera. E gli agenti di Polizia penitenziaria - come rivela Repubblica.it - si esibiscono in un diluvio di commenti di questo genere: "Meno uno". "Un rumeno in meno", "mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l'esempio". L'ultima vergogna italiana è qui, in un gruppo Facebook di un sindacato di agenti, l'Alsippe, dove nelle ultime ore si è scatenata una caccia all'uomo che rischia di avere gravi conseguenze. Il ministro della giustizia Andrea Orlando ha convocato il capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, per chiarimenti su commenti definiti "intollerabili". L'incontro servirà, tra l'altro, per acquisire "elementi sull'inchiesta interna avviata e per valutare i provvedimenti da adottare". Il ministro convocherà nei prossimi giorni anche le sigle sindacali della polizia penitenziaria per discutere dell'accaduto e "di come evitare che simili inqualificabili comportamenti possano ripetersi". Il sindacato Alsippe ha deciso di cancellare i commenti incriminati dalla propria pagina Facebook sottolineando di non condividerli. "Non è nostra abitudine censurare i commenti dei nostri followers pubblicati sul nostro profilo di Facebook", si legge sulla pagina social del sindacato, dove si spiega che la decisione è maturata considerando che le frasi "hanno ingenerato una strumentalizzazione tale da comportare un possibile danno di immagine al Corpo di Polizia penitenziaria". Il caso nasce tre giorni fa, con la notizia del suicidio dell'uomo: 39 anni, Ioan Gabriel Barbuta, romeno, era detenuto nel carcere di Opera dopo essere stato condannato all'ergastolo nel giugno del 2013 per l'omicidio di un vicino di casa. Una storiaccia emblematica anche perché documenta per l'ennesima volta la barbarie delle condizioni delle carceri in Italia, sia per i detenuti sia per chi ci lavora. "Noi poliziotti penitenziari - diceva non a caso nell'articolo un sindacalista del Sappe - siamo attenti alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso". Il problema è però evidentemente come si declinano questa "attenzione e sensibilità". Perché i commenti a corredo del post che sono apparsi sulla pagina Facebook dell'Alsippe, uno dei sindacati della Polizia penitenziaria, sono stupefacenti: "Meno uno". "A me dispiace per i colleghi che si suicidano per soggetti come questo. Per lui no!", e ancora "chi se ne frega?", "uno de meno che lo stato non ha da magna..." e a chi faceva notare che i commenti erano fuori luogo la risposta era chiara: "Lavora all'interno di un istituto. Sono solo extracomunitari. Per fare questo mestiere devi avere il core nero". E la cosa incredibile è che la maggior parte di queste persone arrivavano non soltanto da agenti ma anche da chi ha responsabilità sindacali. Insomma, rappresentanti della categoria. Questa storia probabilmente però non finirà qui. Perché grazie all'intelligenza e alla sensibilità di qualcuno che lo ha denunciato sui social, è finita all'attenzione del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, che ha immediatamente avviato un'inchiesta interna. "E' un'offesa - spiegano al Dap - al lavoro di tutti gli agenti impegnati a salvaguardare le persone che hanno in custodia". Profonda irritazione è stata espressa anche da altre sigle sindacali. Tre senatori del Pd (Roberto Cociancich, Laura Cantini ed Andrea Marcucci) e Sel hanno preannunciato un'interrogazione al Guardasigilli sul caso. Per Daniele Farina, capogruppo Sel in Commissione Giustizia a Montecitorio, si tratta di "commenti inqualificabili che vanno stigmatizzati", sottolineando la necessità di arrivare all'istituzione di una Commissione parlamentare di indagine sulle morti in carcere. Matteo Salvini, segretario della Lega nord, parla di "commento che a mente fredda uno non avrebbe fatto" e poi spiega: "Conoscendo quali sono le condizioni in cui lavorano gli agenti della Polizia Penitenziaria non dico che giustifico ma capisco".

Suicida in cella. Silenzio diventa notizia solo se…, scrive Giuseppe Candido su “Il Garantista”. Suicidio al carcere di Opera, a Milano. Il Sappe lancia l’allarme per le condizioni inumane dei penitenziari, ma per Repubblica.it la notizia diviene un’altra. La versione online del quotidiano diretto da Ezio Mauro, mercoledì 18 febbraio, pubblica un articolo a firma di Giuliano Foschini e Marco Mensurati, col titolo in bella evidenza su alcuni commenti usciti sulla pagina Facebook di un sindacato di polizia penitenziaria: “Suicidio in carcere, atroci commenti di alcuni agenti su Fb: Uno di meno ”. «Un uomo si suicida nel carcere di Opera», scrivono i due giornalisti. Ma aggiungono subito dopo: «gli agenti di Polizia penitenziaria – come rivela Repubblica. it – si esibiscono in un diluvio di commenti di questo genere: ”Meno uno”. ”Un rumeno in meno”, ”mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l’esempio”». Nessuno cenno alla condizione ancora disumana e degradante delle carceri che nell’ottobre 2013 ha indotto il presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano a inviare – secondo l’articolo 87 della Costituzione – un messaggio alle Camere per chiedere di «riconsiderare le ostilità a un provvedimento di amnistia e indulto». Un messaggio ancora tragicamente attuale e che come Radicali, proprio perché rimasto inascoltato dal Parlamento cui era rivolto, abbiamo deciso di mettere al centro della nostra iniziativa politica. Per ottenere qualche condivisione in più sui social, i giornalisti aggiungono la frase ad effetto: «L’ultima vergogna italiana è qui, in un gruppo Facebook di un sindacato di agenti, dove nelle ultime ore si è scatenata una caccia all’uomo che rischia di avere gravi conseguenze». Trattandosi di un articolo online uno si aspetterebbe di trovare almeno il collegamento che conduce alla pagina incriminata dove, secondo gli autori, sono apparsi questi commenti che consentono di dire: è Repubblica ad aver “rivelato” la notizia. Invece niente, c’è solo una immagine di alcuni commenti su Facebook senza che si capisca nemmeno su quale pagina siano. Poi si scopre che questi commenti sono stati fatti sulla pagina di un piccolo sindacato di polizia, l’Al.Si.Ppe., che tra l’altro ha subito rimosso i commenti incriminati scusandosi: «Non è nostra abitudine censurare i commenti dei nostri followers pubblicati sul nostro profilo di Facebook, ma visto il contenuto e fermo restanti le responsabilità  personali per quanto si afferma scrivendo su Facebook alcune frasi riportate, hanno ingenerato una strumentalizzazione tale da comportare un possibile danno di immagine al Corpo di Polizia penitenziaria. Oltre a non essere assolutamente condivisibili da parte del nostro sindacato, pertanto abbiamo ritenuto opportuno cancellarli». Meglio tardi che mai, verrebbe da commentare. Ma allora la domanda è un’altra: quale è la notizia per Repubblica? Quella delle carceri sulle quali il giornale vuol far notare di essere attenta, o piuttosto quella che sono apparsi commenti indecenti relativamente al suicidio del cittadino rumeno? Per gli autori dell’articolo evidentemente la seconda. E in realtà Repubblica non rivela proprio un bel niente perché – ad onor del vero – a dare la notizia dell’ennesimo suicidio nelle patrie galere, il sesto del 2015, è stato direttamente il Sappe Lombardia, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, con un comunicato diramato dal segretario Donato Capece che aveva posto al centro quello che definiva «un’emergenza purtroppo ancora sottovalutata, anche dall’Amministrazione penitenziaria». Un comunicato che era stato ripreso dalla carta stampata de Il Giornale, nelle pagine di Milano, il giorno 15 febbraio 2015 e, successivamente, dalle Cronache del Garantista, quotidiano molto attento alla tematica delle carceri, con un bell’articolo di Damiano Aliprandi pubblicato sulla versione cartacea martedì 17 e che, a differenza di Repubblica, si occupava dell’”uomo”, del cittadino rumeno che non c’è più, di una persona che ha preferito togliersi la vita in carcere. Si trattava lì di voler documentare una condizione vergognosa, quella sì, di carceri in cui anche agenti, operatori sanitari e direttori, sono spesso vittime di uno stato che non rispetta più la sua stessa legge né quella internazionale e continua a trattare in modo inumano e degradante i detenuti e, con loro, tutto il personale che in quelle condizioni lavorano ogni giorno. La cosa strana è che sia la notizia dei commenti su Fb apparsa sul sito di Repubblica.it solo il 18 febbraio, sia quella sullo stesso sito ma relativa al “fatto” che porta la data del 14 febbraio, non sono mai stati pubblicate su carta, ma solo nella versione digitale.

A Opera si continua a morire: ecco il sesto suicidio del 2015, scrive Damiano Aliprandi su Il Garantista. Si è tolto la vita impiccandosi all’interno della sua cella del carcere di Opera, alla periferia di Milano. Parliamo dell’ennesimo suicidio all’interno delle nostre patrie galere e questa volta è toccato ad un detenuto romeno di 39 anni, condannato dalla Corte di assise d’appello di Venezia all’ergastolo per omicidio. La sua è stata una controversa vicenda giudiziaria. Il detenuto suicidato era accusato dell’omicidio dell’agricoltore sessantenne di Due Carrare, trovato senza vita, semicarbonizzato, nella sua abitazione il 6 giugno del 2007. Barbuta – l’ergastolano suicidato – era stato sempre assolto nei primi due gradi di giudizio, prima dall’Assise di Padova, quindi dall’Assise d’Appello di Venezia. I giudici avevano sempre condiviso l’impostazione della difesa. Secondo l’avvocato Chiarion non vi sarebbe stata alcuna prova decisiva a carico di Barbuta. I due verdetti erano stati però impugnati in Cassazione dalla Procura generale e dall’ex moglie della vittima. La Suprema Corte aveva annullato la sentenza assolutoria rinviando il processo ad un’altra sezione della Corte d’Assise d’Appello. Il 26 giugno 2013 i giudici veneziani gli avevano inflitto l’ergastolo, con isolamento diurno per sei mesi. Barbuta era stato arrestato un paio di mesi dopo dalla polizia romena nella città di Miroslava, nel distretto di Ieiu, ed estradato in Italia. Inizialmente la morte di Guerrino Bissacco era stata attribuita a un incendio accidentale o addirittura ad un suicidio. Le lesioni rilevate sul corpo dell’agricoltore durante l’autopsia avevano rapidamente portato i carabinieri della compagnia di Abano ad orientarsi verso l’omicidio. Secondo l’accusa, Barbuta, che abitava a pochi chilometri dall’abitazione della vittima in via Bassan, si sarebbe introdotto in casa di Bissacco per rubare la targa della sua auto, da montare successivamente sulla propria vettura. Avrebbe avuto infatti bisogno di una targa ”pulita” per rapire la fidanzata e riportarla in Romania. Scoperto dall’agricoltore, lo avrebbe ucciso provocando poi un incendio per far sparire ogni traccia del delitto. A rendere noto il suicidio del detenuto è stato il sindacato della Polizia penitenziaria (Sappe) secondo il quale, nonostante l’intervento degli agenti, non c’è stato nulla da fare. «Purtroppo, nonostante il prezioso e costante lavoro svolto dalla polizia penitenziaria, pur con le criticità che l’affliggono, non si è riusciti ad evitare tempestivamente ciò che il detenuto ha posto in essere nella propria cella», osserva il segretario generale del Sappe, Donato Capece. «Quel che mi preme mettere in luce – aggiunge Capece – è la professionalità, la competenza e l’umanità che ogni giorno contraddistinguono l’operato delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria di Milano Opera con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative come le gravi carenze di organico di poliziotti e le strutture spesso inadeguate. Siamo attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso». Poi Capece sottolinea i problemi del carcere di Milano stesso: «Nei dodici mesi del 2014 nel carcere di Milano Opera si sono contati purtroppo il suicidio di un detenuto e la morte, per cause naturali, di un altro. Quattro sono stati i tentati suicidi evitati in tempo dai poliziotti penitenziari; 35 gli episodi di autolesionismo, 24 le colluttazioni e 7 i ferimenti». Sempre Capece conclude: «Numeri su numeri che raccontano un’emergenza purtroppo ancora sottovalutata, anche dall’Amministrazione penitenziaria che pensa alla vigilanza dinamica come unica soluzione all’invivibilità della vita nelle celle senza però far lavorare i detenuti o impiegarli in attività socialmente utili». Resta il fatto che il sistema penitenziario continua a produrre morte. Dall’inizio dell’anno siamo arrivati a sei suicidi, con un totale di 12 morti.

RepTv News, Ceccarelli: "Carceri, il silenzio della politica. Paura o repulsione?" Dopo l'ultimo suicidio in cella e gli insulti on web nessuna voce si è levata dai politici sul sovraffollamento, le condizioni pietose delle prigioni e i morti in carcere,  detenuti e  guardie. Forse qualcuno teme "di finirci dentro". Molti di certo hanno paura di "perdere voti".

La gabbia, scrive Massimo Gramellini su “La Stampa”. Un ergastolano si suicida in prigione e sulla pagina Facebook di un sindacato di polizia penitenziaria compaiono commenti di tenebra: «un rumeno di meno», «mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l’esempio». Stupore, scandalo, indignazione. E il solito carico insopportabile di ipocrisia. Come se molti secondini non avessero mai formulato questi pensieri anche prima che la tecnologia permettesse loro di farli conoscere a tutti. Come se, oltre a pensarli, non li avessero già espressi fin troppe volte in pestaggi e torture. Ma, soprattutto, come se si trattasse di qualche malapianta cresciuta in un giardino di rose anziché dell’ovvia conseguenza di un sistema in cui carcerieri e carcerati condividono le stesse brutture e combattono l’ennesima guerra tra poveri. La galera in Italia non è un centro di recupero, ma una soffitta orrenda dove stipare rifiuti umani che almeno metà della popolazione vorrebbe vedere sparire per sempre, non fosse altro perché teme che qualche garbuglio legale riesca a rimetterli in libertà molto prima del meritato e del dovuto. Le statistiche urlano che il carcere riesce a cambiare soltanto chi lavora, possibilmente in un luogo sano. Eppure nella pratica comune i condannati vivono da parassiti e la pena viene espiata in ambienti fetidi e brutali, tranne per chi è abbastanza ricco e mafioso da potersi permettere un trattamento privilegiato. Rendere civili le carceri e dare un senso alla galera non porta voti, quindi è considerato uno spreco. La politica ci risparmi almeno la sua indignazione per la beceraggine di certi immondi carcerieri. È lei ad averli disegnati così. 

Quelli che… dagli, dagli all’assassino! Scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Prima di sapere come andava a finire, finalmente Schettino ha pianto. Finalmente non perché pensiamo che dovesse piangere, che si dovesse battere il petto per chiedere perdono, come molti volevano. Finalmente perché ha detto tutto quello che ha passato. Non solo il dolore per le persone che sono morte, ma anche il fatto che in questi anni è stato «sotto il tritacarne mediatico». Sì, questi tre anni, dal naufragio della Concordia, gli italiani hanno vissuto sonni tranquilli, perché tanto il Colpevole, l’Assassino era lui. Sul processo e sulla sentenza, pesa questo sentimento che fin da subito ha colpito il comandante. Non erano passate neanche poche ore che già agli occhi dell’opinione pubblica mondiale era diventato lui l’unico responsabile del naufragio, il comandante vile che ha lasciato morire trentadue persone. È bastato davvero poco perché la sentenza fosse emessa, perché non ci fosse nessuna attenuante. La telefonata del comandante De Falco che gli grida di tornare a bordo – a quanto pare fatta uscire appositamente per delegittimare ancora di più Schettino – ha fatto il resto. Ma la gogna pubblica, messa in piedi da tv e giornali, è andata oltre. Ha fatto qualcosa di ancora più grave. Non solo ha condizionato pesantemente l’esito del processo, la condanna che ieri è stata trasmessa come se fosse una fiction, ma ha anche creato il Mostro. Schettino il vile, il comandante poco coraggioso, è diventato il personaggio perfetto per costruire il capro espiatorio, il responsabile di tutti i mali, l’esempio da stigmatizzare di quell’Italia che si merita di andare a fondo. In questi anni, senza nessuna pietà, Schettino è stato additato, offeso, perseguitato. Questo non significa che lui non abbia responsabilità, ma che queste responsabilità si sono mescolate con un sentimento di odio e di gogna che poco c’entra con la giustizia e con la verifica puntuale di tutte le responsabilità. Dall’opinione pubblica, o meglio dal pubblico di questo osceno spettacolo, si è passati all’aula di giustizia, dove il pm – che aveva chiesto per Schettino 26 anni, reputandolo l’unico colpevole – sono arrivate parole inaccettabili in un tribunale. Lo ha chiamato «abile idiota». Non una prova, ma un giudizio morale. Non la frase di un pubblico ministero, ma l’urlo della folla inferocita. Schettino, allora, ci racconta anche di noi. Di come siamo diventati e di come è diventata la giustizia in questo Paese. Noi, questa società, è diventata più barbara. Siamo sempre pronti a mandare qualcuno al patibolo, pensando che siamo migliori. Non esercitiamo il dubbio, non proviamo pietà, siamo solo capaci di affermare verità, la nostra verità. Una verità che ci scagiona e accusa l’altro. Da questo punto di vista il comandante Schettino è stato perfetto, il migliore obiettivo che ci si potesse dare in pasto. E noi lo abbiamo accolto, mangiato e sputato come qualcosa di spurio, come colui che corrompe il tessuto sociale e va fatto fuori. La giustizia, quella andata in scena non in un tribunale, ma in un teatro di Livorno, ne esce altrettanto male. La scelta anche del luogo dove celebrare il processo ci racconta di un rapporto morboso tra media e giudici. L’obiettività è stata sostituita dalla spettacolarizzazione, lo stato di diritto dalla condanna in diretta. Molti godranno della pena inflitta a Schettino, anzi si lamenteranno che gli anni non sono stati abbastanza, noi no. E non solo per il suo bene.

BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!

“Cose nostre: per un uso sociale dei beni confiscati alla mafia” recita il titolo di un convegno tenuto il 12 febbraio 2015 a Manduria nel tarantino e promosso dai Verdi e dal movimento Giovani per Manduria. A relazionare sul tema son venuti da Mesagne, nel brindisino, quelli di “Libera” ed erano presenti soggetti istituzionali di Manduria e di Mesagne.

“Cose nostre” si affermava nel titolo del convegno, mutuata dallo spot nazionale di “Libera” come se di una espropriazione proletaria si trattasse.

La Gazzetta del Mezzogiorno e Manduria Oggi ha dato ampio risalto all’evento.

Già nel marzo 2010 si leggeva su La voce di Manduria che "Il comune bandirà una gara per l'affidamento alle associazioni di tutti i 25 beni (terreni ed immobili) confiscati alle due famiglie mafiose Stranieri e Cinieri di Manduria. I primi tre lotti riguardano l'ex ristorante Tutti Frutti ed altre due villette a San Pietro in Bevagna. L'associazione contro le mafie, Libera, coordinerà i progetti finanziati dalla Regione Puglia.

Già da allora “Libera” voleva mettere le mani sui beni manduriani, non riuscendoci.

Si legge su Manduria Oggi del 3 dicembre 2014  «Quando la Regione Puglia, nel 2010 varò il progetto “Libera il Bene”, una iniziativa che promuoveva, con finanziamenti, il recupero e il riuso dei beni confiscati, nessun ente locale della provincia di Taranto partecipò, perdendo così una occasione preziosa» ricorda Anna Maria De Tomaso Bonifazi, referente per la provincia dell’associazione “Libera”. «Più volte “Libera”, fin dal 2004, ha chiesto di conoscere lo stato degli immobili confiscati sia al Comune di Taranto che a quello di Manduria, ricevendo risposte evasive. Eppure proprio a Manduria, in un periodo di commissariamento del Comune, il Prefetto di Taranto e i referenti nazionali di “Libera” riuscirono finalmente a mettere a bando i beni confiscati. Ma ci accorgemmo ben presto che si trattò di una vittoria di Pirro, perché, con l’elezione del nuovo Consiglio Comunale, il sindaco che si insediò annullò tutto e, di fronte alle rimostranze di “Libera”, non seppe fornire spiegazione alcuna, se non rifacendosi ad una decisione del segretario generale del Comune».

Vorrei, se possibile, come presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, associazione antiracket ed antiusura riconosciuta dal Ministero dell’Interno, in quanto iscritta presso la prefettura di Taranto dal 2006, ma non facente parte della sfera di Libera, contribuire a far chiarezza su un dato, tenuto conto che nei convegni si devono sentire tutte le campane e fare compendio, specialmente se in quel convegno di diritto si avrebbe avuto interesse a prendere la parola. Non foss’altro per  spirito territoriale, avente la sede legale a 10 km da Manduria. E non è per spirito polemico, ma per ragioni di verità, per non  far passare dei principi non esatti ma ritenuti come tali, in virtù dell’ampia visibilità che a “Libera” si dà. Opinioni secondo scienza e coscienza forte delle mansioni nazionali che ricopro.

Si spera che la mia precisazione abbia lo stesso risalto che si è dedicato ai presenti al convegno.

Descrizione del Fenomeno, si legge sul sito della Commissione Nazionale Antimafia. Uno degli elementi fondamentali per sconfiggere le mafie è procedere al loro impoverimento confiscando loro tutti i beni e i patrimoni acquisiti mediante l'impiego di denaro frutto di attività illecite. Si tratta di un principio fondamentale che Pio La Torre, segretario regionale del partito comunista in Sicilia e parlamentare della Commissione antimafia, ucciso a Palermo il 30 aprile 1982, capì in modo molto chiaro. Infatti, la legge che successivamente introdurrà nel codice penale italiano l'articolo 416-bis e altre norme, denominate misure patrimoniali, che consentono la confisca dei capitali mafiosi, porta il suo nome insieme a quello dell'allora Ministro dell'Interno, Virginio Rognoni. I beni dei quali sia stata accertata la proprietà da parte di soggetti appartenenti alle organizzazioni mafiose vengono confiscati, vale a dire sottratti definitivamente a coloro che ne risultano proprietari. Questi beni sono rappresentati da immobili (case, terreni, appartamenti, box, ecc.), da beni mobili (denaro contante e titoli) e da aziende. Secondo quanto previsto dalla legge 7 marzo 1996, n. 109, una legge di iniziativa popolare sostenuta dalla raccolta di un milione di firme da parte dell'associazione Libera, i beni immobili possono essere usati per finalità di carattere sociale. Questo significa che essi possono essere concessi dai comuni, a titolo gratuito, a comunità, associazioni di volontariato, cooperative sociali e possono diventare scuole, comunità di recupero per tossicodipendenti, case per anziani, ecc. Nelle regioni meridionali, ad esempio, sono sorte delle Cooperative sociali di giovani che coltivano terreni confiscati alle organizzazioni mafiose producendo pasta, vino e olio. In base alle previsioni della legge finanziaria 2007 (Legge 27 dicembre 2006, n. 296, comma 201-202) i beni confiscati possono essere assegnati anche a Province e Regioni. I beni immobili non assegnati ai comuni sono acquisiti al patrimonio dello Stato e vengono utilizzati per finalità di giustizia, ordine pubblico e protezione civile. I beni mobili vengono trasformati in denaro contante, il quale viene successivamente depositato in un apposito fondo prefettizio. Le aziende vengono vendute, date in affitto o messe in liquidazione. Il ricavato viene versato nel fondo prefettizio. La Cancelleria dell'Ufficio giudiziario provvede a comunicare il provvedimento definitivo di confisca ai seguenti soggetti: l'Ufficio del territorio del Ministero delle Finanze, il Prefetto, il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell'Interno. L'Ufficio del territorio una volta stimato il valore del bene da assegnare sente il Prefetto, il Sindaco, l'Amministrazione ed entro novanta giorni formula una proposta finalizzata all'assegnazione del bene. È il Direttore Centrale del Demanio che entro trenta giorni emette il provvedimento di assegnazione.

Bene. Su tutti i territori italiani operano delle associazioni distribuite per competenza provinciale ed iscritte presso le rispettive Prefetture. Dichiarazione, relazione e documentazione comprovante l’attualità dei requisiti e delle condizioni prescritte di cui agli artt. 1 e 3 del regolamento (DM 220 del 24/10/2007) recante norme integrative ai regolamenti per l’iscrizione delle associazioni e organizzazioni previste dall’art. 13, comma 2, L. 44/99 e dall’art. 15, comma 4, L. 108/96.

Associazioni antimafia che operano per assistere le vittime di estorsione ed usura, molte delle quali non fanno capo a Libera, che, spesso, presso la CGIL fa eleggere domicilio alle delegazioni locali.

Quindi sfatiamo un fatto: i beni confiscati non sono roba loro, ossia di “Libera”.

Un’altra cosa. I beni già sequestrati in odor di mafia, si confiscano solo a sentenza di condanna definitiva. In caso contrario tornano ai legittimi proprietari. Ma di altre questioni nei convegni di cui si parla ci si dovrebbe occupare: Ossia denunciare pubblicamente quello che la gente non sa circa gli interessi economici e politici che ruotano intorno ai beni sequestrati, prima, ed eventualmente confiscati, poi...

Che fine ha fatto la “robba” dei boss? L’ Antimafia al lavoro sui dossier. «Da più parti riceviamo denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia», ha spiegato Nello Musumeci, presidente della commissione regionale (siciliana ndr), che sta analizzando l’utilizzo delle ricchezze sottratte a Cosa nostra, scrive Giuseppe Pipitone su “L’Ora Quotidiano”. «Dopo avere completato le trascrizioni – annuncia il presidente dell’Antimafia – provvederemo a trasmettere il documento anche all’autorità giudiziaria. Abbiamo riferito al prefetto (Postiglione ndr) che in un anno e mezzo la commissione ha raccolto il grido di allarme di giornalisti, amministratori, imprenditori e rappresentanti dei lavoratori che denunciano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni tolti alla mafia». «In alcuni casi – ha spiegato Musumeci – si tratta di denunce di vere e proprie incompatibilità, situazioni preoccupanti. In altri casi abbiamo riscontrato la concentrazione di molti incarichi nelle mani di un unico amministratore e tentativi di favorire società e studi professionali». Palermo è la capitale della ”robba” dei boss. Il quaranta per cento di tutti i beni confiscati a Cosa Nostra, infatti, si trova nel capoluogo siciliano. Ed è proprio da Palermo che arriverà il primo dossier con le anomalie sulla gestione degli immobili confiscati alla mafia. Un patrimonio imponente: più di diecimila immobili, mille e cinquecento aziende, più di tremila beni mobili. Numeri che fanno dell’Agenzia per i beni confiscati, creata nel 2009 per gestire “la robba dei boss”, la prima holding del mattone d’Italia. E probabilmente anche la più ricca: il valore dei beni confiscati alle mafie, infatti, si aggira intorno ai 25 miliardi di euro. Un vero tesoro, che però spesso non riesce ad essere restituito alla collettività. A Palermo, per esempio, sono solo 1.300 i beni assegnati su un totale di 3.478. “Da più parti riceviamo, in audizione, denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Denunce che, dopo le trascrizioni, trasmetteremo alla magistratura e al ministero dell’Interno per le necessarie verifiche”, ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale Antimafia, che sta lavorando ad un dossier sulla gestione dei beni confiscati. Proprio ieri la commissione Antimafia ha ascoltato la deposizione del prefetto Umberto Postiglione, che ha sostituito Giuseppe Caruso alla guida dell’Agenzia. “Insieme alla commissione Lavoro dell’Assemblea regionale siciliana – ha continuato Musumeci – stiamo elaborando una proposta di modifica della legge nazionale vigente  ponendo particolare attenzione due problemi: la tutela dei dipendenti di quelle aziende che spesso chiudono dopo la confisca; il patrimonio di edilizia abitativa da destinare, a nostro avviso, alle famiglie indigenti e alle Forze dell’ordine piuttosto che restare inutilizzato e in completo abbandono”. L’emergenza principale è forse rappresentata dai dipendenti delle aziende sottratte a Cosa Nostra. La maggior parte delle società confiscate, infatti, finisce per fallire, e i dipendenti rimangono senza lavoro. Questo perché il codice antimafia recentemente approvato, che ha preso il nome del ministro Angelino Alfano, prevede la liquidazione di tutti i crediti non appena l’amministratore giudiziario prende possesso della società. “Significa che se questa norma venisse intesa in senso rigido, il tribunale deve procedere a liquidare il 70 per cento dell’impresa per pagare tutti i crediti: e quindi non resterebbe alcuna risorsa per continuare a far vivere l’azienda”, spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Con il risultato che dopo la confisca gli ex dipendenti delle aziende di Cosa Nostra rimangono senza lavoro. “Con la mafia si lavora, con lo Stato no” gridavano negli anni ’80 gli operai delle prime aziende confiscate a Cosa Nostra. Oggi la situazione non sembra particolarmente migliorata. Un segnale poco incoraggiante,  pericolosissimo in una terra come la Sicilia che di segnali vive e si alimenta. Questo vale per la Sicilia, così come vale per tutta l'Italia.

Spero di aver dato un contributo costruttivo al dibattito.

IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati. Come si vampirizzano le aziende sane. «L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.»

Il 3 febbraio 2015, nel suo primo discorso di insediamento da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di lotta alla criminalità organizzata e di corruzione.  "La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute", ha detto nel suo discorso di insediamento. "La corruzione - ha aggiunto - ha raggiunto un livello inaccettabile, divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini, impedisce la corretta espressione delle regole del mercato, favorisce le consorterie e danneggia i meritevoli e i capaci". Il capo dello stato ha citato le "parole severe" di Papa Francesco contro i corrotti, "uomini di buone maniere ma di cattive abitudini". Ed ha sottolineato quanto sia "allarmante la diffusione delle mafie in regioni storicamente immuni. La mafia è un cancro pervasivo, distrugge speranze, calpesta diritti". A giudizio del presidente Mattarella occorre "incoraggiare l'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, che spesso a rischio della vita si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie - ha ricordato cedendo per un attimo alla commozione - abbiamo avuto molti eroi, penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste competenti tenaci e una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere verso la comunità". Ad ascoltare Mattarella a Montecitorio c'erano il presidente della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Leoluca Orlando, che proprio di Falcone era acerrimo nemico.

Molti altri lo hanno ascoltato a Montecitorio: persone oneste e meno oneste. Tra le persone oneste folta schiera è nel centro sinistra: quasi tutti o tutti. Fiancheggiatori della giustizia e della legalità o vittime o parenti di vittime della mafia. Se non lo sono, vale lo stesso. Nel centro destra, poi, son tutti mafiosi (a prescindere). Certo è questo quel che si vuol far intendere. Ma a destra non se ne curano. Basta loro adoperarsi per gli interessi del loro capo. I magistrati, poi, sono gli innominati di manzoniana memoria. Loro sì onesti per davvero, perchè la gente comune non lo sa, ma i magistrati non hanno nulla da spartire con i comuni mortali, perchè loro, i magistrati, vengon da Marte.

Dopo l'elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato, su Facebook la politica si scatena nei commenti, scrive “Libero Quotidiano” ed “Il Giornale”. Qualcuno non condivide l'elezione come fa Matteo Salvini, ma qualcun altro tra i grillini (che hanno votato Imposimato), ha attaccato il neo-presidente in modo duro. A farlo è Riccardo Nuti che afferma: "Lodare Mattarella come antimafia perché il fratello fu ucciso dalla mafia è falso e ipocrita perché allora bisognerebbe dire anche che il padre era vicino alla mafia". Lo scrive su Facebook il deputato M5s, che aggiunge: "Ma se è vero che gli errori dei genitori non possono ricadere sui figli, allora non possono essere utilizzate altre vicende dei parenti in base alla propria convenienza. L'uccisione di un parente da parte della mafia (i motivi possono essere tanti e diversi fra loro) non da nessun bollino di garanzia di lotta alla mafia". Un commento che di certo farà discutere. 

L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Non lo dice Don Ciotti, presidente nazionale di “Libera”, anche perché non oserebbe mai, ci vorrebbe pure. Lo afferma categoricamente il dr Antonio Giangrande, noto scrittore e sociologo storico e fine conoscitore del fenomeno della Mafia, della Massoneria e delle Lobbies e della Caste, oltreché presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Ed è tutto dire. Io sono il presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione iscritta presso la Prefettura di Taranto. Per le problematiche sociali affrontate, siamo l’associazione madre di tutte le associazioni tematiche e territoriali, così come riporta il nostro sito web. Se qualcuno ha un problema me lo segnala. Non ho il potere di risolverlo, (nessuno può) ma di elevarlo agli onori della cronaca, sì. Io sono il Don Ciotti della mia associazione, per intenderci. Però abbiamo un difetto. Io ho un difetto: non sono comunista e non santifico i magistrati. Per questo i media ci ignorano. Ma non i cittadini. Prova a mettere su google il mio nome e vedrai quanti parlano di me. Ho pochi amici su Facebook e sul gruppo associazione contro tutte le mafie, perché dopo un po’ di tempo cancello gli amici o gli iscritti, quando verifico che hanno sbagliato amico o gruppo. Noi siamo diversi e ce ne vantiamo. Ogniqualvolta mi hanno interpellato, le vittime hanno preteso la soluzione. Mai una volta che abbiano offerto il loro appoggio, il loro sostegno. Non ho potere, ne sono sostenuto da alcuno e pure i coglioni mi dicono: che ci stò a fare. A prendere le ritorsioni dei magistrati che tentano in ogni modo di tacitarmi. Ogni volta che qualcuno si è confrontato con me per forza di cose voleva alzare la sua bandiera ed il suo nome, per un interesse personale. Gli onori a lui, le rogne a me. Le lotte si portano avanti insieme e non per la propria guerra. E’ un tallone di Achille parlare di sé. Si sarà sempre additati di mitomania o pazzia o di interesse personale. Pensi che qualcuno abbia pensato a me per competenza, capacità, esperienza e coraggio per portare avanti in Parlamento le aspettative del popolo. No. Pur incapaci son tutti pronti ad ante mettersi. Io parlare di voi o di altri e come se parlassi per me. Ma parlo di voi e ne sono contento. Perché è come se fossi uno di voi. Quest’ultima inchiesta è pubblicata su 500 siti web di portali di informazione a me collegati in tutta Italia. Pensi che ciò non basti a dare spazio alla tua storia, che non è la tua: è di mille come te? Pensi che lo abbia fatto per un interesse personale e che abbia chiesto a qualcuno un compenso? Quindi non serve avere una associazione in più, ma basta avere la consapevolezza di avere una guida o di avere uno strumento che porti ad un risultato. E mi dispiace dirlo, sarà solo quello di aver fatto conoscere la propria storia e non sarà quello di avere giustizia in questa Italia e con questi italiani. Segui me, vediamo fin dove arriviamo, perché il mio cammino è iniziato 20 anni fa. Io son Antonio Giangrande e basta questo basta. Pensa a Berlusconi: se è successo a lui, e non è stato capace di difendersi, figuriamoci ai poveri cristi. C'è qualcosa da fare: far conoscere la verità a tutti ed in tutti i modi. Solo quello ci rimane da fare. I miei siti web. I miei canali youtube. La mia tv web. I miei libri. Sono tutti strumenti di divulgazione che fanno male al sistema e ciò serve a cambiarlo. Come azione politica noi combattiamo, oltre che per cambiare il sistema, anche per una proposta concreta: il difensore civico giudiziario a tutela del cittadino che abbia i poteri del magistrato ma che non sia uno di essi: corporativo ed amicale. Questo sì che cambierebbe le cose in fatto di garanzia per le vittime di giustizia.

L’antimafia non combatte i mafiosi. Il suo intento è osannare i magistrati (i Pubblici Ministeri in particolare) per asservirli ai loro fini. Ossia: eliminare i rivali politici (avete mai visto qualcuno di sinistra condannato per mafia o per il reato inventato dai magistrati quale l’associazione o la partecipazione esterna alla mafia?) e sfruttare economicamente i beni sequestrati ed espropriati, spesso ingiustamente.

L’Antimafia: o si è con loro, o si è contro di loro. Ti chiami Giangrande o Sciascia uguale è. E’ inutile rivolgersi ai parlamentari per ottenere giustizia. Molti sono genuflessi alla magistratura, qualcuno è colluso, tanti sono ricattati o sono ignavi. La poltrona vale qualsiasi lotta di civiltà. Per questo nessuno di loro merita il voto degli italiani veri.

Ecco allora che nasce impettito il fenomeno mediatico dell’invasione virulenta della mafia in tutta Italia. L’Italia all’estero è una nazione ormai infetta. Non è più la Sicilia martoriata da Cosa Nostra o dalla Stidda, con vittime illustri uccise dai boss (dello Stato), o non è più la Calabria martirizzata dalla ‘Ndrangheta, o non è più la Campania tormentata dalla Camorra. Oggi l’Italia per i magistrati è tutta una mafia. E gli intellettuali di sinistra ci marciano. Ed all’estero ringraziano per il degrado del Made in Italy. Fa niente se prima l'illegalità diffusa si chiamava tangentopoli e guarda caso i comunisti non son stati colpiti. Oggi nel fenomeno criminogeno (sempre di destra, sia mai) ci sono di mezzo siciliani, napoletani e calabresi: allora è mafia!

L’antimafia per creare consenso e proselitismo monta campagne stampa di sensibilizzazione che incitano le vittime a denunciare. “DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.

Le vittime, diventate testimoni di giustizia, successivamente sono abbandonate al loro destino, che porta questi a pentirsi ed a  rinnegare quanto fin lì fatto. Esemplari sono le testimonianze da tutta Italia tra i tanti di: FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

A cosa porta per davvero l'interesse dell'Antimafia se non tutelare le vittime dell'estorsione e dell'usura, così come propinata?

Il fenomeno taciuto è la gestione dei beni sequestrati, prima, e confiscati, poi. Per capire bene il fenomeno di cui si crede di essere unica vittima bisogna andare al di là di quello che si conosce.

I beni di sospetta leicità sono sequestrati con un provvedimento giudiziario come misura di prevenzione ed eventualmente confiscati con successiva pena accessoria in sentenza, che spesso non arriva. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Ma no è così.

I beni sotto tutela sono appetibili da tutti coloro che agiscono all’interno del sistema. Apparato non accessibile a tutti.

Firma l'appello: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra", si legge sul sito web di "Libera". "Cosa nostra"? Mi sembra di aver già sentito da altri lidi questa affermazione. "Cosa vostra"? Con quale diritto?

"Attorno ai beni confiscati e all’assegnazione di essi si può sviluppare l’unica vera opportunità per coinvolgere attivamente la società civile nella lotta alle mafie, portandola al suo esito più elevato: quello di estirpare culturalmente il fenomeno mafioso sul territorio a cominciare dal riuso di beni confiscati che devono essere effettivamente restituiti alla collettività", si legge su vari siti web di associazioni e comitati fiancheggiatori di "Libera" e della CGIL.

Una espropriazione proletaria nel nome dell’antimafia? Una buona trovata.

Rock e sociale incrociano le loro strade in Il silenzio è dolo. Il brano è di Marco Ligabue e si intitola "Il silenzio è dolo". Marco Ligabue l'ha scritta quando ha scoperto la storia del contestato sorteggio con cui sono stati "selezionati" gli scrutatori per le recenti elezioni europee nei seggi di Villabate, in Sicilia. L'iniziativa è stata presentata a Montecitorio e ha riscosso l'appoggio del presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Nino Di Matteo, convinto che "la mafia ha sempre prosperato nel silenzio, i mafiosi vogliono che di mafia non si parli". Della selezione e dell'operato degli scrutatori e dei presidenti di seggio, uguale in tutta Italia, sorvoliamo, anche perché è cosa di sinistra, ma attenzioniamo un fatto. I Parlamentari e l'associazione Nazionale Magistrati non hanno posto uguale attenzione all'appello di Pino Maniaci. Ed i media neppure.

«Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento - scrive Pino Maniaci - C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco».

Il business dell'Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.

Si prosegue con Matteo Viviani, che raccoglie la testimonianza  di una famiglia siciliana di imprenditori: Mafia, antimafia e aziende che affondano. I Cavallotti hanno subito estorsioni dal braccio destro di Provenzano, irruzioni armate in casa, finendo poi in galera per aver pagato il pizzo. Erano glia anni di Cosa Nostra, spiegano, e tutti pagavano il pizzo. Nonostante dopo anni di processo sia stato appurato che i Cavallotti non siano mafiosi, continuano a non poter gestire la loro azienda. L'amministratore che se ne sarebbe dovuto occupare infatti, ha effettuato operazioni di vendita poco chiare di cui, alla fine, ha beneficiato economicamente. Viviani lo raggiunge, ma lui non dà risposte. Il 29 gennaio 2015 è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo Stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, ancora continua, scrive Salvo Vitale. I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato. Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione  le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello Stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo Stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un  utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo  sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato  vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

Ma per la Commissione Antimafia la mafia è tutt’altra cosa…

La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali del 2014, e si capisce di cosa stia parlando. Gli italiani, soliti ignavi, non lo dicono, ma dimostrano il loro odio e disprezzo, o comunque il loro distacco dalla politica contemporanea che viene da lontano con l’astensionismo od altre forme di protesta. La politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari. Secondo Renato Mannheimer su “Il Corriere della Sera” la politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari, dico io, proprio perché interessati dai favori richiesti e ricevuti. I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatasi negli ultimi anni. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico al valore del 25,5 di oggi. Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere. Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……

Ma non solo la politica paga fio. Non si fidano della magistratura 2 italiani su 3, scrive Errico Novi su "Il Garantista". E’ un crollo. Il tasso di fiducia nei magistrati passa dal 41,4% di un anno fa ad appena il 28,8%. Lo dice il Rapporto 2015 dell’Eurispes, presentato ieri a Roma dal presidente dell’istituto Gian Maria Fara. Che definisce il dato su giudici e pm «preoccupante e inatteso». Di fatto quello della magistratura è il potere che perde maggiori consensi: più del 30% di quelli che già aveva. Il governo è messo male, il dato della fiducia è al 18,9%, eppure è in lieve crescita rispetto a un anno fa. Il che autorizza a credere che nella lite tra le toghe e l’esecutivo sul taglio delle ferie, i cittadini parteggino decisamente per quest’ultimo. I dati rischiano di galvanizzare Renzi. Soprattutto nella sua guerra a distanza con i magistrati. Secondo il Rapporto Italia 2015 dell’Eurispes la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni tende al ribasso. Ma se si va nel dettaglio, le cose si mettono davvero malissimo per la magistratura, che ha un tasso di consenso ridotto ormai al 28,8% e diminuito nel giro di un anno di ben 12,6 punti percentuali (nel 2014 era dunque al 41,4%, tutta un’altra cosa). Il governo come istituzione nel suo complesso ha un punteggio da incubo, sta al 18,9%. Ma seppur di qualche decimale, e in un clima di generale scoramento, è in salita. Non che ci sia da festeggiare visti i numeri, ma insomma il presidente del Consiglio potrebbe dedurne che gli italiani parteggiano più per lui che per le toghe, nella contesa sul taglio delle ferie. Interpretazioni a parte, le statistiche presentate ieri alla Biblioteca Nazionale di Roma da Gian Maria Fara, che dell’Eurispes è presidente, fanno impressione. Il giudizio degli italiani nei confronti delle istituzioni resta complessivamente negativo, il 69,4% dice di riporvi minore fiducia che in passato. E questo in un quadro complessivo di certezze sempre più scarse, di valutazioni molto critiche nei confronti dell’Unione europea e della moneta unica e in un generale clima di oppressione percepita nei confronti di fisco e burocrazia. Nulla di sorprendente, però. Tranne il dato sui magistrati. Che tracollano in modo davvero verticale – di fatto perdono oltre il 30% dei consensi che avevano – nonostante il grande impatto mediatico di inchieste come quella su Mafia Capitale. E’ la pietra tombale sul ricordo stesso della stagione di Mani pulite. Un cambio di paradigma che tra l’altro è stato ampiamente rappresentato pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, proprio con il riferimento alla golden age di Tangentopoli. Nella sua esposizione pubblica Fara non si dilunga granché sul dato. Si limita a definirlo «preoccupante e inatteso». E a proporlo anche in versione capovolta: «La quota di cittadini che non ripongono fiducia nella magistratura è passata dal 54,8% del Rapporto 2014 al 68,6% dell’ultimo rilevamento». Il clima del Paese non è certo colorato di rosa, dice lo studio presentato. Gli aspetti patologici da rimuovere in fretta sarebbero la pervasività della burocrazia e le tasse asfissianti. Soprattutto il primo elemento potrebbe indurre il sospetto che il crollo della magistratura nell’indice di gradimento degli italiani sia parte di una più generale ripulsa nei confronti di tutto ciò che è apparato e potere pubblico. E invece non è così. Niente da fare, le toghe non possono aggrapparsi neppure a questo. Perché nonostante l’analisi del presidente Fara parta da quello che lui chiama il «Grande Fardello» degli adempimenti infiniti e del fisco, la fiducia nei confronti della pubblica amministrazione non è in calo, anzi: è in clamorosa ascesa, fa registrare un +18,1% e si risolleva così da un dato precedente molto basso, fino a raggiungere il 39,1%. Meglio i travet e gli impiegati, meglio i ministeriali di giudici e pm. Chi l’avrebbe mai detto. Persino i partiti si riprendono un po’ (arrivano al 15.1% con un significativo +8,6% rispetto a un an anno fa), addirittura i vituperatissimi sindacati hanno consensi più che doppi rispetto alle forze politiche (tasso di fiducia al 33,9%, con un +14,7). La magistratura niente, è così penalizzata dalla ricerca dell’Eurispes da far pensare a un rancore profondo, diffuso, quasi a una voglia di fargliela pagare. Figurarsi se davvero insisteranno con il piagnisteo per quei 15 giorni su 45 di vacanza in meno.

Tutto il potere alle toghe. Dai la parola all’imputato? Favoreggiamento, scrive Guido Scarpino su "Il Garantista". Da 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perchè vivo – o così credo – in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il dirtto a difendersi, no?. E invece un Pm, durante la requisitoria, se l’è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza «favoreggiano la mafia…» Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto “capoclan” a piede libero? E’ una domanda, a mio avviso superflua - soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista – che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche – mi chiedo cosa ci sia dietro – al “solito articolista”, che avrebbe condotto una “attività di favoreggiamento” per aver offerto il diritto di replica. In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite (“spedizioni punitive” sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà. Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d’aver mandato alcuni parenti – che incutevano terrore facendo il suo nome – a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l’invio di una lettera a sua firma, concordata con l’avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco “cattivo”, sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d’aver “favorito” nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l’invio di un corposo “dossier-confessione” a sua firma, da trattare – era questo l’intento – in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante “verità di parte” da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza.  Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì – questo sì – sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta “reggente” della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note – ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l’auto – solo perché di scarso interesse pubblico. Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un “gancio” per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi “compari” al fine di raccogliere indizi nell’ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz’ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: “Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?”.  Io risposi: “Io sto con me stesso. Faccio il giornalista”. Una risposta che mi portò, poco dopo ad un’altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido – pare sempre su richiesta dello stesso pm - per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l’ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del “nemico”) copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui – il collega – non venne convocato da nessuno. Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei “buoni”), dare spazio in replica, con tre articoli, ai “cattivi”, può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione “interessata”.  Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla malapolitica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso “padroni” in cerca di “servi” e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato – verbalmente, e non certo sulla carta – di essere un “favoreggiatore” (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno. P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l’esecutore dell’incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola.

Ma questi magistrati non sono coerenti.

L'ex pm antimafia Ingroia difende un boss pluriomicida. È il legale del camorrista La Torre, accusato di 40 delitti. Di lui Saviano disse: "È solo uno smargiasso ambiguo", scrive Gianpaolo Iacobini su "Il Giornale". Antonio Ingroia, l'ex pm antimafia che difende un camorrista. Più d'uno è saltato sulla sedia quando il nome del magistrato che dava la caccia ai capi di Cosa Nostra è risuonato nelle aule del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere insieme a quello di Augusto La Torre, fino ai giorni dell'arresto - e pure oltre - boss del clan dei Chiuovi di Mondragone, alleato dei Casalesi ed egemone nell'alto Casertano, nel basso Lazio e lungo la costa domizia tra il 1980 e gli inizi dei Duemila. Davanti ai giudici sammaritani La Torre - che dietro le sbarre s'è laureato in Psicologia - è comparso da testimone nel processo a carico di Mario Landolfi, imputato di corruzione e truffa aggravata dal metodo mafioso per la vicenda d'un consigliere comunale dimessosi, secondo la Procura, in cambio dell'assunzione trimestrale della moglie in una società di servizi. L'ex ministro s'è sempre detto innocente e La Torre, in videoconferenza, ha smentito avesse contatti col clan, ma a far notizia è stata la nomina del nuovo legale del boss psicologo, poi confermata dal portavoce dell'ex procuratore aggiunto. Quello che, all'indomani del giuramento da avvocato, assicurava: «Per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti». E invece alla fine s'è ritrovato al fianco d'un barone del crimine organizzato, condannato in via definitiva a 22 anni per associazione camorristica e ad altri 9 per estorsione aggravata ed a tutt'oggi sotto processo anche per omicidio. La replica: «Nessuna contraddizione: è un collaboratore di giustizia». Insomma, un conto sarebbe difendere i mammasantissima tutti d'un pezzo, un altro assistere mafiosi contriti, anche quando, confidando nell'impunità, confessano i peggiori misfatti. Come La Torre, autoaccusatosi di una quarantina di omicidi, con le vittime crivellate di colpi, gettate nei pozzi di campagna e dilaniate con le bombe a mano, per smembrarne i corpi e lasciarli a marcire sotto acqua e terra. Di sicuro, c'è collaboratore e collaboratore: l'imperatore di Mondragone, detenuto dal 1996, saltò il fosso nel 2003, ma poco dopo la protezione gli fu revocata per un'estorsione. E i Tribunali hanno fin qui preso con le molle le sue dichiarazioni, negandogli sconti di pena, mentre proprio uno degli Ingroia-boys, lo scrittore Roberto Saviano, nel luglio del 2012 ne stroncava l'attendibilità, definendolo su Facebook «un pentito pieno di lati ambigui: smargiasso e feroce, è arrivato a far pentire l'intero clan per ricevere sconti di pena, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri. Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila tempo fa chiedeva anche danaro: aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste». Avesse ragione Saviano, che a sentire gli ingroiani ha ragione per definizione, è questo il nuovo cliente di Antonio Ingroia, un avvocato che non difende né mafiosi né corrotti. Ipse dixit.

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone, delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime finite nel giro di usura.

Gli altri tre componenti dell’associazione a delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza. L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagl inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si aggiravano tra il 150-180 per cento.

Assistente sociale e usuraio. Nel blitz coinvolto Daniele Sessa, figlio di un Prefetto. Disponeva di macchine costose e con l’hobby delle competizioni motociclistiche, scrive “Taranto Buonasera”. Uno dei due  presunti usurai, arrestati ieri dalla Guardia di Finanza,  lavorava anche come assistente sociale. Daniele Sessa, 31 anni, incensurato e figlio di Prefetto, ufficialmente aiutava i bisognosi e, così come emerge dalle indagini delle Fiamme Gialle “ricavava redditi nell’ordine soltanto di poche centinaia di euro mensili, tanto da non presentare neppure le relative dichiarazione fiscali”. Di Daniele Sessa, che è attualmente in carcere con le pesanti accuse di associazione a delinquere e usura, gli investigatori del nucleo di polizia tributaria nel corso delle indagini hanno tracciato un preciso identikit. “Tra il 2011 e il 2013 era ancora a carico dei genitori, e tuttavia ciò non gli ha impedito di disporre di macchine costose, due Audi A6 e di coltivare l’hobby delle competizioni motociclistiche, anch’esso notoriamente  piuttosto impegnativo dal lato finanziario”. Arrestato  nella operazione “Ultima chance” anche il 46enne Cosimo De Pasquale che secondo l’accusa avrebbe a curato con continue minacce il “rispetto” delle scadenze da parte delle vittime. Altri  tre, tra cui zio e nipote, tutti commercianti, sono indagati a piede libero.  E’ emerso che fungevano da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell’organizzazione. I due arrestati sono attualmente detenuti nella casa circondariale di largo Magli, a disposizione del giudice delle indagini preliminari che li interrogherà  lunedì prossimo. Nei confronti di De Pasquale e Sessa, su ordine del pm Lucia Isceri è stato operato anche il sequestro preventivo d’urgenza dei conti correnti bancari. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno e  condotte anche con intercettazioni telefoniche, è emerso che De Pasquale e il suo amico Sessa avrebbero gestito nel capoluogo jonico il giro di usura. Tra le vittime una decina di titolari di esercizi commerciali e di laboratori artigianali.  Avrebbero pagato tassi usurari che arrivavano fino al 180% annui, titolari di ristoranti, di negozi di abbigliamento e imprenditori. Secondo l’accusa le vittime sarebbero state minacciate anche in casa o nei luoghi di lavoro. In alcune circostanze Sessa avrebbe proceduto anche personalmente a richiedere i pagamenti degli interessi usurari.  Avrebbe comunque ricoperto il ruolo di mandante delle azioni estorsive che avrebbe, invece, messo in atto, il suo amico Cosimo De Pasquale.

La Guardia di Finanza di Taranto ha arrestato ieri due tarantini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione. Si tratta del 46enne Cosimo De Pasquale e del 31enne Daniele Sessa, scrive “La Voce di Manduria”. Quest’ultimo è figlio di Carlo Sessa, attuale prefetto di Avellino, già prefetto della neo costituita Prefettura della Provincia Bat e commissario prefettizio del comune di Manduria dove possiede ancora un’antica  villa nelle campagne tra Manduria e Sava. Secondo l’accusa, i due arrestati, con la complicità di altri tre indagati a piede libero, avrebbero gestito un giro di attività usuraia nei confronti di numerosi commercianti ai quali praticavano interessi sino al 180% annui. L’inchiesta delle fiamme gialle assume particolare spessore proprio grazie alla presenza, tra gli indiziati di reato, del figlio del prefetto Sessa. Il giudice delle indagini preliminari, Martino Rosati, nella sua ordinanza, descrive il giovane come «vocato alla violenza». Seppure ancora a carico dei genitori – scrive il gip -, dichiarava redditi per poche centinaia di euro mensili, disponeva di autovetture costose e coltivava l’hobby altrettanto costoso delle competizioni motociclistiche.

Da un fatto ad un all'altro.

Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.

1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.

2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.

La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...

Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....

Si allarga la “tangentopoli” della Marina. Il Tribunale del Riesame di Taranto ha deciso di concedere i domiciliari ad alcuni ufficiali finiti in carcere a gennaio. Ma nelle prossime settimane altri potrebbero finire agli arresti, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Dopo gli arresti del 7 gennaio scorso di diversi alti ufficiali della Marina militare, per concussione, perché gli imprenditori erano stati costretti a versare una tangente del 10% (su tutti gli appalti e forniture), il Tribunale del Riesame di Taranto ha deciso di concedere gli arresti domiciliari ad alcuni ufficiali finiti in carcere. Ma negli atti depositati ai giudici, il pm Maurizio Carbone ha scritto che diversi imprenditori hanno chiamato in causa altri ufficiali della Marina militare di Taranto. Il pm ha glissato i nomi di questi ufficiali che sono stati anche loro iscritti sul registro degli indagati. Scrive nella sua memoria il pm Carbone: «I verbali delle sommarie informazioni degli imprenditori ascoltati contengono numerosi “omissis” nelle parti concernenti il coinvolgimento di altri ufficiali che sempre all’interno del Commissariato della Marina (Maricommi) di Taranto avrebbero preteso tangenti dagli imprenditori anche per gli altri reparti, sempre con la regia della direzione di Maricommi». Insomma, la Marina di Taranto rischia di essere affondata dalla inchiesta della Procura di Taranto, che sta svelando le tante falle di un «sistema» di corruzione che si tramandava da generazioni di ufficiali. E che non riguardava solo «il quinto reparto», ma anche gli altri. Dagli atti delle indagini risulta addirittura che dopo il primo fermo in flagranza di reato di un ufficiale della Marina che intascava le mazzette, e questo avveniva nel marzo scorso, le tangenti hanno continuato a essere pagate dagli imprenditori. «Si è rotto il muro dell’omertà», scrive il pm Carbone nella sua memoria. Ed ė facile ipotizzare che nelle prossime settimane altri ufficiali della base di Taranto finiranno agli arresti. Una falla. Enorme, continua Ruotolo. Cinque ufficiali e un sottufficiale della Marina militare in carcere per concussione. Le tangenti arrivavano anche a Roma, allo Stato Maggiore della Marina. Il 10% su tutti gli appalti. Ma il quadro potrebbe aggravarsi ancora di più. Ci sono altri indagati e gli arresti potrebbero scattare per altri ufficiali se quelli finiti in carcere stanotte dovessero decidere di collaborare, di ammettere, di confermare le ipotesi del pm Maurizio Carbone. Uno schizzo di fango, anzi peggio sulla Marina militare. Mare nostrum, il salvataggio di decine di migliaia di profughi è alle spalle. L’inchiesta della Procura di Taranto apre uno scenario inedito. Non si tratta di semplici «mele marce». È un sistema di corruzione radicato in quella che è la base aeronavale della nostra Marina. È stato un imprenditore che si è ribellato nel marzo scorso a svelare il sistema, facendo arrestare in flagranza di reato un capitano di Fregata, Roberto La Gioia, mentre intascava una busta con 2.000 euro. I carabinieri sequestrarono una pen drive e un appunto nella cassaforte dell’ufficiale che documentavano appalti, percentuali, spartizioni delle tangenti. Decine e decine di migliaia di euro finiti nelle tasche di diversi ufficiali. La Gioia ha ammesso che il suo predecessore gli fece le consegne. Insomma, ereditò il «sistema». Adesso c’è solo da aspettare, per vedere quanto esteso sia il marcio, alla Marina militare.

Appalti e mazzette, nuovo terremoto per la Marina a Taranto, scrive Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Si allarga anche agli altri reparti di Maricommi l’inchiesta sul sistema di tangenti imposto agli imprenditori. È quanto emerge dalla memoria presentata ieri mattina dinanzi al tribunale del riesame dal sostituto procuratore Maurizio Carbone con la quale aveva chiesto la conferma del carcere per i quattro indagati che avevano appellato l’ordinanza emesso lo scorso 13 gennaio dal gip Pompeo Carriere e che invece il collegio di magistrati ha scarcerato. Si tratta del capitano di vascello Attilio Vecchi, assistito dall’avvocato Susanna Carraro, del capitano di fregata Riccardo Di Donna, del capitano di fregata Marco Boccadamo, difeso dai legali Raffaele Errico e Rocco Maggi, e del maresciallo Antonio Summa difeso dagli avvocati Raffaele Errico e Alessandra Semeraro. Il pubblico ministero Carbone ha depositato diverse testimonianze di imprenditori raccolte negli ultimi giorni nelle quali gli stessi avrebbero raccontato agli inquirenti che le tangenti venivano pagate anche ad altri ufficiali di altri reparti della Direzione di commissariato della Marina militare di Taranto. L’inchiesta sulla tangentopoli in divisa, quindi, non si ferma. Anzi. L’indagine ora sembra mettere sotto la lente di ingrandimento anche gli altri reparti di Maricommi. Dalle poche notizie trapelate, infatti, i verbali di interrogatorio depositati dal pm Carbone sarebbero in diverse parti coperti da «omissis» per nascondere i nomi di altri ufficiali che, secondo quanto raccontato negli ultimi giorni da una serie di imprenditori, avrebbero intascato mazzette. Tra i diversi indagati, al momento, la posizione più delicata è quella di Marco Boccadamo, l’ex vice direttore di Maricommi a cui il riesame ha concesso i domiciliari. Contro di lui, infatti, hanno testimoniato diversi imprenditori sostenendo di aver pagato mazzette all’ufficiale sia quando ricopriva l’incarico di comandante del V Reparto che di vice direttore. Inoltre dopo le prime dichiarazioni di La Gioia che avrebbe raccontato di aver suddiviso le mazzette con Boccadamo, ora si sarebbero aggiunti anche altri due imprenditori che al pubblico ministero avrebbero ammesso di aver versato tangenti all’ex vice direttore per ottenere appalti anche negli altri reparti. Conferme non da poco, quindi, che per gli inquirenti possono significare solo che gli elementi raccolti finora rappresentano solo una parte di quello che avviene all’interno del comando militare. Elementi raccolti, secondo il pm Carbone, grazie agli arresti effettuati che hanno consentito agli imprenditori di abbattere il muro di omertà che per anni ha garantito la sopravvivenza del sistema concussivo. Infine contro Boccadamo pesano anche le dichiarazioni del suo pari grado Giovanni Cusmano avrebbe ammesso di aver ereditato direttamente da lui «la prassi» del 10 percento e di aver diviso con lui almeno in una occasione una tangente da 4mila euro versata dall’imprenditore tarantino che per primo ha dato il via a questo terremoto giudiziario. Cusmano ha spiegato al pm Carbone e al gip Carriere di essere arrivato al comando del V Reparto quasi consapevole che avveniva qualcosa di sospetto: «Che Boccadamo facesse queste cose, si sapeva all’interno».

"Pizzo come i malavitosi", 7 arresti per le tangenti su appalti della Marina militare. Secondo l'accusa, da più di 10 anni, gli imprenditori erano tenuti a pagare il 10 per cento del valore delle commesse per aggiudicarsi i lavori. In manette cinque ufficiali, un sottufficiale e un dipendente civile, scrive Vittorio Ricapito su “La Repubblica”. Scandalo in Marina Militare. Per la procura di Taranto ufficiali e responsabili degli uffici imponevano il pizzo  alle aziende fornitrici e dell'appalto. Un sistema di tangenti a percentuale fissa, il dieci per cento sull'importo di ogni appalto o fornitura, sotto minaccia di rallentare o ostacolare i pagamenti.  "Come la malavita organizzata", il pizzo veniva imposto "in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia", scrive il gip Pompeo Carriere nell'ordinanza di custodia cautelare, causando danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia locale. Con l'aggravante che il giro di tangenti era imposto da dipendenti dello Stato, per la maggior parte militari, "che hanno giurato fedeltà alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche, dell'ordinamento di appartenenza". Secondo gli investigatori, il "sistema del 10 per cento" andava avanti da almeno dieci anni, una prassi illecita che tacitamente si trasferiva da un comandante all'altro, come un passaggio di consegne. All'alba di questa mattina sono scattate le manette. I carabinieri del comando provinciale di Taranto guidati dal colonnello Giovanni Tamborrino hanno portato in carcere l'attuale e due ex vice direttori del commissariato militare marittimo di Taranto (Maricommi), un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina militare, tutti accusati di concussione. Gli arresti sono stati eseguiti a Roma, Napoli e Taranto. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Secondo gli investigatori le tangenti venivano riscosse dall'ufficiale alla guida del quinto reparto e poi divise in percentuali a seconda degli accordi con chi aveva seguito l'iter amministrativo della pratica. C'era da oliare diversi ingranaggi: chi dal comando di vertice assicurava la copertura finanziaria sui relativi capitoli di bilancio, chi autorizzava l'atto di spesa, chi sottoscriveva l'atto dispositivo, chi materialmente contabilizzava assegni e provviste ed infine chi si interfacciava direttamente con la vittima del sistema. Il tutto naturalmente suddiviso in percentuali formulate in base all'importanza che rivestiva nel procedimento ogni singolo attore. L'inchiesta del sostituto procuratore Maurizio Carbone è decollata il 13 marzo del 2014 quando i carabinieri arrestarono in flagranza di reato il capitano di fregata Roberto La Gioia, 45 anni, comandante del 5° reparto di Maricommi, fermato nel suo ufficio subito dopo aver intascato una tangente di 2mila euro da un imprenditore. Questo aveva già denunciato tutto ai carabinieri sostenendo di aver subìto per anni il "sistema del 10 per cento" e versato tangenti per circa 150 mila euro per mantenere l'appalto dello smaltimento delle acque di sentina delle navi militari. Fra casa ed ufficio del militare, gli investigatori trovarono circa 44mila euro ma soprattutto alcune pen drive su cui era annotata la contabilità occulta e la lista delle imprese che pagavano tangenti. Il 5° reparto di Maricommi, guidato da La Gioia fino al suo arresto, è quello che si occupa dell'approvvigionamento, stoccaggio e rifornimento di combustibili e lubrificanti delle unità navali della Marina Militare e dei mezzi aeromobili, assicurando rifornimenti h24 e 365 giorni all'anno. Nei successivi nove mesi gli investigatori si sono concentrati sulle dichiarazioni dell'ufficiale arrestato, hanno ascoltato i titolari delle imprese che lavorano con la Marina militare, messo sotto controllo telefoni e sequestrato documenti, computer e buoni carburanti, portando alla luce un giro di pizzo di notevoli dimensioni. La Marina militare, si legge in una nota, "ribadendo il proprio pieno sostegno all'azione della magistratura, ha incrementato al proprio interno le attività ispettive e di controllo finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione, a salvaguardia del personale che presta quotidianamente servizio con spirito di sacrificio e senso dello stato, compiendo il proprio dovere anche a rischio della vita".

Marina Militare e appalti, 7 arresti per concussione, scrive “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Un “vero e proprio pizzo imposto in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, e che ha causato nel complesso danni notevoli sia alle singole imprese che all’intera economia locale, sostanzialmente alla stregua dell’agire della malavita organizzata”. Lo scrive il gip di Taranto Pompeo Carriere nell’ordinanza di custodia cautelare, richiesta dal pm Maurizio Carbone, notificata a 7 indagati, tra militari e civili, nell’ambito di una inchiesta sugli appalti gestiti dalla Marina militare. La tangente imposta era pari al 10% dei profitti. I carabinieri del comando provinciale di Taranto hanno arrestato il vice direttore di Maricommi, due ex vice direttori, un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina Militare per concussione. In concorso tra loro – secondo l'accusa – abusando delle loro qualità e dei loro poteri, con la minaccia di ostacolare la regolare emissione dei mandati di pagamento per la esecuzione dei lavori di manutenzione e forniture di servizi e materiale loro affidati per conto della Marina militare, gli indagati hanno costretto “vari imprenditori a versare materialmente al capo del V Reparto di Maricommi, in tempi diversi, più somme di denaro non dovute per importi variabili e altre utilità, per un valore complessivamente comunque equivalente al 10% circa dei profitti derivanti dai servizi svolti”. Somme che il capo reparto, precisa una nota dei carabinieri, “provvedeva a distribuire successivamente in diverse parti percentuali secondo gli accordi tra loro intervenuti”.

Gip: imponevano «pizzo» come malavitosi, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E' in corso, nelle provincie di Taranto, Roma e Napoli, l’esecuzione, da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto, di sette ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip su richiesta della locale Procura della Repubblica. Le misure restrittive e contestuali perquisizioni vedono fra i destinatari appartenenti della Marina Militare fra i quali Ufficiali, Sottufficiali e personale civile, ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di concussione nell’ambito di appalti in favore dell’ente. L'inchiesta, avviata dopo la denuncia presentata da un imprenditore che sosteneva di aver pagato tangenti in relazione ad un appalto, sfociò il 12 marzo 2014 nell’arresto del capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, comandante del quinto reparto di Maricommi, che si occupava di contratti e appalti. L'ufficiale fu bloccato dopo aver ricevuto una busta con 2mila euro dall’imprenditore, che rappresentava – secondo l'accusa – una tranche di una tangente imposta per emettere i mandati di pagamento nei confronti della sua azienda. Il sospetto degli investigatori è che il militare abbia chiesto una tangente del 10 per cento. I carabinieri successivamente perquisirono l’appartamento e l’ufficio di La Gioia trovando altro denaro ritenuto frutto della concussione. Furono sequestrate anche due pen drive dell’arrestato, in cui furono scoperti file con un elenco di imprese. Accanto a ognuna di esse era riportato il valore dell’appalto aggiudicato e il pagamento di tangenti. Sono cinque ufficiali in servizio a Napoli, Roma e Taranto, un sottufficiale e un impiegato, entrambi in servizio a Taranto, le sette persone portate in carcere dai carabinieri nell’ambito dell’indagine sulle tangenti imposte sugli appalti della Marina Militare. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Sono tutti indagati in concorso con il capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, ex responsabile di Maricommi, arrestato il 12 marzo del 2104 ed attualmente e sottoposto all’obbligo di firma. L’ufficiale fu indagato per concussione nei confronti di una serie di imprenditori locali, assegnatari di servizi per conto della Pubblica Amministrazione nell’ambito degli appalti gestiti dalla direzione di Commissariato per la Marina Militare di Taranto. Al graduato fu sequestrata una somma di denaro contante, suddivisa in singole mazzette, per un ammontare complessivo pari a 44mila euro. Il gip scrive nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita oggi che il sistema ideato dagli indagati faceva sì che gli imprenditori concussi fossero vittime di una “vera e propria prassi illecita che si trasferisce da un comandante all’altro, in un ideale passaggio di consegne, più o meno tacito”.

Ma non è la prima volta.

Un provvedimento di interdizione dagli incarichi è stato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli nei confronti di quattro ufficiali della Marina Militare, coinvolti in un’inchiesta su appalti assegnati dalla Marina Militare per lavori nell’Arsenale di Taranto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La richiesta è stata accolta dal gip del tribunale di Taranto Michele Ancona: trattandosi tuttavia di personale militare è necessario prima procedere agli interrogatori di garanzia, già fissati per il 28 e il 31 marzo 2008. Per i quattro ufficiali era stato chiesto l’arresto, ma il gip ha respinto la richiesta di misura cautelare. In tutto sono nove gli indagati. I quattro destinatari del provvedimento interdittivo sono l’ammiraglio Giulio Cobolli, attuale comandante dell’Arsenale militare, l’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino, ex direttore dell’Arsenale di Taranto, trasferito a Roma; Pietro Covino, in servizio a La Spezia, e Nicola Giustino, contrammiraglio in servizio a Taranto. Si ipotizzano anche i reati di truffa e turbativa d’asta perché alle gare di appalto avrebbero partecipato ditte che non avevano requisiti. L'inchiesta sfociò, il 9 novembre 2005, nel sequestro preventivo e probatorio di un’area di circa 18.000 metri quadrati all’interno dell’Arsenale della Marina Militare, nella quale lavorano numerose ditte appaltatrici, e delle attrezzature utilizzate per la manutenzione delle navi. Successivamente fu notificato il provvedimento di sequestro preventivo ai titolari delle ditte, alcune delle quali avrebbero la sede legale in un bar o in campagna. All’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino fu affidata la custodia giudiziale dell’area interessata dal sequestro. Le indagini dei carabinieri del Nil e dei funzionari dell’Ispettorato del lavoro facevano riferimento a presunte violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Durante le ispezioni, sarebbe emersa la mancanza dei requisiti utili per poter partecipare alle gare di appalto espletate dalla Marina militare. Per altre aziende, invece, furono avviati accertamenti sulle modalità con le quali era stato ottenuto il certificato Nato necessario per compiere interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle navi militari.

Lecce, confessano altri due poliziotti della Stradale, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno. Altri due poliziotti della Stradale confessano. E’ accaduto ieri mattina nel corso dell’udienza davanti al Tribunale del Riesame. Stef ano Simonetto, 42 anni, e Luigi De Vincenzo, di 55, entrambi di Nardò, hanno ammesso di essersi «adeguati un andazzo che era generalizzato» fra gli agenti in servizio nella sezione di Polizia stradale di Lecce. I due sono in carcere dal 12 maggio scorso sulla scorta di u n’ordinanza di custodia cautelare in cui si contestano i reati di associazione per delinquere e concussione. Gli agenti sono accusati di aver preteso mazzette e regali da commercianti ed imprenditori. In cambio furgoni e camion delle aziende «compiacenti » non sarebbero stati multati. Il sistema delle «regalie» e delle mazzette è già stato illustrato da altri due agenti: l’ispettore capo Fr ancesco Reggio di Lecce e l’assistente Anna Maria Petrelli di Lizz anello. Ieri sono arrivate le dichiarazioni degli altri due agenti che hanno ammesso di aver ricevuto i regali e di aver fatto qualche «giro» fra gli imprenditori per ottenere buoni benzina. Simonetto e Di Vincenzo sono difesi dagli avvocati Giuseppe Bonsegna e Donato Mellone. Nel corso dell’udienza il pubblico ministero Guglielmo Cataldi ha depositato anche nuovi verbali con le dichiarazioni di altri imprenditori i cui nomi compaiono nella lista di coloro che avrebbero versato «mazzette» e fatto regali agli agenti della Stradale. I titolari di alcune aziende sono già stati sentiti. Ed hanno confermato di aver consegnato denaro, regali e buoni benzina ai poliziotti per evitare il rischio di essere multati.  Ieri davanti al collegio del Tribunale del Riesame sono arrivate le posizioni di altre cinque agenti raggiunti dall’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Si tratta di Leonardo Impero Delle Donne 45 anni, di Caprarica; di Franco Carlà, 58, di Lizzanello; di Maurizio Scarofo n e , di Lecce; Giuse ppe Piccinno, 51, di Aradeo; di Giuseppe Amenini, 46, di Maglie. Fra di loro c’è stato chi ha preferito rinunciare al ricorso al Riesame. Gli agenti sono assistiti dagli avvocati Giancarlo Dei Lazzaretti, Luigi Rella, Luigi Greco, Pantaleo Cannoletta, e Laura Minosi. Intanto continuano da parte degli ufficiali della sezione di pg della Polizia di Stato gli ascolti degli imprenditori come persone informate sui fatti.

Rossana di Bello, fa fallire Taranto e si prende un vitalizio a 58 anni, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. La domanda l’ha fatta all’inizio di settembre, ed è bastata una sola seduta dell’ufficio di presidenza del Consiglio regionale della Puglia per esaudirla, perfino in modo retroattivo. Dal primo settembre scorso c’è un ex politico in più a prendere quel vitalizio che da anni ci raccontano falsamente di avere abolito: è Rossana di Bello, una delle pioniere di Forza Italia. Ci sono non poche anomalie in quel vitalizio che era stato abolito e continua a correre come un fiume. La prima anomalia è quella di uno Stato che premia per tutta la vita un politico che non ha particolarmente brillato: la Di Bello è stata sindaco di Taranto per lunghi anni e con lei la città è stata fra i pochi comuni italiani a fallire, con un dissesto finanziario per oltre 900 milioni di euro (è stata anche sotto inchiesta penale, ma in secondo grado l’hanno assolta dando la colpa ai suoi collaboratori. La Corte dei Conti però ce l’ha ancora nel mirino per danno erariale). La seconda anomalia è che la Di Bello con soli cinque anni lavorati prende da settembre e prenderà fino all’ultimo suo giorno (con possibilità di rendere reversibile ai suoi cari) un assegno mensile da 3.862,27 euro lordi. La terza anomalia riguarda l’età pensionabile della fortunata politica: ha compiuto 58 anni il 28 agosto scorso. La legge Fornero vale dunque per tutti, ma non per i politici italiani, che con soli 58 anni e per avere lavorato solo 5 anni hanno diritto a una pensione reversibile che è quasi il triplo della pensione media degli italiani che hanno lavorato 40 anni. Quarta anomalia, chi sul lavoro combina un disastro come è evidente nella storia di Taranto, alla fine ci rimedia un bel premio.

Lecce, aumentano processi a magistrati, 12 indagati, 92 parti offese. L'inaugurazione dell'anno giudiziario a Lecce con competenza su Taranto: tra i temi caldi l'ambiente, con l'Ilva, il fotovoltaico, gli abusi edilizi e i rifiuti interrati. In crescita durata media procedimenti civili, in lieve calo quella dei processi di primo grado, scrive Chiara Spagnolo su “La Repubblica” L’Ilva, i parchi fotovoltaici, i rifiuti interrati e poi le colate di cemento sulle aree protette, vittime di “reati perpetrati oltre che da privati spesso anche dal pubblico”. È stato l’ambiente uno dei settori più impegnativi per la magistratura salentina, come emerge dalla relazione fatta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dal presidente vicario della Corte d’appello di Lecce, Mario Fiorella: “In tutto il Salento è grave la situazione del traffico di rifiuti pericolosi di varia provenienza, spesso sparsi in discariche abusive o anche interrati con danni per i terreni e le falde acquifere”.  Relazione sintetica, quest’anno, perché racconta il lavoro fatto sotto la presidenza di Mario Buffa, da due settimane in pensione, al quale è stato rivolto un plauso unanime. L’anno appena trascorso - nei tribunali di Lecce, Brindisi e Taranto – è stato caratterizzato da difficoltà legate alla perdurante carenza di organico, sia dei magistrati che del personale amministrativo, a cui si è reagito con un impegno che ha consentito “di mantenere inalterato il trend relativo alla durata dei processi”, ha detto il presidente. I numeri, a quanto pare, descrivono una situazione sotto controllo: aumenta la durata media dei processi civili, ma solo in fase d’appello (891 giorni contro gli 806 dell’anno precedente), ma aumenta anche il contenzioso, che non viene alleggerito dalla mediazione civile “che non ha dato effetti positivi”, con solo 63 procedimenti iscritti nel 2013. Risulta addirittura leggermente diminuita, invece, la durata media dei processi di primo grado a Lecce e Brindisi (663 giorni a Lecce e 419 a Brindisi rispetto ai 675 e 442 dell’anno precedente) mentre è leggermente aumentata a Taranto (619 giorni a fronte dei 580 del 2012). I processi d’Appello invece sono risultati più veloci in entrambe le sedi (560 giorni a Lecce e 733 a Taranto, contro i 674 e gli 823 dell’anno precedente). E se le lungaggini della giustizia pongono il 2013 in perfetta linea con gli anni passati, risulta invece in crescita il numero di processi a carico di magistrati: ben 113 sono stati infatti quelli iscritti nel registro degli indagati, comprendendo sia quelli in servizio nel Distretto di Lecce (inchieste poi trasferite per competenza a Potenza) sia quelli in servizio a Bari, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. La relazione sull’andamento della giustizia ha preso poi in esame il lavoro effettuato dalle Procure, scavando anche nelle metodologie di indagine utilizzate ed evidenziando, per esempio in materia di intercettazioni telefoniche, come la Procura di Brindisi sia quella che ne ha fatto un maggiore utilizzo (con 647 utenze controllate a fronte delle 437 di Lecce e 641 di Taranto), mentre 1.267 sono i telefoni intercettati dalla Dda nell’ambito del controllo delle organizzazioni criminali. Proprio in tema di mafia, è stata sottolineata dal presidente Fiorella la diminuzione degli omicidi (2 a Taranto e 2 a Lecce) “dettato dall’esigenza di non richiamare l’attenzione di polizia e magistratura con azioni eclatanti”. Usura ed estorsioni, invece, continuano ad essere terreno privilegiato d’azione dei clan ma molto spesso “non vengono denunciate dalle vittime per paura di ritorsioni”, confermando l’appellativo di “reati sommersi”, che danno infatti origine a pochi procedimenti giudiziari: 40 per usura e 182 per estorsione nelle tre province.

E poi....

Denuncia un concorso ma l'Ateneo la accusa: «Collezionava incarichi», scrive Luca Barile su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un assegno di ricerca, pagato dall’Ateneo dal 2007 al 2011, entra a gamba tesa in un processo non ancora incominciato, ma che sta già facendo discutere. Dalla procura di Taranto, è notizia dell’altro ieri, il pubblico ministero Remo Epifani ottiene il rinvio a giudizio per una decina di professori universitari, accusati a vario titolo di aver favorito, nella fase di valutazione dei titoli, il candidato risultato vincitore di un concorso per ricercatore, bandito nel dicembre del 2009. Ma dalla direzione generale dell’Ateneo, nel frattempo, era partita una lettera, datata 12 dicembre 2014 scorso, indirizzata all’avvocatura dello Stato. Nella missiva si chiede un parere su come comportarsi nei confronti di Monica Bruno, titolare dell’assegno di ricerca. Da una verifica interna parrebbe che la signora, moglie del magistrato tarantino Ciro Fiore, possa aver percepito quella borsa senza averne avuto diritto. E quindi l’Università è pronta a pretenderne la restituzione. Quello che non è chiaro, ed ecco perché il parere richiesto all’avvocatura, è se si possa anche annullare il contratto che, a suo tempo, l’assegnista Bruno firmò con l’Ateneo. Questione non da poco (senza contratto, niente titolo) considerando che la signora è l’autrice dell’esposto dal quale è partita l’indagine sul concorso da ricercatore, un posto nel settore del diritto commerciale nella sede distaccata, a Taranto, dell’ateneo barese. Perché il titolo di assegnista ha il suo valore in una procedura di valutazione comparata. Tanto più che proprio sui titoli, Bruno sta giocando la sua partita contro Giuseppe Sanseverino, vincitore del concorso. La tesi, accolta da una sentenza del 2013 del Consiglio di Stato, è che i commissari valutarono positivamente alcuni titoli presentati da Sanseverino, in particolare delle esperienze scientifiche all’estero, senza accertarne la veridicità. Il Consiglio di Stato ordinò all’Università di ripetere la comparazione dei titoli, per i due concorrenti in causa ed il rettore, Antonio Uricchio, annullò il precedente decreto di nomina di Sanseverino, con cui questi era stato dichiarato vincitore. Inoltre, ha messo in moto la procedura per formare una nuova commissione. Della vecchia, sono indagati alcuni docenti baresi e non, compreso il professor Gianvito Giannelli, noto per aver svolto l’incarico di curatore fallimentare del Bari Calcio. È indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, anche se non faceva parte della commissione. Sanseverino, però, ha denunciato all’Ateneo che la sua concorrente avrebbe ottenuto incarichi, come amministratore giudiziario, curatore e revisore dei conti durante il periodo dell’assegno di ricerca. La cosa è incompatibile con l’esclusivo impegno richiesto ad un assegnista. E' stata fissata per il 13 febbraio 2015 prossimo l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli, a carico di 11 persone per un presunto concorso truccato per un posto di ricercatore in diritto commerciale alla sede tarantina della Facoltà di Economia dell’università di Bari.

Concorso Università a Bari: 11 indagati tra cui 4 professori, scrive Massimiliano Scagliarini “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una dottoranda con il registratore sempre acceso in tasca e un concorso da ricercatore in Diritto commerciale annullato dal Consiglio di Stato. Un calderone di vita universitaria che ha scatenato una guerra tra Procure, coinvolgendo 11 persone (tra cui 4 docenti) che oggi si ritrovano indagati con l’accusa di aver truccato non solo le selezioni, ma persino l’assegnazione degli incarichi gratuiti di supplenza. Il punto è che la dottoranda Monica Bruno, che dal 2009 ha inviato diverse denunce sulla questione, è moglie di un magistrato di Taranto, Ciro Fiore, all’epoca dei fatti gip nel Tribunale jonico ed oggi trasferito al Minorile. A febbraio il procuratore aggiunto di Bari, Lino Giorgio Bruno, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione delle accuse per una parte dei fatti, ma a inizio giugno il pm di Taranto, Remo Epifani, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini ad 11 persone: oltre ai commissari del concorso annullato, nell’elenco ci sono il vincitore, Giuseppe Sanseverino, 46 anni, di Massafra, ed i docenti baresi Gianvito Giannelli, 54 anni, e Ugo Patroni Griffi, 48 anni. Ce n’è abbastanza per parlare di liti in famiglia. Anche perché Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, della Bruno è stato non solo tutor ma anche testimone di nozze. E Giannelli, ultimamente molto noto alle cronache per l’incarico di curatore fallimentare del Bari calcio, è a sua volta sposato con un sostituto procuratore. Ma quando la commissione che doveva nominare un ricercatore in Diritto commerciale ha prescelto Sanseverino rispetto agli altri tre partecipanti (tra cui c’erano il figlio del professor Giorgio Costantino e la figlia della professoressa Eda Lofoco), la dottoressa Bruno ha preso carta e penna e con l’avvocato Carlo Raffo ha denunciato una serie di presunte irregolarità, arrivando a formulare persino i capi di imputazione: nell’avviso di conclusione delle indagini la procura di Taranto li ha ripresi quasi tutti, e quasi parola per parola. In particolare, la Bruno ha denunciato quello che lei stessa chiama il «metodo del cappello» per l’assegnazione delle supplenze: il professor Patroni Griffi (che per questo è accusato di truffa e falso ideologico) avrebbe presentato domanda salvo poi ritirarla all’ultimo momento, avvantaggiando così - questa è la tesi - il dottor Sanseverino. Un punto su cui la procura di Bari, chiedendo l’archiviazione, aveva però espresso un’opinione contraria: semplicemente perché anche in quei casi Sanseverino poteva comunque vantare i titoli migliori dell’unica altra candidata. Il concorso per ricercatore del 2009, che a breve dovrà essere ripetuto con una nuova commissione e presumibilmente vedrà di nuovo la Bruno ai blocchi di partenza, è stato annullato sulla base di una decisione della giustizia amministrativa sulla valutazione comparativa dei titoli. Per questo la procura di Taranto accusa di abuso d’ufficio sia Sanseverino sia i commissari, tra cui oltre a Giannelli ci sono il bolognese Filippo Paolucci e il campano Ermanno Bocchini. Ma soprattutto, nei guai dopo le denunce (e le registrazioni) della Bruno sono finiti alcuni suoi ex colleghi dottorandi, accusati di favoreggiamento aggravato per aver negato ciò che probabilmente hanno detto a proposito del concorso mentre non sapevano di essere intercettati. Al di là dei docenti di ruolo, il vero beffato di tutta questa storia finora è proprio Sanseverino, che oltre a non aver ottenuto il posto è accusato anche di aver «barato» nel curriculum. Sanseverino ha depositato in procura una lunga memoria, in cui esamina in dettaglio i propri titoli accademici, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, ma passa anche al contrattacco nei confronti della Bruno: ha infatti documentato che la collega, mentre percepiva l’assegno di dottorato da parte dell’Università di Bari, continuava a svolgere l’attività professionale di revisore dei conti. Nel frattempo il dossier di Sanseverino è finito alla Corte dei Conti: questa storia non finirà mai...

Concorso all'Università, 11 indagati illustri. "Truccarono le carte". La selezione per il posto di ricercatore in diritto commerciale internazionale, la procura di Bari archivia, Taranto verso il giudizio. Il Consiglio di Stato annulla la prova, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Un concorso universitario. Undici indagati illustri. Un dibattito tra due procure, quella di Taranto e quella di Bari, che sullo stesso fatto hanno opinioni diverse: a Bari archiviano, nel capoluogo jonico sono pronti ad andare a giudizio. La storia è quella del concorso da ricercatore in diritto commerciale internazionale bandito dall'università di Bari per la sede di Taranto. La selezione viene vinta dal professor Giuseppe Sanseverino. Ma una delle partecipanti, Monica Bruno, non ci sta e presenta il ricorso amministrativo: il Tar le dà torto mentre il Consiglio di Stato ribalta la sentenza e di fatto annulla la prova che infatti si sta rifacendo in queste settimane. Non è chiaro, dicono i giudici amministrativi, in una sentenza in cui parlano tra le altre cose di "eccesso di potere", quali criteri abbia utilizzato la commissione per "sovvertire il diverso peso dei titoli di ricerca esibiti da ciascun candidato", dunque è tutto da rifare.  Il giudizio amministrativo però rappresenta soltanto una fetta di questa storia. La Bruno ha presentato un corposissimo esposto in procura, preparando persino i capi di imputazione. In un primo momento Taranto ha inviato gli atti a Bari, iscrivendo nel registro degli indagati ventinove persone, cioè tutto il consiglio di dipartimento. Con un provvedimento del 26 febbraio del 2014 firmato dal sostituto Luciana Silvestris e dall'aggiunto Giorgio Lino Bruno, Bari però archivia il reato di falso inizialmente ipotizzato. E rimanda le carte a Taranto per ulteriori valutazioni. Nei giorni scorsi la doccia fredda: il pm di Taranto Remo Epifani ha fatto notificare a undici persone un avviso di garanzia. E' indagata l'intera commissione di esame composta dai professori Gianvito Giannelli, Luigi Paolucci ed Ermanno Bocchino. L'accusa è di falso e abuso di ufficio perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al candidato Sanseverino in concorso con il quale agivano, consentendogli il positivo superamento della procedura di valutazione contributiva. Cagionano così un danno ingiusto alla candidata Bruno". Non solo: dice il pm che ci sono anche dei falsi compiuti per "riconoscere al Sanserverino titoli preferenziali inesistenti" per "formulare giudizi favorevoli su pubblicazioni che non potevano essere valutate", il tutto chiaramente per consentire al professore di vincere la prova a scapito della Santoro. Nell'inchiesta è indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi che però non faceva parte della commissione ma che è accusato dalla Santoro e dalla procura di aver favorito Sanseverino, perché suo allievo. Agli atti sono state depositate alcune intercettazioni fatte dalla stessa Santoro nella quale altri docenti, ora iscritti nel registro degli indagati (gli altri sono i professori Ermanno Bocchini, Luigi Paolucci, Anna Zaccaria, Francesco Sporta Caputi, Laura Tafaro, Giuditta Lagonigro, Rosa Calderazzi e Francesco Costantino) raccontavano alla collega di sapere che Sanseverino avrebbe dovuto vincere il concorso perché "aveva dei titoli fortissimi". Sanseverino a sua volta è passato al contrattacco depositando una memoria contro la Bruno (moglie del magistrato Ciro Fiore scrive nella memoria) nella quale fa notare tra le altre cose che la collega avrebbe ricevuto un assegno di ricerca mentre svolgeva altri ruoli, tra i quali “perizie contabili e societarie, curatele fallimentari e procedimenti penali” presso gli uffici giudiziari tarantini. Eppure al titolare dell'assegno è "inibito lo svolgimento - dice Sanseverino - in modo continuativo di rapporti di lavoro nonché l'esercizio di attività libero professionali". Oltre questo c'è poi la questione amministrativa. Come detto il Consiglio di Stato ha annullato il concorso perché la commissione avrebbe favorito Sanseverino a scapito della Bruno. 'Confrontando le relative attività di ricerca - si legge infatti nella sentenza emerge, in termini oggettivi, un dato di prevalenza per la dottoressa Bruno". Dopo la decisione dei giudici amministrativi è stata formata una nuova commissione che però ha interrotto i lavori. La Santoro ha mandato loro una diffida, spiegando che avrebbero dovuto rivalutare soltanto i suoi titoli e quelli di Sanseverino e non quelli di tutti gli altri candidati. Una teoria che non ha convinto però il rettore, Antonio Uricchio, che infatti ha chiesto un parere al Consiglio di Stato per capire come comportarsi ed è in attesa di ricevere una risposta. Per il momento il concorso è bloccato. Intanto però l'avviso è diventato un caso in ambito accademico. Anche se tutte le persone coinvolte si dicono serenissime. Se da una parte il legale di Patroni Griffi, Ugo Paliero, si dice sicurissimo di chiarire tutto in tempi stretti anche vista la "posizione marginale" del suo assistito, il difensore del professor Giannelli, Vito Mormando spiega: "I rilievi che gli vengono mossi fanno riferimento a presunte e opinabili irregolarità amministrative, tra l'altro già travolte dalla sentenza del Tar e dal decreto di approvazione degli atti da parte del rettore. Comunque un dato è pacifico: il concorso si è svolto presso l'università di Bari. La competenza non è tarantina".

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

ANTONIO GIANGRANDE. Alla domanda rispondo come dr. Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto e per gli effetti riconosciuta dal Ministero Dell’Interno.

Per dare una risposta un po’ lunghina, ma estremamente esauriente ed esaustiva, bisogna partire dalla concezione che si ha dei mafiosi in Italia. Nel calcio, così come nella politica, specie a sinistra, vige il concetto che se si vince e si ha successo, si vale, se si perde, gli altri han rubato. Ergo: tu sei ricco e di successo, allora sei un mafioso. Così come molte associazioni antiracket ed antiusura, che non sono di sinistra o riconducibili alla CGIL, la mia associazione non è inserita nel sistema precostituito dell’antimafia Grasso-Ciotti-ANM/MD e per gli effetti vedo e denuncio le storture di una struttura mediatico-giudiziaria. Non ho il megafono dei media di sinistra col paraocchi ideologico, né tantomeno di quelli di destra, occupati ad osannare Berlusconi. Per questo non mi rimane che testimoniare il presente nei miei libri. In particolare: “Mafiopoli” e “Usuropoli e fallimentopoli”. Tornando alla domanda. La risposta la danno gli stessi protagonisti più noti della cronaca dimenticata. Mi astengo dal dilungarmi sulla mia storia. Un ristorante bruciato e dalla burocrazia mai risarcito, né fatto ricostruire. Dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Comunque in regime di sottomissione ideologica l’establishment ha altre cose da pensare rispetto a quello che il popolo anela.

PINO MANIACI. Beni sequestrati, Maniaci: “Gli dei delle misure di prevenzione”. Il direttore di Telejato è stato ascoltato in Commissione regionale antimafia. In quella sede ha presentato il suo dossier sui curatori dei patrimoni sottratti ai boss di Cosa nostra: “Sono sempre gli stessi e gestiscono patrimoni immensi. A volte con problemi di incompatibilità”, scrive Riccardo Campolo su “L’Ora Quotidiano”. “A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: Dara, Modica de Mohac, Benanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione dello scorso 17 dicembre. Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di prevenzione”. “Un lungo e intenso confronto in Commissione Antimafia regionale. Abbiamo appena finito di ascoltare Pino Maniaci, direttore di Telejato. Pino dipinge un quadro a tinte fosche, tante ombre e poche luci, ci fornisce spunti interessanti, soprattutto sulla gestione dei beni confiscati, e nei prossimi giorni ci consegnerà un dossier dettagliato che studieremo con attenzione. Gli ho detto, salutandolo, che non è solo e che deve continuare a fare il suo lavoro, il giornalista, come sempre ha fatto: con la schiena dritta e la testa alta”. Lo scrive sui social network il vicepresidente della Commissione regionale Antimafia, Fabrizio Ferrandelli. a conclusione dell’audizione del direttore della Tv di Partinico al centro di continue intimidazioni.

LE IENE. Le Iene e Mafia, antimafia e aziende che affondano. Nella puntata di giovedì 29 gennaio 2015, de Le Iene Show uno dei servizi proposti ha toccato il tema della mafia e l’inviato Matteo Viviani ha voluto raccontare la storia della famiglia Cavallotti ed ambientata a pochi chilometri da Palermo. Una vita, quella dei fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni, Gaetano, dedicata a svolgere il proprio lavoro, con passione e dedizione con l’intento di lasciare ai figli un modo migliore in cui vivere, salvo poi trovarsi, da un giorno all’altro, senza nulla a causa dello stato che sottrae tutto in nome della legalità. In poco tempo vedere i frutti di anni di lavoro, mandati in fumo da qualcun’altro che è stato messo a gestire il tutto al posto di proprio dallo stato. I fratelli raccontano la loro storia sin dagli inizi: dalle idee geniali che frutta una grande molo di lavoro, all’infiltrazione della mafia che spinge per riscuotere il pizzo, fino ad arrivare ad una situazione insostenibile fatta di arresti assurdi e condanne per associazione a delinquere. Il resto ve lo facciamo vedere senza svelarvi altro, per farvi gustare a pieno quanta assurda è questa storia.

A Le Iene Show nella puntata andata in giovedì 29 gennaio 2015, Matteo Viviani racconta la storia di un’azienda di famiglia siciliana affondata dalla mafia e dal mancato sostegno dello Stato. Siamo a pochi chilometri da Palermo, nella ditta familiare gestita dai fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni e Gaetano Cavallotti. Tutti e quattro hanno dedicato anima e corpo a questo lavoro per sperare di poter lasciare qualcosa ai rispettivi figli. Ma neppure la loro realtà imprenditoriale in crescita è passata inosservata alla mafia locale che ha bussato alla loro porta pretendendo il pagamento del pizzo. Da qui è iniziato un calvario in cui l’intervento dello Stato non ha fatto che peggiorare le cose. Nel 98 i Carabinieri hanno eseguito perquisizioni e arrestato le vittime della vicenda, ovvero proprio loro che erano “costretti” a pagare il pizzo. Chi ha pagato viene trattato alla stregua di complice: le banche prendono le distanze e l’attività inizia a dare segni di cedimento. A capo delle aziende sono state messe persone terze (amministratori delegati) e ai proprietari originari non resta che assistere inermi al graduale fallimento, alla distruzione inesorabile del frutto di anni di sacrifici. I contratti già in essere decadono e passano ad altre società. Ma c’è di peggio: il patrimonio di famiglia viene sequestrato in via preventiva fino a quando, sostengono le autorità, “non riusciranno a dimostrare la provenienza lecita dei beni”. La “giustizia” arriva dopo 12 anni e 4 gradi di giudizio: i Cavallotti vengono dichiarati innocenti, estranei alla Mafia. Viviani ha intervistato l’amministratore delegato per capire se veramente ha sempre agito a favore dell’azienda vittima del sequestro. Spunta una differenza sospetta di un milione di euro circa di cui i Cavallotti non hanno visto un centesimo. Se volete vedere il servizio completo su questa assurda vicenda di in-giustizia italiana cliccate nel link sotto.

Le Iene parlano dei Cavallotti, scrive Salvo Vitale su “Peppino Impastato”. Ieri sera è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti  e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile dottoressa Saguto, il magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo  ancora continua . I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione  le altre malversazioni  che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario Modica de Moach, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un  utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo  sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

La storia allucinante dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, estratto da I Siciliani Giovani aprile 2014 n°19: Beni Confiscati: così non funziona di Salvo Vitale, Pino Maniaci, Christian Nasi e pubblicato su “La Nuova Belmonte”.

La Comest. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. Fiutano che c’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione e decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad avere numerosi appalti, specie nelle Madonie, con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi tornare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni. Sul mercato nasce, a far concorrenza a loro l’Azienda Gas spa, per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale chiede, per fondare la società, i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica: Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, con l’avallo, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità e si aprono le porte per gli appalti: unico ostacolo la Comest e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco: Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agire, è scritto: “Cavallotti due milioni”. Si fa presto a incriminare i Cavallotti, che, come tanti pagavano il pizzo, per associazione mafiosa, e a far disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto. Dopo che nel 2002 la Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza con una condanna e dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa, ma, qualche mese dopo, nei suoi confronti scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristodaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione nei confronti di tre dei fratelli Cavallotti: ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario un certo Andrea Modìca di Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TOSA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni, mal’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati quasi tre anni, anzi, per, viene confiscata una nuova azienda di uno dei fratelli, che si è spostato a Milazzo e nel dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dal figlio, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, il ragazzo titolare, la cui sola colpa è di essere figlio di uno che è stato indagato, condannato e poi prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa. Gli ultimissimi sequestri riguardano un complesso di aziende edili di Vito Cavallotti, figlio di Salvatore, la Energy clima, la Sicoged la Tecnomet e la Ereka CM, una parafarmacia già chiusa dal 2013. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per ritardo di notifica. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti. Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati.

Questo sistema non guarda in faccia a nessuno.

ITALGAS. Italgas: il colosso commissariato dall’antimafia. A dicembre 2014 ascoltati anche i vertici Snam in commissione parlamentare, scrive Luca Rinaldi su “L’Inkiesta”. Commissariata per sei mesi dal 9 luglio 2014 da parte della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, e commissariamento prorogato di altri sei mesi lo scorso dicembre. È l’attuale situazione della società Italgas, controllata al 100% da Snam, i cui principali azionisti di Snam sono Cassa Depositi e Prestiti Reti, Cassa Depositi e Prestiti e per un altro 49% altri investitori istituzionali. È la prima volta che una società quotata subisce una misura del genere. Italgas conta 1.500 concessioni, una rete di distribuzione di 53mila chilometri e 6 milioni di utenze a cui fornisce gas per quasi 7,5 miliardi di metri cubi. Un colosso che per gli inquirenti ha però trovato tra i suoi affari anche quelli di alcune società riconducibili a cosa nostra. E il gas storicamente attrae gli interessi della mafia siciliana da Mattei ai giorni nostri. Così capita che il cane a sei zampe si trovi tra le società cui appalta la metanizzazione del Sud Italia strutture in mano a soggetti destinatari di misure di prevenzione patrimoniali in passato accusati (ma poi assolti) di concorso esterno in associazione mafiosa e altre società su cui le procure antimafia hanno messo la lente d’ingrandimento. I pm di Palermo hanno richiesto e ottenuto per Italgas il commissariamento in seguito a una inchiesta partita sulla società Gas spa, società riconducibile a Vito Ciancimino e invece gestita formalmente dall’imprenditore Ezio Brancato. La stessa Gas nei primi anni duemila risulta però essere sotto il controllo di del figlio di don Vito, Massimo, che tramite due legali, la cede alla spagnola Endesa. Nel maggio del 2013 tre società del gruppo Gas finiscono in amministrazione giudiziaria e l’inchiesta della procura di Palermo, coordinata dai pm Petralia e Scaletta prosegue. Si arriva così ai fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, e poi assolti. Tuttavia i due sono destinatari di alcune misure di prevenzione patrimoniale. Vengono sequestrati ai due beni per il valore di circa otto milioni di euro nel dicembre 2013, e nell’inchiesta fanno capolino due società, la Imet e la Comest. Quest’ultima, che già compariva in un pizzino di Bernardo Provenzano e un’altra, la Euroimpianti, mettono nei guai Italgas. Proprio la Comest fa parte di un pacchetto di acquisizioni di Italgas, che ne prende il controllo successivamente all’amministrazione giudiziaria nel 2009. Ma la società che segna un punto di svolta per la vicenda è la EuroImpianti, che secondo la procura di Palermo sarebbe sempre riconducibile ai fratelli Cavallotti. EuroImpianti vince l’affidamento di alcuni appalti in Sicilia e Liguria e si occupa della manutezione di altre strutture controllate da Eni. Il 22 dicembre 2011 Euroimpianti entra in amministrazione giudiziaria in seguito alle inchieste della procura di Palermo, e nel luglio 2014 è il turno di Italgas, che secondo i giudici «aveva sicuramente cognizione del fatto che la Euroimpianti pur se formalmente intestata ai giovanissimi figli di Cavallotti Vincenzo e Cavallotti Gaetano, era di fatto gestita dai predetti imprenditori». Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. Sullo sfondo della vicenda una interdittiva antimafia atipica nei confronti della Euroimpianti arriva il 2 novembre del 2011 dalla procura di Messina. L’interdittiva atipica, presente nell’ordinamento italiano e ora non più in vigore dopo l’approvazione del codice antimafia del 2013, faceva accendere una spia nei confronti di un’azienda che prendeva parte a un appalto, ma senza effetti immediati: l’appaltatore può discrezionalmente valutare se interrompere o meno il rapporto. Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. A ricostruire la vicenda è Luca Schieppati, per tre mesi amministratore delegato di Italgas prima del commissariamento, in audizione alla Commissione Parlamentare Antimafia. L’11 novembre del 2014 Schieppati si siede davanti alla commissione parlamentare antimafia per riferire sulla vicenda Italgas. Esordisce specificando che «il racconto di questa sera è quello di una persona che, fino al 10 aprile 2014, era direttore generale operations di SNAM Rete Gas, dopodiché dall'11 aprile è stato in Italgas, dove in questi tre mesi esatti, dall'11 aprile 2014 all'11 luglio 2014, non ha mai saputo di questa vicenda». Fatto sta che dopo la sospensione EuroImpianti viene riabilitata nell’ottobre del 2012: per 14 mesi la società non ha partecipato a gare di Italgas, poi riprende il servizio. Arriva il commissariamento anche per Italgas nel luglio 2014. «misura - dice Schieppati in audizione - che ha colto Italgas di sorpresa, perché non ci era mai pervenuta, prima di quella data, nessuna richiesta né alcuna informazione relativamente ai fatti». Viene sentito anche Leonardo Rinaldi, Ex amministratore delegato di Gas Natural Distribuzione Italia SpA, altra società che ha portato le indagini dei pm su Italgas, ma la sua audizione in commissione è rimasta secretata. A dicembre vengono sentiti in commissione anche Paolo Mosa, amministratore delegato di Snam Rete Gas e Carlo Malacarne, Amministratore delegato di Snam, i quali ricalcano le parole di Schieppati sulla sorpresa del provvedimento di commissariamento, e indicano che la società ha già avviato un monitoraggio interno per la selezione delle ditte che partecipano agli appalti. Malacarne, amministratore delegato di Snam: «Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori». «Mi sento di dire - ha riferito Malacarne ai commissari - che ci sono state delle carenze, sicuramente, a livello locale, localizzate. Queste carenze vanno comunque individuate». E ancora «Il discorso di Eurimpianti Plus e Cavallotti l'ho letto nella notifica. Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori. Io non ne ero al corrente non solo nel 2009, ma neanche nel 2014. Questo discorso di Cavallotti l'ho letto, ma non ne ero assolutamente al corrente. Lo dico molto sinceramente». Uno scarico di responsabilità che forse chiarisce ancora poco i rapporti tra le società in gioco, cioè Italgas e quelle dei Cavallotti. Dopo sei mesi, dal giugno al dicembre 2014 i commissari di Italgas e i giudici sembrano non vederci ancora chiaro e, come riporta La Stampa, in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata» mentre il pm «ha rappresentato di aver in corso il completamento di ulteriori attività investigative». È uno dei passaggi del provvedimento, secondo quanto riferito da chi ha visionato i documenti, con il quale il tribunale di Palermo ha prorogato per altri sei mesi il commissariamento della società controllata da Snam Rete Gas. In sostanza le indagini della procura di Palermo non si sono fermate, e si è in cerca di altri elementi utili, in particolare su negligenze nella gestione del sistema informatico degli appalti. Letta dunque la relazione degli amministratori giudiziari (Sergio Caramazza, Luigi Giovanni Saporito, Marco Frey, Andrea Aiello), depositata lo scorso 18 dicembre e fatta propria dai giudici nel provvedimento del 24, avrebbe fatto emergere in particolare una serie di carenze nel sistema di concessione degli appalti per i lavori sulla rete. I commissari: in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata». Carenze, scrive ancora La Stampa, in grado di avere impatti negativi sul budget e sui conti della società. Proprio alla luce di queste carenze, i pm avevano chiesto e ottenuto nel novembre scorso il sequestro dei dati storici del sistema che gestisce gli appalti dell’intero gruppo Snam, al fine di «estrarre» i contratti relativi a Italgas. A poco è servito, secondo il giudice, l’attività posta in essere da Snam , che lo scorso 13 dicembre aveva a sua volta proposto una serie di misure per eliminare i problemi riscontrati dagli amministratori. Insomma, il rischio che Italgas rientri tra gli appetiti di cosa nostra è ancora alto e i giudici dicono che i commissari nella stessa Italgas che genera un terzo dei ricavi del gruppo Snam, pari a 1,3 miliardi di euro, devono restarci almeno fino al prossimo luglio.

«Ringrazio Riccardo Spagnoli e Matteo Viviani per avere, per la prima volta, portato a conoscenza degli italiani una verità che ancora oggi nei media, nelle aule di Tribunale, financo in Commissione Nazionale Antimafia si tenta di mistificare. Ringrazio anche il dott. Antonio Giangrande per avere ora - come in passato - trattato in maniera imparziale e professionale la storia della mia famiglia. Un ringraziamento particolare va a Pino Maniaci per avere per primo dato ascolto alla richiesta di aiuto della mia famiglia - scrive sul suo profilo Facebook Pietro Cavallotti - Ciò che più dà fastidio non è tanto il costatare che i sacrifici di due generazioni sono andati in fumo perché non siamo mai stati attaccati ai beni materiali; non è tanto vedere che un amministratore giudiziario si è impunemente arricchito sulle tue spalle con l'avallo - non so se consapevole o meno - del giudice che lo ha nominato, che ne avrebbe dovuto controllare l'operato e al quale avevamo a tempo debito segnalato le irregolarità compiute da questo signore amministratore. La cosa che più ci mortifica è continuare ad essere accostati alla mafia nonostante una sentenza di assoluzione passata in giudicato. Per chi ha subito le vessazioni della mafia nell'attività di impresa, financo nella vita privata non c'è nulla di peggio che essere accostati alla criminalità mafiosa. La mafia ci fa schifo! Noi siamo assolutamente lontani dalla logica mafiosa della prepotenza e della prevaricazione. Noi giovani abbiamo vissuto la nostra infanzia tra aule di Tribunale e case circondariali. Ma non abbiamo mai perduto la speranza nella giustizia. Pensavamo che l'assoluzione dei nostri padri ci avesse restituito la dignità che il fango di quelle infamanti accuse ci aveva tolto. Ci siamo messi in gioco e, ispirandoci ai valori che ci sono stati trasmessi dai nostri padri - l'amore per lavoro, il senso della legalità, il rispetto per il lavoratore che abbiamo sempre anteposto al bene personale - abbiamo costituito con le nostre mani una società che con impegno e sacrificio siamo riusciti a far crescere producendo il benessere per le famiglie dei nostri collaboratori e una aspettativa di vita migliore per noi stessi. Pensavamo di avere recuperato quello che la cattiva giustizia aveva tolto a noi e ai nostri padri. Avevamo per un attimo accarezzato il pensiero di vivere in un Paese civile. Ma evidentemente ci sbagliavamo. Nel 2012, infatti, viene sequestrata la nostra azienda. Sapete perché? Perché l'amministratore giudiziario che si vede nel video ha fatto una segnalazione al Tribunale dicendo che la nostra società faceva concorrenza alla Comest. Nel provvedimento di sequestro si continua a ripetere che i nostri padri sono vicini alla mafia. Ma come si può dire una cosa del genere a fronte di una sentenza ampiamente assolutoria? Ed ecco che proprio quando pensi di esserti rimesso in carreggiata, precipiti di nuovo in basso. Ti ritrovi isolato, emarginato dai media e da qualcuno che fino a poco prima ritenevi essere amico, tutto intorno terra bruciata. Siamo letteralmente impossibilitati nella ricerca di trovare un lavoro. Nessuno è disposto ad assumerci per paura di ripercussioni giudiziarie. Sono addirittura stati capaci di porre in amministrazione giudiziaria la Italgas perché questa ha avuto dei regolari rapporti commerciali con la nostra società che, secondo l'accusa, sarebbe riconducibile ai fratelli Cavallotti "vicini ad esponenti di spicco della criminalità organizzata". Questo ci ferisce e ci sconforta. Con la massima - e forse ingenua - fiducia nelle istituzioni, mandiamo una lettera alla Commissione Nazionale antimafia chiedendo di essere ascoltati per chiarire la vicenda giudiziaria della nostra famiglia e i rapporti che ci sono stati tra la nostra società e la Italgas, esprimiamo la più ampia disponibilità a collaborare per l'accertamento della verità. Ad oggi non ci è stata data alcuna risposta. Qualcuno potrebbe dire <<le colpe dei padri non devono ricadere sui figli>>. Ma talvolta nello sconforto ci chiediamo: quale sarebbe la colpa dei nostri padri? La loro colpa è forse quella di essere innocenti? Quella di avere subito le minacce della mafia in un periodo storico in cui opporvisi significava sottoscrivere la propria condanna a morte? Noi siamo orgogliosi di tutto quello che i nostri padri hanno fatto, di tutto quello che ci hanno insegnato. Ci dicono che noi siamo i prestanome dei nostri padri. Cosa falsa. Noi portiamo con orgoglio il loro nome e non lo prestiamo! E se la conseguenza dell'amore che noi proviamo nei loro confronti deve essere quella di portare insieme a loro questa croce noi siamo disposti a farlo, mai abbandonando la fiducia nella giustizia che siamo certi, prima o dopo, arriverà. L'auspicio è che giornalisti seri come Antonio Giangrande, Pino Maniaci, Marco Salfi, le stesse Iene, tutti gli altri protagonisti della antimafia vera (come Salvo Vitale), tutti i protagonisti della lotta contro tutte le mafie - per dirla con il dott. Giangrande -, tutti gli uomini liberi non asserviti al potere e non inclini a fare aprioristicamente da eco alla voce delle procure, possano ancora impegnarsi per far luce sul malaffare che ruota attorno al sistema criminale delle misure di prevenzione, dietro il quale spesso si nasconde e si arricchisce impunemente sotto il manto della legalità la criminalità meglio organizzata».

La Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento, scrive Pino Maniaci su “Change”. C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco.

La famiglia Cavallotti è solo la punta dell'iceberg, scrive Pino Maniaci su “Change”. I fratelli Cavallotti, sono stati assolti con sentenza definitiva dalla infamante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa con la formula "perchè il fatto non sussiste". In riferimento all’assoluzione dei fratelli Cavallotti il dott. De Lucia ha dichiarato che tale pronuncia giudiziale “come tutte le sentenze di assoluzione, però, deve essere letta. Una serie di dati processuali lì non hanno trovato, per una serie di questioni di natura formale, soddisfazione”. Ebbene, i fratelli Cavallotti sono stati assolti non per “questioni di natura formale”, ma perchè, a seguito di un lungo e complesso procedimento penale, sono stati ritenuti vittime e non complici della mafia per i motivi di cui adesso si dirà. Gli elementi da cui è scaturito il processo penale sono gli stessi su cui si basano le misure di prevenzione avverso le quali pende ricorso in Cassazione. Si tratta di una serie di pizzini e di dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia che, se interpretate correttamente, dimostrano come le imprese dei fratelli Cavallotti, piuttosto che essere state avvantaggiate illecitamente dalla mafia, alla stregua di tutte le imprese operanti in Sicilia negli anni '80 e '90 - periodo della massima recrudescenza del fenomeno mafioso - sono state costrette a pagare il pizzo e a subire furti e danneggiamenti nei propri cantieri, tutti denunciati alle autorità competenti. I Cavallotti non hanno mai partecipato al sistema di spartizione illecita degli appalti (c.d. "Accordo Provincia") ideato dal Siino; ciò è dimostrato in maniera irrefutabile dall'elenco dei lavori che il gruppo Cavallotti ha svolto dalla data della costituzione della prima società di capitali alla data del sequestro, dal quale si evince che mai alcuna impresa riconducibile al gruppo Cavallotti si è aggiudicata lavori di importo superiore ad un Miliardo di lire indetti dall'Anas o dalla Provincia tra la seconda metà degli anni ottanta e il 1991 - periodo della riferita operatività dell'accordo suddetto avente ad oggetto, come spiegato dallo stesso Siino, la spartizione dei lavori indetti da Anas e Provincia di valore superiore ad un Miliardo di Lire . Quanto poi alla non meglio precisata - e perciò suggestiva - “documentazione riferibile a Bernardo Provenzano, che parla di appalti all'epoca di natura miliardaria, che riguardavano il gruppo Cavallotti” cui ha fatto cenno il dott. De Lucia secondo il quale tale documentazione avrebbe avuto “una valorizzazione diversa in sede processuale, ma questo non toglie che quel materiale trova nuovo utilizzo nella misura di prevenzione attualmente pendente”, può essere di aiuto alla comprensione della vicenda processuale ricordare che si tratta di missive dattiloscritte inviate dal Provenzano all’Ilardo e da questi consegnate al Colonnello Riccio. In queste missive si fa cenno, da una parte, ai lavori di metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe, eseguiti dalle società dei fratelli Cavallotti, dall’altra, alla Cooperativa “Il Progresso”, di cui a breve si dirà. Il carteggio in parola va letto - ed è stato valorizzato dai giudici del processo penale - come pagamento del pizzo, e ciò per le seguenti ragioni. Le gare per i lavori per la metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe sono state indette e aggiudicate a Palermo dalla Siciliana Gas. Queste missive sono del seguente tenore:

1- "Ti prego se puoi mettere a posto questi tre bigliettini che ti mando che cadono tutti e tre nella Provincia di Enna dammi risposta di quello che fai".

2- "Imp. Coop. Il Progresso deve fare un lavoro a Piazza Armerina - devono fare il consolidamento Pile sul Fiume Gela sotto il viadotto Fontanelle al km 48 strada Statale 117 bis importo 500 m circa questo lo cominceranno verso fine Febbraio 95. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Agira dopo Leonforte Provincia di Enna. Imp. 4 ml. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Centuripe Provincia di Enna Imp. 4 ml. Dammi risposta se li raccomandi o nò".

Va precisato che nel gergo mafioso con l'espressione "raccomandazione", come affermato incidentalmente nella sentenza che ha assolto dalla accusa di turbativa d’asta il sig. Pavone, titolare della Cooperativa “Il Progresso” menzionata nello stesso bigliettino, si intende fare riferimento alla messa a posto. Pur non contenendo una datazione, tali missive vengono fatte erroneamente risalire all'Ottobre del 1994 così da essere collocate, nella prospettazione accusatoria, in epoca antecedente alla aggiudicazione dei lavori (Dicembre 1994). Inoltre, la Cassazione ha stabilito che le dichiarazioni dell’Ilardo e le sintesi delle stesse contenute nella relazione del Riccio (dove si fa cenno al dato temporale) sono inutilizzabili perché ritenute prove formate in violazione di legge in assenza del contradditorio. Ma non è tutto. Sulla base di una nota "regola di mafia", se Provenzano avesse voluto favorire l'aggiudicazione dei lavori ai Cavallotti, avrebbe dovuto rivolgersi al referente locale della consorteria mafiosa competente su Palermo - luogo, nel quale vengono indette e aggiudicate le gare - e non di certo all'Ilardo, referente della famiglia mafiosa di Caltanissetta ed Enna. Viceversa, l'indirizzamento delle missive all'Ilardo dimostra, in verità, ancora una volta, che Provenzano faceva riferimento alla messa a posto. E ciò risulta compatibile con una ulteriore "regola di mafia" secondo la quale la riscossione del pizzo compete alla famiglia del luogo in cui i lavori vengono eseguiti. Alcune delle concessioni ottenute con regolare procedura dai Cavallotti, dopo il loro arresto avvenuto nel 1998, sono state sottratte alla Comest, già in amministrazione giudiziaria, e affidate, senza alcuna gara con il c.d. "patto di legalità" siglato dall'allora prefetto Profili, proprio alla Gas s.p.a., in corrispondenza dello stanziamento dei fondi europei per la metanizzazione della Sicilia al fine di, come si legge nell’atto prefettizio, “prevenire e reprimere ogni possibile tentativo di infiltrazione della malavita organizzata nel mercato del lavoro, nella fase di aggiudicazione degli appalti e negli investimenti, nonchè nello svolgimento dei lavori presso i cantieri e nell’esercizio delle attività produttive”. Con riferimento a questa operazione è di interesse, inoltre, riportare le dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino presso il Tribunale di Palermo alla presenza dei magistrati dott. Ingroia e dott. Di Matteo il 09/07/2008: "si erano occupati insieme anche di fare levare l'aggiudicazione della, dei lavori dell'impresa quella dei Cavallotti per farla aggiudicare sempre all'impresa Brancato - Lapis". L'allora Presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Lumia in data 17/06/2000 partecipava a Mezzojuso alla inaugurazione dei lavori di metanizzazione eseguiti dalla Gas s.p.a. spiegando al suo uditorio la necessità di coniugare lo “sviluppo con la legalità”. Nel processo di appello del processo di prevenzione il Procuratore Generale, Florestano Cristodaro, ha chiesto la revoca delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali ritenendo ancora una volta i Cavallotti "vittime della mafia" ed invitando i giudici a "leggere serenamente le carte processuali". Ora, se un Procuratore della Repubblica italiana, ha chiesto di revocare le misure di prevenzione, ciò significa, che con riferimento alla vicenda dei Cavallotti non è ravvisabile neppure l'indizio della loro vicinanza alla mafia; E se questo dato così significativo viene letto insieme alla sentenza di assoluzione definitiva la conseguenza non può che essere una: i Cavallotti non hanno mai avuto nulla a che fare con la mafia! Veniamo adesso all'audizione della commissione Nazionale Antimafia nella quale sul sequestro Italgas sono stato audito il dott. Dario Scaletta “Belmonte Mezzagno è un paesino della provincia di Palermo, per chi non lo conoscesse, ed è il paese di Benedetto Spera, un noto esponente mafioso assicurato alle patrie galere”) del dott. De Lucia (DE LUCIA: “(a) Belmonte Mezzagno, un paese di poche migliaia di anime, (i Cavallotti) sono ben noti sia per le capacità imprenditoriali sia per il tipo di rapporti che hanno con la criminalità mafiosa in quel territorio, che è stata per anni rappresentata dal braccio destro di Bernardo Provenzano, Benedetto Spera”), dell’On.le Lumia (LUMIA: “Belmonte Mezzagno, un comune dove agiva un boss mafioso del calibro di Benedetto Spera, che stava nel Gotha mafioso insieme a Provenzano e a Giuffrè”). Sembra quasi che le imprese gestite da cittadini belmontesi siano per ciò stesso dotate, in chiave indiziaria, di un marchio registrato che ne certifica l’origne criminale. Questo modo di argomentare che segue il noto detto di “fare di tutt’erba un fascio” è inamissibile oltre che offensivo nei confronti di una intera comunità cittadina. Vale la pena di ricordare che Belmonte Mezzagno non è soltanto il paese che ha dato i natali a Benedetto Spera, ma il paese in cui vivono e da cui provengono centinaia di lavori infaticabili e imprenditori onesti che lottano tra mille difficoltà a fianco dei propri collaboratori non soltanto contro la crisi economica ma anche contro un pregiudizio che talvolta fa più male della crisi. Belmonte Mezzagno, “per chi non lo conoscesse”, è il paese di artisti, di musicisti e sportivi di fama internazionale, dei migliori studenti dell’Università di Palermo. Continueremo con la Nostra battaglia e vi preghiamo di sostenere la petizione.

FRANCESCO DIPALO. Imprenditore di Altamura, testimone di giustizia, minaccia di darsi fuoco, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un testimone di giustizia, Francesco Di Palo, ha minacciato di darsi fuoco nella serata di ieri davanti alla Prefettura di Monza, procurandosi comunque delle ustioni alle mani con liquido infiammabile. Francesco Di Palo è un imprenditore di Altamura, diventato testimone di giustizia e recentemente uscito dal programma di protezione. Tuttavia lui e la sua famiglia continuano a sentirsi in pericolo. Di Palo era il titolare della 'Venere srl' di Matera, società che produceva vasche idromassaggio, dichiarata fallita un anno prima che l’imprenditore decidesse di denunciare alla magistratura barese i soprusi subiti dalla mala altamurana e il presunto intreccio tra mafia, politica e Forze dell’Ordine. A causa delle ristrettezze economiche derivanti dal suo status di testimone di giustizia, l’uomo ha più volte protestato pubblicamente contro il ministero dell’Interno e la procura di Bari. Nell’ottobre 2011 chiese di uscire dal programma di protezione perchè – disse ai giornalisti – il Viminale non gli pagava più l’affitto della casa nella località protetta in cui viveva: per questo, il 27 ottobre 2011, protestò con un megafono davanti al tribunale di Bari dove era giunto in treno ("senza pagare il biglietto") e senza scorta. Raccontò che anche i suoi tre figli erano tornati a casa, ad Altamura. «Ero disposto a tutto per la giustizia, ma sono stato buttato al vento come un pezzo di carta. Protesto – disse in quell'occasione ai cronisti – per dire a questa procura che i testimoni di giustizia sono trattati come pezze per pulire le scarpe».

Altamura: nuove minacce per i fratelli Di Palo  Scritte intimidatorie contro il giornalista ed il testimone di giustizia, scrive Savino Percoco su “Antimafia Duemila”. Lo scorso dicembre 2014, all’indomani di alcune denunce, testimoniate in diretta radiofonica ai microfoni di Radio Regio Stereo, Alessio e Francesco Di Palo, sono stati destinatari di minacciose frasi intimidatorie scritte su alcuni muri della città di Altamura. Non è la prima volta che i due fratelli, entrambi molto attivi nella lotta contro la criminalità organizzata, sono destinatari di inquietanti messaggi o minacce. In passato sono stati vittime anche di violente aggressioni fisiche e verbali ed hanno subito danni anche su alcuni beni mobili. Alessio è giornalista e conduttore radiofonico e nei suoi programmi denuncia senza timore il malaffare mafioso e le sue connessioni. Francesco invece è un ex imprenditore e titolare della Venere S.r.l. di Matera, produttrice di vasche idromassaggio, divenuto testimone di giustizia dopo aver coraggiosamente denunciato i suoi estorsori. Dal dicembre 2009 su richiesta del pm antimafia Desirèe Digeronimo, oggi consigliere comunale di Bari, è entrato nel programma di protezione, iniziando così la dura vita dei testimoni di giustizia in località protetta fatta di segretezza, difficoltà economiche e limitazioni di movimenti e spostamenti. Nonostante ciò nei loro confronti regna un certo silenzio. Nessuno, tra i media, ha dato risalto alle intimidazioni subite ed anche tra le istituzioni sono latitanti nell'esprimere vicinanza verso questi due uomini che a distanza di anni, continuano il duro commino in nome della giustizia e della legalità. Francesco Di Palo, assieme al fratello, qualche mese fa ha presentato una serie di esposti alla Procura della Repubblica di Bari, denunciando continue estorsioni ai danni di imprenditori, commercianti ed artigiani altamurani. Nella sua denuncia Di Palo ha spiegato come, a suo parere, vi sia una nuova famiglia criminale che sta prendendo il controllo sulle attività estorsive un tempo condotte dal boss Bartolomeo Dambrosio, trucidato da 50 colpi di arma da fuoco nelle campagne altamurane il 6 settembre del 2010. “Inoltre sono stati inviati esposti - aggiunge Francesco - con i quali abbiamo denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti che vedono coinvolti imprenditori deviati di Altamura, affiliati al clan Dambrosio e ad un clan di Bari. Non abbiamo più avuto notizie. Mai in nessuna Procura d’Italia un Testimone di Giustizia non è stato convocato dai Magistrati dopo aver denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti. Mai in nessuna Procura della Repubblica d’Italia un soggetto che denuncia una organizzazione criminale per estorsioni, non è convocato dai magistrati per confermare le denunce rese e/o approfondire i fatti oggetto delle stesse denunce”. Alla luce di ciò, qualche settimana fa i due fratelli lanciarono un appello dagli studi di Radio Regio Stereo indirizzato al Prefetto di Bari, chiedendo non solo un intervento a riguardo ma anche spiegazioni per il mancato scioglimento del Consiglio Comunale di Altamura per condizionamento mafioso.Su quest’ultio punto, l’ex imprenditore ricorda importanti deposizioni rilasciate agli inquirenti dalla vedova del boss Bartolomeo Dambrosio (oggi testimone di giustizia) riguardo presunti coinvolgimenti tra mafia, imprenditoria e politica altamurana. Nello specifico, risalta i punti e afferma “che il Sindaco di Altamura Mario Stacca chiedeva al boss supporto per le sue campagne elettorali …  il Presidente del Consiglio Comunale di Altamura, si recava a casa del boss per chiedere sostegno per la sue candidature a consigliere comunale di Altamura … e che gli amministratori e politici Altamurani erano quasi tutti nel libro paga del Columella”.

A tutela delle sue accuse, il testimone di giustizia fa riferimento anche ad alcune intercettazioni telefoniche apparse sui giornali, tra il figlio di Carlo Dante Columella (patron della discarica di Altamura) e il Presidente del Consiglio comunale di Altamura Nico Dambrosio, quando “parlavano delle presunte mazzette che i Columella pagavano al segretario del sindaco tanto che quest’ ultimo era definito dagli intercettati, mani viola (dal colore delle banconote da 500 euro. Nelle stesse intercettazioni si faceva riferimento a presunte mazzette che andavano anche al Sindaco Stacca”. Il senso di solitudine da parte del testimone di giustizia si manifesta anche dopo un ulteriore atto intimidatorio nei suoi confronti, avvenuto negli ultimi tempi. “Uno dei principali indagati per Mafia murgiana, recentemente raggiunto da nuova ordinanza di custodia cautelare per reati di mafia - spiega Francesco - ha persino lanciato, tramite una rete televisiva privata, una sorta di petizione per non farmi mettere più piede ad Altamura. Tutto questo nella più assoluta indifferenza delle Autorità Giudiziarie. Io ho sacrificato la mia famiglia, le mie aziende, il futuro dei miei figli perché ho creduto nella Giustizia e la Procura di Bari non risponde alle mie missive: ma lo Stato con chi sta?”.

Francesco Dipalo: "Io, testimone di giustizia contro la Mafia Murgiana". La lettera dell’imprenditore: “Entrati nel programma di protezione, un incubo senza fine". Pubblichiamo di seguito la lettera inviata al direttore Giorgio Bongiovanni di “Antimafia duemila” da Francesco Dipalo, testimone di giustizia di Altamura che ha denunciato i clan della Mafia Murgiana.

«Egregio Direttore, chi Le scrive è un Imprenditore di Altamura che alcuni anni fa denunciò una organizzazione criminale denominata Mafia Murgiana che imponeva il pizzo al sottoscritto e ad una intera classe imprenditoriale. A seguito delle mie dichiarazioni rilasciate alla DDA di Bari e dopo sei anni di indagini, la dottoressa Desirèe Digeronimo, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, e il dott. Roberto Pennisi Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, applicato alla DDA di Bari, chiesero ed ottennero dal GIP di Bari il rinvio a giudizio di numerosi soggetti tra i quali figuravano, affiliati al clan Dambrosio di Altamura, imprenditori deviati, esponenti delle forze dell’ordine, professionisti, politici ed amministratori pubblici accusati a vario titolo di associazione mafiosa, omicidi, occultamento di cadavere, detenzione illegale di armi da guerra e relative munizioni, estorsione, usura, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, rapimento (per avere rapito un imprenditore di Altamura rilasciato per aver pagato un riscatto) ecc. Sempre dalle mie denunce si svilupparono altri filoni di indagini che consentirono al Tribunale di Lecce (competente su quello di Bari), di rinviare a giudizio una ventina di soggetti tra i quali figuravano magistrati togati, giudici di pace, avvocati ecc. tutti accusati di aver pilotato sentenze in favore del boss Bartolomeo Dambrosio e dei suoi affiliati. Sempre dalle mie denunce si sono sviluppati altri filoni di indagini tra i quali vi sono quello della sanità pugliese, e delle escort. Il mio vero dramma ha inizio quando, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari e della Direzione Nazionale Antimafia, io e la mia famiglia, esattamente 5 anni fa fummo inseriti nello speciale programma di protezione e condotti in località segreta. Da allora per tutta la mia famiglia ha avuto inizio un incubo senza fine. Siamo stati umiliati, derisi, vessati, maltrattati e ci siamo sentiti dire anche che rompevamo i coglioni quando contestavamo comportamenti irresponsabili, ingiustificati ed ingiusti messi in atto da funzionari del Ministero dell’Interno nei confronti di soggetti che in questa maledetta storia sono solo vittime. È stato distrutto il futuro affettivo dei miei figli che hanno dovuto lasciare amici e parenti per essere destinati all’isolamento più totale. Una delle mie figlie solo dopo pochi mesi non sopportava più lo stato di solitudine e di sofferenza a cui era sottoposta e tornò a casa ad Altamura. Come se tutto ciò non bastasse, da quando sono stato sottoposto allo speciale programma di protezione, il Servizio Centrale di Protezione non ha provveduto a notificarmi gli atti giudiziari. Nel frattempo alcuni dei soggetti arrestati e/o rinviati a giudizio, mi avevano querelato per diffamazione e/o reati simili. A seguito delle predette querele, sono stato rinviato a giudizio, processato e condannato in contumacia dai giudici di pace di Altamura mentre io ero all’ oscuro di tutto. Io non sapevo neanche di essere stato querelato. Ovviamente gli imputati hanno utilizzato le condanne inflitte in contumacia al sottoscritto dal giudice di pace di Altamura per tentare di screditarmi nei processi nei quali erano imputati. Ad un testimone di giustizia sotto protezione in una località segreta, lo Stato non gli ha notificato gli atti giudiziari. Mi è stato impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi. Con gli atti e i documenti in mio possesso, avrei potuto dimostrare ai giudici di pace che le querele sporte nei miei confronti dagli affiliati al clan Dambrosio erano pretestuose e facevano parte di una strategia difensiva finalizzata a screditarmi. Ma vi è di più: lo Stato non mi ha concesso di presenziare nei processi nei quali sono persona offesa e mi sono costituito parte civile contro i miei estorsori, contro soggetti accusati di reati gravi come omicidi, ecc. Mi è stato impedito di puntare il dito contro i miei estorsori. Inoltre mi è stato impedito di poter raggiungere altre procure per acquisire atti a mia firma di procedimenti penali a carico di altri soggetti da me denunciati, e che erano strettamente attinenti ai procedimenti penali in corso a Bari. Il risultato è che i colletti bianchi della mafia murgiana sono stati assolti. Uno dei principali imputati assolti, solo poche settimane dopo la sentenza di assoluzione è stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare per reati simili. Lo Stato mi ha impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi ed ha agevolato le posizioni processuali di soggetti legati ad una potente organizzazione criminale che da oltre un decennio ha condizionato la vita sociale ed economica di una intera comunità. Ora sono tornati a delinquere più forti di prima grazie alla inerzia dello Stato. Ovviamente il sottoscritto ha provveduto ad inviare al Ministro dell’Interno, oltre che al vice Ministro, una serie di esposti con i quali denunciavo tutto quello che si stava verificando e che stavano inclinando i processi a beneficio degli imputati. Nessuno mi ha mai risposto. Si sta per volgere al termine il processo in Corte di Assise a Bari nei confronti di tutti gli altri affiliati al clan e al sottoscritto non è stato concesso di presenziare ad una sola udienza. Si continua ad impedire ad un testimone di giustizia di presenziare alle udienze. Ma nonostante le decine di esposti che ho inviato a mezzo raccomanda a/r al Ministro Alfano, mai nessuna risposta mi è pervenuta e nessun provvedimento e stato adottato per consentirmi di avere giustizia. Ho anche denunciato al Ministro Alfano con decine di missive, che nonostante i processi in corso, nonostante le indagini tuttora in corso, il Servizio Centrale di Protezione ha reso pubblica la mia residenza nella località dove attualmente vivo e nessuna tutela è stata predisposta per la mia famiglia ed in particolare nei confronti di mia figlia che vive ad Altamura. Non mi ha mai risposto. Ora tutti sanno che vivo a Monza. Ho scritto decine di missive ai Prefetti di Bari e di Monza e Brianza con le quali ho chiesto se sono in state attuate misure di tutela idonee a garantire la incolumità dalla mia famiglia. Nessuno mi ha mai risposto. Si continua a favorire le posizioni processuali di esponenti della mafia murgiana e il Ministro Alfano non risponde. Egregio direttore, in questo Paese per garantire la incolumità dei propri cari che rischiano di essere lasciati nelle mani dei carnefici, bisogna ricorrere ad atti estremi. Questo è lo Stato. Cordialità. Francesco Dipalo»

LUIGI ORSINO. Vittime di camorra abbandonate dallo Stato – L’invito a denunciare il racket è una trappola? Scrive “Pensare Liberi”. Ci ritroviamo a parlare di malagiustizia, ma questa volta la protagonista indiscussa è la camorra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un nostro concittadino napoletano che riporteremo integralmente nel presente articolo. Questa vuole essere una denuncia nei confronti della politica, delle istituzioni, della magistratura, delle forze dell’ordine e nei confronti di quei cittadini collusi e quindi omertosi. Sappiamo tutto, i vari “stacci tu qua e poi vediamo se fai l’eroe!” Bene, la storia che portiamo oggi alla luce parla proprio di un caso eroico, di chi ha detto no alla camorra, di chi ne ha pagato pesantissime conseguenze, di chi non trova dalla sua parte nemmeno l’opinione pubblica, i media, o famosi giornalisti o scrittori. Perchè quando si fanno i nomi, quando dal generico si passa al pratico, allora le cose si fanno davvero serie. Questo articolo non diverrà un best-seller, ma bisogna avere il coraggio di denunciare soprattutto i casi reali e stringersi intorno a questi. Tutti devono sapere cosa accade a un nostro concittadino nel momento in cui cade in questo vortice di violenza e disumana realtà. Belle parole? Vediamo se siamo bravi anche con i fatti? Ci incontriamo per strada a parlarne da uomini? Questa storia, come tante altre, dimostra come lo Stato sia completamente assente nel momento in cui bisogna difendere i cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare il racket. Politicamente scorretto dirlo? Denunciare il racket è un dovere? Solo così si può sconfiggere la camorra? L’omertà… di chi? Slogan di un certo effetto, di quelli che suscitano gli applausi delle platee… peccato che spesso questo invito a denunciare il racket si riveli solo una ingegnosa, quanto sospettosamente premeditata, trappola mortale. I fatti parlano in questi termini. Lo Stato? Assente ingiustificato…Veniamo al coraggioso e disperato racconto del protagonista cittadino Luigi Orsino e della sua famiglia. «La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na). Nel tempo la nostra attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande negozio di arredamenti in Sant’Anastasia. Ovviamente avevamo molti dipendenti ed eravamo divenuti benestanti. Comperammo una villa al mare in Calabria, due proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno centro di Roccaraso ( circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici. Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati. L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto finanziario di una persona, che credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi. In seguito questa persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività. In seguito l’usuraio si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce clan camorristico dei Vollaro. Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e grazie ad un perverso meccanismo, arrivano a raggiungere finanche il 400%. Sempre questo viscido personaggio, quando non potei onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità. L’eccessiva avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie aziende ed il loro conseguente fallimento. Ovviamente tutti i miei beni furono pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai. Il Giudice delle esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali (intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in realtà  era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale fallimentare, fallimento semplice non fraudolento. E’ pur vero che il giudice è tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha mai indagato. Il G.E. Si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa in cui abito con la famiglia. Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale, tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti. Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo  dettagliata deposizione circa i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2 volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità tra loro, Proc. N° 52969/05 e 11335/10. A giugno del 2010 il Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione. Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci abbia concesso i benefici previsti dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2010) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status, e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il tutto, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di solidarietà destinati alle vittime di camorra. Veramente la spiegazione è che il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “ perché non eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria, (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai avevamo prima sospettato la sua vera attività). Ancora maggiormente inspiegabile è l’archiviazione della procedura contro gli usurai se si considera il fatto che abbiamo prodotto prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove documentali incisive e verificabili. Resta in piedi la procedura contro gli estorsori, ma l’archiviazione della procedura contro gli usurai non fa ben sperare. Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal Tribunale, la casa in cui abitiamo è stata anch’essa venduta e il 07 settembre u.s. l’Ufficiale Giudiziario , con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute lo hanno costretto a rinviare al 19 ottobre 2011, quando interverrà un’ambulanza per sgomberarmi senza correre il rischio di essere denunciati per tentato omicidio. In quale modo noi si possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato. Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e continuano ancor oggi. Nel tempo abbiamo subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC. Il 3 gennaio 2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere. Il 17 gennaio 2011 un individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie,verso le ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso. Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi ed anzi rincarano vieppiù la dose. Il 21/03/2011 un individuo aggredì in giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento. Lo stato economico attuale è disastroso, viviamo della carità del Comune (ogni tanto ci paga qualche bolletta) e della Chiesa di San Sebastiano al Vesuvio che ci fornisce pacchi alimentari. Faccio notare che per volere del comitato per l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio e dei militi ai suoi ordini ha evitato che nuove e,  forse più gravi, violenze fossero commesse a nostro danno. Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo in ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente). Come è incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed incomprensibile contraddizione. Il prossimo 19 ottobre l’ufficiale giudiziario accompagnato probabilmente da un plotone di poliziotti, con l’ambulanza pronta nel caso mi dovesse venire un altro infarto mi butteranno in strada, con la famiglia, a calci nel di dietro. Se fossi stato il boss Provenzano forse mi avrebbero trattato meglio. E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi a farsi deboli con i forti. Luigi Orsino»

“DENUNCIA IL RACHET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito. Vogliamo fare luce su un particolare che ci ha colpito molto e che, a nostro avviso, rappresenta la chiave del “problema camorra” e nello stesso tempo la sua vera forza. La collusione tra questa e le istituzioni, ma soprattutto, la collusione tra camorra e cittadini. Chiunque, inaspettatamente, può rivelarsi un camorrista, anche il più insospettato e insospettabile amico di famiglia. In questo caso è venuta fuori la figura di un commercialista il cui vero lavoro è quello di segnalare alla camorra le aziende che fatturano bene e che vanno a gonfie vele, arrotondando con attività di estorsione, mentre il lavoro contabile è soltanto una copertura. Che questo principio entri bene nelle nostre teste. Il nemico non è soltanto fuori.

PINO MASCIARI: «Costretto a sparire e autoproteggermi perché abbandonato dalla scorta in Calabria», scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il suo telefono cellulare torna raggiungibile 19 minuti dopo la mezzanotte ma il Sole-24 Ore riesce a mettersi in contatto con Pino Masciari – il testimone di giustizia calabrese che per oltre 36 ore era scomparso a Cosenza – solo alle 9.31 di oggi. Ha la barba lunga e sta poco al telefono. «La scorta mi ha detto che non mi avrebbe riportato a casa. Mi ha girato le spalle e se ne è andata. A quel punto ho dovuto tutelarmi e sono stato costretto a fare tutto da solo senza dare notizie a nessuno, neppure a mia moglie. Mi sono mosso da solo e non nascondo che nel primo tratto di strada mi hanno riconosciuto e sono stato preso dal panico. Con mezzi di fortuna mi sono messo all'opera per tornare a casa, a Torino, dove sono giunto ieri sera tardi». In altre parole, come lui stesso scrive sul sito, «mi sono sentito costretto ad auto-proteggermi e a tornare a casa, non ritenendo giusto di esporre i civili che mi stavano accompagnando in quanto versavo, per l'ennesima volta, privo di protezione in terra di Calabria». Da quel momento ha staccato il cellulare perché, dice, «sarebbe stato possibile essere rintracciato da chiunque». A casa l'aspettavano moglie e figli che – a quanto dichiara al Sole-24 Ore lo stesso Masciari - nulla sapevano. E che per 36 ore hanno cercato di avere notizie. E che per 36 ore nulla hanno intuito se è vero che la coniuge di Pino ha cercato di averne in ogni modo e che ancora nel pomeriggio di ieri aveva un rappresentante del servizio scorte di Torino accanto a lei in casa. Notizie sulla sua scomparsa che - a quanto si apprende solo questa mattina nel momento in cui è stato pubblicato il comunicato stampa nel sito di Pino Masciari – la prefettura (di Torino? Di Cosenza?, non è dato sapere visto che manca l'intestazione) sapeva. E lo Stato (qualunque fosse la prefettura) non le ha comunicate alla moglie? A quanto sembra no anche se è umanamente difficile da credere. Alle ore 9 di ieri mattina la prefettura ha infatti ricevuto questo comunicato spedito via fax dallo stesso Masciari: «Oggetto: Urgente Comunicazione Giuseppe Masciari. La presente, quale documento ufficiale, è per comunicare che in questo momento sono a Cosenza, Calabria, e sono stato " abbandonato" dal personale di scorta, con la conseguenza che sto provvedendo di rientrare a Torino con mezzi pubblici o di fortuna. Vani sono stati i tentativi di contattare il personale di scorta di riferimento di ………… . Pertanto mi rivolgo a Lei per un intervento immediato che tuteli la mia persona e per denunciare il susseguirsi di mancate condizioni di sicurezza che avvengono, in particolar modo in Calabria, e che mi espongono a serio rischio. Reputo le autorità preposte responsabili se dovesse accadere qualcosa alla mia persona. Cordialità» . Questa la nuda cronaca (conclusiva o dovremo aspettarci la versione dello Stato, attraverso le spiegazioni del Viminale?) di due giornate delle quali non si sentiva francamente il bisogno.

Chi è Giuseppe Masciari?

Il mio nome è Giuseppe Masciari, un imprenditore edile calabrese, nato a Catanzaro nel 1959. Sono stato sottoposto a programma speciale di protezione dal 18 ottobre 1997, insieme a mia moglie (medico odontoiatra) e ai miei due bambini. Dal 2010, fuoriuscito dal Programma Speciale di Protezione, vivo sotto scorta. Ho denunciato la ‘ndrangheta e le sue collusioni con il mondo della politica. La criminalità organizzata ha distrutto le mie imprese di costruzioni edili, bloccandone le attività sia nelle opere pubbliche che nel settore privato, rallentando le pratiche nella pubblica amministrazione dove essa è infiltrata, intralciando i rapporti con le banche con cui operavo. Non ho accettato le pressioni mafiose dei politici e del racket della ‘ndrangheta. Il sei per cento ai politici e il tre per cento ai mafiosi, ma anche angherie, assunzioni pilotate, forniture di materiali e di manodopera imposta da qualche capo-cosca o da qualche amministratore, pretese di regali di appartamenti e costruzioni gratuite, finanche acquisto di autovetture: questo fu il prezzo che mi rifiutai di pagare. Fummo allontanati dalla nostra terra per l’imminente pericolo di vita in cui ci siamo trovati esposti, insieme alla mia famiglia. Da quando operavo nella mia attività con le mie aziende, non mi sono arreso mai ai soprusi della ‘ndrangheta, mi ribella, riferisco tutto all’Autorità Giudiziaria e denuncio; tanto fu ferma la mia scelta di non cedere ai ricatti che  arrivai al punto di dover chiudere tutte le mie imprese licenziando nel settembre 1994 gli ultimi 58 operai rimasti.

Ingresso nel Programma Speciale di Protezione. Il 18 Ottobre 1997 io, mia moglie Marisa e i miei due figli appena nati entrammo nel programma speciale di protezione e scompariamo dalla notte al giorno: niente più famiglia, lavoro, affetti, niente più Calabria. Testimonio nei principali processi contro la ‘ndrangheta e il sistema di collusione, quale parte offesa costituendomi come parte civile. Divento “il principale testimone di giustizia italiano”, così definito dal procuratore generale Pier Luigi Vigna. Inizia il CALVARIO: accompagnamenti con veicoli non blindati, con la targa della località protetta, fatto sedere in mezzo ai numerosi imputati denunciati, intimidito, lasciato senza scorta in diverse occasioni relative ai processi in Calabria, registrato negli alberghi con il mio vero nome e cognome, senza documenti di copertura. Troppi episodi svelano le falle del sistema di protezione che dovrebbe garantire sicurezza per me e la mia famiglia.

Lo Stato istituisce la figura del testimone di giustizia. 2001. Con la legge 45/2001 si istituisce la figura del testimone di giustizia, cittadino esemplare che sente il senso civico di testimoniare quale servizio allo Stato e alla Società. Il 28 Luglio 2004, la Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica che “sussistono gravi ed attuali profili di rischio, che non consentono di poter autorizzare il ritorno del Masciari e del suo nucleo familiare nella località di origine. Ritenuto che il rientro non autorizzato nella località di origine potrebbe configurare violazione suscettibile di revoca del programma speciale di protezione”.

Revoca del programma speciale di protezione. Il 27 Ottobre 2004, tre mesi dopo, la stessa Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica il temine del programma speciale di protezione. Tra le motivazioni si indica che i processi erano terminati. Cosa non vera: i processi erano in corso e la D.D.A. di Catanzaro emetteva in data , 6 febbraio 2006 successiva alla delibera, attestato che i processi era in corso di trattazione.

Ricorso contro la revoca. 19 Gennaio 2005, faccio ricorso al TAR del Lazio contro la revoca, azione che mi permette di rimanere sotto programma di protezione in attesa di sentenza.

Il programma cessa in ogni caso. 1 Febbraio 2005, senza tenere conto del ricorso già in atto, la Commissione Centrale del Ministero dell’Interno delibera ancora una volta di “ invitare il testimone di giustizia Masciari Giuseppe ad esprimere la formale accettazione della precedente delibera ricordando che alla mancata accettazione da parte del Masciari, seguirà comunque la cessazione del programma speciale di protezione”.

Non posso testimoniare ai processi. Il 19 Maggio 2006, il mio legale invia una nota alle Autorità competenti per segnalare che i Tribunali erano stati notiziati “della fuoriuscita del Masciari dal programma di protezione” e che pertanto non risultavo essere più soggetto a scorta per accompagnamento nelle sedi di Giustizia. Mi sono recato ugualmente nei processi con senso di DOVERE, accompagnato dalla società civile.

Sentenza del TAR: diritto alla sicurezza. Gennaio 2009, dopo 50 mesi a fronte dei 6 mesi stabiliti dalla legge 45/2001 art.10 comma 2 sexies-, il TAR del Lazio pronuncia la sentenza riguardo il ricorso e stabilisce l’inalienabilità del diritto alla sicurezza, l’impossibilità di sistemi di protezione o programmi a scadenza temporale predeterminata e ordina al Ministero di attuare le delibere su sicurezza, reinserimento sociale, lavorativo, risarcimento dei danni. Per tramite del mio legale faccio richiesta formale dell’ottemperanza della sentenza.

Sciopero della fame e della sete. Aprile 2009 Non avendo ricevuto nessuna risposta dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, annuncio la volontà di cominciare il 7 aprile lo sciopero della fame e della sete, fintanto che non vedrò rispettati i diritti della mia famiglia ancor prima che i miei. Lo sciopero della fame è l’ultima risorsa, supportata dlla società civile e dagli “Amici di Pino Masciari” vista l’urgente necessità di tornare a vivere che dichiarano: «Grazie a Pino Masciari abbiamo imparato ad amare lo STATO. Dodici anni di sofferenza e esilio sono un prezzo altissimo che i Masciari hanno pagato con dignità, senza mai rinnegare la scelta fatta. E’ ora che questo STATO riconosca loro quanto dovuto. Noi, Società Civile, non possiamo accettare questa scelta senza lottare fino all’ultimo istante al fine di evitare l’ennesimo estremo sacrificio della famiglia Masciari. Basta una firma, e la volontà di apporla. Per i cittadini, lo STATO e la Costituzione. Per la Famiglia Masciari.» Il 14 maggio termina lo sciopero della fame e della sete a seguito dell’impegno preso dalla Presidenza della Repubblica attraverso la nota del 12 maggio, che da quel momento mi  assegna scorta e tutela adeguata e ulteriori vetture di staffetta, che mi hanno accompagnato.

Due eventi preoccupanti. Il 21 luglio 2009, sul davanzale della mia ex sede della ditta di costruzioni (attualmente ufficio legale di mio fratello), a Vibo Valentia, è stato ritrovato un ordigno inesploso. Il 19 agosto l’abitazione in località segreta nella quale risiedo con la mia famiglia, è stata violata. In questo caso si è trattato probabilmente di ladri comuni (cosa comunque gravissima, a riprova della vulnerabilità cui siamo soggetti), nel precedente è stata invece la ‘ndrangheta, che ricorda di non avere fretta, non dimentica.

L’uscita dal Programma speciale di protezione. Nel 2010 ho concordato la conclusione del Programma Speciale di Protezione in comune sintonia con il Ministero dell’Interno, dando cosi inizio ad una nuova fase della mia vita e quella della mia famiglia, con le Istituzioni e la società civile al mio fianco. Oggi vivo alla luce del sole, pur rimanendo “sotto scorta”.

L’inizio di una nuova vita. «”Quando istituzioni e società civile si assumono le proprie responsabilità lo Stato vince. In questo credo e continuo a credere ed è per questo che sono certo che la mia vicenda si concluderà con la giusta reintroduzione sia in ambito lavorativo che sociale ed umano“.» In questi anni ho girato l’Italia, ho solidarizzato con i familiari delle vittime di mafia ed altre associazioni, persino oltre confine, sono stato a raccontare la mia storia in numerosissimi istituti scolastici e incontri organizzati dalla società civile. Inoltre ho ottenuto la cittadinanza onoraria di molte città.  E infine, si è deciso – insieme a mia moglie – di raccontare la nostra storia in un libro. Si intitola “Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta”, lo ha pubblicato la casa editrice torinese “Add”.

COSIMO MAGGIORE. L’ultimatum del testimone di giustizia Cosimo Maggiore: “Mi hanno lasciato solo”, scrive Paolo de Chiara il 14 gennaio 2015 su “19 luglio 1992”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, ‘Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura’), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche ‘pentiti’) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Si barrica nella sua azienda venduta all’asta e tenta il suicidio, l’imprenditore che denunciò il racket: “Vaffanculo Stato”. L’intervista realizzata da Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”. Ha perso tutto, ora anche la sua azienda venduta all’asta. Questa mattina i nuovi proprietari hanno cambiato il lucchetto e si sono appropriati dell’azienda di Cosimo Maggiore, l’imprenditore di San Pancrazio Salentino che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma come la maggior parte dei testimoni è stato abbandonato dallo Stato.  In un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket e il malaffare. Una volta raccolte le  testimonianze poi vengono lasciati al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia  è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Ma questi ultimi servono, e quindi vengono protetti. I testimoni, come molti di loro raccontano “vengono usati e poi mandati via… per loro siamo solo dei rompiglioni” Questa è una delle frasi più volte lette nel libro del giornalista Paolo De Chiara che in “Testimoni di giustizia” riporta la storia e le interviste ad molti di coloro che hanno denunciato e si sono opposti alle organizzazioni criminali. La storia di Cosimo Maggiore ve l’abbiamo già raccontata in un nostro reportage.  Alla sua triste vicenda oggi si aggiunge un nuovo tassello. Lui  non solo non  ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti ma la sua azienda è stata venduta all’asta  perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. Oggi è sfiorato nella sua mente il pensiero di farla finita, di saltare in aria in quel capannone che è stata la sua vita. Ma non ce l’ha fatta, ha guardato la foto dei suoi e ha deciso di continuare a vivere. Arrabbiato, amareggiato, deluso, con la dignità calpestata si lascia sfuggire in questa intervista: “vaffanculo allo Stato”.

Azienda va all’asta e imprenditore tenta il suicidio, scrive A.P. su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Vaff... allo Stato». Sono le ultime durissime e sofferte parole dell’imprenditore Cosimo Maggiore, che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma è stato abbandonato dallo Stato. Uno schiaffo in un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket. Ma una volta raccolte le testimonianze persone come Maggiore vengono abbandonate al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Al termine di una mattinata convulsa l’imprenditore si è barricato in azienda tentando di farla finita. L’ultimo disperato grido d’allarme dopo che alla fine di una vicenda che va avanti da quasi 7 anni, la sua attività è stata venduta all’asta. Maggiore non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti, ma ha finito anche col perdere la sua azienda che è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. E ieri mattina quando ha visto che i lucchetti all’ingresso della sua attività erano stati sostituiti ha pensato di compiere un insano gesto vedendo che tutte le battaglie sostenute negli ultimi anni erano perse. Amaro il suo sfogo: «È finita oltre che la mia vita si sono presi anche la mia azienda. Fanno bene a non denunciare. Non denunciate il racket. Ecco cosa succede, sbattuto fuori da casa mia! La mia banca la Popolare pugliese non ha accettato l’art. 20 della legge 44/99, la legge che tutela chi è colpito dal racket. Grazie Stato». Con la voce rotta dall’amarezza spiega perchè non ha portato a termine il suo gesto: «Mi sono barricato nel capannone perchè avevo deciso di farla finita. C’era già tutto pronto anche le bombole di propano. Poi... ho guardato le foto dei miei figli... e... non ce l’ho fatta». Poi conclude: «Vaff... allo Stato!».

L’azienda del testimone di giustizia finisce all’asta. “Pronto a barricarmi dentro”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche pentiti) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Il testimone di giustizia abbandonato dallo Stato. “Maledetto il giorno che ho denunciato, maledico questo Stato e le persone che mi hanno convinto a denunciare e che mi hanno lasciato solo”. È l’imprenditore Cosimo Maggiore che parla, un testimone di giustizia di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. La stessa località che ospita la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Cosimo è stanco, è abbattuto. Ha denunciato i suoi estorsori, uomini della Sacra Corona Unita, finiti in galera e condannati grazie al suo senso civico. Alla sua onestà di cittadino perbene. Vittima di estorsione e di minacce da parte dei mafiosi del posto. La mafia pugliese, sanguinaria e violenta, che sembra quasi dimenticata. Lo stesso ‘trattamento’ riservato alla ‘ndrangheta, sino a qualche tempo fa. Ha perduto la sua azienda e la speranza. “Oggi non lavoro più, cazzeggio tutto il giorno su facebook, la mia valvola di sfogo. Il mio capannone è stato messo all’asta. Mi hanno fatto terra bruciata intorno. Sono solo, con la mia famiglia. Sai chi ha acquistato all’asta il mio capannone? Un prestanome delle persone che ho denunciato. Ma nessuno entrerà nella mia struttura, a costo di farmi saltare in aria”. Cosimo ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, al ministro Alfano, al Prefetto, al Generale dei Carabinieri. “Non ho ricevuto risposta da nessuno. L’unica cosa che hanno fatto è stato il ritiro delle armi, legalmente detenute. Le ho regalate ai miei amici dell’Arma”. Cosimo Maggiore ha una scorta, due carabinieri (“tutto ciò che mi resta, due angeli custodi”) che lo seguono ovunque. “Ho ricevuto premi come imprenditore coraggio, tutti mi dicono sei coraggioso, hai le palle, servono persone come te. Sono uno scemo, mi sento solo e abbandonato”. Ma quando inizia la sua storia di testimone di giustizia? “Otto anni fa, nel 2006, quando vennero da me dei soggetti per una proposta”. Una ‘assicurazione’, un’estorsione di 500euro al mese, da destinare alle famiglie dei carcerati. “Non accettai la proposta”. Cosimo pensa a lavorare, ha diversi cantieri aperti, costruzioni da ultimare. Si occupa di infissi. Va avanti per la sua strada, a testa alta. Ma i delinquenti non mollano la presa. Si rifanno vivi dopo qualche mese. “Vengo convocato in un appartamento, dove trovo una bella sorpresa. Non c’erano lavori da effettuare, ma una nuova proposta da accettare. Pretendevano anche gli interessi arretrati, circa 2mila euro al mese”. Nella stanza erano “presenti Occhineri Antonio e Musardo Mario”, entrambi detenuti. Cosimo continua a subire pressioni, strani sguardi, avvertimenti. Racconta la sua drammatica storia a un ispettore della squadra mobile e denuncia nel 2007. “Ho avuto paura, questa è brutta gente. Hanno collegamenti con le forze dell’ordine e non solo”. Sino ad oggi ha collezionato 32 denunce, “è stato tutto inutile”. Le pressioni continuano senza soste. “Un mio compare, vicino a questa organizzazione criminale, mi avvicina diverse volte. Pretendono che ritiri la querela, mi incontrano”. È presente anche Bruno Andrea, capo indiscusso della zona, oggi in carcere con una trentina d’anni da scontare. Fratello di Ciro, capo storico della Scu, già condannato all’ergastolo. “Mi fanno parlare con un avvocato, che a tavolino, mi spiega cosa devo fare”. Il ‘compare’ continua la sua azione, “non potevo immaginare che anche lui potesse appartenere all’organizzazione. Gli dissi che non doveva farsi più vedere, ricordo una sua frase, non potrò mai più dimenticarla: ‘fai attenzione, non sai chi hai sfidato. Sono gli stessi criminali che, tempo fa, hanno ammazzato e seppellito sotto un terreno due giovani”. Cosimo Maggiore è una brava persona, non la ritira la denuncia. Si posiziona dalla parte dello Stato (che in molte circostanze non si dimostra tale e con la ‘S’ maiuscola), vuole e cerca giustizia. La sua dettagliata testimonianza manda in galera sette soggetti. Diventa quasi un eroe. Nel 2007 a San Pancrazio il Presidente della Provincia convoca un consiglio monotematico, coinvolgendo tutti i sindaci (di Brindisi e provincia), i politici, la Camera di Commercio e le autorità locali. Tutti insieme per celebrare “l’imprenditore coraggioso, tutti volevano aiutarmi. Ad oggi non ho mai visto nessuno. Dopo la denuncia è cominciato il mio calvario”. Nel 2008 i riconoscimenti pubblici: il premio 112 dell’Arma dei Carabinieri e il premio imprenditore coraggio. Iniziano i problemi anche con la sua attività. “Mano a mano comincio a perdere i lavori”. ‘Non possiamo saltare anche noi in aria’ – le parole ripetute all’infinito – potevi pensarci prima. Te la sei cercata. Perde tutti i lavori. “Ed iniziano altri problemi, le ingiunzioni. Mi avevano avvisato, me lo avevano detto chiaramente: ‘te la faremo pagare. Rimarrai da solo come un cane’. Si è avverato tutto”. Il testimone di giustizia non si dà pace. “Il mio capannone è stato messo all’asta, nessuno ha applicato l’articolo 20 della legge 44 del 1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura). La banca non ha mai accettato questa legge, nessuna sospensione. Solo una presa per il culo”. Si legge nell’interrogazione dell’aprile 2014, a firma del senatore Iurlaro: “Chi denuncia il racket dovrebbe essere tutelato ai sensi di quanto stabilito dalla legge del 1999. Chi è vittima dell’estorsione e denuncia il racket, si rivolge alle associazioni anti racket proprio perché ne presume l’adeguata esperienza assistenziale, invece, nel territorio brindisino, il signor Maggiore ha ricevuto solo danni per inadeguata assistenza. È stato persino danneggiato pesantemente, per il mancato interessamento volto alla sospensione dei termini di 300 giorni ex art.20, come era suo diritto e come, da prassi, ottiene la vittima di estorsione e/o usura che abbia denunciato ed abbia presentato domanda di accesso al Fondo”. Cosimo ha 47 anni, una moglie e due figli. Ma come vive la famiglia Maggiore questa assurda situazione? “Preferisco non parlarne. Con me hanno vinto loro, i mafiosi. Siamo rimasti soli, tremendamente soli. Vado sempre in giro con una lettera intestata alla mia famiglia. Mi resta soltanto una strada: il suicidio”.

Un ex imprenditore chiede aiuto: “La SCU ha mantenuto la sua promessa: Io non vivo più”, scrive Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”   “Se non paghi finirai di lavorare”; “Se denunci avrai finito di vivere”; “Se ti fai parte civile, muori”. Firmato La Scu (Sacra corona unita). Questo e molto altro lo ha vissuto – e continua a vivere – sulla sua pelle Cosimo Maggiore, oggi 47enne, ex imprenditore di San Pancrazio Salentino, piccolo paese in provincia di Brindisi. ‘Ex’ perché oggi Maggiore si ritrova senza un lavoro e senza la sua azienda. Perché? Perché un bel giorno mentre nel Salento stava per sbocciare la Primavera al cancello della sua azienda di infissi si è presentato il pizzo. Una macchia nera che avvolge e distrugge tutto: il lavoro, la libertà, la serenità, la vita. L’imprenditore, che si è piegato pochissime volte ai ricatti della criminalità organizzata, è stato costretto al pagamento attraverso intimidazioni e minacce, ma poi aggrappandosi alle sue forti spalle ha deciso di recarsi dalle forze dell’ordine e denunciare. Dal 2006 ad oggi per Cosimo Maggiore e la sua famiglia, sono stati anni di lotte, minacce, denunce, arresti, paure. L’imprenditore da otto anni vive sotto protezione. Al suo fianco ci sono sempre due carabinieri – definiti da lui gli angeli custodi – che non lo perdono di vista. Una vita che oramai non si può più definire vita. Un’azienda ereditata dal padre che dopo venti anni di duro lavoro si è sgretolata, ma non a causa della crisi o della mancanza di lavoro, ma a causa del giro del racket. Cosimo Maggiore non si è inginocchiato ai piedi della Scu e ha denunciato, non una sola volta, ma più volte fino a far arrestare anche il boss della frangia torrese della Sacra corona unita, Andrea Bruno insieme ai suoi compari. Oggi però dopo anni di inferno, Cosimo Maggiore – considerato dallo Stato un Testimone di giustizia e vittima del racket – sostiene che a sbattergli le porte in faccia sia stato proprio lo Stato e le associazioni Antiracket e sostiene, ancora, che a vincere sia stata la Scu. Il suo capannone, infatti, lo Stato lo ha venduto all’asta. Una parte, quindi, della sua ex azienda è stata acquistata da terze persone. L’imprenditore di San Pancrazio Salentino lo scorso settembre ha presentato un’ennesima denuncia presso l’Arma dei carabinieri. In quella querela Maggiore dichiara a chiare lettere che il suo capannone sarebbe stato acquistato da un prestanome. Già in passato Maggiore aveva rilasciato qualche dichiarazione, ma oggi per la prima volta ha accettato di parlare in una video-intervista.

LUIGI COPPOLA. Sono disposto a darmi fuoco. Parla il testimone di giustizia Luigi Coppola. Abbandonato dallo Stato, scrive Paolo De Chiara sul suo blog. “La camorra ha iniziato, ma le Istituzioni stanno continuando il lavoro”. Non usa mezzi termini il testimone di giustizia Luigi Coppola per spiegare la sua situazione. Difficile e drammatica per lui e per la sua famiglia. La famiglia Coppola, per una scelta coraggiosa e dignitosa, è costretta ad elemosinare un posto per dormire. Tutto è cominciato nel 2001. Luigi era un commerciante di auto a Boscoreale, in provincia di Napoli. Stanco delle vessazioni della camorra, denuncia le estorsioni e l’usura. Grazie alle sue denunce si aprono le porte del carcere per alcuni esponenti camorristici locali. Oggi la famiglia Coppola è stata abbandonata dallo Stato. Ritornati nella loro terra, dopo aver girato il Paese, hanno toccato con mano la diffidenza della gente comune. “Un giorno sono entrato insieme alla mia scorta in un noto ristorante di Pompei. A me e mia moglie è stato impedito di sederci a tavola”. Nel gennaio del 2010 il Viminale ha revocato la scorta e la vigilanza fissa. Per lo Stato l’imprenditore Coppola non rischia nulla. Solo per un ricorso al Tar viene risparmiata la scorta. Non è facile, nel BelPaese, la vita dei testimoni di giustizia. Per l’europarlamentare Sonia Alfano: “le loro storie, purtroppo, sono tutte uguali: eroi civili che hanno denunciato i fatti criminosi che hanno subito o di cui sono venuti a conoscenza e che, dopo i processi (le cui sentenze quasi sempre si soffermano sulla nobiltà del loro gesto) sono stati abbandonati dallo Stato, estromessi dai programmi di protezione, lasciati senza sicurezza e senza mezzi di sostentamento”. Luigi Coppola, membro della consulta anticamorra del comune di Boscoreale e coordinatore di uno sportello antiracket, continua la sua solitaria battaglia. “Sono anche disposto a darmi fuoco davanti al Viminale. E’ un mese che ho lasciato l’albergo per motivi economici e nessuno si è curato di noi”.

Coppola, a chi si riferisce?

“Allo Stato”.

Cosa chiede allo Stato?

“Di essere ricevuto e di cercare una soluzione al mio grosso problema. Nel momento in cui lo Stato mi abbandona definitivamente sotto il profilo della sicurezza la camorra metterà in atto il proprio atto criminale”.

Ha ricevuto altre minacce?

“Sto vivendo temporaneamente presso l’abitazione di mio fratello. Ultimamente si sono registrati degli sgradevoli episodi. Qualcuno, scambiando mio fratello per me, gli ha dato del cornuto. C’è stata una regolare denuncia fatta da mio fratello”.

Esiste una petizione promossa dal comitato per la tutela dei testimoni di giustizia, tra i firmatari Salvatore Borsellino, Sonia Alfano, Angela Napoli, Giuseppe Lumia, Elio Veltri. A che punto siamo?

“Non ricordo bene se siamo a 1300 o 1400 adesioni. C’è l’intenzione, entro questo mese, di portarla all’attenzione del Capo dello Stato per vedere se almeno lui ci riceva”.

Nel luglio scorso Sonia Alfano ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica per illustrare la situazione dei testimoni di giustizia. Siete stati ricevuti dal Capo dello Stato?

“No, l’incontro non c’è mai stato. A parte la lettera dell’onorevole Alfano, mi ci sono recato personalmente al Quirinale. Insieme a mia moglie abbiamo fatto lo sciopero della fame, ma in tre giorni e tre notti nessuno si è visto. Ho avuto una sola risposta dal Quirinale. In quei giorni sono scesi dei funzionari che mi hanno comunicato che il Capo dello Stato non può interferire in decisioni che devono essere prese da altri organi dello Stato”.

Il neo ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, ha dichiarato che “si interesserà al caso”.

“Il ministro ancora non si è interessato. L’altro giorno sono stato ricevuto dal senatore Giuseppe Lumia e prima dell’incontro sono riuscito ad ascoltare le dichiarazioni della Cancellieri alla Camera dei Deputati, un’interrogazione a risposta immediata sull’altro caso del testimone di giustizia Cutrò. Il ministro ha risposto anche sugli altri testimoni, affermando che il Viminale si è sempre preso cura dei testimoni e nulla sarebbe stato lasciato al caso. Io sono la prova che tutto ciò è falso e sfido la Cancellieri a smentirmi”.

Lei era un rivenditore di automobili a Boscoreale. Nel 2001 denuncia l’estorsione e l’usura della camorra…

“E viene decapitato definitivamente il clan Pisacane di Boscoreale, vengono tratti in arresto un reggente del clan Cesarano, più due suoi cognati. In più vengono arrestati appartenenti al clan Gionta di Torre Annunziata e numerose persone che avevano fatto usura nei miei confronti. In totale 30 persone. Per pagare la camorra fui costretto ad acquisire denaro a tassi usurai. Grazie alle mie dichiarazioni è stato anche sciolto il Comune di Boscoreale per infiltrazioni camorristiche”.

Nel 2002 venite inseriti nel programma di protezione per i testimoni di giustizia…

“Grazie al sostituto procuratore Giuseppe Borrelli, che lavora attualmente presso la Procura di Catanzaro. Prima stava alla Dda di Napoli. Prima di lui, chi aveva preso la situazione in mano non aveva ritenuto opportuno attivare nessuna misura di sicurezza. In quel periodo ho subito due aggressioni e ci sono i referti ospedalieri che lo provano”.

Nel 2007 la famiglia Coppola rientra in Campania, precisamente a Pompei. 

“Avevamo scelto Pompei perché ritenuta tranquilla”.

E come siete stati accolti dalle Istituzioni, dalla gente?

“Peggio della camorra. Al sindaco sono state portate delle petizioni che sono state girate alla Direzione Distrettuale Antimafia e all’ex prefetto di Napoli. Il sindaco non ha mai dimostrato sensibilità nei nostri confronti, anche quando siamo stati costretti a vivere nelle auto blindate”.

Come spiega la frase “a voi non si loca e non si vende…”.

“Mi auguro che sia solo un fattore di paura, ma non credo che il Comune di Pompei possa avere paura. Questa è discriminazione”.

Dopo i vari gradi di giudizio, nel 2009, i processi aperti grazie alla sua testimonianza arrivano in Cassazione.

“Ventitre di loro vengono definitivamente condannati per associazione di stampo mafioso. Da un mesetto è uscito il reggente, il braccio destro del clan Pisacane. Stiamo parlando di un clan che fino ad oggi non ha prodotto pentiti e che ha tutta la voglia di rimettersi in piedi, di riprendersi il territorio per continuare con la droga, con le estorsioni e con l’usura”.

Per lo Stato la famiglia Coppola non rischia nulla. Viene revocata la vigilanza fissa e la scorta.

“Alla revoca mi oppongo con un ricorso al Tar. La scorta viene mantenuta, ma la vigilanza non viene rimessa. La camorra dà il proprio segno di apprezzamento con proiettili inesplosi e una bottiglia incendiaria. Attualmente ho ancora la scorta, ma so che stanno operando per eliminarla”.

Oggi come vive la famiglia Coppola?

“A carico di mio fratello e di mia madre, senza un centesimo. Il 24 gennaio le banche mi iscriveranno al recupero crediti e sarà per me la morte civile. E se tutto questo avverrà mi darò fuoco davanti al Viminale”.

Lei ha due figlie.

“Frequentano il liceo”.

A scuola come vengono trattate?

“Non bene. Vengono viste come degli appestati dai loro amici, sicuramente condizionati dai genitori”.

L’ex sottosegretario Mantovano le disse: “cerchiamo di non prenderci il dito, la mano e il braccio”.

“Ho presentato regolare denuncia alla Procura di Roma”.

Esiste lo Stato nei suoi territori?

“Stato è una parola troppo grossa. La camorra ha preso il posto dello Stato”.

L'IMPRENDITORE LUIGI COPPOLA, PERSEGUITATO DALLA CAMORRA E ABBANDONATO DALLO STATO. Inizia nel lontano 1993 la triste storia di Luigi Coppola , 47enne sposato, con 2 figlie, scrive E. Lampitella su “Globuli Azzurri”. Da venditore d’auto a perseguitato dalla Camorra. Coppola è uno dei tanti che denunciano i propri aguzzini ma rimangono sotto traccia. Grazie alle sue deposizioni, nel 2001 sono state arrestate più di 34 persone di 4 Clan diversi, tra cui il Boss Pesacane. L’imprenditore è rimasto vittima delle attenzioni di tre clan diversi. Colpa, la sua, vendere auto in un trivio che è sotto la “giurisdizione” di 3 clan diversi, tra Bosco Reale, Boscotrecase e Torre Annunziata, che lo vedevano come potenziale riciclatore. Rappresentava un boccone prelibato per il loro malaffare . E’ così entrato in una vera e propria spirale del terrore, a causa dei rifiuti alle pesanti richieste di estorsione e riciclaggio di più esponenti malavitosi che si palleggiavano il cittadino onesto di turno. Ma La storia di luigi Coppola non si ferma qui, dopo aver collaborato con la giustizia alla fine di 10 anni passati in mano ad usurai per pagare il pizzo ai camorristi, Coppola è rimasto solo. Abbandonato dallo stato e ridotto alla fame, costretto a dormire in auto con la scorta. Un’ordinanza del Viminale, che fa seguito alle richieste avanzate da Coppola, nega al collaboratore di giustizia il programma di protezione. Luigi Coppola stasera racconterà la sua storia a Globuli Azzurri, programma di Samuele Ciambriello, sempre sensibile a queste tematiche.

LUIGI LEONARDI. Camorra, denunciò chi gli chiedeva il pizzo: abbandonato dallo Stato e dalla famiglia, scrive Giovanni Gaudenzi su Theblazonedpress.it. Luigi Leonardi ha 39 anni, ed è stato per molti anni uno degli imprenditori più ricchi di Napoli. Guadagnava anche 250 mila euro a settimana, con la sua attività di fabbricazione d’impianti d’illuminazione e 4 negozi sparsi per la provincia partenopea. Oggi non guadagna praticamente nulla, e le sue imprese non esistono più. Perchè ha osato denunciare i taglieggiatori mandati dalla camorra, che gli chiedevano oltre 24 mila euro al mese per garantirgli la loro protezione. Lui, invece di sottostare al vile ricatto dei clan, ha scelto di ribellarsi, presentando 18 denunce negli ultimi 12 anni. Sulle sue dichiarazioni sono basati 2 processi, il primo dei quali ha portato a 63 condanne in primo grado. Per il commerciante nessuna protezione, nessuna misura precauzionale come quelle previste per i pentiti. Perché Leonardi, con i camorristi, non ha mai voluto avere nulla da spartire. E’ stato aggredito a sprangate, nel 2009, ed è finito in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. L’uomo è stato anche sequestrato per 24 ore, a Secondigliano. Ma non si è arreso, sfidando la mala e perdendo tutto quello che aveva, negozi compresi. Ora chiede solo che lo Stato provveda a proteggerlo e che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia, insieme al risarcimento dei danni subiti. “Rifarei tutto- spiega- Con la camorra non ho mai voluto compromettermi.” Il cugino del padre, Antonio Leonardi, è sospettato di essere affiliato alla famiglia mafiosa dei Di Lauro. Ed è questa la ragione per la quale la sua famiglia lo ha abbandonato, lasciandolo solo a combattere la sua battaglia: “Se mi fossi rivolto a lui- dice- avrebbe risolto immediatamente la questione. Ma ho scelto di stare dalla parte della legalità. Adesso, alla mia situazione, deve pensarci lo Stato.” 

Camorra, denunciò i clan. La famiglia lo lascia solo, lo Stato non lo risarcisce. Luigi Leonardi, a causa delle estorsioni, ha perso due fabbriche di impianti di illuminazione, i negozi e la casa. Negli anni ha subito minacce ed è stato sequestrato. Le sue dichiarazioni hanno portato a due processi, per questo la famiglia, sospettata di essere vicina ai Di Lauro, non gli rivolge più la parola da 5 anni. Adesso l'imprenditore chiede che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e un risarcimento, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. Ha 39 anni e da 5 non riceve dalla sua famiglia un messaggio, nemmeno un augurio per Natale. Ma fino a qualche anno fa le feste comandate, però, gliele ricordavano gli “esattori” della camorra, gli stessi che gli chiedevano il pizzo e che per l’occasione, oltre ai 6 mila euro a settimana, gli volevano imporre un’integrazione di 1500 euro. Luigi Leonardi, nato a Napoli nel 1974 e oggi riparato in una località in provincia di Salerno, a causa del racket ha perso le sue due fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola, Giugliano e Melito, nel Napoletano. Ed è accaduto nonostante si sia ribellato al “sistema” che cercava di stritolarlo presentando 18 denunce nell’arco di 12 anni. Denunce che hanno portato a due processi, il primo celebrato davanti al tribunale di Nola e giunto a sentenza di primo grado il 31 maggio 2010 con condanne per 63 persone e periodi di reclusione che vanno tra 5 ai 17 anni. Il secondo processo, invece, è ancora in corso a Napoli. Partito a rilento con udienze rinviate per 5 volte a causa di difetti di notifica, sta entrando nel pieno e il 22 ottobre Luigi Leonardi racconterà davanti al collegio giudicante la sua vicenda che ha ricostruito in due incontri con ilfattoquotidiano.it, il primo a Sasso Marconi, in provincia di Bologna, e il secondo a Firenze, nella sede dell’Associazione stampa Toscana. Qui esordisce affermando che, rispetto ai testimoni di giustizia, “i pentiti hanno più voce in capitolo. Chi invece non ha mai voluto avere a che fare con i clan, avrebbe diritto almeno allo stesso tipo di protezione offerto ai collaboratori”. L’affermazione trova ragione nel fatto che l’imprenditore napoletano, nel corso degli anni, ha subito diversi atti di violenza. Oltre alle intimidazioni dei clan napoletani di Secondigliano, Melito, Marano e Ottaviano, ognuno dei quali pretendenva la propria fetta sul fatturato di Leonardi, poi si è passati alle vie di fatto. Prima c’è stata l’auto dell’imprenditore sbalzata fuori strada al termine di un inseguimento. Poi un’aggressione, a metà 2009, a suon di spranghe di ferro che l’hanno fatto finire in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. E ancora, nel settembre dello stesso anno, l’uomo è stato sequestrato e tenuto per 24 ore prigioniero nelle Case Celesti di Secondigliano, un rione ad alto degrado soprannominato “terzo mondo”. “In quelle ore”, racconta Leonardi, “mi hanno puntato contro una pistola e mi hanno fatto vedere cambiali per un valore di 26 mila euro che ovviamente non erano mie. Ma pretendevano che le pagassi e per assicurarsi che lo facessi, nonostante li avessi già denunciati, mi hanno preso l’automobile e la moto, che secondo loro valevano la metà dell’importo che mi chiedevano”. Poi lo hanno rilasciato pensando di averlo “ammorbidito”. Invece l’imprenditore è andato avanti, presentandosi a carabinieri, polizia e sostituti procuratori ogni volta che lo convocavano per stendere un nuovo verbale. “Così, alla fine, mi hanno bruciato l’ultimo negozio che mi era rimasto, quello di Melito: in due ore se n’è andato in fumo l’ultimo pezzo della mia attività commerciale”. Oggi le fabbriche non esistono più e nemmeno i punti vendita. Erano stati aperti a partire dal 1997. Allora Luigi Leonardi, giovanissimo, aveva investito il denaro che con la madre era riuscito a mettere da parte, circa 75 milioni di vecchie lire. Con lui c’erano i fratelli e per i primi due anni tutto era sembrato andare per il meglio tanto che nel 1999 le imprese di famiglia erano riuscite ad accedere a un finanziamento regionale di 5 miliardi di lire per costruire un capannone industriale a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. Con la prima tranche da 1 miliardo e 200 milioni erano stati eseguiti i lavori edili e i contratti con i fornitori dei macchinari erano stati firmati. Ma a quel punto erano iniziati i problemi con i riscossori dei clan. Problemi che sono l’inizio della fine e che portano alla rinuncia dell’importo restante del finanziamento, a una denuncia penale contro lo stesso Leonardi, accusato – e poi prosciolto – di essersi appropriato di denaro pubblico senza aver concluso il progetto presentato e al tentativo di contenere le richieste dei clan. Ai quali tuttavia non sono bastati gli oltre 70 mila euro che, in un primo tempo, l’imprenditore paga nell’arco di 11 mesi. “A un certo punto mi sono ribellato, ho deciso che di soldi, a loro, non gliene avrei più dati”, spiega. “Fare impresa vuol dire essere liberi, la ‘protezione’ che i camorristi invece offrono è esattamente il contrario della libertà d’impresa. Non si può accettare di finire in quella spirale, ogni cittadino dovrebbe denunciare, malgrado il prezzo da pagare”. Il prezzo, per Luigi Leonardi, è stato elevatissimo. Con l’entrata in funzione del capannone del beneventano, contava di portare da 20 a 30 i suoi dipendenti, che invece hanno dovuto essere licenziati. Dai 250 mila euro a settimana che fatturava versando regolamente tasse e contributi, è passato a dover farsi bastare 200 euro al mese. Sfrattato dalla casa dove abitava, per un periodo ha occupato un appartamento sopra il negozio di Melito e ha trascorso anche un periodo dormendo in macchina. E ora che ha cambiato città e ha ripreso da libero professionista la sua attività, chiede solo che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e la protezione dello Stato. “Nel processo in corso a Napoli proveranno a farmi passare per un mafioso”, dice. Il cugino di suo padre, infatti, è Antonio Leonardi, arrestato a fine 2012 e sospettato di essere affiliato al clan Di Lauro. “Con la camorra, però, non ci ho mai avuto a che fare. Il paradosso di questa situazione è che so che se mi fossi rivolto a lui, i miei problemi si sarebbero risolti in un attimo, ma la mia scelta è stata quella di mettermi dalla parte della legalità”. Per questo la famiglia lo ha cancellato. “Ti stavi zitto e non succedeva niente”, gli hanno detto. Invece lui ha parlato, prima con i carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna e poi con gli agenti della squadra mobile di Napoli venendo sentito in un primo tempo dal sostituto Luigi Alberto Cannavale e in seguito dal collega Francesco De Falco, che oggi rappresenta l’accusa contro i boss che Leonardi accusa. “Se rifarei tutto?”, afferma alla fine. “Sì, non mi pento di aver parlato, starei solo più attento a conservare meglio le carte”. Si riferisce alle fatture e ai documenti bruciati nel negozio di Melito, quelli che oggi gli impediscono di essere risarcito a causa di un altro muro che si è trovato davanti, la burocrazia. “Mi hanno detto che non avendo più alcuna pezza d’appoggio non posso dimostrare l’entità del danno che ho subito. E allora, per fare qualcosa, sto pagando di tasca mia perizie che accertino quest’altro sopruso. Anche a queste assurdità lo Stato dovrebbe pensare”.

TIBERIO BENTIVOGLIO. Tiberio Bentivoglio, imprenditore antimafia: «Ho denunciato, Equitalia mi porta via la casa». Rompe il muro di omertà contro la 'ndrangheta, ma resta solo. Così, tra silenzi, lentezze burocratiche e casa ipotecata, si umilia il coraggio di chi denuncia le cosche di Reggio Calabria, scrive Gelsomino Del Guercio su “L’Espresso”. «Sto perdendo casa e lavoro, ho già perso la serenità familiare. Allora oggi mi chiedo: conviene denunciare i propri aguzzini come ho fatto io?». E' il grido di un uomo disperato quello che affida a "l'Espresso" Tiberio Bentivoglio, imprenditore reggino 61enne sotto scorta e testimone di giustizia dal 1992, cioè da quando si è ribellato ai suoi estorsori. Da allora per Tiberio è iniziato un lungo calvario. Gli hanno voltato le spalle gran parte dei suoi concittadini di Condera, la frazione di Reggio Calabria dove abita e dal 1979 è titolare di un negozio, la "Sanitaria S.Elia" che vende prodotti elettro medicali e articoli per la prima infanzia. Perché da quelle parti sfidare i boss è un sacrilegio. Ma sopratutto gli hanno voltato le spalle le istituzioni, che lo hanno abbandonato a se stesso nonostante gli appelli al consiglio regionale della Calabria, alla Commissione Parlamentare Antimafia , al ministro dell'Interno Angelino Alfano e persino a papa Francesco. In questi giorni la parabola di Tiberio è giunta al capolinea. Sommerso dai debiti, con un fatturato crollato negli ultimi nove anni del 75% (cioè 2 milioni e mezzo di euro in meno) e un conseguente danno per mancato guadagno che si aggira ad oltre 800 mila euro, l'imprenditore è sull'orlo del crac e dirà addio al suo negozio e non solo. Il colpo finale è arrivato tra le fine di settembre e i primi giorni di ottobre. Equitalia gli ha inviato l'avviso di vendita all'asta della sua abitazione, già ipotecata da oltre un anno per 991mila euro. L'iter prima dello sfratto durerà circa sei mesi. L'ipoteca di Equitalia era arrivata perché da nove anni non paga più i contributi all'Inps dei propri dipendenti (ora rimasti in due, prima erano in cinque) ai quali fino all'anno scorso riusciva a versare a mala pena gli assegni con gli stipendi. «Ho sempre pagato tutto regolarmente ai lavoratori fin quando ho potuto», sottolinea l'imprenditore. Per il danno erariale relativo ai contributi Inps, sua moglie (la loro è un'azienda familiare) ha subito due condanne in primo grado dal tribunale di Reggio Calabria per appropriazione indebita (pena sospesa): la prima un anno fa, la seconda una settimana fa. «Il paradosso è che adesso diventiamo noi i "pregiudicati"…», afferma sconsolato Tiberio. Come se non bastasse, da qualche settimana si è fatto incalzante il pressing delle banche, che dopo l'ipoteca sull'abitazione hanno ritirato gli affidamenti: non concedono più alcuna forma di credito, mutui e prestiti a Bentivoglio. Sono stati ridotti i carnet degli assegni a lui destinati perché sui suoi conti correnti non c'è abbastanza denaro per pagare i fornitori del negozio (circa 150). Il risultato è che le banche, come da legge, hanno inoltrato gli assegni scoperti ai notai - il cosiddetto "protesto" - e per l'imprenditore si prospettano nuove sanzioni amministrative (che comunque non riuscirà a pagare). L'ennesima batosta è arrivata sabato 4 ottobre quando ha ricevuto il preavviso di sfratto dai proprietari del negozio, perché, ormai da un anno, non ha i soldi per pagare l'affitto. Invece il 10 dicembre 2014 il tribunale di Reggio stabilirà se Tiberio dovrà abbandonate il deposito annesso al negozio perché anche in quel caso è "forzatamente" moroso nei confronti del proprietario. Ma perché un uomo libero, un imprenditore coraggioso, un testimone di giustizia, fondatore peraltro di "Reggio Libera Reggio", iniziativa anti racket nata in città il 20 aprile 2010, si è ritrovato in una condizione così assurda, al punto da ritenere che sia stata una cosa sconveniente, un errore, denunciare la 'ndrangheta? E' giusto che in un Paese civile si debba pagare tacitamente il pizzo per non ridursi in questo stato di disperazione? Quest'ultima domanda, tanto più in queste ore, se la stanno ponendo Tiberio, la moglie e sopratutto i suoi figli, «psicologicamente devastati da questa vicenda», dice lui. Nelle sue parole traspare un rimorso rabbioso per quella battaglia iniziata 20 anni fa. «Mi sono rifiutato di riconoscere il loro sistema criminale e sono stato costretto a subire una serie di punizioni e perfino un tentato omicidio che si verificò dopo la condanna di alcuni malavitosi da me nominati nelle denunce». Episodi agghiaccianti, sette in totale. Il primo nel 1992 (furto al negozio), altri due nel 1998 (furto e attentato). Quindi un attentato dinamitardo al negozio nell’aprile 2003 e un incendio nel 2005. Nel giugno 2008 va a fuoco il capannone-deposito. Nel febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando nel suo frutteto, alle 6 del mattino. «Solo il caso ha voluto che il proiettile, probabilmente quello fatale, si fermasse nel marsupio di cuoio, che quel giorno portavo a tracolla sulle spalle. Gli autori del tentato omicidio a oggi restano ignoti, mentre io continuo a trascinarmi su una sola gamba in quanto l’altra ha riportato lesioni permanenti causati dai proiettili». Da quel momento a Bentivoglio è stata potenziata la scorta, ora di "terzo livello", cioè assegnata ad una persona "ad alto rischio". Questa serie di intimidazioni ha scatenato un primo, ma graduale allontanamento della clientela dal negozio. E' lunga la lista degli amici che hanno cominciato a far finta di non vederlo, a non salutarlo in strada, a schivarlo. Peggio ancora dopo che il testimone di giustizia, nel 2007, ha denunciato la presunta connivenza del parroco locale don Nuccio Cannizzaro con Santo Crucitti, presunto boss di Condera-Pietrastorta. Il reato di favoreggiamento di cui era accusato il sacerdote è stato prescritto a luglio 2014 e a Condera, dopo la pronuncia del Tribunale di Reggio, si è festeggiato con caroselli d'auto e fuochi d'artificio. «Don Nuccio da queste parti è molto temuto, ma sta di fatto che in Italia la giustizia è lentissima», ammonisce Bentivoglio. Non solo la giustizia, ma lo è anche la burocrazia, che ha scagliato il colpo di grazia contro la "Sanitaria S.Elia". C'è una legge, la 44 del 1999, che prevede aiuti alle vittime di mafia. «Per l'attentato al negozio del 2003 ho ricevuto 3400 euro a fronte di 120mila euro di danni. Per l'incendio del 2005 ho avuto circa 300mila euro in tre anni, e per l'incendio al capannone del 2008 circa 400mila euro, tanto quanto il valore della merce bruciata, ma sempre dopo tre anni». In teoria la normativa stabilisce che lo Stato ripaghi la vittima entro 60 giorni dal fatto. «In realtà la media di attesa è molto più lunga - sentenzia Bentivoglio - intanto, ogni volta che ho subito un agguato, in attesa di ricevere quei soldi sono rimasto anni ed anni con il mio negozio e il deposito distrutti». I clienti in fuga, la liquidità che viene a mancare, le difficoltà nel pagare i fornitori, un mix micidiale, «che mi è costato 2 milioni e mezzo di euro in nove anni, a tanto ammonta il calo del mio fatturato e 800mila di mancato guadagno che è alla base del mio indebitamento verso Stato, fornitori, locatari. In confronto a ciò gli indennizzi ricevuti in tre anni, non compensano praticamente nulla». Sempre per la legge 44/99, gli è valso 16mila euro il tentato omicidio del 2011 (soldi ricevuti nel 2014), e poiché quella norma sospende i provvedimenti esecutivi per 10 mesi, è rimasto tutelato dall'avviso di sfratto del proprietario del deposito fino a settembre 2013. «Non ho mai trovato gente disponibile ad affittare un locale ad una persona come me, che ha già subito una serie di attentati». Eppure l'imprenditore-coraggio non vuol rassegnarsi ad un epilogo che sembra scritto. «Griderò fino all’ultimo giorno di vita - chiosa Bentivoglio - non voglio e non posso finire così. Io ho fatto il mio dovere ma sto perdendo tutto. Se non avessi una famiglia mi sarei già suicidato».

IGNAZIO CUTRO'. L'imprenditore Ignazio Cutrò chiude per mafia "Lo Stato mi ha lasciato solo". Aveva denunciato il racket: “Tante parole al vento perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo”, scrivono Piero Messina e Maurizio Zoppi su “L’Espresso”. Chiuso per mafia: è il titolo adatto per l’ultimo capitolo della storia imprenditoriale di Ignazio Cutrò. Ultimo, perché l’imprenditore in prima linea contro Cosa Nostra, pronto a denunciare i suoi estortori, alla fine si è arreso e ha chiuso la sua azienda. La procedura è stata avviata al registro delle Imprese di Agrigento.  Così, l’azienda che aveva detto no al racket, nei fatti, oggi non esiste più. A Cutrò resta solo una montagna di debiti col fisco e le banche per evitare il fallimento. “Che dire? Un bel segnale per tutti gli imprenditori che sono assaliti dalla mafia e dagli estortori – è il commento caustico di Cutrò – da oggi per tutti è chiaro quale sia la fine delle aziende che si oppongono alla mafia”. Ma come si è arrivati al default? Dopo aver denunciato i suoi estortori, accusandoli pubblicamente e contribuendo all’attività di magistrati e investigatori, l’imprenditore di Bivona, un piccolo comune della provincia di Agrigento, s’era trovato letteralmente solo. Lo Stato all’inizio, sembrava volesse prendere a cuore la causa dell’imprenditore, sul cui operato – nella sentenza che seppelliva il sistema del racket mafioso agrigentino – i giudici esprimevano ben 19 pagine di riflessioni. Cutrò e la sua famiglia finiranno sotto scorta per le continue minacce. A quel punto, l’imprenditore si trova di fronte al classico bivio: scegliere di essere trasferito in località protetta ed essere stipendiato dallo Stato o rinunciare ai sussidi e tentare di far ripartire la sua attività. “ In quel momento ho scelto di restare – ricorda Cutrò – perché ho tentato di essere coerente fino in fondo. Che lotta alla mafia è quella che costringe gli imprenditori ad abbandonare la propria terra e la propria attività?”. Non mancano le stille di curaro: “io sono tra i pochi imprenditori che ha iniziato a collaborare senza versare un centesimo agli esattori della mafia. Non tutti erano nella mia stessa condizione. Molti hanno saltato il fosso soltanto dopo che gli investigatori avevano scoperto e accertato il loro soggiacere alle richieste economiche della mafia”. Che Cutrò credesse fino in fondo  alla scelta di restare in Sicilia lo dimostra l’utilizzo dei fondi ricevuti dallo Stato come danno biologico. “A me ed ai miei familiari – spiega – è stato riconosciuto un risarcimento di circa 100 mila euro. Quei soldi avrei potuto metterli da parte, invece li ho usati per pagare tasse e contributi. Insomma, volevo il Durc a posto (durc è l’acronimo di documento unico di regolarità contabile, necessario per lavorare nel settore pubblico, ndr) per poter essere chiamato a lavorare. Forse ho sbagliato”. Ogni tentativo di far ripartire l’azienda sarà inutile. Cutrò e la sua azienda verranno isolati. L’imprenditore tenterà persino di mettere in vendita tutti i mezzi della sua azienda, camion, macchine scavatrici, bulldozer e utensili. Non si è presentato nessuno. “Messaggio chiaro – dice – messaggio non detto che vale più di mille parole: le cose di Cutrò non si toccano”. L’ultimo tentativo è dell’estate scorsa, quando Cutrò viene chiamato a lavorare dal general contractor dell’impianto fotovoltaico di Gela. Missione fallita, di quel sogno declinato nel segno dell’energia verde resta solo una collina rasa al suolo e tante imprese, come quella dell’ormai ex imprenditore antimafia, che non vedranno mai il risultato del lavoro svolto. Eppure sarebbe bastato poco per salvare quella piccola impresa edile in prima linea nella lotta alla mafia, bastavano solamente 38.500 euro. A tanto ammontavano i debiti fiscali che Cutrò avrebbe dovuto pagare per restare con il Durc pulito. Ma lo Stato ha erogato soltanto 20 mila euro, il resto non è mai arrivato. Cutrò sostiene di avere sperato sino all’ultimo nell’intervento del Viminale: “Resta solo l’amarezza – ricorda – per decine e decine di riunioni, tempo perso e parole al vento. Perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo. A parte le vetrine della legalità, mi sembra tutto fermo e tutto inutile. Non vorrei fare polemica, ma non ritengo giusto che uno Stato in grado di pagare un riscatto di 12 milioni di euro per salvare la vita di due ragazze italiane prese in ostaggio dai terroristi, non trovi le risorse, o molto più probabilmente la voglia, di trovare quei 18 mila euro che rappresentavano la mia salvezza” . “Ora – conclude Cutrò – non mi resta che prendere atto di aver fallito, di avere distrutto la mia vita e quella dei miei figli. Ma in fondo dal Viminale mi avevano avvertito,  me l’avevano detto che non avrei più potuto lavorare nella mia terra”.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

L’irresistibile ascesa di Cicci e le mille luci della città che pensava in grande. Il rappresentante di farmaci che divenne il re Mida della sanità privata. Nella sua villa cenò Liza Minnelli, scrive Angelo Rossano su “Il Corriere del Mezzogiorno”. È un’alba livida e umida. E’ l’alba di martedì 28 marzo 1995. Se, alla fine, questa storia diventerà davvero la trama per un film, ebbene, la prima scena non potrà che essere questo momento in questa città: Bari. I blitz vengono fatti sempre all’alba, sia che si tratti di criminalità comune, organizzata o di colletti bianchi. Sia che si tratti di sicari di malavita o del sindaco o del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. L’appuntamento con le manette è a quell’ora lì. E lo fu anche quel giorno. Quando 35 persone finirono coinvolte in un’inchiesta sulla sanità privata. Una storia di tangenti, giri miliardari e rapporti mafiosi. Così si disse e si scrisse. Il Corriere della Sera titolò il pezzo: «Tangenti, in manette i padroni di Bari». E poi finirono tutti assolti. Quell’inchiesta era iniziata qualche tempo prima: il 3 maggio del 1994, un altro martedì. Francesco Cavallari finì in manette con alcuni suoi collaboratori per una storia di ricoveri poco chiara. Da lì, alle sue agendine, ai racconti e alle testimonianze sui suoi rapporti con la politica e con i pezzi che contavano nella società barese, il passo fu breve. E’ l’operazione «Speranza» coordinata dall’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Maritati (poi divenne parlamentare prima dei Ds e poi del Pd e anche sottosegretario). Al centro di tutto c’è lui: Francesco Cavallari, detto Ciccio solo da chi voleva far credere di conoscerlo bene, mentre il suo vero nomignolo era «Cicci». E con lui finirono nell’inchiesta e agli arresti domiciliari gli ex ministri Vito Lattanzio (Dc) e Rino Formica (Psi), accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Furono pesantemente coinvolti l’allora sindaco di Bari, Giovanni Memola (Psi), accusato di corruzione, l’ex sindaco Franco De Lucia (Psi), ma ancora un ex presidente della Regione, Michele Bellomo (Dc), ex assessori regionali come Franco Borgia (Psi) e Nicola Di Cagno (liberale), il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo. E anche appartenenti alle forze dell’ordine, capiclan, magistrati. In vent’anni sono stati tutti assolti. Tutti, tranne uno: Cicci. Lui aveva patteggiato. Ma l’altro ieri (che giorno era? il 6 maggio, un altro martedì) la Cassazione - proprio in occasione del suo compleanno - ha stabilito di fatto che Francesco Cavallari, l’ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. I giudici hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi, Cavallari nel 1995 patteggiò una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione e gli fu confiscata gran parte del patrimonio, circa 350 miliardi di lire. Chiariamo: la corruzione resta, ma la pena andrà rideterminata. Il patrimonio? Si vedrà. Un vero tesoro accumulato a partire dalla fine degli anni ’70, grazie alla legge che istituì il servizio sanitario nazionale e che prevedeva le convenzioni con i privati. Il rappresentante di medicinali Cavallari compie il grande passo: «Rileva le quote di una società che possedeva la clinica Santa Rita, in via Bottalico, a Bari», racconta Antonio Perruggini, che fu suo stretto collaboratore ed è l’autore del libro Il botto finale, sottotitolo: «Morì un giudice, un imprenditore finì in esilio. Storia dello scandalo giudiziario più clamoroso di Bari e delle sue inaspettate fortune» (Wip edizioni, 10 euro). Fu quella la porta che Cavallari attraversò per entrare negli anni Ottanta da protagonista. Era la Bari da bere, la Bari governata dall’asse socialisti-democristiani. Nelle elezioni del 1981 per la prima volta in città il Psi superò il Pci. Era la Bari del giro vorticoso di soldi e favori, di affari e carriere, di rapporti opachi con il malaffare e la malavita, di assistenza medica privata in cliniche che sembravano alberghi a 5 stelle e posti di lavoro da chiedere e da garantire. Una città dove tutto si teneva insieme. Ma era soprattutto una città che aspirava al ruolo di capitale e poggiava le sue ambizioni su quattro pilastri: la sanità privata, la cultura, la finanza, la tecnologia. Erano le Ccr (le Case di cura riunite), il Petruzzelli, la Cassa di risparmio di Puglia e Tecnopolis. Era quindi anche la città del Petruzzelli e di Ferdinando Pinto, un altro socialista. Un lustro per la città che toccò l’espressione più alta con la produzione dell’Aida in Egitto, tra le vere Piramidi. Altri tempi, si dirà: rubinetti della spesa pubblica sempre aperti e politica compiacente. Certo, ma anche altre ambizioni, altre visioni, altra borghesia. Com’è finita lo ricordano tutti. Teatro in fiamme e a Pinto ci sono voluti dieci anni per dimostrare di essere innocente. Erano anche gli anni delle cene a casa Cavallari: villa su corso Alcide De Gasperi, lato destro andando verso Carbonara, con due piscine (una era coperta e l’altra scoperta), interni progettati dallo studio barese dell’ingegnere Dino Sibilano. Una volta, lì cenò Liza Minnelli, ma c’è chi ricorda anche Umberto Veronesi e Renato Dulbecco. Nulla di strano, in fondo nel frattempo Cavallari era diventato il capo di un’azienda, le Case di Cura Riunite, «cui facevano capo - ricorda Perruggini - 11 strutture a Bari e provincia specializzate in cardiochirurgia, dialisi, cardiologia, chirurgia, geriatria: è stata fino alla metà degli anni ’90 la prima azienda sanitaria privata di Italia con un fatturato prossimo ai 300 miliardi di lire annui e oltre 4mila dipendenti. All’epoca le Case di Cura Riunite erano per dimensioni seconde solo all’Ilva di Taranto». Bari era diventata l’eldorado della medicina convenzionata. Antonio Gaglione cardiochirurgo, già deputato, senatore e sottosegretario, ricorda ancora quell’8 maggio del 1992, oggi sono esattamente 22 anni, era il giorno che i baresi dedicano a San Nicola: a Villa Bianca (clinica Ccr) eseguì per la prima volta in Puglia un’angioplastica su un malato di cuore. Non era un paziente qualunque: si trattava di quel Nicola Di Cagno, politico e docente universitario, che tre anni dopo sarebbe finito coinvolto nell’inchiesta. E se la sera, dopo il teatro, si andava a cena da «Cicci» e dalla moglie, la signora Grazia Biallo, la mattina si facevano affari anche grazie al ruolo che aveva assunto la Cassa di Risparmio di Puglia, presidente Franco Passaro, socialista, docente universitario. Sotto la presidenza Passaro (dal 1981 al 1994) la Cassa diventa banca leader della Puglia assieme al Banco di Napoli. Com’è finita? L’ex presidente ha raccontato nel 2010 la sua versione in un libro La Resa. Piccola storia di una banca e di un processo. Infine, la quarta gamba di questa sorta di «primavera tecnocratica» barese anni ’80. Tecnopolis, il primo parco scientifico e tecnologico d’Italia, nasce alle porte di Bari da un’intuizione del professore di fisica Aldo Romano (prima socialista, poi vicino ai democristiani), allievo di Michelangelo Merlin che era a capo di un dipartimento di fisica, quello barese, dove ci fu la prima laurea d’informatica del Sud, seconda in Italia. Tecnopolis viene inaugurato nel 1984, per l’occasione arriva anche il vice governatore della California e assiste al convegno di battesimo intitolato «Finanza, tecnologia e imprenditorialità». L’Università di Bari, la Banca d’Italia, la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez erano insieme nell’incubatore che consentirà la nascita del parco. Il modello del parco scientifico e tecnologico fu esportato in tutta Italia. Anche su Tecnopolis fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Romano lasciò la presidenza del parco e andò a insegnare a Roma. Dall’inchiesta, alla fine, non emerse nulla. Nel 1982, intanto, la Regione Puglia, presidente Antonio Quarta varò il «Piano regionale di Sviluppo centrato sull’innovazione». Era l’82 e alla Regione si parlava di innovazione. Oggi Tecnopolis di fatto è InnovaPuglia, società della Regione che progetta e gestisce programmi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione ed è anche una società per la promozione, gestione e sviluppo del Parco Scientifico e Tecnologico. Forse si farà davvero un film su un pezzo di questa storia. E se la scena iniziale sarà quella dell’alba sul lungomare di Bari, quella finale non potrà che essere il tramonto di Santo Domingo, dove adesso Francesco Cavallari, detto Cicci, gestisce una gelateria.

Francesco Cavallari, ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. Lui lo aveva sempre sostenuto, ma le sue dichiarazioni dinanzi a pubblici ministeri e giudici erano rimaste inascoltate. E vent'anni dopo arriva la clamorosa decisione della Cassazione: è stata annullata la sentenza con la quale la corte di appello di Lecce aveva respinto l'istanza di revisione del processo al termine del quale nel gennaio 2013 era stato condannato per associazione mafiosa. I giudici della Suprema corte hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Cavallari è stato assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi. Bari. Tutti assolti: con questo verdetto, 14 anni dopo gli arresti, si è concluso il processo d’appello per trentuno imputati coinvolti nell’operazione Speranza, in cui la procura di Bari ipotizzava un intreccio tra mafia, politica e affari. E così l’unico colpevole è rimasto Francesco Cavallari, noto come Cicci, per lungo tempo il re Mida della sanità privata pugliese e italiana: l’imprenditore, infatti, dopo essere stato arrestato, patteggiò una pena a ventidue mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione subendo un sequestro patrimoniale di circa 350 miliardi di vecchie lire. A questo punto, però, visto che tutti i presunti componenti di quella organizzazione criminale sono stati scagionati nei vari processi relativi all’inchiesta che si sono susseguiti nel corso degli anni, Cavallari di fatto risulta associato con se stesso: proprio per questa ragione l’imprenditore, un tempo ex presidente delle Case di Cura Riunite e adesso gestore di una gelateria a Santo Domingo, ha chiesto la revisione del processo. L’inchiesta sul presunto intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata nella gestione delle case di Cura Riunite di Bari, denominata speranza, fu diretta dall’allora pm Alberto Maritati, successivamente parlamentare del partito democratico e più volte sottosegretario, e coinvolse politici, magistrati e giornalisti. Tutti, naturalmente, non toccati dalla vicenda. Il vicenda giudiziaria che travolse Bari nel 1995 vide coinvolti oltre all’imprenditore esponenti politici di primo piano (tra i quali gli ex ministri Lattanzio e Formica poi assolti) amministratori regionali e infine esponenti della criminalità organizzata barese. Cavallari da anni vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria.

Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Le carte, adesso, torneranno a una diversa sezione della Corte d’Appello salentina che dovrà rideterminare la pena che Cavallari aveva patteggiato: corruzione sì, falso in bilancio anche, ma mafia davvero «no». Così ha stabilito la Suprema Corte che ha accolto la richiesta della stessa Procura generale, oltre che quella dei difensori dell’ex «Re Mida» della sanità privata pugliese. «Sono contento che sia stata ristabilita la verità storica su quello che abbiamo sempre sostenuto da molto tempo», ha commentato l’avvocato Mario Malcangi, difensore di Cavallari, insieme con il principe del foro, il professor Franco Coppi. Si chiude così, dopo qua-si vent’anni, non solo la vicenda privata di Cavallari, ma anche quella della imponente operazione denominata «Speranza». Gli inquirenti teorizzarono la sussistenza, nel territorio barese, di u n’associazione a delinquere di stampo mafioso nata da un ben preciso accordo criminoso intervenuto tra Cavallari, maggior azionista e presidente del consiglio d’amministrazione della società «Case di Cura Riunite» s.r.l. e titolare effettivo della Geoservice s.r.l. - e i principali capi clan baresi. Nel mirino degli inquirenti «il controllo di attività economiche e servizi di pubblico interesse » anche «attraverso la manipolazione del consenso elettorale a beneficio di candidati compiacenti». L’operazione rappresentò un «cataclisma» per il sistema politico e imprenditoriale locale. Il primo vero scandalo nella gestione della sanità privata. Pesanti accuse che non hanno retto al vaglio della magistratura giudicante. Personaggi del calibro di Antonio, Sabino, Mario e Giuseppe Capriati, tra gli altri sono stati strada facendo assolti in via definitiva. Era il 1995 quando il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi anche per l’accusa di associazione mafiosa per Cavallari. Un patteggiamento criticato dalla stessa sentenza con cui il Tribunale di Bari assolse alcuni suoi computati. Il re della sanità privata, che oggi vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria, non poteva essere considerato credibile quando ammise «di avere posto in essere molteplici e gravi condotte di corruzione di pubblici amministratori e di reati finanziari, e una serie di assunzioni di malavitosi» e non attendibile quando «pur riconoscendo di avere intrattenuto rapporti di connivenza con alcuni boss della malavita» negò «di avere stipulato un rapporto con i clan » . Nel corso del tempo tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui la richiesta di revoca della sentenza con proscioglimento «dal menzionato delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, perché il fatto non sussiste, con conseguente rideterminazione della pena inflitta ». La Corte d’Appello di Lecce aveva detto «no». Di diverso avviso la Cassazione. Dalle sentenze di merito è persino emerso come «Cicci» «sia stato sottoposto ad atti di intimidazione da parte dei clan». A seguito del patteggiamento, i giudici confiscarono numerosi beni tra i quali ville, appartamenti e terreni. Tra questi, anche la villa di corso De Gasperi a Bari e l’appartamento in via Putignani, nel centro del capoluogo, ora in uso alle forze dell’ordine. Un sequestro disposto ai sensi del codice antimafia. Adesso il rischio è che potrebbero ritornare nelle mani di Cavallari. Con tante scuse.

«Anzitutto, devo precisare che sono stato difeso da prof. Franco Coppi, ma anche dall’avv. Mario Malcangi di Bari, che mi ha seguito in questa vicenda. Qual è la mia prima reazione? Sono molto, molto felice, perché è tornata serenità e pace in famiglia e, finalmente, penso che potrò ritornare con un bel rapporto con mia moglie, perché purtroppo all’epoca non resse a tutto quel tam tam che ci fu tra carabinieri, guardia di finanza, ecc. Tanto che arrivammo al divorzio. Adesso, penso che lei si sia definitivamente convinta che in casa non ha mai avuto un Totò Riina o un Bernardo Provenzano. Quindi sono molto felice. Anche se in questa grande gioia che provo in questo momento c’è grande dolore per come sono ridotte le mie strutture, che erano un gioiello all’epoca. Non lo dico io, lo dicevano tutti. E soprattutto per le migliaia di dipendenti che hanno perso il posto di lavoro. Io non sono d’accordo con chi dice, con chi ha sempre detto che mi hanno tolto i magistrati, Maritati, Scelsi, 20 anni di vita. Io ho guadagnato 20 anni di vita in questo periodo. Perché se fossi rimasto a Bari, con quelle ansie, preoccupazioni, anni di dolore che ho provato, sarei crepato. Ecco perché io non sono crepato a Bari, ma finalmente, posso dire oggi, che loro mi hanno regalato 20 anni di vita. Quindi, sembrerà un paradosso. Sono grato a quei provvedimenti, che all’epoca presero per la mia libertà personale, che mi consentì, dopo tanti anni, di fare degli accertamenti diagnostici. Da qui venne fuori che ero un cardiopatico. Sto aspettando la mia famiglia, che mi raggiungerà in questi giorni, proprio per chiarire alcune situazioni tra di noi, di famiglia, e, quindi, penso di ritornare al momento debito. Perché adesso voglio completare tutto l’iter giudiziario. Certamente ritornare a Bari. Vedere quello strazio. Quelle condizioni in cui versano le mie strutture. Io penso che eviterò di passare da via Fanelli. Eviterò di passare da via Salandra, da via Ciro Petroni. Ecco quindi cercherò di non frequentare quei posti, per non rivivere certi momenti che ho vissuto. Molto belli. Ho maturato in me una grande decisione, che mi fa piacere, in primis, riportare attraverso Telenorba. Io creerò una fondazione per assistere coloro i quali sono senza difesa, perché non hanno la possibilità di permettersi un avvocato, ed anche un assistenza a parenti di persone che sono incarcerate».

Cavallari fu arrestato nel ’94 e patteggiò la pena di 22 mesi per associazione mafiosa ed alcuni episodi di corruzione. Dalle sue dichiarazioni racconta, rimasero coinvolti una sessantina di politici e tra loro l’ex assessore regionale Alberto Tedesco, che però, non venne indagato. Cavallari affermò di aver dato 20 milioni di lire anche a Massimo D’Alema, ma i pm baresi chiesero ed ottennero l’archiviazione dell’accusa per finanziamento illecito ai partiti. Ha riferito anche che alla fine degli anni 80 un amico gli segnalò per un’assunzione Patrizia D’Addario, ma non se ne fece nulla.

Sanità, Politia ed Affari. E’ già successo a Bari nei primi anni 90, dice Antonio Procacci in un suo servizio su Telenorba. Fu un vero terremoto. Un’ottantina le persone indagate e una trentina gli arrestati. Alla fine ha pagato solo uno: Francesco Cavallari. Il re delle cliniche private. Fu arrestato nel maggio ’94 e scarcerato a novembre, quando cominciò a svuotare il sacco. Fece i nomi, e che nomi: da i ministri Lattanzio e Formica al sottosegretario Lenoci; dall’ex presidente della giunta regionale Michele Bellomo all’ex senatore Alberto Tedesco, a cui, secondo il racconto fatto all’allora pm Alberto Maritati, oggi compagno di partito dell’ex assessore, diede un contributo di 40 milioni di lire per la campagna elettorale di Lenoci, pochi mesi prima del sui arresto. E poi parlò di magistrati, funzionari pubblici, direttori generali di ASL e persino di giornalisti. Partito come informatore scientifico, Cavallari ha costruito un impero. Il più grande della sanità italiana ed europea. Con 10 cliniche private e 4000 dipendenti: pagando mazzette finanziano campagne elettorali ed assumendo centinaia di dipendenti sponsorizzati dai politici e dalla malavita locale. Tutto annotato in agende e sul computer in un file denominato, non a caso, mala.doc. “Sono l’unico imprenditore che non si è potuto sottrarre ai ricatti dei politici, malavita organizzata, magistrati e forze dell’ordine” ha sempre sostenuto e dichiarato Cicci Cavallari, che era solito favorire l’acquisto di materiale sanitario da fornitori che li venivano segnalati dai politici. Nulla di nuovo nella successiva inchiesta “Tarantini”. All’epoca non c’era la droga e neanche le escort, anche se una giovanissima Patrizia D’Addario fu presentata pure a Cavallari, ma con l’intento di fargli eseguire giochi di prestigio in alcune serate nelle sue cliniche. C’erano già, invece, i viaggi regalati, però, non ai medici, bensì ad alcuni giudici e funzionari regionali. La grande differenza di ieri, rispetto ad oggi, la fanno, però, soprattutto i soldi. Davvero tanti: 4,5 miliardi di vecchie lire, secondo le ultime stime che l'ex re delle CCR avrebbe pagato a tutti: dal PCI, come ammesso da Massimo D’Alema, fino all’MSI. Chi più, chi meno, un po’ tutti confermarono di aver intascato mazzette da Cavallari, anche se alla fine, gogna mediatica a parte, nessuno, o quasi, ha pagato. Anzi, è la Regione Puglia che deve pagare a Cavallari 63 milioni di euro per TAC, risonanze magnetiche e ricoveri in esubero non saldati ai tempi dello scandalo. Fu proprio Tedesco, all’epoca assessore alla Sanità, a stoppare i pagamento alle CCR, come ha ricordato recentemente il re Mida della Sanità. Per non parlare delle parcelle degli avvocati, che hanno difeso molti di quei politici e rigorosamente a carico dello Stato. Alcuni di essi si sono ritirati dalla scena, altri invece, sono ancora sugli scudi.

Guardia di finanza in azione: finiti in prigione anche l'ex assessore regionale Marroccoli e un consigliere comunale di Bari. TITOLO: Puglia, manette alla sanità privata. Tra le accuse più pesanti: truffa aggravata, falso e corruzione. Ricoveri mai effettuati, pagati dall'Usl 600 mila lire al giorno. Coinvolti anche i vertici di "Apulia Salus" e "Santa Maria". Ventisei arresti, il carcere attende Francesco Cavallari padrone di dieci cliniche, scriveva Piraino Giancarlo su “Il Corriere della Sera” il 4 maggio 1994. Per qualche ora s'è temuto che, avvertito in tempo, fosse riuscito a riparare all'estero. Poi, a metà pomeriggio, è giunta notizia che stava tornando da Milano per costituirsi ai giudici baresi. Francesco Cavallari, "re" della sanità privata in Puglia, era stato infatti raggiunto da due ordinanze di custodia cautelare. Al mattino era già finito in cella Paolo Biallo, suo cognato e braccio destro nella gestione delle Case di cura riunite (10 cliniche, 4 mila dipendenti, 250 miliardi di fatturato all'anno), il direttore sanitario Nicola Simonetti (piantonato in ospedale), e altri quattro tra medici e dirigenti del gruppo. Sempre in mattinata erano stati arrestati l'ex assessore alla Sanità della Regione Puglia, Tommaso Marroccoli, e un consigliere comunale di Bari, Giuseppe Pellecchia. Il blitz della Guardia di finanza aveva raggiunto anche i vertici dei due gruppi concorrenti delle Case riunite: i fratelli Franco e Giuseppe Cacurri, proprietari dell'Apulia Salus (tre cliniche, più altre tre partecipate) e Vincenzo Traina, della Santa Maria. Coinvolti anche tre funzionari della Regione, Maria Grazia De Luca, Nicola Armenise e Lorenzo D'Armento. In tutto 34 ordinanze di custodia cautelare, che hanno interessato 27 persone (qualcuno ne ha ricevuta più d'una). Truffa aggravata, falso, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione, i reati contestati dai giudici Giovanni Colangelo ed Annamaria Tosto. I provvedimenti sono stati firmati dal gip Maria Iacovone. In ballo i ricoveri in regime di convenzione e soprattutto quelli d'urgenza. Negli uffici dei funzionari regionali sono stati sequestrati documenti riguardanti il periodo 1990-93. Alle sole Case di cura riunite sarebbero stati versati 85 miliardi per ricoveri mai effettuati. Un soggiorno di degenza, alla Mater Dei o altra clinica del gruppo, costava sino a 600 mila lire. L'indagine sarebbe partita da una denuncia riguardante le risonanze magnetiche e le Tac. Differenziate le accuse: quella di corruzione riguarderebbe solo i vertici delle Case di cura riunite, l'ex assessore Marroccoli e i funzionari regionali. Marroccoli, i funzionari regionali e i vertici delle Case di cura sono finiti in carcere; per tutti gli altri, arresti domiciliari. Per Bari è un autentico terremoto. I personaggi sono tutti notissimi. Cavallari era nel mirino della magistratura da tempo. Il sostituto procuratore Nicola Magrone (ora deputato progressista) aveva accusato lui e il cognato Paolo Biallo d'assunzioni fatte negli ambienti della malavita. L'indagine gli era poi stata tolta, alla vigilia, pare, del coinvolgimento di alcuni personaggi politici. Magrone era stato anche deferito al Csm e poi completamente prosciolto. Di fronte al plenum del Csm era invece finito nel gennaio scorso il procuratore generale di Bari, Michele De Marinis. A lui erano stati contestati anche l'atteggiamento tenuto in quella vicenda e la sua supposta amicizia con Cavallari, ma nei suoi confronti non era poi stato assunto alcun provvedimento. La sanità privata pugliese è sempre stata al centro di polemiche politiche. Le opposizioni, di destra e di sinistra, alla giunta regionale hanno sempre contestato l'entità dei finanziamenti. Cifre imponenti: nel solo bilancio 1993 94, 310 miliardi, più altri 100 per la sola assistenza nelle malattie da tumore. Dei 310 miliardi i due terzi sarebbero finiti ai tre gruppi ora sotto indagine; i 100 miliardi per l'oncologia quasi tutti alla sola "Mater Dei", clinica di Cavallari in regime di convenzione con la Regione sino al 31 dicembre di quest' anno. Dopo quella data il governo della Puglia dovrebbe decidere se rinnovare la convenzione o acquistare la clinica. Ma in questo caso Cavallari aveva già pronta la soluzione di ricambio: proprio in questi giorni stava per varare l'Istituto oncologico del Mediterraneo, con i soldi dell'Isveimer e della Cassa di risparmio di Puglia; benchè il suo gruppo abbia con la Cassa barese un'esposizione di 65, qualcuno dice 100 miliardi.

Il giudice morto che turba un pm e un senatore Pd, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”,  Lun, 26/09/2011 con  Massimo Malpica. Le inchieste sulla sanità pugliese, le accuse tra magistrati, gli esposti al Csm, le denunce in Procura. I veleni tra le toghe baresi di questi giorni, che vedono l'ex pm Scelsi contrapposto al capo dell'ufficio giudiziario del capoluogo, Laudati, ricalcano una storia oscura di 15 anni fa. Nel 1994 la Procura di Bari indaga su un re della sanità pugliese, Francesco Cavallari, presidente delle Case di cura riunite. Al lavoro ci sono quattro pm. Alberto Maritati (l'attuale senatore Pd che a detta di Scelsi, nel 2009, gli chiese notizie sull'affaire Tarantini per conto del dalemiano De Santis) e Corrado Lembo della Direzione nazionale antimafia, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi (lo stesso che oggi accusa Laudati) della Dda locale. Procuratore capo facente funzioni è Angelo Bassi.

Bassi non è una toga rossa. Non ha colori. A dicembre '94 difende Antonio Di Pietro: «Si sono disfatti di un magistrato scomodo facendo disperdere intorno a lui il senso della giustizia», detta alle agenzie. Quando però il mese prima Silvio Berlusconi era stato raggiunto da un avviso di garanzia alla conferenza Onu sulle mafie, Bassi aveva apertamente parlato di «scempio». Non sui giornali, ma in ufficio sì. Tanto era bastato, racconta oggi la moglie, Luigina, per inquadrarlo come «non allineato». Di certo, da quel momento la sua vita prende una piega drammatica. Bassi, come tanti a Bari, conosce Cavallari, che è sotto intercettazione. Viene registrato un colloquio tra l'aggiunto e l'indagato. I due si danno del tu, si chiamano per nome. E poi, un giorno, a dicembre del 1994, Bassi va a casa di Cavallari per interrogarlo. «Essere andato a interrogare Cavallari, che intendeva collaborare, a casa sua (...) bastò a far decretare la mia fine», racconta lui stesso, a luglio del 1997, a Carlo Vulpio del Corriere della Sera. I «colleghi» che indagano su Cavallari lo denunciano alla procura di Potenza (allora competente per i magistrati baresi, ora è Lecce, come Laudati sa bene) e al Csm. Bassi si ritrova indagato: abuso di potere e omissione di atti d'ufficio le ipotesi di reato. Il Csm a settembre del 1995 lo trasferisce a Napoli: incompatibilità ambientale. E l'otto novembre '96 viene rinviato a giudizio dalla procura di Potenza. Proprio due dei suoi «accusatori», Scelsi e Chieco, in udienza confermano che Bassi «li raggiunse nel loro ufficio per informarli dell'incontro con Cavallari», nel corso del quale Bassi aveva raccolto una confidenza, utile per un'indagine che vedeva Maritati parte lesa a Potenza, subito trasmessa dagli stessi pm alla procura lucana. Non sembra un comportamento da favoreggiatore. Infatti il 14 marzo '97 Bassi viene assolto perché il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza è devastante per gli accusatori dell'ex procuratore, e stigmatizza in particolare Maritati. Che, pur in conflitto di interessi, come inquirente e come parte lesa di quelle dichiarazioni, secondo il giudice «non ha avvertito la necessità di astenersi dal prendere parte a qualsiasi iniziativa del suo ufficio in relazione ad un fatto che lo riguardava personalmente, ed abbia anzi redatto unitamente ai colleghi Chieco e Scelsi la relazione inviata in data 23-12-94 al procuratore della Repubblica di Potenza». Bassi, assolto in tribunale, il giorno dopo la sentenza viene condannato in ospedale, dove gli viene diagnosticata una malattia in fase terminale. Morirà un anno dopo, non prima di aver denunciato i suoi accusatori Maritati, Scelsi, Chieco e Lembo che si ritrovarono sotto indagine a Potenza in un fascicolo. Archiviato. Come archiviata finì la denuncia degli stessi pm da parte di Cavallari, che nella maxi-inchiesta barese che aveva coinvolto anche big della politica come Massimo D'Alema (percettore per sua stessa ammissione di un finanziamento da Cavallari, ma il reato era prescritto) era stato, alla fine, l'unico condannato, patteggiando 22 mesi. Decisivo per chiudere l'indagine potentina in cui Cavallari denunciava «gravi violazioni» dei pm, fu il nastro di un colloquio in procura a Bari di Maritati e Chieco con lo stesso Cavallari, in cui l'imprenditore rivelava ai suoi interlocutori una sorta di «complotto» della politica contro di loro. Deja-vu? Fatto sta che Cavallari, di fatto, li scagiona mentre, a Potenza, li accusa. Tutto normale? Insomma. Maritati, come rimarcava in un'interrogazione del '97 l'allora senatore di An Ettore Bucciero, era «al contempo indagato (...) e magistrato inquirente che raccoglie e registra le dichiarazioni confidenziali del suo accusatore». Un delirio. Ma non è la sola stranezza. Quel verbale viene chiuso con Maritati che fa presente come alle «11.50 del giorno 12 febbraio 1996, Cavallari è uscito dalla nostra stanza», a Bari. Eppure lo stesso Cavallari quel giorno, secondo gli atti del procedimento della procura lucana, venne convocato e interrogato dai pm Nicola Balice ed Erminio Rinaldi. Alle 12: dieci minuti dopo, a 140 chilometri di distanza. E i due magistrati, ascoltando il nastro barese dell'ubiquo imprenditore, invece di stupirsi della strana coincidenza di date, chiesero (e ottennero) l'archiviazione per il futuro senatore Maritati e per i suoi colleghi. Chi tocca certi fili muore, come Bassi.

“Cavallari? Il male lo ha subito”. "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". Una lettera aperta, (pubblicata da Nicola Quaranta su “Brindisi Report”) una difesa a tutto campo dell'imprenditore barese Francesco Cavallari. Antonio Perruggini, ex responsabile delle Pubbliche relazioni del Gruppo Case di Cura Riunite di Bari, all'indomani dell'inaugurazione, presso l'ex villa del Re delle Ccr di Bari, del Centro per l'autonomia, ripercorre le tappe della vicenda giudiziaria di Cicci Cavallari: fondatore delle "Case di Cura Riunite" di Bari, coinvolto negli anni Novanta nella tangentopoli barese. E lo fa rivolgendosi in prima persona al Vescovo di Brindisi e Ostuni, monsignor Rocco Talucci, che nel corso della cerimonia di benedizione ha sottolineato il senso e il valore dell'evento che ha sancito la consegna ai volontari del Centro per la riabilitazione dei disabili del patrimonio immobiliare a suo tempo confiscato: "Come nella Resurrezione, siamo a celebrare il passaggio dal male al bene". Queste le parole del vescovo. Ma chi, al fianco di Cavallari, ha lavorato per anni, vivendo la stagione fortunata delle Case di cura Riunite (all'epoca azienda leader in Europa nella Sanità Privata, con 250 miliardi di fatturato, undici presidi e oltre 4000 dipendenti), non ci sta: "Il Procuratore della Repubblica di Bari Angelo Bassi, il magistrato integerrimo che si permise di trattare Francesco Cavallari con umanità pur non avendo mai avuto alcun rapporto con lo stesso imprenditore imputato per mafia, mentre era in preda a atroci sofferenze, mi disse poco prima di morire che il caso Cavallari sarebbe terminato con un botto finale. E così è stato, anche se quello più fragoroso deve ancora arrivare. Non so se Cavallari assisterà a quell'esplosione, ma di sicuro il suo nome, la sua storia e quella dei suoi carnefici, ci saranno. In prima fila, ognuno con le proprie responsabilità e meriti. Proprio come diceva l'indimenticabile magistrato". La ragione dello sfogo: "Ancora oggi - scrive Perrugini - le cronache regalano pezzi di ingiustizia, così eclatante da far rabbrividire. Mi chiedo come si può non sapere che quell'uomo è innocente e ha subito ingiustamente un martirio durato 17 anni. Invece ancora oggi in pompa magna autorevolissimi esponenti della politica, dello Stato e della Chiesa partecipano all'affidamento di un bene di Cavallari, sequestrato perché lo stesso era accusato (mai condannato !) di ipotesi mafiose risultate penosamente infondate. Anzi infondatissime. E così l'azione devastante verso quell'uomo e l'azienda che aveva realizzato, ovvero di quelle cliniche che furono un vanto per il territorio pugliese e un esempio di eccellenza clinica per il meridione di Italia, pare non terminare mai, nonostante ben tre gradi di giudizio che hanno urlato la stessa parola finale: innocente. Dopo 17 anni". E la difesa continua: "Era il 17 dicembre del 2009 quando per l'ennesima volta un collegio giudicante di appello aveva sconfessato sonoramente tutta l'opera costata miliardi, contro Cavallari. Ma non bastò. Chi volle il suo sacrificio, quello della sua famiglia e dei suoi dipendenti, non si dette per vinto e in un ultimo disperato tentativo, tentò la strada della Cassazione, che con decisione ha consacrato quanto per anni e in tutte le lingue aveva riferito e avevano motivato i suoi legali. Non bastarono le testimonianze, i riscontri inesistenti, le rogatorie internazionali in mezzo mondo finite con un nulla di fatto, e la leale collaborazione dell'imprenditore a far ragionare i suoi accusatori". "Doveva sparire. E così avvenne. Ora è esiliato a Santo Domingo. Oggi è gravissimo e in certi versi sconvolgente, che la "signora con la spada" pronta a troncare ogni ingiustizia, non ottenga il giusto rispetto. E così mentre si scrive la parola fine "all'assalto alla diligenza", ora deve essere il tempo della presa d'atto di un fallimento e del riconoscimento morale e materiale di quanto è avvenuto in danno di un innocente. Di mafia si intende. Perché Francesco Cavallari è stato accusato di altri reati, che non potevano procurare l'attacco verso tutto il suo essere e consentire di entrare anche nei "buchi delle sue serrature" e incenerire anche la polvere che calpestava. Quindi l'affondo, nelle parole di Peruggini: "L'affare ciclopico c.c.r". ha sorpassato da tempo i limiti della decenza politico-economico - istituzionale e nonostante le urla di giustizia consacrate in coerenti sentenze penali e civili, non ha fatto muovere nulla e nulla è stato fatto, come se in una sorta di limbo imbalsamato e maledetto da un diabolico sortilegio, "la bestia" doveva restare vittima, in attesa della tanto adorata "bella". Quello che è stato più volte e chiaramente scritto "in nome del popolo italiano", evidentemente ha infastidito i pochi reduci della "lotta verso Cavallari" e così mentre viene consacrato che quanto ha subito è stato davvero troppo, attraverso le ipotesi di mafia e truffa naufragate insieme alle loro congetture, l'unica vittima di questo affare colossale, resta Cicci Cavallari che ha creato lavoro e sviluppo economico, restando completamente estraneo alle insussistenti accuse del naufragio annunciato". Ed in fine le conclusioni: parole rivolte direttamente a monsignor Talucci. "Mi aspetto che almeno un Vescovo, con il suo noto senso di Carità avverta la opportunità di condividere una atroce sofferenza, agevolmente da conoscere con un minimo cenno, al fine di poter annoverare anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato. Penso che qualsiasi uomo che sente il dovere della giustizia terrena e divina, debba avere la gioia di conoscere una storia, a maggior ragione quando questa è costellata da grandi sofferenze trasformate spesso in altre versioni lontane dalle sentenze e dai fatti per il tramite di articoli e menzogne riportate in centinaia di "cronache", e in libri pubblicati e venduti sulla pelle di Cavallari e di una azienda passata di mano senza troppe esitazioni". "La storia vera, che in tutta solitudine Cavallari, ormai stremato, ha invocato per anni e che non è stata mai ascoltata ha sostenuto invece varie fortune politiche, una drammatica disoccupazione e l'affermazione di un nuovo modello di gestione della sanità che viviamo ogni giorno. Basta ancora oggi alzare il telefono e chiedere la disponibilità di una Risonanza Magnetica o di una Tac per rendersene conto". La chiosa, in calce alla lettera indirizzata al vescovo: "Ringrazio il Signore - scrive Perruggini - per avermi donato la gioia di essermi rivolto alla Sua pregevole persona e di aver vissuto nel mio cuore un glorioso momento di giustizia, pregandoLa di perdonare il mio sfogo e di rivolgere la Sua preghiera e il Suo perdono anche verso chi a Cavallari volle così male". La storia giudiziaria di Cavallari, in sintesi: negli anni Novanta l'imprenditore barese finì in manette nell'ambito di un'operazione che portò la magistratura a scoperchiare un presunto intreccio affaristico, politico, criminale. Una vicenda giudiziaria che scosse nel capoluogo i palazzi del potere. Cavallari a suo tempo patteggiò la pena, quella di associazione per delinquere di stampo mafioso, e uscì dal carcere. Riacquistata la libertà, perse però i suoi averi. Quel patteggiamento, infatti, segnò la fine del suo impero economico e portò alla confisca di gran parte dei beni di famiglia, compresa la lussuosa villa nel residence più esclusivo del litorale ostunese. Nei mesi scorsi la Cassazione ha chiuso anche l'ultimo capitolo di quella vicenda giudiziaria, dichiarando inammissibile il ricorso che era stato presentato dalla Procura generale avverso la sentenza con la quale nel 2009 i giudici d'appello mandarono assolti, perché il fatto non sussiste, anche le dodici persone ritenute vicine ai clan baresi a cui, sempre secondo la Pubblica accusa, Cavallari aveva concesso una serie di aiuti, a partire dalle assunzioni presso le sue cliniche. Nel corso del tempo furono assolti anche gli altri personaggi eccellenti coinvolti in quella inchiesta: ex assessori e funzionari regionali, ex ministri, giornalisti. Cavallari, l'unico all'epoca a scegliere la strada del patteggiamento, risulta così anche l'unico colpevole.

Maritati & C.: “liberammo Bari”. Adesso chi ci libererà da loro? Si chiede Nicola Picenna su “Toghe Lucane”. L'inchiesta “Speranza” (31 imputati) e l'inchiesta “Toghe Lucane” (34 indagati) hanno molto in comune, oltre al numero degli indagati che quasi quasi coincide. Entrambe ipotizzano una vasta rete di corruttela fra imprenditori, politici, magistrati e delinquenza comune e non. Entrambe sembrano destinate a finire in un nulla di fatto. Tutti assolti in appello (tranne Francesco Cavallari che aveva scelto il patteggiamento) quelli di “Speranza”. Tutti in attesa che si pronunci il Gip sulla richiesta di archiviazione tombale, per “Toghe Lucane”. Uno dei PM che aveva condotto le indagini nell'inchiesta “Speranza”, Alberto Maritati, difende il suo operato: “può anche succedere che l'accusa venga rovesciata con una sentenza di assoluzione, ma non per questo si deve pensare che il pm sia stato un cieco persecutore”. Anche il Procuratore Capo, Giuseppe Chieco, difende l'operato della Procura di cui ha la responsabilità, criticando quello del dr Luigi de Magistris dopo che gli indagati da quest'ultimo – nel “filone” Marinagri, troncone rilevante del “Toghe Lucane, sono stati assolti. Nel processo “Speranza”, “non si deve pensare che il pm sia un cieco persecutore. I provvedimenti cautelari da noi richiesti sono passati al vaglio di tre giudici: il gip, il Tribunale del Riesame e la Cassazione”, così parla Alberto Maritati. Nel procedimento “Toghe Lucane-Marinagri” il provvedimento (cautelare) del sequestro del cantiere è stato confermato dal Gip, dal Riesame, dalla Cassazione e, per altre due volte, nuovamente dal Gip. Ma De Magistris viene dipinto come un “cattivo magistrato”. Nel procedimento penale “Toghe Lucane” il pensiero infamante è obbligatorio. “Di regola il pm che svolge le indagini è lo stesso che sostiene l'accusa anche nel dibattimento e, a certe condizioni, anche in appello. I pm non hanno seguito il procedimento fino alla conclusione... e il processo è stato spezzettato in tanti tronconi: questo secondo me ne ha decretato la fine”. Così parla Maritati del processo “Speranza” e non si sbaglia. Per “Toghe Lucane” è lo stesso. Il primo pm (Luigi de Magistris) viene sottratto all'inchiesta; gli subentra Vincenzo Capomolla che spezzetta “Toghe Lucane” in tanti tronconi. Nel momento topico del processo anche Capomolla evapora. Arriva Cianfrini che in pochi minuti valuta quintali di atti giudiziari e chiede l'assoluzione. Gabriella Reillo, Gup dalle indiscusse capacità valutative, assolve. “Quell'inchiesta ha liberato Bari da una cappa... Cavallari controllava la città. Così come ha detto egli stesso a noi e come ha detto a voi (Corriere del Mezzogiorno, ndr) nell'intervista conferma di aver distribuito 4 miliardi di lire ai politici e non solo”; sempre Maritati che parla apertis verbis. Anche per “Toghe Lucane” emergeva la “cappa” o, come scrisse De Magistris, “l'associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, alla truffa aggravata ai danni dello Stato ed al disastro doloso”. Che Bari si sia liberata da quella cappa, alla luce delle recenti inchieste sulla sanità pugliese, appare affatto certo. Come accade in Basilicata, dove gli indagati da De Magistris (in buona parte) occupano ancora i posti di comando e controllo. Se non che, a guardare tutto, si scopre che Giuseppe Chieco, oggi fra gli indagati in “Toghe Lucane” è stato fra i PM dell'inchiesta “Speranza” insieme con Maritati. Che Chieco e Maritati furono indagati per abuso d'ufficio in una inchiesta tenuta dalla Procura di Potenza da cui vennero prosciolti grazie alle improvvide dichiarazioni rese loro (che strano) proprio da Francesco Cavallari. Era il 12 febbraio 1996, in Procura a Bari, presenti Chieco, Maritati e Cavallari. Ma Cavallari nega e si scopre che in quello stesso giorno, a quella stessa ora, Cavallari Francesco veniva interrogato a Potenza. Carte false, Chieco e Maritati vennero salvati da carte false autoprodotte. “Liberammo Bari” dice Maritati, ma chi ci libererà da loro? p.s. Qualcuno chieda ad Alberto Maritati, perché la quota parte dei 4 miliardi finita nelle tasche di Massimo D'Alema finì con la prescrizione e come mai egli decise di candidarsi proprio nel partito di Max e come fu che, eletto alle suppletive, D'Alema lo volle immediatamente sottosegretario nel I e II governo di cui era Presidente del Consiglio. Qualcuno chieda a Maritati perché non indagò Alberto Tedesco, indicato fra i percettori di una quota consistente dei “soliti” 4 miliardi; come oggi risulta indagato per analoghe operazioni poste in essere da assessore della giunta “Vendola”. Qualcuno chieda a Maritati come fa a sostenere lo sguardo dei parenti di quel magistrato coperto da accuse infamanti ma poi assolto per non aver commesso il fatto. Qualcuno gli chieda perché, ancora oggi, non sente vergogna ogni qualvolta ne richiama la memoria, tradendolo anche da morto, come di un magistrato colpevole di inqualificabili (ma inesistenti) reati.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

Il tribunale fallimentare di Milano ha dichiarato lo stato di insolvenza dell'Ilva di Taranto, nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria. Come giudice delegato per la procedura stessa è stata nominata Caterina Macchi. Si apre quindi il capitolo finale per la tormentata azienda siderurgica, ormai destinata al fallimento.  L'azienda "presenta un indebitamento complessivo pari a 2.913.282.000 euro", scrivono i giudici nella sentenza. Secondo i giudici l'Ilva "si trova in stato di insolvenza come adeguatamente illustrato nel ricorso" del commissario straordinario presentato lo scorso 21 gennaio e "comprovato dalle allegazioni documentali, risultando - si legge nel provvedimento - che la società presenta capitale circolante negativo per circa 866 milioni di euro, una posizione finanziaria netta negativa per 1583 milioni di euro, una progressiva riduzione del patrimonio netto contabile e una redditività negativa della gestione" sempre in riferimento al 30 novembre 2014. Mancano materie prime, stop alcuni impianti - Intanto a rendere ancora più complicata una situazione non facile, è arrivato l'annuncio dell'Ilva ai sindacati metalmeccanici di fermare alcuni impianti a causa del mancato rifornimento delle materie prime provocato anche dalla protesta degli autotrasportatori. "L'azienda - dice Vincenzo Castronuovo della Fim Cisl di Taranto - ha precisato che la situazione potrebbe cambiare in caso di ripartenza degli approvvigionamenti".

“Il futuro dell’Ilva è legato a filo doppio a quello di Taranto e a quello di un intero comparto, strategico per gli interessi nazionali. Per questo qualsiasi intervento inerente lo stabilimento va ben oltre l’ambito locale, e merita di essere affrontato in maniera approfondita e valutato in tutti i suoi possibili aspetti e in tutte le sue profonde ripercussioni, al netto da contrapposizioni demagogiche e pregiudiziali, cercando di alimentare e stimolare confronto e dialogo e non uno scontro sempre più esasperato” ha affermato  Nuovo Centrodestra in Consiglio regionale, Domi Lanzilotta. “E la preoccupazione per il contesto ambientale e per la tutela dei posti di lavoro va ovviamente estesa anche al considerevole indotto: apportando quindi i dovuti correttivi al decreto che ha restituito allo Stato una necessaria centralità per evitare la svendita dell’impianto, ma al tempo stesso non chiedendo e auspicando ripensamenti e retromarce in palese contraddizione con le precedenti, dure e motivate critiche e preoccupazioni per la gestione -piena di ombre- dei privati. Il momento così critico deve indurre allora a stemperare la tensione e a una piena assunzione di responsabilità da parte delle parti chiamate in causa. Per la ricerca di un difficile equilibrio, alla luce delle numerose difficoltà e criticità emerse, ma che va trovato nelle sedi istituzionali, per non lasciare sprofondare Taranto in un nuovo incubo, dopo anni di buio e colpevole silenzio”.

Lospinuso: “Non può essere lo Stato a far fallire le imprese, si paghino subito i debiti indotto Ilva”. “Confindustria Taranto lancia un grido di allarme: il decreto per Taranto, anziché salvarla, rischia di affossare la città con una crisi occupazionale senza precedenti. Eppure, Forza Italia ha presentato emendamenti risolutori, proposti anche dal Senatore Amoruso, che rappresentano la strada maestra per garantire i crediti vantati dalle aziende dell’indotto, evitandone il fallimento”. Lo sostiene in una nota il consigliere regionale di Forza Italia, Pietro Lospinuso. “Oltre ai 3000 dipendenti delle aziende dell’indotto che rischiano il posto di lavoro – aggiunge – anche l’Ilva potrebbe mettere in cassa integrazione 5000 dipendenti. Ciò vuol dire che l’intera città di Taranto rischia il fallimento. Pensare che le aziende abbiano fornito materiali e prestazioni per l’Ilva in questi mesi, contando sull’affidabilità dello Stato che l’amministrava tramite i suoi commissari; e che oggi queste realtà economiche siano sul filo del rasoio, è veramente il colmo. Non può essere lo Stato a far fallire le imprese ed anzi, deve pagare i debiti pregressi del siderurgico: il senatore Amoruso propone una soluzione che ritengo condivisibile e concreta per la salvaguardia del sistema-impresa di Taranto. Come proposto negli emendamenti presentati, il governo potrebbe garantire i debiti al 100% presso le banche con la Cassa Depositi e Prestiti, e così gli istituti di credito presterebbero le somme necessarie. Agli imprenditori non resterebbe che pagare gli interessi alle banche per i prestiti ricevuti e per lo Stato sarebbe una manovra quasi a costo zero. In alternativa, potrebbe essere la stessa Cassa depositi a finanziare le imprese dell’indotto in forza dei crediti da riscuotere dall’Ilva. Il governo, inoltre, potrebbe prevedere, nel decreto in questione, la sospensione dei debiti delle imprese interessate verso Equitalia, come prima misura di sostegno per le realtà economiche che non vengono pagate ormai da mesi. Come pure si potrebbe immaginare un sistema di compensazione fiscale per le imprese interessate”. “Siamo aperti ad ogni altra alternativa – conclude Lospinuso – purché non sia una chiacchiera per perdere altro tempo. Taranto è una questione nazionale e adesso non c’è più tempo per scherzare”.

Come si fa a salvare l’Ilva senza la collaborazione della procura di Taranto? Si chiede Luigi Amicone  su “Tempi”. Siamo stati facili profeti quando abbiamo ricostruito le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Eppure una via di uscita che non sia il fallimento o la statalizzazione si può ancora trovare due numeri a fotografare lo spartiacque tra cos’era prima della “cura” a cui è stata sottoposta dalla procura di Taranto e cos’è oggi, dopo tre anni di inchieste, arresti, sequestri, blitz della polizia giudiziaria, la più grande acciaieria d’Europa: da una media di utili annua che sfiorava i 100 milioni, Ilva è passata a perdite secche di 1 miliardo l’anno. Siamo stati facili profeti quando ricostruimmo le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Adesso, dopo che l’azienda è stata commissariata (e naturalmente indagato anche il commissario governativo Enrico Bondi, sostituito nel giugno scorso con Piero Gnudi dal governo Renzi) la fotografia è la seguente: permanendo il sequestro giudiziario su due terzi dello stabilimento, le banche hanno staccato un assegno di 125 milioni come seconda rata di un prestito che servirà a pagare stipendi di dicembre e tredicesime agli 11 mila dipendenti. Dopo di che, buio completo. Non si sa come verranno pagati gli stipendi a partire dal prossimo gennaio. E soprattutto non si sa chi salderà i circa 400 milioni di debiti scaduti con i fornitori. Non bastasse, quale investitore straniero può essere così matto da prendersi sul gobbo un’azienda condannata a intervenire con bonifiche ambientali per 1,8 miliardi di euro (pena il mancato dissequestro degli impianti) e sul cui capo pendono richieste di risarcimento danni per 35 miliardi? Essendo un caso tragico di zelo giudiziario, il genio della giustizia italiana si è inventato di tutto. Perfino il prelievo forzoso (e l’uso per ricapitalizzare l’acciaieria commissariata dallo Stato) degli 1,2 miliardi sequestrati ai Riva (tutt’ora, almeno per il diritto nazionale e internazionale, proprietari al 90 per cento delle acciaierie) nell’ambito di un’inchiesta milanese che li accusa di truffa ai danni dello Stato. Le banche e gli otto trust a cui i Riva hanno affidato il loro “tesoretto” (oltre che un ricorso pendente in Cassazione), hanno fatto sapere che, mancando una sentenza definitiva sulla partita giudiziaria (che nulla ha a che vedere con il caso Ilva) non se ne parla nemmeno di utilizzare quei soldi. Di qui l’impasse che lascia presagire il peggio. Ad oggi sono solo chiacchiere le notizie che circolano di aziende italiane ed estere che sarebbero disposte a entrare nell’“affare” Ilva. Corre ad esempio la leggenda secondo cui il più grande gruppo europeo dell’acciaio (gli anglo-indiani di Arcelor-Mittal, alleati con Marcegaglia) avrebbe presentato un’offerta. E si racconta che anche il lombardo Arvedi sarebbe disposto a entrare nella cordata. In realtà, vere e proprie offerte per l’Ilva non ce ne sono. Per questo si è dato inizialmente spago alla voce di un intervento dello Stato che consentisse di sfruttare anche per le acciaierie tarantine la legge Marzano. Uno schema che in pratica prevederebbe il fallimento pilotato dell’Ilva e la sua cessione. Ma è difficile immaginare un percorso per cui, prima si fa fallire un’azienda per via giudiziaria. Poi la si sottrae con un commissario governativo (esproprio) ai suoi legittimi proprietari. Infine il governo la rivende al migliore offerente. Ora, sebbene alla Fiom non dispiaccia questa via (tant’è che a Repubblica Landini dice «no, assolutamente no» a un piano di salvataggio dell’Ilva che coinvolga anche gli attuali proprietari), Renzi ha capito in fretta che non può essere questa la strada di un paese che sta in Europa e che vorrebbe ricominciare ad attrarre gli investitori stranieri piuttosto che gli avvoltoi. Dunque? «Dunque stiamo a vedere», dicono a Federacciai. «Renzi è intelligente. Capisce bene che l’Ilva non può fallire e non può mettere per strada 11 mila operai, più un centinaio di imprese che lavorano nell’indotto. Se lo Stato fa la sua parte e i Riva, come hanno fatto sapere, faranno la loro, una via d’uscita si trova». E magari una via d’uscita modello Alitalia. Con un bad company che si accolla le passività e la giungla di pendenze giudiziarie. E una new company che riparte grazie a un mix di ricapitalizzazione privata (banche, Riva, Arvedi, Arcelor-Mittal-Marcegaglia) e intervento statale (Cassa depositi e prestiti, attraverso il Fondo strategico). Certo, la condizione perché si possa ipotizzare una via d’uscita al disastro, è che la procura di Taranto molli la presa sui sequestri e consenta all’azienda di tornare sul mercato producendo e vendendo acciaio e non avvisi di garanzia. A questo proposito, conversando in pubblico con il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, si era da parte nostra avanzata la modesta proposta di dare al Pil italiano la possibilità di schizzare all’in su di un paio di punti grazie alla messa in mora (ad esempio con un anno sabbatico) di quei pubblici ministeri che, come ci ha detto l’ex capo procuratore di Napoli Lepore, fanno danni perché «si credono dei padreterni» . Quando funzionava a pieno regime l’Ilva valeva il 75 per cento del Pil tarantino e l’1 di quello italiano. Se invece di continuare a tenere sotto sequestro due terzi dello stabilimento la procura di Taranto si mostrasse meno intransigente, forse una via d’uscita per l’Ilva si troverebbe.

Il romanzone del caso Ilva, una catastrofe italiana. Ecco come abbiamo distrutto la più grande acciaieria d’Europa, scrive Luigi Amicone su "Tempi". Stanziamenti, tre leggi ad hoc, l’ingaggio di due governi, della Suprema Corte e della Corte Costituzionale. Niente da fare. L’Ilva chiude e riapre l’Iri. I magistrati sono scatenati, Enrico Letta è imbelle. Nei prossimi giorni il parlamento varerà una serie di provvedimenti per rilanciare la commissariata Ilva. La più grande acciaieria d’Europa. Almeno fino a due anni fa. Dopo di che, nel biennio di massimo protagonismo della Procura di Taranto, tra il 26 luglio 2012 (data del primo sequestro degli impianti) e il 20 dicembre 2013 (pronuncia della Cassazione contro il sequestro del patrimonio della famiglia Riva, maggiore azionista dell’azienda), l’Ilva ha perso un terzo della sua produzione di acciaio, ha dimezzato i ricavi e nel 2014 attuerà un massiccio piano di messa a “contratti di solidarietà” di 3.579 lavoratori. 26 luglio 2012. 20 dicembre 2013. Segnatevi queste due date. Corrispondono all’arco temporale durante il quale due magistrati, il procuratore capo Franco Sebastio e il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, impegnati a perseguire per “disastro ambientale” la proprietà e gli amministratori dell’Ilva, hanno di fatto determinato la politica ambientale e industriale di un pezzo importante del sistema Italia (prerogative che, per legge, spetterebbero al governo e alle amministrazioni pubbliche). Non solo. Questa coppia di magistrati è stata sufficiente a polverizzare ogni record in materia di conflitto tra funzione giudiziaria e gli altri poteri dello Stato. Anticipato in rapide sequenze da trailer, il film è il seguente. Dopo aver ordinato le due prime e pesantissime raffiche di arresti e di sequestri all’Ilva (26 luglio e 26 novembre 2012), prima la procura e il gip di Taranto si oppongono con ricorso alla Corte costituzionale a una legge dello Stato del 3 dicembre 2012. Poi, alla sentenza (9 aprile 2013) che dichiara “costituzionale” una legge dello Stato (la cosiddetta “salva Ilva”), la Procura attende un mese prima di predisporre il dissequestro, previsto per sentenza, di prodotti Ilva che la stessa Procura aveva impedito di commercializzare a partire dal 26 novembre 2012. Prodotti che in data 15 maggio 2013, giorno in cui il gip di Taranto firma il dissequestro, hanno perduto (per deperimento e caduta dei prezzi sul mercato dell’acciaio) oltre un terzo del loro valore di 1 miliardo di euro. Ancora. Il 25 maggio 2013, cioè dopo essere stati contraddetti dalla Corte costituzionale (sentenza del 9 aprile e deposito delle motivazioni del 10 maggio 2013), i magistrati di Taranto sequestrano altri 8,1 miliardi di patrimonio dei proprietari dell’Ilva e mantengono ferrignamente tale sequestro (col rischio di far collassare l’intera filiera aziendale dei Riva) fintanto che, sette mesi dopo, la Corte di Cassazione cancella senza rinvio tale provvedimento, dichiarandolo «abnorme» e «fuori dall’ordinamento». Infine, dopo l’incredibile braccio di ferro tra Procura e leggi dello Stato, dopo che i più gravi e importanti provvedimenti assunti dai magistrati nei confronti dell’Ilva sono stati demoliti da ben due sentenze delle massime Corti, invece che chiedere conto di quanto siano costati allo Stato (e a Taranto) l’intransigenza e gli errori della Procura, Enrico Letta riesce nell’impresa di rinunciare a esercitare le prerogative di un primo ministro e di un governo. Così, con l’alibi che nel giugno 2013 la proprietà Ilva (con tutto quello che aveva addosso) non era ancora riuscita a mettersi completamente a norma rispetto alle severe regole ambientali approvate nel decreto “salva Ilva”, il governo vara un ennesimo decreto legge che, a partire dall’agosto 2013, sancisce il “commissariamento straordinario” dell’Ilva. Azienda privata che viene in questo modo trasformata in azienda parastatale per almeno i prossimi 36 mesi. E ora, secondo le richieste del commissario Enrico Bondi, l’Ilva dovrebbe essere ricapitalizzata con i soldi (1,2 miliardi di euro) che i Riva si sono visti porre sotto “sequestro cautelativo” dalla Procura di Milano. Non per violazioni all’Ilva, ma su tutt’altra partita di una (ad oggi presunta) «maxi-evasione fiscale». E ora godiamoci il film (si fa per dire), distesamente. Il 27 novembre 2012, Stefano Saglia, vicepresidente della commissione Camera per le Attività produttive è ancora ottimista. Il giorno prima era scattata una seconda retata, dopo quella del 26 luglio con cui il gip di Taranto, Patrizia Todisco, aveva sequestrato sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva, emesso otto mandati di arresto cautelare per manager dell’acciaieria (compreso l’allora 87enne Emilio Riva, ex patron dell’Ilva) e nominato quattro custodi giudiziari. Dunque, il 26 novembre 2012 una seconda ondata di arresti aveva portato in carcere altre sei persone e posto sotto sequestro 1,8 milioni di tonnellate di prodotti Ilva del valore commerciale di 1 miliardo di euro. Nonostante queste notizie, per Saglia l’acciaieria di Taranto resta «una grande realtà siderurgica di cui il paese non può privarsi. L’Ilva vale lo 0,5 per cento di Pil nazionale». E poi naturalmente ci sono in ballo migliaia di posti di lavoro. Per la precisione: 11.611 impiegati nelle acciaierie di Taranto più gli addetti in società strettamente collegate all’Ilva. In totale, senza contare l’indotto del Nord, nel novembre 2012 Ilva occupa ancora 15.358 persone e il suo fatturato consolidato (oltre 6 miliardi di euro nel 2011) è in netta ripresa rispetto al biennio 2009-2010. Ed ecco una fotografia dell’azienda esattamente un anno dopo, dicembre 2013, quando il commissario straordinario Bondi scrive nella sua relazione che le vendite sono in picchiata, costi e perdite in paurosa ascesa. Colpisce il brusco calo di produzione. L’Ilva perde due milioni di tonnellate d’acciaio, un terzo della produzione, in un solo anno. Nel 2013  produce 6 milioni e 300 mila tonnellate, contro gli 8 milioni e 300 mila del 2012. Rispetto al 2011, quando a bilancio risultavano ricavi superiori a 6 miliardi di euro, in aumento del 30,4 per cento rispetto al 2010, la relazione di Bondi prevede per il 2013 ricavi quasi dimezzati, 3,65 miliardi, oltre il 40 per cento in meno rispetto al 2011, anno che precede gli interventi della Procura. Insomma, benché goda della speciale rete di protezione messa a disposizione dai governi Monti e Letta (che nell’ultimo biennio hanno approvato ben tre decreti legge ad hoc e cospicue risorse economiche per interventi emergenziali, a cominciare dai 336 milioni di euro resi disponibili fin dall’agosto 2012) l’Ilva è inchiodata. Si deve procedere alla sua ricapitalizzazione. «All’Ilva servono 3 miliardi», dichiara Bondi al vertice ministeriale del 9 gennaio scorso. E la legge sull’emergenza ambientale, la cosiddetta “Terra dei fuochi-Ilva” in corso di definitiva approvazione in Senato, dovrebbe servire a procurarli. Come? In parte utilizzando il miliardo e rotti di euro sequestrati ai Riva dal procuratore di Milano (e attualmente anche consulente di Palazzo Chigi) Francesco Greco. In parte provando a convincere banche e investitori a entrare nella partita Ilva. E veniamo al “disastro ambientale” di cui sono accusati imprenditori, manager, funzionari pubblici, che hanno gestito l’Ilva negli ultimi 15 anni. Prima, però, facciamo un bel passo indietro. Il 13 aprile 1972, in un elzeviro di pagina 3 sul Corriere della Sera, Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, descrive così la Taranto dell’Ilva-Italsider a gestione statale: «Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio. Mille camion al giorno scaricano a mare il materiale sbancato a monte e i velenosi residui degli altiforni: un’enorme distesa di mare è già colmata e i lavori procedono senza tregua». Cederna annota sgomento: «Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento». Il riferimento è al quartiere Tamburi, quello che nel 2013 è stato segnalato per l’alta incidenza di tumori. A distanza di oltre quarant’anni, 3 febbraio 2014, è Adriano Sofri a raccontare la visita e il ritorno da Taranto con animo «desolato». La magnifica penna di Repubblica non si lascia tentare dagli sforzi compiuti da ben due governi, dalle istituzioni locali e dalla stessa Corte costituzionale che il 9 aprile 2013 aveva richiamato la necessità di contemperare le esigenze del lavoro, della salute e del rispetto dell’ambiente, spettando al governo e alla pubblica amministrazione, non alla magistratura, dettare indirizzi e scelte in questi ambiti. Si ha l’impressione che per giustizia Sofri intenda questo: «Poi, nella notte fra l’11 e il 12 gennaio i custodi giudiziari hanno compiuto un’ispezione a sorpresa senza preavviso nell’Ilva e hanno trovato gli impianti (quelli che dovrebbero funzionare a ritmo ridotto) “tirati al massimo”. Anomale accensioni delle torce dell’acciaieria…» e via di altre illegalità. Bene. Dai primi anni Settanta, quando Cederna descriveva lo sversamento e inquinamento a cielo aperto dell’Ilva statale, pare che non sia successo niente. Poi, dai primi mesi del 2012, per la procura, i suoi periti e, a seguire, ambientalisti e dipietristi 2.0, l’Ilva diventa “il mostro di Taranto”. E i Riva – che pure hanno documentato investimenti a Taranto per 3 miliardi in tecnologia e 1,5 miliardi per l’ambiente – gli emblemi di un capitalismo selvaggio, feroce sfruttatore dei lavoratori, dell’ambiente e della salute. In effetti, sussurrano i collaboratori degli (ex) patron dell’Ilva, i Riva hanno commesso due gravi errori. Primo: sono scesi a Taranto col piglio bauscia del “sciur parun” del Nord. Secondo: il 17 febbraio 2012 non si sono presentati all’incidente probatorio dove avrebbero potuto giocarsi una sentenza del Tar di Lecce che aveva dato loro ragione in tema di emissioni di diossina. Detto ciò, sembra veramente arduo che l’accusa riesca a dimostrare in sede processuale che «in 13 anni» (13 anni? E i precedenti 50?) l’Ilva dei Riva è stata l’unica ed esclusiva responsabile di “disastro ambientale”. Tanto più che, oltre alla siderurgia, il sito industriale di Taranto comprende una grande raffineria, una grande centrale elettrica, un grande cementificio, un grande arsenale militare pieno di amianto. Non solo. A complicare le cose a quelli che vedono nei Riva il diavolo e nell’Ilva l’inferno, c’è un particolare rivelato da Corrado Clini, ex ministro dell’Ambiente del governo Monti che conosce ogni piega del caso e se ne è occupato personalmente fino al passaggio di testimone al suo omologo ministro Orlando del governo Letta. Dice Clini: «Il 4 agosto 2011 è stata data l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per Ilva di Taranto, dopo un’istruttoria di 5 anni, con 462 prescrizioni. 5 anni è un tempo superiore 10 volte a quanto prevede la legge. E le 462 prescrizioni erano in gran parte in contraddizione tra loro e non applicabili, perché espressione di un compromesso “politico” tra la resistenza dell’impresa ad assumere impegni in linea con le migliori tecnologie disponibili e le istanze della Regione e degli enti locali in gran parte non sostenibili sul piano della fattibilità tecnica e giuridica. Ilva ricorre al Tar contro gran parte delle prescrizioni, ritenute in contrasto tra di loro e nei confronti delle norme vigenti. Il Tar riconosce la fondatezza del ricorso di Ilva e disapplica una parte rilevante delle prescrizioni. Nello stesso tempo, con valutazioni opposte a quelle del Tar, la procura della Repubblica di Taranto rileva che l’Aia non è adeguata per risolvere le molte problematiche ambientali e per la salute causate dallo stabilimento Ilva». Giusi Fasano, giornalista del Corriere della Sera, è a Taranto nei giorni dei sequestri e arresti che mettono a rischio quasi 12 mila posti di lavoro. Il 17 agosto 2012 l’inviato del Corriere segue il vertice che si svolge in città tra le istituzioni e le parti coinvolte nella crisi delle acciaierie. Il governo Monti è presente con due carichi da novanta, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini e il ministro per lo Sviluppo economico e le infrastrutture Corrado Passera. Manca qualcuno? Sì. Manca il procuratore capo Franco Sebastio che pure è l’artefice, diciamo così, di tutto il can can. Giusi Fasano ha il suo cellulare, chiama, lasciamoli chiacchierare. «Sebastio risponde da Soverato, Calabria, “dove vengo in vacanza da 35 anni”, dice. Ma come? È a tre ore di distanza, arrivano i ministri a Taranto perché una sua inchiesta ha fatto dell’Ilva un caso nazionale e lei non torna nemmeno per una stretta di mano? “L’ho detto anche a loro in una telefonata, cordialissima: vedrete che non mancherà l’occasione”. Più che una promessa sembra una minaccia. “Non mancherà occasione nel senso che c’è sempre tempo per farlo. Presentarmi nell’incontro di venerdì non mi è sembrato opportuno. Lì c’era spazio per politici, amministratori, sindacalisti… che c’entrava un magistrato?”». Ecco, bisogna aggiungere altro? Sì, bisogna aggiungere che alla fine del 2012 il procuratore Sebastio metterà in un libro-intervista le sue riflessioni. «Quando arriva a Taranto con la toga sulle spalle? “Vengo trasferito nella mia città sempre da pretore nel ’76”. Che situazione trova? “Una situazione non certo facile. L’emergenza ambientale c’era tutta, ma non era agevole rendersene conto e, soprattutto, documentarla”. Ostacoli? “Diciamo che non mancavano ostacoli oggettivi”. In che senso? “Beh, in generale l’inquinamento ambientale non sempre provoca danni immediati. In alcuni casi, come per l’amianto, occorre aspettare anche decenni per rilevare le conseguenze sulla salute delle persone. E poi non c’era una sensibilità diffusa sulla qualità del lavoro e la tutela dell’ambiente. Naturalmente, anche la Giustizia soffriva della stessa miopia”». (Il mio Salento, la mia Puglia, dicembre 2012, edizione Affari Italiani). Dunque, alla fine del 2012 apprendiamo dal pm accusatore degli ultimi quindici anni di Ilva che dei 40 anni precedenti in cui lo stesso pm era a Taranto c’è ben poco da ricordare. Eppure, già all’inizio degli anni Settanta Antonio Cederna scriveva quel che scriveva sulla Iri-Italsider-Ilva di Stato. Ma certo, sono anni in cui «ostacoli oggettivi» non consentivano interventi come quelli odierni. E dal 1982 al 2012? Sempre in prima linea. Però «diciamo che la società civile non era consapevole del problema». La società civile? Ascoltiamo in proposito l’ex ministro Corrado Clini. «Nel marzo 2012, per superare le contraddizioni ed uscire dalla situazione di stallo che si era venuta a creare, sulla base di gran parte delle valutazioni della procura della Repubblica di Taranto ho disposto la revisione dell’Aia. Contestualmente al riesame dell’Aia, ho avviato una ricognizione sullo stato dell’ambiente nel territorio di Taranto. È stato messo in evidenza che molte iniziative strategiche per il risanamento ambientale di Taranto, programmate e finanziate a partire dalla fine degli anni ’90, non erano state avviate o completate. E straordinariamente, nessuno aveva avuto nulla da ridire. In particolare. Primo, il piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto, finanziato nel 1998 con 50 milioni euro, era stato in gran parte disatteso. Secondo, le risorse destinate al risanamento ambientale del Mar Piccolo nel 2005 (26 milioni euro) erano state successivamente destinate ad altri interventi nella regione Puglia. Terzo, le risorse stanziate per il risanamento del quartiere Tamburi di Taranto (49,4 milioni di euro) il 3 luglio 2007 erano state successivamente destinate ad altri progetti». E adesso occhio alle date. Clini spiega: «Il 26 ottobre 2012, dopo una procedura di sei mesi ho rilasciato la nuova Aia, con la prescrizione dell’adeguamento degli impianti agli standard europei più severi e avanzati e che impone  investimenti per 3 miliardi di euro». È un’Aia draconiana. Impone all’Ilva standard che in Europa si devono adottare entro il 2016 (mentre i tedeschi hanno ottenuto un posticipo al 2018). L’Ilva deve adottarli entro il 2014. I primi due interventi prevedono la copertura di 65 ettari – l’equivalente di circa settanta campi di calcio di serie A – di parchi minerali. Il secondo, l’intubamento di novanta chilometri di nastri trasportatori. «Il 15 novembre 2012 – spiega Clini – Ilva accetta  le prescrizioni e presenta il piano degli interventi per dare attuazione alla nuova Aia. Nello stesso tempo Ilva ritira tutti i contenziosi aperti nel 2011 e 2012 dall’azienda contro l’Amministrazione. Insomma, Ilva aveva finalmente deciso di allinearsi alle direttive europee, voltando pagina». Con la retata del 26 novembre, naturalmente tutto cambia. Si era creata una via d’uscita rispettosa di tutte le esigenze (salute, lavoro, ambiente) al dramma di Taranto. Ma “la legge è legge”. Stessa storia accade il 24 maggio 2013, dopo la sentenza del 9 aprile con cui la Corte Costituzionale aveva sbloccato i sequestri e confermato la legittimità del “salva Ilva” di Monti. Il gip di Taranto passa a sequestrare l’intero patrimonio dei Riva. È la mazzata finale. Vero che alla procura di Taranto non basterà il bel servizio di Report del 18 novembre scorso, completamente allineato con le tesi della Procura degli 8,1 miliardi sequestrati perché questa, dicono i periti del gip, «è la cifra da noi stimata delle risorse sottratte dai Riva al risanamento ambientale Ilva». Vero che, 7 mesi dopo il teorema della procura e dell’affetto sostenitore di Report, arriverà la sentenza della Cassazione che disintegra l’ordinanza del gip di Taranto e ordina la restituzione degli 8,1 miliardi di patrimonio sequestrati ai Riva. Ma ormai il danno è fatto, l’Ilva è a pezzi, l’aria che tira a Taranto è di scontro permanente, insormontabile. E il governo Letta che fa? Invece di affrontare di petto l’incredibile anomalia di una procura che ha sbagliato pesantemente e che è stata due volte sonoramente stroncata nei suoi atti dagli stessi vertici del potere togato (Corte costituzionale e Suprema corte), ecco, invece di affrontare due magistrati, il governo batte in ritirata e si inventa una legge di “commissariamento straordinario”. Il resto è storia di questi giorni. Le acciaierie di Taranto sono tornate sotto amministrazione parastatale. E forse, chissà, invece che Ilva domani si chiameranno Iri.

La saggezza di un Capo magistrato: «I pm non sono padreterni. Devono servire il cittadino», scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Giovandomenico Lepore, l’ex numero uno della procura di Napoli, la più grande d’Italia, si confessa a Tempi. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, poco garantismo o troppo garantismo. Per una volta non parliamo dei problemi della giustizia. Per una volta parliamo di un magistrato “vecchio stampo”. Che poi significa semplicemente funzionario dello Stato, piuttosto che vincitore di concorso che si dà arie di primo ballerino alla Scala. Bene, coadiuvato dal giornalista Nico Pirozzi, l’ex capo procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore (foto a fianco) ha scritto un libro apolide rispetto alle correnti dell’Anm e controcorrente sul mestiere più delicato e terribile. Un libro di bilanci e di vicende giudiziarie narrate con precisione, gustosi aneddoti e statistiche. Un libro che per il fatto stesso di suggerire saggezza e ironia fin dal titolo pirandelliano – Chiamatela pure giustizia (se vi pare), Edizioni Cento Autori –, il rifiuto di sedurre il lettore con la sgamata tecnica dell’“indignazione”, rappresenta un buon viatico all’azione, non giudiziaria ma educativa e culturale, di contrasto alla proliferazione di cervelli all’ammasso che da un ventennio hanno messo in capo alla magistratura il vasto programma di creazione di un Mondo Nuovo. Giovandomenico Lepore, 78 anni, sposato, napoletano, uomo del buon umore e della lingua del popolo, cinquant’anni di vita trascorsi in magistratura. Dopo essere stato pretore, pm, aggiunto, sostituto, presidente della procura generale, ha diretto per sette anni (2004-2011) la procura di Napoli, la più grande e tormentata d’Italia. Il Csm lo scelse all’unanimità come capo degli uffici requirenti (per una volta trovando l’accordo il correntismo politico di destra e di sinistra), «perché alla procura generale stavo troppo tranquillo e sereno». Mentre occorreva che qualcuno di forte e autorevole mettesse fine allo scontro che, un po’ come succede oggi a Milano, spaccava la procura partenopea all’epoca della gestione di Agostino Cordova. Fu così che Lepore venne incardinato al vertice e in breve riportò ordine (e perfino una certa armonia) tra i centosedici pubblici ministeri della città delle emergenze per antonomasia. «Non ho fatto niente di particolare se non tenere la porta aperta, ascoltare, dialogare, assumere le mie responsabilità, decidere. E all’occorrenza anche correggere certe storture». È stato il regista di alcune delle inchieste più rumorose della Seconda Repubblica (le cosiddette Calciopoli, P4, escort a Palazzo Grazioli, emergenza rifiuti, bonifiche fantasma, mega truffe sulle invalidità civili, appalti al Comune) e ha stroncato il clan dei Casalesi. Cioè quel pezzo di potente camorra con a capo Michele Zagaria «che le forze dell’ordine mi arrestarono proprio qualche giorno prima di andare in pensione, fu per me un regalo quasi più bello della buonuscita». Tempi ha incontrato Lepore a Milano, tra una conferenza e l’altra organizzate nell’ambito dei corsi (obbligatori, legge del governo Monti) di aggiornamento professionale per i giornalisti. Conversazione all’Ata Hotel e aperitivo al bar dei cinesi.

Nei confronti dei magistrati di Prima Repubblica emerge talvolta, da parte dei colleghi della Seconda, l’accusa più o meno velata di “collusione col potere”. Certa attuale magistratura è così consapevole del potere e della centralità che ha assunto in un ventennio di scandali, che a quei pochi che eventualmente contestano loro certi metodi (tipo l’uso disinvolto della carcerazione preventiva), essi rispondono che «la legge è la legge». Il che sarebbe un’ovvietà se, di fatto, non fosse uno scaricare la coscienza personale dall’orizzonte del proprio operare. Che ne pensa?

«Penso che la legge vada sempre interpretata con buon senso e equilibrio. Lo lasci dire a uno che è stato per cinquant’anni al penale, tranne nei due anni che ho fatto il pretore a Genova, quando il pretore era un magistrato magnifico, stava nei piccoli centri ma era a contatto con la gente e, se era di buon senso, risolveva i problemi veramente secondo giustizia. Queste sono anche le finalità per cui ho scritto il libro. Proprio per dare indicazioni ai colleghi giovani. Infatti, durante i miei sette anni da capo procuratore a Napoli, mi sono accorto che arrivano in Procura giovani magistrati – magari hanno appena vinto il concorso – e ognuno di loro che va a ricoprire l’ufficio di pubblico ministero si crede un Padreterno, si crede al di sopra delle parti, e non si rende conto che invece è solo un servitore del cittadino. Perciò quando sento dire: “Ma io sono un magistrato!”, con quel tono sopracciglioso di chissà chi, a me scappa da ridere. Un magistrato? Beh, io non lo so fare, ma bisognerebbe fargli un bel pernacchio. Ma è così, sono duecento anni che in Italia la giustizia non funziona, rassegniamoci, non funzionerà per altri duecento…»

Eppure c’è una parte di magistratura che è convinta di avere una missione salvifica nella società…

«Guardi, io capisco che con la velocità dei nuovi mezzi di comunicazione e qualche ansia di protagonismo – la televisione, i titoli sui giornali, la gente che vuole “giustizia” – ci si esponga e si creda di rendere un buon servigio alla società. Il magistrato risponde alla legge. È vero. Ma risponde tanto meglio quanto più serve lo spirito e le finalità della legge: servire lo Stato e prima ancora i cittadini. Dunque, per essere dei buoni magistrati non occorre protagonismo per poi magari un giorno, sull’onda della notorietà, procacciarsi un posticino in politica. È anche a questo riguardo che la riforma del 2006 diede funzioni ordinatrice e coordinatrice al capo dell’ufficio. I pubblici ministeri non possono pretendere di godere della stessa indipendenza e autonomia del giudice. Sono parti e quindi devono in qualche modo rispondere al capo ufficio. Capisco le resistenze, ciascuno ha la propria testa ed è giusto che la utilizzi. Però il capo ha la responsabilità degli uffici e io non mi sono mai tirato indietro dal ricordarlo ai miei colleghi. Quando stralciai l’inchiesta su Bertolaso e due prefetti perché ritenevo che non vi fossero elementi che giustificassero provvedimenti restrittivi, l’ho fatto e non me ne sarei pentito, anche se poi li avessero condannati. Grazie a Dio ho avuto ragione, perché tutte e tre le posizioni vennero poi assolte. Per questo è di fondamentale importanza la valutazione attenta dei candidati prima di nominare i capi degli uffici requirenti. È il vertice dell’ufficio che dà l’impronta, in un verso o nell’altro, negativamente o positivamente, all’azione della procura».

Lei ci sta dicendo che la magistratura è l’ultimo posto in Italia dove si fa politica?

«Purtroppo non abbiamo ancora trovato un sistema che prescinda dalle correnti. Però, secondo la mia modesta opinione, il Csm dovrebbe essere composto solo da togati. Che ci stanno a fare i cosiddetti “membri laici”, spesso reduci o trombati della politica?»

Non mi riferivo ai politici in Csm, mi riferivo proprio al fatto che gli incarichi, così come i capi delle procure, vengono decisi nei negoziati tra le correnti dell’Anm e con criteri lottizzatori molto simili al tanto vituperato Cencelli della politica di Prima Repubblica. O sbaglio?

«Per me il problema è solo la eventuale malafede. Le correnti sono una realtà e non ci possiamo fare niente. E poi è normale che un magistrato abbia le sue idee politiche. L’importante è che non agisca in malafede. Vede, l’ho detto anche in conferenza qui a Milano. In un certo senso anche il delinquente ha una sua buona fede. E se tu magistrato sei corretto, stai tranquillo che le disgrazie non succedono. Ma se tu sei scorretto, ricorri ai trabocchetti, sei in malafede, è chiaro che raccogli quello che hai seminato. E poi non è vero che le nomine sono sempre lottizzate. Pensi al mio caso, ma ce ne sono anche molti altri. Ripeto, secondo me non sono le idee politiche, di destra o di sinistra che siano, a ostacolare la giustizia. L’ostacolo è il magistrato che si fa trascinare dalla sua ideologia e insiste, in malafede, a farsi trascinare».

L’ex procuratore di Bari Michele Emiliano ha lasciato la procura nel 2003, è stato eletto sindaco e poi segretario regionale Pd. Adesso dice che  ritorna a fare il magistrato. Le pare possibile?

«Beh, sì, se la legge lo consente… Però, no. Dal mio punto di vista se un magistrato va in politica deve lasciare la magistratura. Come fa il cittadino ad avere fiducia? Quale garanzia di imparzialità può dare ai cittadini?»

Condivide lo zelo con cui certe procure “attenzionano” i pochi grandi asset che sono rimasti in Italia? Pensi al caso delle presunte tangenti che l’accusa era certa fossero state pagate da Finmeccanica per piazzare elicotteri italiani in India. È finito in nulla ma l’Italia ci ha perso un mercato da 75 miliardi di dollari e commesse da due-tre miliardi di euro. Non le sembra distruzione del sistema-paese, per di più in un contesto di recessione e disoccupazione di massa?

«Capisco. Una cosa sono le tangenti che rientrano in Italia come provviste al manager o al politico che ha procacciato l’affare. Un’altra è quando sui mercati dell’Est, o dell’estremo oriente, per non parlare dell’Africa, l’azienda italiana deve passare, diciamo così, dalle forche caudine di sistemi corrotti in loco. Non è certo bello a vedersi. Ma questo è il mondo. Che senso ha metter tanto zelo e indagare i rapporti tra aziende e soggetti esteri? Ripeto, mi riferisco al contesto ambientale di certi mercati, non alle eventuali bustarelle che rientrano in Italia al manager o al politico per un affare che, poniamo, l’azienda italiana ha fatto in Africa e che vanno senz’altro perseguite. Sto parlando di come il mondo funziona realisticamente in certe aree geografiche. Lei ha fatto il caso di Finmeccanica. Lì non c’è stata nessuna tangente dice il dispositivo assolutorio. Ma anche se ci fossero state provviste da parte di soggetti esteri per ottenere all’azienda italiana la possibilità di entrare in un mercato – d’accordo, non sarebbe un bel vedere e infatti non si deve proprio vedere – non capirei lo zelo investigativo. Mettetevi al posto del soggetto straniero, come pensate che prenda la nostra attività? “Sapete che c’è? La commessa che dovevo dare a voi italiani la giro al belga piuttosto che all’inglese”. Questo è il punto. Il buon magistrato deve sempre ricordare che la legge lo pone al servizio del cittadino non astrattamente, ma realisticamente e prudentemente, considerando tutti i fattori di contesto in cui è chiamato a operare. Altrimenti io cittadino posso anche pensare che qualche interesse indicibile ce l’hai pure tu. E magari non è di questo paese».

De Magistris ha fatto cadere Prodi…

«Veramente quello lo ha fatto cadere un collega che sta dalle parti di Santa Maria Capua a Vetere, se si riferisce al caso Mastella».

Al di là del caso Mastella, Luigi De Magistris, questo singolare personaggio che condannato in prima istanza e obbligato a dimettersi da sindaco di Napoli – così come tutti i politici (in primis Berlusconi) sono stati obbligati a dimettersi in ottemperanza alla legge Severino – è il solo caso di politico che ottiene una sospensiva (dal Tar della Campania) e torna sindaco. E quanti danni ha fatto, da magistrato, con i suoi flop?

«Conoscevo suo padre, era un magistrato straordinario, eccezionale, equilibrato, direi impeccabile. Adesso questo figlio, che è pure intelligente e, devo dire, assolutamente onesto, pecca un pochino di impulsività. Quanto alle sue inchieste finite in flop devo dire che il problema non è suo. Ha fatto indagini, si è appassionato al suo quadro probatorio. Insomma, ha fatto il mestiere del pubblico ministero. È vero, ha sbagliato a farsi trascinare in televisione e a farsi rappresentare come una Giovanna D’Arco che sta sulle barricate. Però, chi lo poteva o doveva fermare – se c’erano le ragioni per fermarlo – era il capo ufficio. Allora, o il capo è stato un pusillanime e non ha avuto il coraggio di fermare cose sbagliate. Oppure il capo ha condiviso l’inchiesta e un certo modo di procedere. Terzo non è dato».

Arresti cautelari. Non c’è un sistema giudiziario in Europa che come il nostro vi ricorra così disinvoltamente. Con la conseguenza che le carceri italiane sono piene di persone ancora in attesa di giudizio. Non è tortura questa?

«Guardi che sono tre le motivazioni per giustificare provvedimenti cautelari restrittivi. Tu devi provare che c’è rischio di inquinamento delle prove, di fuga e di reiterazione del reato. Il problema è che la pressione dei media e della cosiddetta “opinione pubblica” non aiutano. Vai a spiegare, poniamo nel caso di un omicidio per gelosia, con reo confesso e magari pure pentito, che ci sono tutti i presupposti per concedere la libertà provvisoria. Vai a spiegare che se non c’è pericolo di fuga e naturalmente non c’è pericolo di inquinamento delle prove essendo il reo confesso, il rischio di reiterazione è nullo, ovviamente, per la particolare fattispecie di reato (quello ha ucciso la moglie per gelosia, non è che adesso c’è il rischio che ammazzi il primo che passa). Se li immagina i titoli dei giornali? Ci vuole più coraggio a fare le cose bene che a farle strizzando l’occhio alla vox populi, o meglio, alla vox media».

Ma lei, quando i suoi sostituti chiesero l’arresto di Bertolaso e dei due prefetti, si mise di traverso.

«E perché avrei dovuto rovinare la vita a tre persone quando il quadro probatorio non mi sembrava giustificare gli arresti? Poi, come le ho detto, mi andò bene, furono tutti e tre assolti. Ma anche se fossero stati condannati io ero il capo e dovevo assumermi le mie responsabilità. Dopo di che, non vorrei sembrare un’anima bella: se ci sono elementi per giustificare un provvedimento di restrizione della libertà si deve provvedere. Bisogna anche capire, però, che un arresto cautelare non è una prova di colpevolezza, perché poi la prova si forma in dibattimento. È chiaro che, purtroppo, proprio per le ragioni del giornalismo alla velocità della luce poi succede che chi finisce agli arresti cautelari viene marchiato a vita, perde la reputazione, l’onore, il lavoro, a prescindere. Per questo bisogna ponderare con prudenza ed equilibrio ogni provvedimento di questo genere. Purtroppo l’opinione pubblica è stata abituata ad avere la certezza di colpevolezza già dall’avviso di garanzia. E questo non va bene».

Cosa pensa dello scontro in atto alla Procura di Milano tra il capo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo?

«Il dissidio è forte. Ci penserà il Csm. Mi spiace soltanto che queste cose finiscano sui giornali. La gente cosa capisce della magistratura? E soprattutto, a che serve alla gente sapere che questo e quello stanno litigando? È tutto gossip che fa solo male alla giustizia».

Come disse una volta Luciano Violante, bisognerebbe separare le carriere dei magistrati da quelle dei giornalisti?

«Sì, bisognerebbe tagliare il cordone. Anche se io ho sempre avuto rapporti splendidi con i giornalisti. Se dicevo a uno di loro: “Guarda questa cosa che ti hanno spifferato è vera, ma non la scrivere sennò mi comprometti le indagini”, beh questi mi obbediva e non usciva niente. Poi è capitato qualcuno con l’ansia dello scoop che ha creduto di farmi fesso. Peggio per lui, l’ho messo nel libro nero e non s’è visto più. Così la pubblicazione delle intercettazioni, a mio parere non va bene. Però capisco la pressione che avete addosso voi giornalisti… Comunque è sempre una questione di persone. Con me non è potuto mai succedere. Chiaro che poi non è che puoi controllare tutti gli uffici. Come si vide con l’inchiesta Calciopoli, dove molti verbali vennero rubati e pubblicati in un vero e proprio volumetto e questo ci rovinò l’indagine».

Però, se il Csm funzionasse bene, sarebbe già una mezza riforma della giustizia, non crede?

«Credo che il Csm dovrebbe essere composto solo da magistrati. Che c’entra il cosiddetto “laico”? Il Csm svolge una funzione importantissima. Come le dicevo, l’ufficio del capo procuratore è decisivo per l’organizzazione e il coordinamento dell’attività requirente. Per questo il problema è come scegli e chi scegli ai vertici delle procure…»

Da quale corrente è stato portato all’ufficio di capo a Napoli?

«Da nessuna. Ho avuto la fortuna o la sfortuna, veda un po’ lei, di essere prescelto all’unanimità. Me ne stavo tranquillo e sereno in procura generale quando mi hanno chiesto di mettermi a disposizione per sanare un pesante conflitto che spaccava in due la procura. Non voglio parlare della situazione che trovai negli uffici, dico soltanto che grazie a un paziente lavoro di ascolto e di mediazione siamo riusciti a ricompattare la più grande procura d’Italia, con 116 procuratori. Le assicuro, non è stato uno scherzo».

Beh, i risultati insegnano…

«Ripeto, quando si devono scegliere i capi degli uffici requirenti bisogna ponderare bene le scelte. Fortunatamente io sono stato scelto sopra, sotto e oltre ogni corrente. E mi scusi se cambio argomento pensando alle correnti politiche in generale: che spettacolo è questo che non si riesce a eleggere due membri della Corte costituzionale perché, così si dice, la Corte ormai è un organismo politico? E allora aboliamola questa Corte invece di assistere a questo spettacolo indecoroso!»

In effetti Svizzera e Gran Bretagna, tanto per citare i primi due paesi che vengono in mente, non hanno la Corte costituzionale e non pare siano paesi incivili…

«Ma l’Italia ne ha bisogno, abbiamo una Costituzione che la prescrive, va interpretata, la Corte è indispensabile per dirimere i conflitti istituzionali».

Cosa pensa del moltiplicarsi delle leggi anti-corruzione, anti-riciclaggio, anti-autoriciclaggio e via discorrendo? Ormai si pensa che le leggi siano la bacchetta magica per risolvere tutto e non si risolve niente, anzi.

«È vero che il costume italiano è peggiore di altri. Però è anche vero che la corruzione c’è sempre stata. Che fai, fermi lo sviluppo perché prima dev’essere tutto pulito e moralizzato? Che fai, blocchi i cantieri perché c’è sempre qualcuno in “odore di mafia”? E poi che significa “in odore di mafia”? Che se c’è un tale, un operaio o un impiegato di una certa impresa che è legato a qualche cosca o ha la fedina penale macchiata, fermi tutto in nome della normativa antimafia? Adesso vedo che a Milano è arrivato Raffaele Cantone, un bravissimo collega, per vigilare sull’Expo. Ma che vuol dire “super magistrato”, “super procuratore”? E poi, in concreto, che vuole dire “vigilare”, che può fare? Non mi sembra che sia la via giusta quella di moltiplicare le authority e gli istituti cosiddetti “anticorruzione”. Cantone è bravissimo, per carità. Ma che può fare in concreto? Rischia di aggiungere carte a carte, burocrazia a burocrazia.  Vede, si moltiplicano gli organismi e le autorità, ma ancora non si fa abbastanza per far comprendere che il problema della corruzione è di cultura e di educazione. È qui che devi intervenire. Non puoi ridurre la giustizia a feticcio e aspettarti dalla magistratura la bacchetta magica per risolvere tutti i problemi. Il mestiere del magistrato non è quello di salvare il mondo. È quello di fare rispettare le leggi nell’interesse della giustizia, dello Stato e, prima di tutto, dei cittadini».

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

Equitalia, strozzini di Stato: per 2.100 euro ne vogliono 3 mila, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest'ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,66 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?». Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n.28 rate mensili». Rateizzare - Il piano di ammortamento - scrivono - è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi di mora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano. Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta. Tassi di interesse - Il primo gennaio 2014 scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: gli uffici giudiziari applicano il 4,5%. L'ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell'1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l'ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

Le Prove. La Prova scritta.

La prova scritta è in genere un tema o una griglia di test a risposta sintetica o una prova pratica. Solitamente è svolta in 1 o più giornate differenti su materie differenti, e può essere indifferentemente un giorno un tema ed il successivo una prova pratica, o una prova a risposta sintetica ed un tema ecc. ecc. Come nella prova preselettiva al candidato vengono consegnate due buste, una con il materiale d’esame e l’altra con il cartoncino su cui indicare il proprio nome, cognome e data di nascita. Lo scritto va fatto – brutta e bella – utilizzando esclusivamente i fogli messi a disposizione, che poi il candidato inserirà nella busta grande insieme alla busta piccola (chiusa) contenente il cartoncino con le generalità. Il bando dà indicazioni sui testi che è possibile portare con sé – normalmente il dizionario di italiano ed i codici senza commenti se la prova è di tipo giuridico. Attenzione, all’ingresso i testi possono venire aperti per un controllo e, se non rispondono per qualche ragione a quanto previsto, non vengono fatti entrare. Eliminate perciò fogli di appunti, temi, schemi ecc…Evitate per quanto possibile di portare fotocopie, che possono subire la stessa sorte. Se sono proprio necessarie, portatele ben rilegate. Tenete conto che le operazioni di controllo all’ingresso possono durare a lungo, specialmente nei concorsi con grande affluenza. E’ quindi molto frequente che dall’orario di convocazione – in genere le 9 del mattino – all’ora in cui ha effettivamente inizio la prova, possono passare 2,3,4 ore. Se aggiungete a queste le ore di durata effettiva della prova, capite quanto può essere importante avere con sé qualcosa da mangiare e da bere. Solitamente non è possibile alzarsi per le prime due ore.

Domande a risposta sintetica. Si tratta di un numero limitato di domande (di solito non più di sei) che hanno, oltre alla classica opzione della risposta multipla, anche alcune righe per la risposta sintetica. E’ un tipo di prova molto comune soprattutto sulle materie giuridiche ed è un tipo di scritto abbastanza ostico. Scrivere di diritto non è facile, essere sintetici ancora meno. Il testo scritto deve essere breve (tra le dieci e le venti righe), coinciso e il più possibile chiaro. Non deve semplicemente ripetere con altri termini la risposta già scelta tra le riposte fornite dal test, ma deve aggiungere qualcosa: la motivazione della risposta già data, il contesto, casi specifici ed eccezioni, ecc. Nell’allenarsi alla prova a risposte sintetiche, è sconsigliabile tentare di imparare quelle contenute nei testi di preparazione: quasi sempre niente ritorna alla memoria al momento opportuno, mentre è utilissimo allenarsi a scrivere testi brevi, utilizzando qualunque tipo di domanda a risposta multipla.

Prova pratica. E’ una prova pratica quella ispirata alla verifica delle reali capacità operative del candidato nel ruolo specifico che gli verrà affidato. Essendo diversa da mansione a mansione è quindi qui impossibile estrapolare degli esempi (la sua applicazione va dalla multa al caso clinico). Di solito quando un concorso prevede una prova di questo tipo, le editrici specializzate inseriscono uno schema all’interno dei testi di preparazione. Il suggerimento anche qui è di utilizzare il buon senso: la prova serve a verificare quanto il candidato riesca effettivamente ad utilizzare nella pratica le nozioni che ha acquisito, quindi va benissimo imparare schemi (moduli, procedure ecc), ma questi vanno utilizzati tenendo in debito conto del quesito proposto (che come sempre va letto molto attentamente) ed anche della nozioni teoriche sottese (implicate).

Tema. Il tema è una composizione scritta abbastanza lunga ed articolata – circa 3/5 facciate di foglio protocollo - ampiamente utilizzata nelle prove di concorso. Nei concorsi per diplomati, è più spesso di cultura generale, storia, italiano; si tratta quindi di uno scritto del tipo di quelli che si fanno alle scuole superiori. In questo caso quello che conta è che l’elaborato sia in italiano corretto e che sia chiaro e non contenga informazioni errate. Se invece il tema è di argomento giuridico la faccenda cambia. Il tema di diritto mette in difficoltà un po’ tutti, chi è laureato in materie giuridiche infatti è raramente abituato a scrivere, chi ha fatto altri percorsi di studio teme di non saper utilizzare adeguatamente il linguaggio giuridico. In tutti i casi, non c’è da perdersi d’animo: ci si riabitua a scrivere semplicemente allenandosi. Certo, specialmente chi non ha un background giuridico fa bene a seguire dei corsi, per affinare la terminologia in modo da non incorrere in errori concettuali gravi. Se chiarezza e completezza sono le carte vincenti, non vanno dimenticate la calligrafia – che deve essere il più possibile leggibile, e la lunghezza totale, che non deve essere eccessiva.

Diario di un commissario del concorso per magistrato: i trucchi per copiare, dal bagno alla nursery, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24ore”. Nelle ore immediatamente successive alla prova scritta per un posto da magistrato, uno dei 29 commissari, ha voluto riassumere in quattro paginette di appunti la sua esperienza al padiglione fieristico di Rho-Pero e aggiungere alcuni suggerimenti per rendere meno macchinosa, più corretta e trasparente la selezione dei togati. Ecco alcuni passi degli appunti del commissario, una probabile traccia per l'audizione davanti alla IX commissione del Csm. Durante i tre giorni delle prove scritte, a seguito di violazioni delle regole concorsuali, la commissione ha deciso diverse espulsioni, pare 70, anche se non conosco il numero esatto. Io stesso ho espulso un buon numero di candidati in poche ore. La maggior parte delle irregolarità consisteva nella detenzione di testi non consentiti. Ho sentito dire da più parti che con ogni evidenza il controllo dei codici non ha funzionato. Ma è proprio così? Per non drammatizzare inutilmente, basterebbe un semplice conteggio: ogni concorrente si presenta alla prova scritta con almeno 5 "pezzi" tra codici, raccolte di leggi, stampe da Internet ecc. Moltiplicando questa cifra (ottimistica) per 5.600 partecipanti, risulta che noi commissari abbiamo controllato non meno di 28mila testi. Se solo 2 su 1.000 sono sfuggiti al controllo – frazione senz'altro fisiologica se non virtuosa – possiamo concludere che una sessantina di casi sono apparentemente tanti, ma sono invece relativamente pochi. Esistono molte edizioni dei codici, quasi tutte volutamente ai limiti dell'ammissibilità e spesso con tanto di scritta in copertina che rassicura l'acquirente sul fatto che potrà usarlo durante la prova scritta. Ed è così: l'irregolarità non è per niente scontata e dipende dall'interpretazione della norma che esclude i testi con "note, commenti, annotazioni anche a mano". E allora perché tante edizioni border line? Alcuni di questi tomi sfruttano l'indice analitico che arriva così a occupare centinaia di pagine ed è talmente strutturato da poter fungere da tracce di elaborati; altri volumi recano abbondanza di richiami che non possono essere vietati perché riportati da tutte le edizioni, "Gazzetta Ufficiale" compresa. I candidati sono suddivisi per lettera in tante file e consegnano i testi ad altrettanti desk con un commissario che decide i casi dubbi. È ovvio che per evitare disparità di giudizi che finiscano in difformità sui criteri di sequestro, la soglia di ammissibilità è tenuta bassa. Anche perché, spesso si tratta di codici costosi, non pacificamente inammissibili, magari curati da colleghi magistrati, spesso recanti scritte rassicuranti e persino timbri di concorsi precedenti. Soprattutto, sequestrare i codici a Rho-Pero in prossimità della prova, significa di fatto lasciare il candidato senza testi da consultare perché, data la distanza dalla città, non è possibile andare in una libreria a Milano e tornare in tempo per l'esame. Oltre alle edizioni border line, è sempre più frequente che i candidati si presentino con pacchi di stampe dal computer: formati ammissibili, ma di difficile controllo. Ci sono poi i testi annotati a mano, non vietati automaticamente ma da valutare nel loro contenuto. Ci sono candidati disposti, per evitare il sequestro, a strappare o sigillare le parti vietate e rendere così utilizzabile un codice (sulla cui copertina resterà comunque scritto "commentato", cioè di fatto vietato). E va considerato che la legge di fatto incoraggia i tentativi di introdurre materiale illegale perché in sede di controllo pre-esame consente solo l'esclusione del testo e non anche del candidato: insomma, abbiamo dovuto vedere in aula candidati che il giorno prima avevano cercato di introdurre un vocabolario di italiano farcito con temi di diritto. È stato escluso il tomo, ma non il suo detentore. A parte i difficoltosi controlli dei giorni precedenti, anche il giorno della prova il materiale irregolare entra facilmente: la polizia penitenziaria esegue una perquisizione "leggera" all'ingresso, ma le piccole fotocopie nascoste sotto gli abiti ovviamente passano. I servizi igienici sono usati sia per scambiarsi parole veloci durante le code per entrare, sia per passare il materiale da una inaccessibile fodera a una comoda tasca. Da qui il divieto di andare al bagno prima di una certa ora, cui vengono opposte continue affermazioni di gravi problemi fisici, difficili da contestare in assenza di un commissario-medico. Ecco il motivo delle numerose deroghe al divieto, pur accompagnate da precauzioni aggiuntive come le perquisizioni prima e dopo, a meno che il candidato non accetti di lasciare la porta del bagno aperta, vigilato da un agente dello stesso sesso. Altro luogo "tentatore" è la nursery cui hanno diritto le candidate con infante da allattare. Ovviamente il bimbo è accudito da un parente, magari adatto a consultazioni o che si presta a "importare" materiale proibito.

Questo succede durante le prove scritte. Nessuno sa quello che succede dopo. La verità si scopre attraverso i ricorsi al Tar.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

Medicina, storia del concorso delle polemiche. "Test copiati, quiz rimossi e compiti modificati". L'esame per l'accesso alle scuole di specializzazione dello scorso novembre 2014 doveva eliminare il problema dei baronati. Ma dopo le polemiche sulle domande sbagliate, l'Espresso ha visionato il ricorso presentato dai candidati al Tar. E dentro viene denunciato davvero di tutto, scrive Martino Villosio su “L’Espresso”. Doveva essere il concorso del merito, della trasparenza, dei parametri standard di valutazione, immune finalmente da localismi e al riparo dalle grinfie dei baroni. Tutti i candidati, dal Friuli alla Sicilia, davanti a un pc, niente carta e penna, un salvataggio a fine prova, un meccanismo di correzione costruito per essere impermeabile a qualunque ipotetico sospetto di violazione dell'anonimato. A distanza di tre mesi, invece, la lista completa di verbali, atti e documenti relativi al primo concorso pubblico per l'accesso alle specializzazioni di medicina gestito a livello nazionale con graduatoria unica svela il tracollo di premesse e promesse. Un tradimento che ha già portato tanti giovani medici ad abbandonare l'Italia, ancor prima di attendere le decisioni della giustizia amministrativa sommersa dai ricorsi. Punteggi sbagliati, pc in rete. Sedi non idonee, controlli non omogenei delle singole commissioni, router nascosti nei cappotti e pc collegati in rete durante le prove in alcuni atenei, foto che mostrano chiaramente come in certe aule i candidati fossero seduti a distanza ravvicinata tanto da costringere il Miur a sferzare le commissioni con una circolare dopo il primo giorno di test. E ancora singole aule in cui tutti i candidati hanno totalizzato punteggi stellari e perfettamente combacianti, centinaia di black out e guasti ai computer che hanno consentito ai più fortunati di veder raddoppiato il tempo a disposizione per rispondere alle domande, "bachi" nel sistema informatico, punteggi affissi in graduatoria diversi da quelli visualizzati dai candidati al termine delle prove e ricorretti in fretta e furia solo grazie all'attenzione e alle proteste degli interessati. Computer così vicini da permettere di copiare. A suggello di tutto le mani non meglio identificate di chi, denunciano gli avvocati dei ricorrenti, ha potuto incredibilmente entrare nelle prove di tutti i candidati modificandole dall'interno in violazione dello stesso principio che il nuovo concorso era nato per salvaguardare: proprio quello dell'anonimato. Tutto questo viene oggi ad aggiungersi a quanto di clamoroso emerse a inizio novembre, a concorso appena finito: il pasticcio dell'inversione dei quesiti di due differenti aree del test (quella medica e quella dei servizi clinici) da parte del consorzio Cineca incaricato di preparare le prove, il ministero dell'Università e della Ricerca che prima annuncia la scelta di annullare quelle oggetto dell'errore poi, dopo due giorni, fa marcia indietro e sentito il parere dell'Avvocatura sceglie di abbonare quattro domande (in seguito diventate sei) a tutti i candidati, dando loro il massimo punteggio a prescindere dalla maggiore o minore correttezza delle risposte fornite.
Uno scandalo già rimosso. Un caso dai contorni surreali, l'ultimo pugno nello stomaco di una generazione di aspiranti camici con la valigia in mano, archiviato dai media e dal dibattito politico con molta più fretta di quanto ci si sarebbe potuti aspettare nell'Italia che insegue la svolta all'insegna della gioventù e della meritocrazia. L'Espresso ha potuto visionare in anteprima questa galleria di irregolarità e superficialità, alla vigilia dell'udienza del 12 febbraio davanti al Tar del Lazio chiamato a prendere in esame parte dei ricorsi presentati per l'annullamento delle graduatorie. Una lista contenuta nella lunga memoria depositata lo scorso 26 gennaio dall'avvocato Michele Bonetti, il legale che tra l'estate e l'autunno dello scorso anno ha già ottenuto l'ammissione con riserva ai corsi di laurea delle facoltà di medicina di tutta Italia di 5.000 studenti respinti ai test d'ingresso e che, insieme al collega Santi Delia, ha curato anche i ricorsi degli aspiranti specializzandi. Insomma un elenco fornito da una parte con precisi e concreti interessi nella partita, ma puntellato da un corposo dossier di carte ufficiali finito all'attenzione della magistratura in sede penale. Aule inidonee, punteggi stellari. Il primo cardine su cui doveva poggiare il nuovo concorso, ovvero l'omogeneità della selezione a livello nazionale, ha retto a stento davanti alle carenze organizzative di alcune aule. L'articolo 2 comma 4 del bando disponeva che almeno 20 giorni prima della prova di esame il Miur dovesse comunicare sedi e orario di svolgimento. Le aule però sarebbero state reperite solo qualche giorno prima dei test, non solo nelle università ma anche in centri di formazione professionale e istituti privati. Come emerge da alcuni verbali e dalle foto pervenute al sito de "l'Espresso", in alcune di esse i candidati erano talmente vicini da consentire a tutti di poter leggere tranquillamente dallo schermo del collega. Un monitor che, a differenza dei classici fogli A4 contenenti 4 o 5 domande, proiettava a visione intera un solo quesito alla volta con la relativa risposta del candidato. Più piccole erano le aule, riporta l'avvocato Bonetti nella sua memoria, più palese è stato il numero di concorrenti con punteggi identici. Come a Catania, dove nell'aula 10 - durante l'ultimo giorno di prova - su 12 partecipanti concorrenti per Anestesia, in 10 hanno avuto l'identico alto punteggio di 17,4 su 20. O a Bari, dove il 31 ottobre durante la prova dell'area dei servizi di fatto non di competenza dei candidati (perché si scoprirà che le domande erano state invertite con quelle di area medica) in un'aula 12 candidati su 14 ottengono lo stesso score: di nuovo 17,4 su 20. A Milano i candidati chiedono che sia messo a verbale che i pc sono troppo vicini e corrono voci di "copiature frequenti e uso di cellulari presso altre sedi". A Trieste è addirittura la stessa commissione ad alzare bandiera bianca: "Risulta materialmente impossibile", recita il verbale del 30 ottobre per l'aula F, "collocare tutti i candidati in modo alternato, si decide di far prendere posto ai candidati seduti necessariamente vicini nelle posizioni di massima visibilità". Black out, web libero e bug informatici. Sono centinaia i casi a verbale di black out energetici in diverse sedi di concorso. In alcune i candidati, dopo aver letto le domande e addirittura aver terminato la prova, hanno potuto ripeterla visto che i pc si spegnevano o non rispondevano ai comandi. Aule intere hanno subito la sospensione dell'energia dopo che erano state lette le domande della prova. Durante le operazioni di ripristino, a Chieti, i candidati hanno addirittura potuto riprendere i propri cellulari collegati in rete. In altre sedi, come risulta a verbale, i pc erano invece collegati via cavo alla rete LAN o avevano accesso alla rete wi-fi consentendo la navigazione sul web attraverso router portatili lasciati dai candidati nei cappotti. Uno di questi casi è documentato a Napoli, presso l'università Suor Orsola Benincasa. Alla Seconda Università di Napoli, il 31 ottobre, dopo 16 episodi di malfunzionamento dei pc la prova viene interrotta e fatta ripetere ai candidati. A Ferrara addirittura salta un'intera fila di computer, obbligando ormai a fine prova a far rifare il test a tutti i candidati della fila. Tragicomici, poi, alcuni degli episodi segnalati sempre a verbale: come a Padova, dove durante la prova un candidato - ricontrollando i test - si rende conto a un certo punto che in alcuni casi le risposte da lui date risultano modificate. Colpa di un bug informatico che fa sì che il concorrente, anche semplicemente muovendo il mouse sulla parte bianca dello schermo, intervenga sull'opzione appena spuntata senza rendersene conto. Un'anomalia denunciata anche a La Sapienza. Centinaia anche le segnalazioni di aspiranti specializzandi che hanno trovato un punteggio affisso diverso da quello visualizzato dopo la prova e regolarmente salvato. Come a Genova, dove lo score di una candidata era stato prima salvato come 34,1 e poi - il giorno dopo - riverificato essere 33,8. Se l'interessata non avesse chiesto di eseguire un controllo, essendo convinta del suo risultato iniziale, l'accaduto non avrebbe mai potuto essere ricostruito. Pipì nel cestino. Anche nella severità con cui le commissioni hanno fatto rispettare i regolamenti emergono forti discrepanze. Nonostante il bando del 4 agosto 2014 specifichi chiaramente che "il Ministero definisce ogni elenco d'aula avendo cura di distribuire i candidati secondo l'ordine anagrafico", in alcune sedi è stato concesso agli aspiranti specializzandi di scegliere liberamente il posto. In un verbale dell'ateneo di Udine viene riferito candidamente che "ciascun candidato si colloca a sua scelta in una delle postazioni disponibili". A Palermo la commissione controbatte addirittura a un candidato che, bando alla mano, chiedeva il rispetto dell'ordine alfabetico. D'altro canto persino il video esplicativo sulla procedura di accesso alle aule del Miur, disponibile sul sito , indicava la possibilità di scegliere liberamente dove sedersi in piena contraddizione con il bando. Il video è stato poi successivamente modificato a concorso concluso. Il rigore in ordine sparso delle varie commissioni ha riguardato anche la possibilità di andare in bagno: a Pisa e Pavia è stato consentito, a Firenze invece un candidato è stato costretto a urinare nel cestino della carta. Le domande abbonate: nuovi interrogativi. Non è la prima volta che il consorzio interuniversitario Cineca, incaricato di somministrare i test nei concorsi, combina errori che impattano su vite e carriere. Basti pensare al "famoso" concorso del 2012 per l'accesso ai TFA, i tirocini formativi per l'abilitazione all'insegnamento, nel quale 25 domande su 60 furono annullate. Questa volta l'anomalia è avvenuta nella fase di preparazione delle buste: le domande che avrebbero dovuto essere sottoposte ai candidati per le scuole di area medica il 28 ottobre sono state invece somministrate il 31 ottobre nella prova per l'area dei servizi clinici, e viceversa. Il primo novembre il Miur annuncia con un comunicato stampa sul sito che le prove in questione sono da ripetere. Due giorni dopo, al termine di una riunione tra il ministro Stefania Giannini e la Commissione nazionale incaricata di validare le domande dei quiz, sempre tramite nota stampa arriva il contrordine: siccome l'inversione ha riguardato solo le 30 domande comuni a ciascuna delle due aree, e non i 10 quesiti specifici per ciascuna tipologia di scuola (cardiologia, necrologia, endocrinologia etc.), l'esito dei test si può salvare "neutralizzando" le sole due domande per ciascuna area che sono state giudicate non pertinenti dalla Commissione di esperti. In pratica a tutti i candidati, a prescindere dalla maggiore o minore correttezza della risposta fornita, viene assegnato per quelle domande il massimo punteggio. Da quel momento, e dopo le dimissioni rassegnate dal presidente del Cineca Emilio Ferrari, si chiude il sipario mediatico sulla vicenda. Adesso però, dai verbali delle singole commissioni sparse per l'Italia, da quello della riunione del 3 novembre tra Miur e Commissione nazionale e da una perizia di parte del dottor Gianluca Marella (docente a Tor Vergata e consulente tecnico della procura di Roma) emergono elementi nuovi. Emerge chiaramente, ad esempio, come in diversi casi gli stessi candidati abbiano riscontrato e segnalato ai commissari l'inversione dei quiz già nel corso delle prove, che tuttavia non sono state interrotte. Nel verbale della riunione di Roma del 3 novembre, inoltre, si legge che "delle 30 domande contenute nella prova di area medica del 29 ottobre, 27 sono riconducibili ai 5 settori scientifici disciplinari comuni tra l'area medica e quella dei servizi, 1 quesito è riferibile al settore scientifico disciplinare della farmacologia". Tradotto: le domande non pertinenti all'area medica, e quindi da abbonare, in base a quanto dichiarato dalla stessa Commissione nazionale non sono due ma tre. Perché allora il quesito di farmacologia non è stato abbonato? Non solo. Nel verbale del 3 novembre la Commissione conclude che la scelta di invalidare le quattro domande di area non influisce sulla validità complessiva dei test, perché le domande più importanti - quelle relative alle scuole di specialità cui sono attribuiti il doppio dei punti - non hanno determinato problematiche. Eppure, dopo la stesura dell'atto, sulla base di un altro verbale, che conclude una riunione del 4 novembre cui prendono parte solo il presidente della medesima Commissione nazionale e un rappresentante della società Selexi, si provvederà ad abbonare altre due domande: stavolta relative proprio ad altrettante scuole di specializzazione (una di Cardiologia e un'altra di Endocrinolgia). Un totale di 6 quesiti abbonati attraverso dei semplici verbali, senza l'intervento di un apposito provvedimento ministeriale indispensabile - sostengono gli estensori dei ricorsi - per modificare un bando di concorso approvato con decreto. Prove modificate dall'interno. Alla scelta di abbonare le sei domande, accusano i legali dei ricorrenti, è seguita una procedura inedita. Invece di limitarsi ad aggiungere il punteggio delle domande in questione alla graduatoria finale, Cineca e Miur sono entrati nei singoli compiti inserendo a livello informatico i codici fiscali e hanno modificato dall'interno le risposte dei candidati, che non hanno in questo modo neanche più la certezza di quali risposte abbiano fornito, visto che le prove erano soltanto digitali. La decisione di intervenire sulle prove già svolte è avvenuta dopo che i punteggi dei singoli candidati erano già pubblici e le graduatorie già in mano al Cineca: cioè dopo che ad ogni compito era stato dato un nome. E così, tra accessi non verbalizzati nei compiti e interventi postumi sulle domande, lo scopo principale del nuovo concorso a graduatoria nazionale, quello di garantire la segretezza e la trasparenza della selezione e l'anonimato dei candidati, potrebbe essere stato compromesso. Mancano i soldi. Davanti a questo nutrito elenco di contestazioni, l'Avvocatura dello Stato ha messo le mani avanti. "Nella denegata ipotesi in cui i ricorsi relativi al contenzioso venissero accolti", recita un documento redatto dal Miur e da poco depositato davanti al Tar del Lazio, "una ammissione in sovrannumero comporterebbe ripercussioni economiche considerevoli, in quanto imporrebbe allo Stato il reperimento delle risorse finanziarie necessarie all'erogazione di ulteriori contratti di formazione specialistica". "Anche l'ammissione di un solo medico in più", prosegue minaccioso il documento, "comporterebbe l'onere di reperire risorse aggiuntive da stanziare tramite appositi provvedimenti legislativi (circa 125.000 euro in più per ogni specializzando)". Una mossa legittima, anche se i giovani ricorrenti meriterebbero forse un giudizio - decisivo per il loro futuro - capace di entrare nel merito delle irregolarità denunciate senza fermarsi davanti allo spauracchio della spesa pubblica. Dal Paese che li spinge in massa verso l'estero dopo anni di sacrifici sui libri, meriterebbero maggiore considerazione e trasparenza.

Concorsi pubblici, tutti i casi sospetti. Il pasticciaccio delle scuole di specializzazione in medicina, per il quale i giovani medici manifestano a Roma, è l’ultimo episodio di un lungo elenco di irregolarità, favoritismi e trucchi. Dalla Farnesina alla Polizia penitenziaria nessuno è escluso. A partire dalle selezioni per insegnanti e ricercatori, scrive Michele Sasso su  “L’Espresso”. Una manifestazione di specializzandi di medicina a Roma. Le prove, l’errore e il dietrofront. Dopo giorni di polemiche, il ministero dell’Istruzione cerca di mettere una pezza al pasticciaccio  del concorsone per l’accesso alla scuole di specializzazione in medicina. Un test fondamentale per accedere alle oltre cinquemila borse di studio diventato tristemente famoso per l'annullamento che ha colpito più di 11mila candidati. Dopo avere rilevato una “grave anomalia” il ministro Stefania Giannini ci ripensa e annuncia: «Le prove per l’accesso del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test». Una pezza dopo l’annuncio di una valanga di ricorsi. Le dimissioni di Emilio Ferrari, il responsabile del Consorzio universitario che ha preparato il test di ingresso, non sono servite a stoppare la manifestazione davanti al Miur. In piazza i giovani medici che la settimana scorsa hanno partecipato alle selezioni. Non è la prima volta che un concorso pubblico finisce con una figuraccia e una protesta di piazza. Tra caos, ricorsi, graduatorie ritoccate e interventi della Magistratura non c’è settore della pubblica amministrazione immune all’aiutino. Il prestigioso posto di ambasciatore junior del ministero degli Esteri si è trasformato, secondo le critiche, in una corsia preferenziale per chi ha parentele famose. In ballo 35 posti per il gradino più basso della carriera alla Farnesina: la questione è finita con otto interrogazioni parlamentari e ombre pesanti sul ministero degli Esteri. Perfino alle prove per diventare poliziotti si scoprono bluff. Lo scorso maggio alla scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Roma si aprono le porte ai concorrenti al concorso pubblico per 208 posti di agente. Test e prove attitudinali per andare a lavorare nelle carceri italiane. Durante gli scritti la commissione esaminatrice scopre tre aspiranti con in tasca le risposte esatte ai quiz di selezione. L’elenco delle valutazioni sballate, superficialità e grossolani errori per scegliere gli insegnanti della scuola italiana è lungo. Nel 2010 nel concorso per dirigente scolastico il Ministero mette online i temi delle prove e arrivano una valanga di segnalazioni. Tanti, troppi errori e un quiz su sei viene ritirato. Nonostante gli accorgimenti all‘apertura delle buste nei cento quiz c’erano ancora degli strafalcioni. Per i tirocini formativi attivi (Tfa) obbligatori per diventare insegnanti si replica con ancora quiz errati e si ottiene ammissione dei ricorrenti alle prove scritte. Per l’ultimo concorso a cattedra la Giannini è stata costretta a un decreto correttivo. «Ogni volta è la stessa storia», commenta Marcello Pacifico del sindacato Anief:«Non sono le dimissioni di un presidente ma la gestione delle prove selettive che non trova mai un responsabile. Non è possibile che proprio le domande e le risposte per accertare il merito contengano degli errori». Tra le maglie delle selezioni anche casi clamorosi di familismo amorale e concorsi truccati su misura. A Palermo la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio dell'ex preside della facoltà di Medicina Giacomo De Leo e di Salvatore Novo, professore ordinario e direttore della scuola di specializzazione in Cardiologia dell'università locale insieme ad Alberto Balbarini, docente di malattie cardiovascolari a Pisa. Complici e menti (con l’accusa di truffa, soppressione di atto pubblico e falsità ideologica) di un presunto concorso truccato per un posto da ricercatore universitario nel loro dipartimento bandito nel lontano 2004. Il concorso, secondo gli inquirenti, venne truccato per consentire alla figlia di Novo, Giuseppina, l'aggiudicazione del posto. L'inchiesta parte da Bari, e indaga su una serie di concorsi truccati in diverse facoltà della Penisola. Secondo gli investigatori, ci sarebbe stato un vero e proprio accordo tra Novo e De Leo per far vincere il concorso alla figlia del cardiologo. A garantire il posto assegnato a tavolino doveva essere Mario Mariani, altro docente universitario di Pisa, nominato membro della commissione esaminatrice. All'ultimo momento, però, Mariani scopre di essere indagato dai pm baresi e fa un passo indietro. È allora che, secondo i magistrati, i due docenti distruggono il verbale con cui Mariani era stato designato commissario d'esame e lo sostituiscono con uno identico in cui mettono il nome di Balbarini. Quest'ultimo, vicino a Mariani, sarebbe stato al corrente di tutto. Dopo dieci anni la ricercatrice ha fatto carriera e oggi può vantare il titolo di docente alla scuola di specializzazione in cardiochirurgia. L’ateneo? Quello di Palermo, naturalmente.

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

Si stava meglio quando si stava peggio? Italia, declino inevitabile: dove andremo a finire?

A leggere i giornali od a seguire i Tele Giornali o i talk show in tv cerco di carpire qualche notizia che parli di me: di me cittadino. Cerco qualcuno che parli dei miei problemi.

La pagina politica parla delle solite promesse, dei soliti sprechi e dei soliti privilegi.

La pagina della giustizia parla dei soliti morti, dei soliti arresti e delle solite condanne, oltre che della solita mafia: una rassegna dei successi di magistrati e forze dell’ordine, insomma.

La pagina degli esteri parla delle solite guerre e dei soliti cattivi da eliminare.

La pagina finanziaria parla di default, tasse e soldi per lo Stato che non bastano mai e della ovvia evasione fiscale dei soliti ricchi.

Per lo spettacolo e lo sport la solita rassegna di pettegolezzi di star e starlette senza arte né parte.

A parer dei media sembra che la vita scorra monotona lungo questi binari, salvo qualche problema che, però, a parer dei lettori e telespettatori, appare colpire solo gli altri.

Ma non è così. A spulciare nelle notizie, c’è tutta una quotidianità di cui nessuno parla: la lotta alla sopravvivenza delle famiglie italiane nella assoluta solitudine e nel generale sottaciuto abbandono.

Chi ha qualche anno di vita, (chi troppi, chi pochi) ricorda che:

prima il potere era del popolo: oggi non più, il potere è delle mafie, delle caste, delle lobbies e delle massonerie deviate;

prima c’era meno illegalità, meno obblighi, meno sanzioni e c’erano meno leggi da rispettare, specie quelle a carattere emergenziale: oggi anche un giurista insigne pecca di ignoranza giuridica;

prima nel nome della legalità c’era meno illegalità ed iniquità: oggi l’ingiustizia abbonda e gli abusi di potere strabordano;

prima c’era più rispetto e credibilità negli anziani, nei magistrati e nelle istituzioni: oggi non ci sono più esempi degni da seguire e non abbiamo stima nemmeno per noi stessi;

prima pur con tangentopoli, c’era meno ladrocinio e le mafie non avevano invaso l’Italia: oggi la corruzione e l’abuso di potere è la normalità e la mafia è dappertutto;

prima l’usuraio era l’amico: oggi non più, usuraio è lo Stato o le banche;

prima si pagava un decimo di tributi rispetto ad oggi e si otteneva 10 volte tanto in termini di servizi;

prima nella disgrazia potevi parlare con il politico che votavi ed il minimo che succedeva era che ti ascoltava ed il favore lecito, spesso, ci scappava: oggi non è più così, perché i politici sono tutti degli emeriti sconosciuti e se ti rapporti con loro disattendono il loro mandato;

prima nell’errore speravi nella coscienza delle istituzioni e tutto si aggiustava secondo equità: oggi non è più così, perché più che il principiò di legalità vale l’interesse estremo a punire, per salvaguardia finanziaria del proprio status di sanzionatore;

prima c’era più Empatia, ci si metteva nei panni dell’altro, si condividevano sentimenti, emozioni e sofferenze: oggi non più, c’è più Dispatia, ovvero l'incapacità o il rifiuto di condividere i sentimenti o le sofferenze altrui, ovvero c’è più Alessitimia, ossia il disturbo specifico nelle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo delle persone;

prima nell’avversità c’era qualcuno che pubblicamente denunciava sui giornali la tua questione: oggi la notizia è omologata nella censura e se, al contrario, è resa pubblica, lo scandalo non produce effetti;

prima nell’avversità c’era una famiglia, spesso numerosa e con genitori pensionati, che ti sosteneva: oggi siamo soli nell’indifferenza, nell’indisponenza, nell’insofferenza e gli anziani non hanno più figli al capezzale ma solo badanti straniere;

prima si era più ricchi di affetti e di beni materiali: oggi amici non ne hai ed i parenti meglio non averli e se hai un bene materiale te lo toglie la criminalità o lo Stato;

prima nel bisogno il lavoro era tutelato e comunque si trovava, anche negli uffici di collocamento, o addirittura anche a nero o sottopagato: oggi non più assolutamente, nonostante i centri per l’impiego e le agenzie interinali;

prima a veder un clandestino era un’eccezione, oggi è la regola;

prima gli unici ad essere discriminati erano i meridionali: oggi si discrimina tutto e tutti e si uccide per questo (religione, razza, sesso, ideologia politica, tifo sportivo, gusti sessuali, ecc.);

prima si era più sinceri e diretti: oggi si è politicamente corretti, perbenisti e buonisti, ossia più demagoghi, utopistici, falsi e bugiardi;

prima nell’intraprendenza l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, nonostante i disastri meteorologici, erano attività in cui si riusciva ad andare avanti: oggi le campagne sono abbandonate, troppi, cavilli, oneri e spese;

prima nel rischio le imprese, grandi o piccole, riuscivano a produrre reddito: oggi non più, perché sono vessate dallo Stato da controlli, oneri, cavilli e balzelli e tributi e comunque da questo Stato non tutelate dalla competitività estera, o taglieggiate dalla criminalità, o sequestrate e portate al fallimento dallo stesso Stato perché accusate di essere colluse con la criminalità, o, seppur operanti da decenni, chiuse ora perché inquinanti;

prima le professioni si potevano esercitare: oggi non più, perché hanno chiuso gli ospedali ed i tribunali ed impediscono di esercitare. Prendiamo per esempio la professione di avvocato. Hanno chiuso moltissimi tribunali. Hanno impedito la tutela legale per i sinistri stradali e le sanzioni amministrative. Settori utili per i neo professionisti. Non sono certo, però, diminuite, come promesso, le polizze assicurative. Hanno eliminato di fatto il gratuito patrocinio, con condanne inevitabili per gli indigenti, ed in generale il ricorso all’autorità giudiziaria, con il contributo unico unificato elevato. Tra Giudici onorari di Tribunale, Giudici di Pace, Conciliazione obbligatoria e Negoziazione assistita hanno eliminato quasi tutto il lavoro dei magistrati togati, impegnati come sono a fare esclusivamente politica,  ma la lentezza della giustizia è rimasta. Hanno imposto ai giovani avvocati in tempo di crisi l’iscrizione alla Cassa Forense ed imposto in tempo di vacche magre l’esercizio della professione legale in maniera continuativa e prevalente. Ecco i punti fissati dal Governo:

a) la titolarità di una partita Iva;

b) l’uso di locali e di almeno un’utenza telefonica destinati allo svolgimento dell’attività professionale, anche in forma collettiva (associazione professionale, società professionale, associazione di studio con altri colleghi);

c) la trattazione di almeno 5 affari per ogni anno dei 3 presi in considerazione, anche se l’incarico è stato inizialmente conferito ad altro legale;

d) la titolarità di un indirizzo Pec comunicato al Consiglio dell’ordine;

e) l’avere assolto l’obbligo di aggiornamento professionale secondo modalità e condizioni stabilite dal Cnf;

f)la stipula di una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile che deriva dall’esercizio della professione;

g)la corresponsione dei contributi annuali dovuti al Consiglio dell’ordine;

h) il pagamento delle quote alla Cassa di previdenza forense.

Sig. direttore, lei, meglio di me, sa che prima si poteva criticare e protestare: oggi non più perché abbiamo un bavaglio. Tra la legge sulla privacy e lo spauracchio delle norme penali sulla diffamazione tutto ciò è impedito.

Oggi non puoi nemmeno recriminare con una imprecazione: “Italia di Merda” perchè segue una condanna certa.

Allora… si stava meglio quando si stava peggio? E dove andremo a finire? E comunque, per gli italiani perché non vale la teoria sull’evoluzione migliorativa naturale della specie?

Europa, i napoletani guadagnano meno dei polacchi. E in altre zone d'Italia non va meglio. Secondo i dati più recenti dell'istituto di statistica europeo il reddito medio in provincia di Napoli è ormai inferiore a quello medio della Polonia. Nei primi si ferma a 16.100 euro l'anno, mentre per i secondi è più alto di 300 euro, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Se un amico di Napoli vi confida che vuole emigrare in Polonia, non chiedetegli se è diventato matto: per come vanno le cose l'idea potrebbe quasi avere senso. Secondo i dati dell' Istituto di statistica europeo , aggiornati al 2011, il reddito medio dei napoletani è ormai inferiore a quello dei polacchi. Nei primi si ferma a 16.100 euro l'anno, mentre per i secondi è più alto di 300 euro. L'area d'Europa con il PIL più alto è invece la parte occidentale di Londra, cuore finanziario della Gran Bretagna, dove la media supera i 150mila euro. Ma in Italia c'è chi è messo ancora peggio. Nella provincia di Medio Campidano, in Sardegna, il reddito è di 11.200 euro l'anno: poco meno che in Bulgaria. Seguono Caserta e Agrigento, intorno ai 13mila e qualche centinaio di euro in più rispetto a un abitante medio della Romania. Resta forte la divisione nord-sud, anche se in quest'ultimo spicca la provincia di Catanzaro che supera i 20mila euro l'anno – fatto praticamente unico nel meridione –, mentre al centro si distingue Rieti; chi vi abita ha in media un reddito più basso di quello dei vicini. Roma è un caso a parte. Essere il centro della burocrazia italiana, con il relativo carico di retribuzioni elevate, non può che portare a risultati maggiori: un elemento che in qualche misura sposta i redditi – ma non per forza quanto poi si produce davvero – verso l'alto. Al nord invece i milanesi hanno un reddito medio di 45.600 euro, quasi il doppio della media europea. Un valore senz'altro elevato, ma forse neppure troppo per quello che dovrebbe essere il centro della borghesia produttiva italiana. Senza neppure arrivare a Londra, in cui i tanti stranieri della City finanziaria renderebbero il confronto poco sensato, basta andare in Francia o in Germania – a Monaco, Parigi o Bonn – per trovare diverse aree in cui il reddito si aggira o supera i 60-70mila euro a persona. I dati non considerano solo quanto le persone producono, ma tengono in conto anche il diverso costo della vita. Affitti più alti e beni più economici, servizi a buon mercato o meno: tutti fattori che nella vita concreta contano almeno quanto lo stipendio che riceviamo. Si tratta del modo più accurato per capire qual è il reale tenore di vita delle persone in un regione piuttosto che in un'altra. Come succede di consueto quando si calcola il PIL, è inclusa anche una stima (più o meno accurata) dell'evasione fiscale. Eppure basta tornare qualche anno indietro per capire come i problemi italiani siano tutt'altro che nuovi. La crisi non ha fatto che pesare su un sistema già affaticato – in alcune zone più che in altre. Basilicata, Puglia e Calabria, per esempio, già prima della recessione del 2008 crescevano poco – meno dell'1% l'anno. Emilia Romagna, Marche e Lazio avevano invece un ritmo più elevato, intorno al 2%. Il motore pare inceppato da tempo: già intorno al 2002-2003 in diverse regioni il reddito ha fatto un salto indietro, per poi calare a picco dal 2008. In Molise la recessione ha fatto più danni: fino al 2011 l'economia è decresciuta in media del 2,9% l'anno; meno in Campania, con una caduta dell'1,8%. Seguono Calabria (-1,7%), Sicilia e Basilicata (-1,6%). Quando gli altri cadono – magra consolazione – anche restare fermi è un segnale positivo. È il caso di Lombardia e provincia di Bolzano, dove invece le cose sono rimaste stabili oppure la diminuzione è stata minima. Guardando a come vanno le cose provincia per provincia abbiamo un quadro più dettagliato, ma anche meno recente – per il momento i dati arrivano solo al 2011. Che napoletani e siciliani abbiano recuperato qualcosa, nel frattempo? L'unico modo per farsi un'idea è guardare a come sono andati i paesi nel loro complesso. Anche così, però, l'Italia resta quella che fa peggio. Non solo l'economia non recupera quanto aveva perso dall'inizio della recessione, ma continua a cadere ancora. Nel 2012 e 2013 la crescita media è stata molto negativa: la Spagna arretra ma meno, Francia e Germania crescono – molto poco – mentre nel Regno Unito va abbastanza meglio. Nulla di impressionante, certo, eppure nel regno dei ciechi l'orbo è re. Dunque è ancora vero che i napoletani guadagnano meno dei polacchi? Una cosa è certa: negli ultimi due anni questi ultimi sono andati avanti, mentre l'Italia è tornata ancora più indietro. Non solo il divario potrebbe essere rimasto, ma ci sono buone ragioni per pensare che sia aumentato. Chi più in fretta, chi trascinando i piedi, resta il fatto che diversi paesi stanno cominciando a uscire dalla crisi. Molti, ma non l'Italia. Chissà che l'amico napoletano non abbia tutti i torti.

Disoccupazione, i numeri fanno paura. Quella verità nascosta nelle statistiche. Fermarsi a leggere solo il dato generale di chi non ha un lavoro è un errore: i numeri in nostro possesso mostrano  fenomeni meno noti, che interessano soprattutto donne e giovani. Mentre il titolo di studio sembra ancora l'unico antidoto al rimanere senza impiego. Naviga i nostri grafici interattivi, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Una manifestazione del 2011 contro la disoccupazione giovanile Quando si parla di disoccupazione la cosa più semplice è elencare il solito numero - i soliti due numeri - e fermarsi lì. Sono quelli che sono stati ripetuti negli ultimi giorni: il tasso di disoccupazione generale è al 12,6 per cento, quello dei giovani fra 15 e 24 anni è al 43,3 per cento. Al crescere dell'età le cose migliorano, certo, ma restano tutt'altro che confortanti. Eppure la realtà è più complicata, e se si scava più a fondo nelle statistiche il quadro diventa forse ancora più buio: sicuramente più sfaccettato. Eurostat e Istat raccolgono informazioni sul lavoro anche a livello regionale, aggiornate al 2013; e sono dati che mostrano l'enorme differenza che esiste non solo fra paesi europei, ma anche all'interno degli stessi. Eppure, nel fare confronti fra paesi, i dati vanno guardati con prudenza. Il tasso di disoccupazione indica infatti quante sono le persone senza lavoro, ma solo fra quelle che un lavoro lo stanno cercando. Più di tre milioni, secondo le ultime stime: certo non un italiano su dieci o un giovane su due, come si sente dire ogni volta, ma comunque troppo. Il paragone naturale è con i vicini spagnoli. Ma proprio in Spagna, che nella mappa della disoccupazione risalta come una grande macchia rossa, secondo la Banca Mondiale la partecipazione al mercato del lavoro è più alta - in particolare per le donne e nelle aree più povere. In questi gruppi, ovvero, sono molti coloro che dichiarano di essere alla ricerca di un impiego. In Italia vale l'opposto: sono meno le persone che risultano alla ricerca di un lavoro e questo spinge il dato della disoccupazione verso il basso. D'altra parte in Italia e Spagna il numero di persone effettivamente occupate, rispetto al totale della popolazione, è più o meno lo stesso. Dunque la differenza, tutto sommato, è molto minore di quello che sembra. Non è il solo caso. In generale, prima di fare paragoni, bisogna fare attenzione a quei paesi in cui, per esempio, donne e giovani tendono a partecipare di più al mercato del lavoro. È il caso di Germania, Francia e - appunto - della stessa Spagna. Questo però non vuol dire che la situazione sia grave ovunque allo stesso modo; al contrario. Proprio in Italia considerare solo il tasso di disoccupazione generale nasconde le situazioni più diverse: soprattutto in alcune province, soprattutto per i giovani - e ancora di più per le donne. Tutti casi in cui la realtà è molto più difficile di quello che sembra. Prendiamo tre persone diverse: Luca, 40 anni, di Milano; Giulia, una trentenne romana; Sofia, appena diplomata a Napoli. Il primo è riuscito a trovare lavoro, e come lui diversi amici e amiche: a Milano essere uomo o donna non fa grande differenza. Giulia salta da un breve impiego all'altro, ma con la crisi le cose sono diventate più complicate. Trovare un nuovo lavoro è difficile, e non solo per lei: a Roma succede lo stesso a una donna su sei nelle sue condizioni. Sofia invece vorrebbe cominciare a lavorare subito dopo aver finito la scuola, ma non può. A Napoli per andare avanti ci vuole fortuna e bravura - o entrambe - quando tre ragazze su cinque come lei, pur cercandolo, un lavoro non lo trovano. Altrimenti la soluzione è la solita: emigrare. Anche qui però bisogna fare attenzione: fra i 15 e i 24 anni molti ragazzi studiano ancora, quindi non cercano lavoro né sono - tecnicamente - disoccupati. Un gruppo che rientra nella categoria degli “inattivi”, come li chiama l'Istat, composto da poco meno di quattro milioni e mezzo di persone. Il problema vero riguarda invece 685mila giovani di quell'età che, usciti da scuola, un lavoro lo vorrebbero ma non ce l'hanno. I dati smentiscono anche un altro luogo comune: che studiare non serve. Di nuovo, è vero l'opposto. Le persone con titoli di studio più elevati sono quelle meno esposte alle disoccupazione, e questo vale sia per gli uomini che per le donne. Una differenza che - soprattutto al sud - è enorme: le laureate calabresi, per esempio, hanno un tasso di disoccupazione di 8 punti percentuali più basso delle diplomate, mentre le campane arrivano a 10. Per gli uomini è lo stesso, basta guardare la differenza fra laureati e diplomati siciliani: fra questi ultimi, ai tempi della crisi, il tasso di disoccupazione è doppio. Altro che perdita di tempo: uno degli antidoti alla crisi, se mai ce ne fosse uno, sembra proprio lo studio.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

Magistrati coraggiosi contro le banche cercasi, scrive Enzo Di Frenna su “Il Fatto Quotidiano”. C’è qualcosa di legale in questo meccanismo? A novembre 2011 il presidente della Banca centrale europea, l’italiano Mario Draghi, incontra i vertici di alcune grandi banche – tra cui Goldman Sachs, Morgan Stanley, Barclays Capital– e dopo qualche settimana annuncia prestiti fino a tre anni per le banche europee con l’obiettivo di “ridare fiato all’economia” ed evitare il “credit crunch”, cioè la chiusura dei rubinetti monetari alle piccole e medie imprese. I soldi, in pratica, sono regalati (tasso 1%). Non si ha notizia che Draghi abbia fatto firmare alle banche un contratto che le costringesse ad usare quel denaro per sostenere gli imprenditori. Insomma, una roba del tipo: se li usi per speculare, il tasso passa al 15% e paghi anche una penale. È una soluzione elementare, non ci vuole una laurea in economia per usare una tale precauzione. Invece, cosa succede? Le banche succhiano un torrente di denaro alla Bce – cioè soldi dei cittadini europei – e li usano per speculare e acquistare titoli di Stato, sui cui guadagnano somme elevate. Ecco cosa è accaduto in Italia. Il 21 dicembre 2011 la Bce di Draghi mette a disposizione delle banche italiane 116 miliardi di euro lordi, ma – attenzione – l’incasso netto è intorno ai 60 miliardi. Nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia si scopre che tra dicembre 2011 e gennaio 2012 le banche  hanno speso 28 miliardi di euro per acquistare BTP e altri titoli: in soli trenta giorni la loro quota complessiva è passata da 209 a 237 miliardi. Altri 41 miliardi li hanno spesi per acquistare bond e il totale arriva a 69 miliardi di euro. Quindi hanno usato i soldi per speculare e arricchirsi, invece che “ridare fiato all’economia” e aiutare le imprese. Tra febbraio e marzo 2012 si suicidano diversi imprenditori, anche con metodi violenti come darsi alle fiamme. Poi scopriamo che 12 mila aziende hanno chiuso nell’ultimo anno e 50 mila lavoratori sono stati licenziati. Emergono storie di imprenditori a cui le banche hanno chiuso i rubinetti del credito. Michele Santoro a Servizio pubblico, la scorsa settimana ha intervistato Maria Teresa Carlucci, la moglie di un imprenditore suicida a cui la banca ha rifiutato un prestito di 500 euro. Posso aggiungervi che anche un paio di amici – titolari di piccole attività commerciali – mi hanno riferito che sono in gravi difficoltà a cause della stretta creditizia applicata improvvisamente dalle loro banche. Ecco invece un commento copiato dal mio profilo Facebook: “Vedo che la gente è spaventata, che tante attività chiudono o che stanno per chiudere. Negozi chiusi da tanti mesi che nessuno prende in affitto perché avviare qualsiasi attività è troppo rischioso. Sono molto preoccupata per il futuro. Tanto tanto preoccupata. Non capisco perché la crisi la devono risolvere le classi meno abbienti» (Antonella). Quindi abbiamo la seguente situazione: la Bce ha fallito il suo obiettivo. Le imprese sono strangolate nel “credit crunch” e altri padri di famiglia potrebbero decidere di uccidersi. Ci sono i presupposti per avviare un’inchiesta giudiziaria? Si possono sequestrare i contratti che Mario Draghi ha firmato con le banche italiane? Possiamo conoscere i nomi degli amministratori delegati di quelle banche che hanno preso i soldi della Bce per comprare titoli e speculare? Mi rivolgo dunque alla magistratura. E chiedo ad Antonio Di Pietro, ex magistrato, di farsi portavoce di questa istanza presso la categoria che ha rappresentato negli anni di Mani Pulite. È possibile trovare magistrati coraggiosi che possano indagare su questo meccanismo e – se saltano fuori le prove di illegalità – far scattare le manette a chi usa il denaro in modo così spregiudicato? È’ possibile vedere in galera qualche banchiere senza scrupoli, che non arrossisce neppure quando nega un prestito di 500 euro a un padre di famiglia e anzi – cosa atroce – usa gli spiccioli per fare profittto con manovre speculative? Avete presente Callisto Tanzi dimagrito e col sondino al naso? Avete presente il suo pentimento in tribunale per aver causato sofferenze ai suoi clienti truffati? «Non mi rendevo conto dell’esaltazione…», ha detto. Ecco, vorrei vedere decine banchieri in galera e poi cospargersi il capo di cenere per aver causato così tanta sofferenza. Vorrei vederli pentiti per l’ubriacatura finanziaria e rinchiusi al sicuro dietro le sbarre. I giornalisti con la schiena dritta hanno fatto il loro dovere denunciando queste anomalie. Ora tocca ai magistrati.

Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.

"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."

Usura, un imprenditore accusa: «Ora a Milano i giudici stanno con le banche». Da qualche mese il Tribunale del capoluogo lombardo, dove hanno sede legale parecchi istituti di credito, ha iniziato a respingere le cause di usura bancaria. Motivando così la scelta: le perizie tecniche devono essere svolte secondo i criteri fissati dalla Banca d'Italia. I cui azionisti, però, sono gli stessi istituti, scrive Stefano Vergine “L’Espresso”. «Grazie all’azione di lobbying, le banche hanno fatto breccia nel Tribunale di Milano. Da qualche mese i giudici della corte lombarda stanno infatti rigettando le cause per usura che imprese come le mie stanno continuando a proporre, e questo è paradossale considerando che invece nel resto d’Italia le ragioni dei consumatori continuano a prevalere». A parlare è G.P., un imprenditore del settore immobiliare, titolare di due società e amministratore di altrettante imprese. Preferisce non rivelare il suo nome perché - dice – «ho ancora diverse cause in corso e questa intervista potrebbe danneggiarmi». Il suo è però un attacco diretto. Contro le banche, accusate di applicare tassi d’usura all’insaputa di imprese e cittadini. E contro l’orientamento prevalente nel Tribunale di Milano che, spiega l’imprenditore, «ultimamente ha iniziato ad accettare acriticamente la posizione sostenuta dagli istituti di credito». Sul tavolo c’è una questione spinosa come quella dell’usura. Non quella applicata dalla criminalità organizzata, ma l’usura bancaria. Un fenomeno difficile da quantificare con precisione. Le uniche cifre sono quella della Fondazione SDL, un centro studi basato a Brescia, di cui fanno parte avvocati, commercialisti e imprenditori come G.P. Analizzando circa 150 mila prodotti bancari, SDL dice di aver rilevato nel 71 per cento dei casi la presenza di usura oggettiva ai sensi del codice penale. E sulle 19 mila pratiche giudiziarie intentate finora contro le banche, afferma di aver ottenuto per i propri clienti, quasi sempre tramite transazioni, diverse decine di milioni di euro. «Tutte queste vittorie hanno costretto le banche a reagire», sostiene G.P., convinto che ora «la loro attività di lobbying abbia attecchito al Tribunale di Milano».

G.P., ci racconti in breve la sua storia personale.

«Nel 2012, grazie ad un amico che fa il perito per le banche, ho scoperto che sui conti correnti e sui mutui delle mie aziende venivano praticati tassi d’usura. Mi sono allora rivolto alla studio legale SDL, del professor Serafino Di Loreto, il quale mi ha spiegato come, in base alla legge 108 del 1996, mi veniva effettivamente praticata usura».

Ha fatto causa alle banche?

«Sì, ho fatto una decina di cause. Ovviamente per recuperare quanto pagato ingiustamente, ma anche per un senso di responsabilità civile: riflettendo su quanto mi stava accadendo, ho capito che dovevo farlo per non lasciare ai miei figli una società in cui la classe dirigente, in questo caso quella bancaria, esercita usura sulla piccola e media impresa e sulle famiglie».

Alla fine le cause le ha vinte?

«La prima l’ho vinta, a Milano: nel conto corrente di una mia azienda la perizia disposta dal tribunale ha rilevato usura penale per 50 mila euro. Le altre cause sono ancora in corso».

E cosa c’entra il Tribunale di Milano allora?

«Al Tribunale di Milano l’orientamento predominante è pro-banche, e questo è particolarmente importante visto che gran parte degli istituti ha la propria sede legale proprio nel capoluogo lombardo».

In che cosa consiste questo orientamento pro-banche di cui parla?

«Le cause per usura bancaria a Milano incontrano resistenze molto maggiori rispetto al resto d’Italia. Questo lo dico perché, da collaboratore di una fondazione che si occupa a livello nazionale di difendere i consumatori dall’usura bancaria (la fondazione SDL, ndr), ho avuto modo di notare la differenza di trattamento che ultimamente Milano sta riservando alle banche».

Concretamente, in che cosa consiste questo trattamento privilegiato?

«Tutto si gioca sulle perizie che il tribunale dispone per analizzare i conti correnti e ravvisare se vi è stata o meno usura. Nel resto d’Italia prevalgono le indicazioni di redigere la perizia sulla base dei criteri della legge 108 del 1996 e delle successive conferme della Cassazione. A Milano, invece, la linea predominante è quella di analizzare i conti correnti non sulla base della legge dello Stato, ma seguendo le istruzioni secondarie della Banca d’Italia».

E qual è il problema?

«Il problema è che le istruzioni della Banca d’Italia sono decisamente più vantaggiose per gli istituti. E non è un caso, visto che gli azionisti della Banca d’Italia sono le stesse banche. E’ un po’ come se, dopo un incidente d’auto provocato dallo scoppio di una gomma, il perito valutasse le cause dell’incidente seguendo le indicazioni della ditta costruttrice di pneumatici e non quelle previste dalla legge».

Lei però ha detto che a Milano una causa l’ha vinta, in realtà.

«Sì, è vero. L’ho vinta perché la banca aveva talmente esagerato che, nonostante siano stati applicati i criteri favorevoli della Banca d’Italia, il conto corrente è risultato essere comunque in usura».

Quindi alla fine le imprese che fanno causa alle banche continuano a vincere anche a Milano?

«La gravità della situazione è proprio questa. Ultimamente, sia personalmente che alla Fondazione SDL, risulta che l’orientamento prevalente del Tribunale di Milano sia quello di rigettare le cause per usura se la perizia con la quale si presenta il caso non è redatta sulla base delle istruzioni della Banca d’Italia. Questo mi sembra gravissimo perché le istruzioni di una società privata, seppur autorevole come la Banca d’Italia, disattendono diverse sentenze della Cassazione. Mi pare inoltre molto grave precludere la via del contenzioso a tutte quelle aziende piccole e medie che non hanno la forza economica per ricorrere in appello e cassazione, dove invece potrebbero ottenere ragione».

Adesso cosa farà?

«Continuerò a seguire le mie cause, che fortunatamente sono state presentate prima di questa ulteriore virata pro-banche del Tribunale di Milano. Di certo se subirò delle sentenze ingiuste ricorrerò, con il mio avvocato Biagio Riccio, in appello e in Cassazione, perché sono sicuro che alla fine otterrò giustizia. Al di là delle questioni personali, però, vorrei che questa intervista desse origine a un dibattito, aperto a tutte le parti in causa, perché sulla questione dell’usura bancaria e più in generale del credito alle imprese si gioca la ripresa italiana e il futuro dei nostri figli».   

Banche, tassi usurai alle aziende. Una società di consulenza bresciana ha scoperto che i tassi applicati sui prestiti si sono alzati, al limite dello strozzinaggio. Ma pochi imprenditori denunciano e l'ABI e la Banca d'Italia non controllano. Cronaca di una nuova, pericolosa deriva, scrive Massimiliano Carbonaro su “L’Espresso”. Anche le banche, in Italia, prestano 'a strozzo', attraverso meccanismi complessi nel rilascio dei finanziamenti a favore delle imprese. Sono molti gli istituti di credito coinvolti in questa nuova e pericolosa deriva. Sul fenomeno non esistono cifre complessive esatte, così come non si conosce la quantità di questi prestiti a tassi usurai. Questo perché, nelle occasioni in cui finora il problema è emerso in sede giudiziale, le stesse banche attraverso accordi di conciliazione sono riuscite a non far diventare pubblica la questione. La stessa Banca di Italia, pur ammettendo di non avere il polso complessivo della situazione, ha annunciato che deve rivedere il sistema di rilevazione dei tassi bancari. Come è noto, il grosso del tessuto imprenditoriale italiano è fatto da piccole e medie imprese che non sono strutturate per affrontare problematiche di natura finanziaria. Solo quando i costi di gestione dei loro conti correnti diventano particolarmente alti, gli imprenditori cominciano a porsi domande: così i titolari delle aziende hanno cominciato a rivolgersi a consulenti esterni per cercare di capirci di più. Tra queste società di consulenza c'è la bresciana SDL Centro Studi. Si tratta di una società con una trentina di dipendenti, unica rispetto al panorama delle concorrenti perché offre gratuitamente il primo screening sui conti. Negli ultimi due anni e mezzo ha esaminato oltre 29mila conti correnti intestati ad aziende, scoprendo che il 90% è afflitto da questo problema. Tutto è cominciato nel 2010 quando l'avvocato bresciano Serafino di Loreto è stato coinvolto nel fallimento della società di un amico che per la disperazione si è tolto la vita. A una attenta analisi della situazione societaria della ditta fallita è emerso che i conti erano infettati da usura e soprattutto che la somma degli interessi non dovuti estorti dalle banche l'avrebbe salvata dal fallimento. Questa scoperta ha spinto Di Loreto a creare una società in grado di scandagliare in maniera rapida la situazione finanziaria di un'impresa evidenziandone le anomalie. L'accertamento della SDL sui conti aziendali procede secondo vari step. In primo luogo si verifica se il tasso applicato è inferiore o meno al tasso oltre il quale siamo davanti all'usura. Ogni tre mesi Banca di Italia segnala i tassi effettivi medi rilevati e segnala i tassi 'soglia' su base annua per ogni categoria di operazione e per differenti range di importo oltre cui si verifica l'usura. L'altro fronte su cui lavora la SDL riguarda l'anatocismo, ovvero l'applicazione di interessi sugli interessi maturati che fanno crescere esponenzialmente il debito. «Il risultato degli accertamenti è per molti versi inaspettato. Tendenzialmente non sei portato a credere che una banca possa fare una cosa simile» commenta l'avvocato Di Loreto, responsabile legale della SDL «ma la cosa impressionante è che in pratica sono coinvolte tutte le banche italiane. Si stanno accanendo sulle nostre aziende, infliggendo costi ben superiori a quanto dovuto». Nel dettaglio la SDL è entrata dentro le carte di 9845 imprese, prevalentemente dislocate tra il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e la Toscana: il 90% dei conti presentava usura e anatocismo. Secondo i calcoli, poi certificati da commercialisti esterni, quello che le banche non avevano diritto a percepire oscilla tra il 30% e il 70% di quanto prelevato dai conti: si varia molto in base agli istituti di credito e alle tipologie di conto. Non sono solo i conti correnti delle imprese ad essere attaccati: ciò che emerge è un sistema perverso in cui le banche colpiscono gli imprenditori stessi rivalendosi sul loro patrimonio con l'intento di riuscire a rientrare dei debiti contratti per portare avanti l'attività dell'azienda: spesso, però, una parte di questi è frutto di interessi illegittimi. Il quadro del fenomeno fatica a venir fuori perché quando un imprenditore si ribella, utilizzando le perizie fornite da Di Loreto, e cita la banca in tribunale, l'istituto di credito preferisce arrivare a una transazione amichevole e soprattutto segreta. E' molto chiaro in tal senso l'accordo raggiunto tra un'azienda bresciana cui SDL ha fatto da consulente e una banca (non si può rendere noto il nome dei soggetti coinvolti altrimenti l'intesa potrebbe saltare) in cui l'istituto di credito ha preferito rinunciare a 350 mila euro dei 650mila concessi come prestito all'azienda. Questo dopo che era intervenuta una sentenza relativa ad un decreto ingiuntivo in cui il giudice rilevava che 42mila euro di debiti dell'impresa con la banca erano frutto di usura e anatocismo. Secondo il panorama delle conciliazioni esaminate, nessun gruppo creditizio italiano sembra sfuggire a questa strategia. C.C., un imprenditore del milanese attivo nel settore dei servizi che preferisce rimanere anonimo, si è sentito dire da un direttore di banca: «Non siamo un ente di beneficenza». «Sono furente» commenta l'imprenditore «non solo per i soldi che mi hanno rubato, ma anche i mancati investimenti e la perdita di competitività in campo internazionale». L'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato una richiesta di interessi non dovuti per 200mila euro. «Fino a un anno fa, spiega Di Loreto, si trattava esclusivamente di un recupero crediti legittimo. Ora invece stiamo assistendo da parte delle banche a una vera caccia alle imprese per far rientrare a tutti i costi e in tempi rapidi i clienti dei crediti concessi». Uno scenario per G.P., un imprenditore edile che con il suo gruppo di società detiene un patrimonio di immobili da circa 30 milioni di euro, definisce drammatico: «Sono 40 anni» spiega «che lavoro con le banche, ma in una situazione simile non mi ero mai trovato. Tra l'altro questo attacco indiscriminato alle imprese farà sì che quando ci sarà la ripresa rimarremo bloccati. Il tessuto di piccole e medie aziende che sostengono l'economia italiana nel frattempo sarà stato distrutto». Manco a dirlo, l'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato crediti estorti dalle banche per 1,5 milioni di euro. L'aspetto più assurdo della vicenda è che gli istituti procedono pressoché impuniti e che l'Abi (Associazione bancaria italiana) non rilascia alcuna dichiarazione. Il motivo? Non sono tenuti a esercitare il controllo sui loro soci. Banca d'Italia, che invece questo controllo lo dovrebbe effettuare, sottolinea come «le numerose denunce per usura siano basate sull'impiego di criteri di calcolo difformi». A questo però aggiunge che «sta rivedendo le istruzioni in materia di rilevazione dei tassi effettivi globali». Insomma, la situazione sembra priva di reale controllo.

I magistrati indagano i banchieri, poi ci vanno pure a scuola, scrive “Alètheia”. E pensare che ci stupivamo della telefonata fatta dal ministro della giustizia Cancellieri alla famiglia Ligresti. Le banche, tramite l’Abi (Associazione bancaria italiana), hanno sempre cercato di condizionare la giustizia, con protocolli di intesa (novembre 2006) con il Ministero della giustizia per progetti di formazione destinato a magistrati, cancellieri, ed altri operatori del settore giudiziario, per favorire la conoscenza e l’adozione degli strumenti del processo civile telematico, contribuire allo scambio di informazioni e best practice tra gli addetti ai lavori e agevolare la costruzione di una cultura italiana sulla giustizia telematica. Molti gli episodi di evidenti conflitti di interessi, come quella di alcune banche di finanziare i corsi dei magistrati, o la poco trasparente gestione delle esecuzioni immobiliari tra la società Asteimmobili di natura privatistica, chiamata a svolgere nei tribunali compiti di natura pubblicistica, nonché il palese conflitto di interessi sotteso alla decisione di assegnare all’Abi la gestione integrata di tutte le informazioni relative ai procedimenti giudiziari nei fallimenti ed esecuzioni immobiliari e l’invio informatico degli atti processuali. Lo scorso 4 luglio 2014 ed a seguito chiusura indagini per il reato di usura a carico di alcune banche e di ex dirigenti Bankitalia da parte del Pm di Trani Michele Ruggiero, la Scuola superiore della magistratura ha organizzato, d’intesa con la Banca d’Italia e l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) i cui ex vice-presidenti sono stati indagati (Emilio Zanetti scandalo Ubi-Banca) o arrestati (Giovanni Berneschi, scandalo Banca Carige Genova), un corso interdisciplinare sul tema dell’usura, riservando 30 posti per magistrati addetti al settore civile e 40 posti per magistrati addetti al settore penale (funzioni giudicanti e requirenti). Come si può leggere dalla lettera, Prot.n. 1980/2014USSM; inviata alla Direzione Generale dei Magistrati, Ispettorato Generale, Al Presidente della Corte di Cassazione Dr. Giorgio Santacroce, Al Procuratore Generale della Corte di Cassazione Dr. Gianfranco Ciani, Ai Presidenti delle Corti d’Appello, Ai Procuratori Generali delle Corti d’Appello, con l’oggetto: incontro di studi ”L’Usura: profili civilistici e penalistici“ 14-15 luglio 2014 Roma; Piazza del Gesù n. 49 – Sala della Clemenza, Palazzo Altieri. Roma, 4 luglio 2014. Firmato: la Segreteria della Scuola Superiore della Magistratura. Essendo gravissimo questo ultimo tentativo di indottrinamento degli operatori della Giustizia ad interessi di parte, che si consumerà il 14 e 15 luglio a Roma, nella sede Abi di Palazzo Altieri, dove è stato convocato un incontro di studio organizzato in fretta e furia dalla SSM (Scuola Superiore della Magistratura) d’intesa con la Banca d’Italia e l’ABI, proprio sul tema dell’usura bancaria, dove sono stati ammessi 70 magistrati, che potrebbe avere la finalità di condizionare indagini penali in corso, che vedono tra gli indagati primari esponenti delle banche associate all’Abi, che annovera molti banchieri incriminati e perfino arrestati, con sede in Piazza del Gesù, 49, a Roma proprio a Palazzo Altieri, e la Sala della Clemenza è tra le più prestigiose sale dove vengono svolti incontri, dibattiti, convegni, conferenze. Adusbef e Federconsumatori hanno denunciato un aspetto ancor più grave, che vede l’ex ministro della Giustizia del Governo Monti, prof.ssa Paola Severino nella duplice funzione di docente e partecipante attiva al corso sull’usura somministrato ai magistrati nella tavola rotonda di apertura per disquisire, assieme ad altri illustri relatori, sui profili civili e penali della legislazione antiusura, ed allo stesso tempo nella veste di avvocato difensore e consulente legale di celebri indagati (probabilmente anche nel processo penale istruito dal Pm di Trani Michele Ruggiero), accusati di aver violato la legge 108/96 ed il reato sull’usura. Poiché tale palese commistione tra organi giudiziari come il SSM, che avrebbe finalità di offrire formazione oggettiva ai magistrati, con i rappresentanti di dirigenti indagati o arrestati come Abi e Banca d’Italia, fa sorgere il dubbio di una giustizia addomesticata a misura di potenti, al contrario di quanto sancito dalla Costituzione Repubblicana ancora vigente, configura insanabile vulnus per la necessaria terzietà materiale e sostanziale, con lo studio dell’usura “a casa” del principale indiziato di attività usuraria, analogamente a corsi di formazione sui reati di mafia organizzata a Corleone, a casa di Totò Rjina o Bernardo Provenzano, Adusbef e Federconsumatori hanno inviato un corposo esposto alle maggiori cariche istituzionali italiane ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, denunciando il grave pericolo per le garanzie Costituzionali ed i diritti delle persone, specie se correntisti e risparmiatori, da una giustizia molto spesso ingiusta per i comuni cittadini.

Corso anti-usura per pm. In cattedra le banche, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano, 12/07/2014 pagina 10. Il problema è molto complesso. Da quando il codice penale è stato modificato e il reato di usura non è più tipico dello strozzino ma anche dei banchieri qualora applichino tassi esagerati, le nostre scienze giuridiche si arrovellano: quando si può considerare superato il tasso-soglia oltre il quale scatta il reato? Pare che dopo quasi vent'anni non siano " ancora sopiti i problemi interpretativi", e così il presidente della Scuola Superiore della Magistratura, Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, ex candidato a sindaco di Milano ed ex saggio di Giorgio Napolitano, ha avuto un'idea notevole. Ha organizzato un corso di formazione per magistrati in collaborazione con l'Abi (associazione bancaria italiana) e con la Banca d'Italia. Gente che di usura se ne intende, ovviamente, ma con il difetto di essere potenzialmente nel mirino dei magistrati che sono chiamati a formare. I Presidenti di Adusbef e Federconsumatori, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, hanno preso carta e penna per scrivere una lettera di protesta alle Nazioni Unite, alla Corte Europea per i diritti dell'uomo, al presidente Napolitano, al premier Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Chiedono che Onida sia severamente censurato, e lo fanno con parole forti: " Chi ha ordito questa turpe trovata merita di essere sollevato dagli incarichi. Tanto al fine di evitare che altri magistrati magari siano costretti in futuro a partecipare a corsi antimafia a Corleone, nelle ville di Totò Riina o Bernardo Provenzano". Il corso si tiene il 14 e il 15 luglio 2014 nella sede dell'Abi, gentilmente messa a disposizione dal presidente dell' Abi, Antonio Patuelli. Colpisce che settanta magistrati provenienti da tutta Italia vengano mandati a scuola di usura presso un' associazione che si è trovata in pochi giorni con un vicepresidente arrestato, Giovanni Berneschi ex presidente di Carige, e uno indagato, Emilio Zanetti, ex presidente di Ubi-Banca. Lo stesso Patuelli deve la nomina alle dimissioni del predecessore Giuseppe Mussari, travolto dallo scandalo Montepaschi e oggi rinviato a giudizio anche per usura. Competenza per competenza, non si capisce perché non abbiano invitato anche Mussari a spiegare ai magistrati in cerca di formazione professionale i segreti dell'usura. C'è però, tra i docenti, Paola Severino, ex ministro della Giustizia e penalista di primo piano. Prima di diventare Guardasigilli a novembre 2011, era impegnata nel processo sull'aeroporto di Ampugnano che coinvolgeva Mussari e altri esponenti del Monte dei Paschi. E proprio a causa della nomina dovette abbandonare la difesa di una banca accusata di usura. Non è dato sapere se le due giornate di aggiornamento professionale prevedano anche esercitazioni pratiche. Ci sarebbe un ottimo caso di scuola a disposizione, l'inchiesta per usura del pm di Trani Michele Ruggiero, che vede indagati, tutti insieme, il presidente della Rai Anna Maria Tarantola come ex capo della Vigilanza della Banca d'Italia, l'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni in quanto ex direttore generale della Banca d'Italia, e poi i capi o ex capi di alcune della maggiori banche italiane: Luigi Abete e Fabio Gallia della Bnl, Alessandro Profumo di Unicredit e il suo successore Federico Ghizzoni, Mussari per il Montepaschi insieme all'ex vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone, di cui Severino è da sempre difensore di fiducia. Peccato solo che il pm Ruggiero non sia stato invitato al corso, poteva essere l'occasione per i vertici di Abi e Bankitalia, e per la stessa Severino, di spiegargli per le vie brevi l'eventuale esagerazione delle sue ipotesi investigative. Per Adusbef e Federconsumatori, che hanno sollevato il problema, in gioco c'è la separazione dei poteri, "il doveroso distacco tra Abi e Ordine Giudiziario il cui collante risalente nel tempo stride con un paese ad ordinamento costituzionale e democratico". Una questione antica. Nel 2010 Lannutti, da senatore, interrogò il ministro dell' Economia Giulio Tremonti e il Guardasigilli Angelino Alfano, per sapere come mai l'Abi, con il patrocinio del ministero della Giustizia, avesse "sviluppato un progetto di formazione e-learning destinato a magistrati, cancellieri, avvocati e a tutti gli operatori del settore giudiziario per favorire la conoscenza e l'adozione degli strumenti del processo civile telematico". E riproponendo il tema della società Asteimmobili, costituita dall'Abi per gestire l'esecuzione dei fallimenti. Un' altra invasione di campo.

SPECULAZIONE E BANCHE: ECONOMIA CHE UCCIDE.

Papa Francesco contro le banche e la speculazione: "Questa economia uccide", scrive “Libero Quotidiano”. Una lunga intervista rilasciata da Papa Francesco a ottobre 2014, pubblicata oggi su La Stampa, che anticipa così parte del libro Papa Francesco. Questa economia uccide, il volume sul magistero sociale di Bergoglio scritto da Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi. Un libro che fin dal titolo esprime il pensiero del Pontefice, che punta il dito contro il sistema economico occidentale, contro le banche, contro la speculazione.  Bergoglio muove la sua accusa contro un intero sistema senza troppi giri di parole, come nel passaggio in cui afferma: "Non possiamo più aspettare a risolvere le cause strutturali della povertà, per guarire le nostre società da una malattia che può solo portare verso nuove crisi. I mercati e la speculazione finanziaria - spiega il Papa - non possono godere di un'autonomia assoluta. Senza una soluzione ai problemi dei poveri non risolveremo i problemi del mondo". La povertà resta il primo dei pensieri di Bergoglio, che aggiunge: "Gesù ha detto che prima di offrire il nostro dono davanti all'altare dobbiamo riconciliarci con il nostro fratello per essere in pace con lui. Credo che possiamo estendere questa richiesta anche all'essere in pace con i nostri fratelli poveri". Nella lunga intervista, Francesco risponde anche a chi lo accusa di marxismo, e spiega: "Questa attenzione per i poveri è nel Vangelo, ed è nella tradizione della Chiesa, non è un'invenzione del comunismo e non bisogna ideologizzarla, come alcune volte è accaduto nel corso della storia".

Intervista a Papa Francesco: “Avere cura di chi è povero non è comunismo, è Vangelo”. Il Pontefice: “Il Nuovo Testamento non condanna i ricchi, ma l’idolatria della ricchezza. Il nostro sistema si mantiene con la cultura dello scarto, così crescono disparità e povertà”. Jorge Mario Bergoglio, 78 anni, è diventato Papa con il nome di Francesco il 13 marzo del 2013, Scrivono Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi su “La Stampa”.

Anticipiamo uno stralcio di «Papa Francesco. Questa economia uccide», il libro sul magistero sociale di Bergoglio scritto da Andrea Tornielli, coordinatore di «Vatican Insider», e Giacomo Galeazzi, vaticanista de «La Stampa». Il volume raccoglie e analizza i discorsi, i documenti e gli interventi di Francesco su povertà, immigrazione, giustizia sociale, salvaguardia del creato. E mette a confronto esperti di economia, finanza e dottrina sociale della Chiesa - tra questi il professor Stefano Zamagni e il banchiere Ettore Gotti Tedeschi - raccontando anche le reazioni che certe prese di posizione del Pontefice hanno suscitato. Il libro si conclude con un’intervista che Francesco ha rilasciato agli autori all’inizio di ottobre 2014. «Marxista», «comunista» e «pauperista»: le parole di Francesco sulla povertà e sulla giustizia sociale, i suoi frequenti richiami all’attenzione verso i bisognosi, gli hanno attirato critiche e anche accuse talvolta espresse con durezza e sarcasmo. Come vive tutto questo Papa Bergoglio? Perché il tema della povertà è stato così presente nel suo magistero?

Santità, il capitalismo come lo stiamo vivendo negli ultimi decenni è, secondo lei, un sistema in qualche modo irreversibile?

«Non saprei come rispondere a questa domanda. Riconosco che la globalizzazione ha aiutato molte persone a sollevarsi dalla povertà, ma ne ha condannate tante altre a morire di fame. È vero che in termini assoluti è cresciuta la ricchezza mondiale, ma sono anche aumentate le disparità e sono sorte nuove povertà. Quello che noto è che questo sistema si mantiene con quella cultura dello scarto, della quale ho già parlato varie volte. C’è una politica, una sociologia, e anche un atteggiamento dello scarto. Quando al centro del sistema non c’è più l’uomo ma il denaro, quando il denaro diventa un idolo, gli uomini e le donne sono ridotti a semplici strumenti di un sistema sociale ed economico caratterizzato, anzi dominato da profondi squilibri. E così si “scarta” quello che non serve a questa logica: è quell’atteggiamento che scarta i bambini e gli anziani, e che ora colpisce anche i giovani. Mi ha impressionato apprendere che nei Paesi sviluppati ci sono tanti milioni di giovani al di sotto dei 25 anni che non hanno lavoro. Li ho chiamati i giovani “né-né”, perché non studiano né lavorano: non studiano perché non hanno possibilità di farlo, non lavorano perché manca il lavoro. Ma vorrei anche ricordare quella cultura dello scarto che porta a rifiutare i bambini anche con l’aborto. Mi colpiscono i tassi di natalità così bassi qui in Italia: così si perde il legame con il futuro. Come pure la cultura dello scarto porta all’eutanasia nascosta degli anziani, che vengono abbandonati. Invece di essere considerati come la nostra memoria, il legame con il nostro passato è una risorsa di saggezza per il presente. A volte mi chiedo: quale sarà il prossimo scarto? Dobbiamo fermarci in tempo. Fermiamoci, per favore! E dunque, per cercare di rispondere alla domanda, direi: non consideriamo questo stato di cose come irreversibile, non rassegniamoci. Cerchiamo di costruire una società e un’economia dove l’uomo e il suo bene, e non il denaro, siano al centro».

Un cambiamento, una maggiore attenzione alla giustizia sociale può avvenire grazie a più etica nell’economia oppure è giusto ipotizzare anche cambiamenti strutturali al sistema?

«Innanzitutto è bene ricordare che c’è bisogno di etica nell’economia, e c’è bisogno di etica anche nella politica. Più volte vari capi di Stato e leader politici che ho potuto incontrare dopo la mia elezione a vescovo di Roma mi hanno parlato di questo. Hanno detto: voi leader religiosi dovete aiutarci, darci delle indicazioni etiche. Sì, il pastore può fare i suoi richiami, ma sono convinto che ci sia bisogno, come ricordava Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in veritate”, di uomini e donne con le braccia alzate verso Dio per pregarlo, consapevoli che l’amore e la condivisione da cui deriva l’autentico sviluppo, non sono un prodotto delle nostre mani, ma un dono da chiedere. E al tempo stesso sono convinto che ci sia bisogno che questi uomini e queste donne si impegnino, ad ogni livello, nella società, nella politica, nelle istituzioni e nell’economia, mettendo al centro il bene comune. Non possiamo più aspettare a risolvere le cause strutturali della povertà, per guarire le nostre società da una malattia che può solo portare verso nuove crisi. I mercati e la speculazione finanziaria non possono godere di un’autonomia assoluta. Senza una soluzione ai problemi dei poveri non risolveremo i problemi del mondo. Servono programmi, meccanismi e processi orientati a una migliore distribuzione delle risorse, alla creazione di lavoro, alla promozione integrale di chi è escluso».

Perché le parole forti e profetiche di Pio XI nell’enciclica Quadragesimo Anno contro l’imperialismo internazionale del denaro, oggi suonano per molti – anche cattolici – esagerate e radicali?

«Pio XI sembra esagerato a coloro che si sentono colpiti dalle sue parole, punti sul vivo dalle sue profetiche denunce. Ma il Papa non era esagerato, aveva detto la verità dopo la crisi economico-finanziaria del 1929, e da buon alpinista vedeva le cose come stavano, sapeva guardare lontano. Temo che gli esagerati siano piuttosto coloro che ancora oggi si sentono chiamati in causa dai richiami di Pio XI...».

Restano ancora valide le pagine della “Populorum progressio” nelle quali si dice che la proprietà privata non è un diritto assoluto ma è subordinata al bene comune, e quelle del catechismo di San Pio X che elenca tra i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio l’opprimere i poveri e il defraudare della giusta mercede gli operai?

«Non solo sono affermazioni ancora valide, ma più il tempo passa e più trovo che siano comprovate dall’esperienza».

Hanno colpito molti le sue parole sui poveri «carne di Cristo». La disturba l’accusa di «pauperismo»?

«Prima che arrivasse Francesco d’Assisi c’erano i “pauperisti”, nel Medio Evo ci sono state molte correnti pauperistiche. Il pauperismo è una caricatura del Vangelo e della stessa povertà. Invece san Francesco ci ha aiutato a scoprire il legame profondo tra la povertà e il cammino evangelico. Gesù afferma che non si possono servire due padroni, Dio e la ricchezza. È pauperismo? Gesù ci dice qual è il “protocollo” sulla base del quale noi saremo giudicati, è quello che leggiamo nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato in carcere, ero malato, ero nudo e mi avete aiutato, vestito, visitato, vi siete presi cura di me. Ogni volta che facciamo questo a un nostro fratello, lo facciamo a Gesù. Avere cura del nostro prossimo: di chi è povero, di chi soffre nel corpo nello spirito, di chi è nel bisogno. Questa è la pietra di paragone. È pauperismo? No, è Vangelo. La povertà allontana dall’idolatria, dal sentirci autosufficienti. Zaccheo, dopo aver incrociato lo sguardo misericordioso di Gesù, ha donato la metà dei suoi averi ai poveri. Quello del Vangelo è un messaggio rivolto a tutti, il Vangelo non condanna i ricchi ma l’idolatria della ricchezza, quell’idolatria che rende insensibili al grido del povero. Gesù ha detto che prima di offrire il nostro dono davanti all’altare dobbiamo riconciliarci con il nostro fratello per essere in pace con lui. Credo che possiamo, per analogia, estendere questa richiesta anche all’essere in pace con questi fratelli poveri».

Lei ha sottolineato la continuità con la tradizione della Chiesa in questa attenzione ai poveri. Può fare qualche esempio in questo senso?

«Un mese prima di aprire il Concilio Ecumenico Vaticano II, Papa Giovanni XXIII disse: “La Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Negli anni successivi la scelta preferenziale per i poveri è entrata nei documenti del magistero. Qualcuno potrebbe pensare a una novità, mentre invece si tratta di un’attenzione che ha la sua origine nel Vangelo ed è documentata già nei primi secoli di cristianesimo. Se ripetessi alcuni brani delle omelie dei primi Padri della Chiesa, del II o del III secolo, su come si debbano trattare i poveri, ci sarebbe qualcuno ad accusarmi che la mia è un’omelia marxista. “Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi”. Sono parole di sant’Ambrogio, servite a Papa Paolo VI per affermare, nella “Populorum progressio”, che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto, e che nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. San Giovanni Crisostomo affermava: “Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro”. (...) Come si può vedere, questa attenzione per i poveri è nel Vangelo, ed è nella tradizione della Chiesa, non è un’invenzione del comunismo e non bisogna ideologizzarla, come alcune volte è accaduto nel corso della storia. La Chiesa quando invita a vincere quella che ho chiamato la “globalizzazione dell’indifferenza” è lontana da qualunque interesse politico e da qualunque ideologia: mossa unicamente dalle parole di Gesù vuole offrire il suo contributo alla costruzione di un mondo dove ci si custodisca l’un l’altro e ci si prenda cura l’uno dell’altro».

SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.

La Salva Silvio salva anche i banchieri. E Renzi perde consenso. Si allunga la lista dei beneficiari inconsapevoli del decreto fiscale. Oltre Berlusconi, la manina aiuterebbe anche i grandi banchieri, partendo da Passera e Profumo. Il governo dovrà riscrivere gran parte del decreto. E rimediare ai danni di reputazione, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. La prima settimana dell’anno per Matteo Renzi è stata un disastro. La polemica sul volo di Stato per la settimana bianca, per una sciata senza casco (come immortalato prontamente da Chi), ma soprattutto il codicillo Salva Silvio, con il mistero della manina che l’ha fatto comparire, con una dinamica ancora tutta da chiarire, nel decreto sul fisco approvato prima di Natale. Respinta al mittente la richiesta delle opposizioni, di Giuseppe Civati e del senatore Massimo Mucchetti di riferire alle camere («Gli atti del consiglio dei ministri non sono oggetto di informativa» ha sentenziato Maria Elena Boschi), l’episodio avrà ancora i suoi strascichi. In parte sulla reputazione del governo, in parte sul destino stesso del decreto, che è stato congelato ma che dovrà esser riscritto, secondo il premier dopo il voto per la successione al Quirinale. Una settimana pessima, insomma, fatta finire in anticipo solo dalle tragedie francesi, dagli attenti e dalle sparatorie e dal terrorismo che hanno giustamente cambiato l’agenda dei giornali. I danni però ci sono, o almeno così sostengono i sondaggisti. Danni al governo, e non al Pd, che tiene e anzi sale in alcune rilevazioni. Renato Mannheimer dice che «con gli scivoloni dell’ultima settimana il premier e il governo perdono tra i quattro e i cinque punti». Roberto Weber di Swg conferma: «Più che il volo di Stato è la non chiarezza sulla episodio di Berlusconi a determinare l’erosione. Come fatti in sé, e in relazione ai dati dell’economia. Nel senso che mentre il dibattito è monopolizzato dalla questioni tipo salva Berlusconi, il cittadino vede i dati della disoccupazione, quelli dell’Istat, gli indicatori economici e la sfiducia aumenta». Matteo Renzi cerca chi ha scritto il salva-Silvio, la minoranza dem riprende vigoreDel Salva Silvio però bisognerà parlare ancora. Il governo potrà anche non chiarire la genesi dell’articolo 19 bis, che introduce la soglia di non punibilità per l’evasione, senza escludere neanche la frode, e che quindi avrebbe “graziato” Silvio Berlusconi, ma del merito bisognerà comunque discutere. Come bisognerà discutere di un’altra aggiunta fatta last minute al decreto e che riguarda il comma 4 dell’articolo 4 che depenalizza le dichiarazioni fraudolente. Per alcuni critici sarebbe un regalo ai grandi banchieri, che quindi non lasciano solo Silvio Berlusconi nell’elenco dei beneficiari inconsapevoli della riforma. Tra i nomi, i classici Alessandro Profumo e Corrado Passera, coinvolti nelle partite di titoli derivati. La lista che si allunga di possibili beneficiari, poi, fa crescere in parlamento l’idea che sul decreto sul fisco il governo abbia per così dire accettato molti suggerimenti esterni, consigli estranei al ministero dell’economia, i cui tecnici non riconoscono la paternità, ma estranei anche all’ufficio legislativo di palazzo Chigi diretto dall'ex capo dei vigili fiorentini Antonella Manzione, almeno per quanto riguarda il processo creativo, perché la fedelissima di Renzi non è certo nota per le competenze in materia fiscale.

Salva Silvio, Pier Luigi Bersani attacca Renzi: "Più sincerità e chiarezza". «Matteo dà da bere agli ubriachi» è la metafora di Bersani sugli evasori e la soglia di non punibilità del 3 per cento introdotta dal governo. E Mucchetti (Pd) chiede che il premier riferisca in aula sul mistero della “manina”, continua Luca Sappino su “L’Espresso”. Non servono molte parole a Pier Luigi Bersani per fulminare Matteo Renzi sulla vicenda del decreto sul fisco, quello del pasticcio dell’articolo 19 bis, che alza la soglia di tolleranza per la frode fiscale, ed è ormai noto come il codicillo “Salva Berlusconi”. «Renzi parla tanto di proporzionalità per l'evasione fiscale, ma mi pare che il senso sia che chi ha di più può evadere di più», aveva detto già ieri l’ex segretario, a margine della riunione dei deputati del Pd, alludendo al fatto che l’articolo non interessa solo a Silvio Berlusconi, ma anche e soprattutto i grandi gruppi industriali che quel 3 per cento lo potrebbero applicare a bilanci molto ricchi. Per Eni, ad esempio la soglia di non punibilità penale si tradurrebbe, secondo i calcoli fatti dal Sole 24 ore e da Libero, in 419 milioni di euro, per Enel in 216, Unicredit 130, Telecom 16 milioni, e così via. A "L’aria che tira", su La7, Bersani ha però detto di più: «Ci vogliono più sincerità e chiarezza. Il modo per uscire da questa situazione non è aspettare il 20 febbraio, ma affrontare subito il decreto nel prossimo consiglio dei ministri e togliere quella parte del 3 per cento». Così la voce più forte della minoranza del Pd critica la scelta del premier che vorrebbe invece congelare il testo fino a dopo l’elezione del presidente della Repubblica, compiendo una forzatura delle procedure che vorrebbero l’atto approvato dal governo nelle disponibilità del Parlamento che è sovrano, entro i trenta giorni, nel determinare il calendario per arrivare alla valutazione e al suggerimento di eventuali correzioni. Questa è infatti la strada che propone la minoranza dem: Renzi lasci fare al Parlamento, raccolga le note e poi modifichi questo stesso testo. Il tutto molto prima del 20 febbraio. Il premier però preferisce fare a modo suo anche perché così, evidentemente, riesce a tenere sotto pressione Silvio Berlusconi e a tenere più ordinati i voti di Forza Italia, fondamentali nella delicata partita del Quirinale. Bersani continua il suo attacco: «Renzi ha dato un messaggio a un pezzo di Italia con quel 3 per cento: essere leggeri sul tema fiscale è come dare da bere agli ubriachi. Il punto è che concetto abbiamo di fedeltà fiscale in questo benedetto Paese. Renzi si è preso la responsabilità del decreto, la manina è la mia ha detto e ha risolto, ma io non riesco a fargli i complimenti». Ancora: «A Renzi voglio chiedere: abbiamo inventato l'evasione in proporzione? Non esiste in nessun posto al mondo una cosa così. La frode fiscale è un reato in tutto il mondo...». Bersani poi invita a non gridare al complotto degli antiberlusconiani: «Tiriamo via il riconoscimento della frode come hanno chiesto anche le associazioni degli imprenditori», nota l’ex segretario, «e non dimentichiamoci che la cosa l'ha tirata fuori il Sole 24 ore», e non qualche ex girotondino. Bersani, che evidentemente ha letto bene il giornale economico, dice anche un’altra cosa: «C'è da ripulire altro nel decreto...» aggiunge riferendosi agli altri punti controversi del testo prodotto dal governo. Oltre alla soglia percentuale di non punibilità sul reddito aziendale, infatti, c’è da rivedere, ad esempio, la depenalizzazione dell’emissione di false fatture sotto i mille euro, e l’aumento del limite da 50 mila a 150 mila per la dichiarazione infedele. Anche per questo, per Bersani, potrebbe non esser un cattiva idea che Renzi sia chiamato dalle Camera a riferire sulla vicenda della manina e di come sia stato scritto il decreto votato nel consiglio dei ministri del 24 dicembre. «Certo non guasterebbe» dice l’ex segretario. La richiesta è stata avanzata da Massimo Mucchetti, senatore dem, intervenuto in aula a titolo personale, come ha subito precisato il renziano Tonini. Per Mucchetti, Renzi dovrebbe spiegare «quale testo è stato licenziato dal Ministero; quale testo è arrivato in Consiglio dei ministri e, se ci sono state modifiche, chi le ha apportate; se in Consiglio dei ministri c'è stato dibattito, e chi è intervenuto nel dibattito; quale testo, infine è stato varato e come, in base a quali procedure, è stato poi ritirato». Il dubbio è che si sia potuta essere sì «una centralizzazione delle decisioni politiche in capo al Consiglio dei ministri, ma che poi le decisioni collegiali siano state modificate in modo monocratico, il che pone un problema di governance democratico». E sì, sarebbe forse coerente con il carattere del premier, ma non proprio gradito dalla Costituzione. La proposta è stata salutata con favore dal Movimento 5 stelle, dalla Lega e da Sinistra Ecologia Libertà. «Mi associo a Mucchetti» ha detto poi Pippo Civati, ormai lontanissimo dal governo, che oggi ha presentato con Sel una proposta per inserire il conflitto di interessi nella Costituzione: «Secondo me parla a nome di tutti gli elettori del Pd e del centrosinistra che si chiedono come siano andate le cose. Altro che manina, è una manona ed è un fatto di estrema gravità».

Visco e il club delle manette. Le colpe di Visco e della Orlandi in un impasto velenoso fatto di antiberlusconismo e voglia di colpire Renzi e le imprese, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Questa storia delle depenalizzazioni fiscali che rischia di affondare proprio non ci va giù. La delega votata dal Consiglio dei ministri è inciampata nella franchigia del tre per cento. Si è attivato un impasto velenoso fatto di tre ingredienti principali: lo sperimentato antiberlusconismo mediatico, la chance per la sinistra Pd di dare una bottarella al proprio segretario e cioè Renzi, e l'ideologia antimpresa per la quale le tasse sono belle e i privati evasori. Si rischia così di buttare a mare un passo avanti in materia fiscale e penale. Il circuito dei soliti ha funzionato alla grande. La vera manina da cui è partito tutto è quella dell'ex ministro Visco: in questo caso molto visibile e pubblicata sul blog laVoce.info. Intorno a lui la cortina politica della sinistra Pd e dei suoi vecchi assistenti, a partire da Fassina. In fila i burocrati che con il Pci di un tempo e con Visco poi si sono formati. E poi l'Agenzia delle entrate: ha giocato la sua moral suasion (e qualcosa di più), con la tosta Rossella Orlandi, che dalla scuola dura e pura di Visco arriva. In un primo tempo la vicenda non è stata ben capita anche da Confindustria: in fondo fu proprio il giornale della Confindustria, in un editoriale, a celebrare l'arrivo della Orlandi. Ma la buona stampa per questo nobile circoletto di manettari (burocrati che ben vedono le manette anche per errori od omissioni fiscali) non si ferma qua. Corriere e Repubblica (quest'ultima per riflesso condizionato) fanno il resto. I maligni insinuano che non c'è praticamente azionista del Corsera immune da un problemuccio fiscale e che il direttore, in uscita, abbia voluto dare l'ennesimo segno della sua indipendenza. Molto più probabile che a contare siano stati piuttosto gli storici rapporti con la Procura di Bruti Liberati. Non è un mistero che il grande esperto di reati finanziari (risalito dopo le vicissitudini kafkiane di Robledo) e anima del nuovo costoso scudo fiscale e cioè Francesco Greco non veda di buon occhio le depenalizzazioni. Purtroppo questo club continua ad alimentare un'ideologia antimpresa che deprime investimenti e sviluppo. Si è ormai formata una giurisprudenza, un corpo di norme e consuetudini, e una classe burocratica che (spesso in buona fede e ciò è anche peggio) picchia su chi fa impresa e ha una partita Iva come su un tamburo. Come negli anni '70 i pretori del lavoro hanno contribuito a distruggere un sano rapporto di relazioni industriali e attraverso le loro interpretazioni giurisprudenziali hanno reso lo Statuto dei lavoratori una camicia di forza, così oggi la magistratura sembra essersi assunta la responsabilità storica (e forse ideologica) di combattere con ogni mezzo e ultra petita l'evasione fiscale. Per chi pensa che la nostra sia una deformazione basta sottoporsi quotidianamente alla lettura del pregevole (è detto senza ironia) bollettino dell'Agenzia delle entrate (fate però uno sforzo, voi di Fisco oggi , di scrivere anche per noi umani). Vi citiamo solo due numeri recenti. Solo pochi giorni fa l'austera pubblicazione riportava una sentenza della Cassazione di dicembre. Sentite cosa scrivono: «La sentenza 52038/2014 ha confermato che, per l'omesso versamento delle ritenute certificate, la crisi dell'impresa non scrimina il reato. A tal fine, né l'aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti né l'aver dovuto pagare i debiti ai fornitori e neppure la mancata riscossione di crediti vantati e documentati sono situazioni - anche se provate - idonee a integrare lo stato di necessità e, dunque, a escludere il dolo». Ve la facciamo semplice: se un imprenditore dimostra di essere senza una lira perché non lo hanno pagato o perché ha preferito corrispondere gli stipendi ai propri dipendenti e non versa i contributi entro 60 giorni per una cifra annuale superiore a 50mila euro, rischia la galera. Il bollettino è ancora più chiaro: «Rafforzando la linea interpretativa più severa, la Corte di cassazione, con la sentenza 52038/2014, ha spiegato come siano rari i casi in cui la crisi di liquidità scrimina il reato e quindi che è punibile per evasione fiscale l'imprenditore nonostante il mancato versamento dipenda da uno choc finanziario dell'azienda». Senza pietà. Prima si paga lo Stato e poi i dipendenti e fornitori. Sia chiaro, qua nessuno chiede di girarsi dall'altra parte e fischiettare se un imprenditore non versa i contributi. Sono infatti previste sanzioni e interessi. Si dice solo che forse la galera in questi casi non ha senso. La sentenza della Cassazione è stata pubblicata proprio mentre tutto il circoletto dei manettari si lamentava dell'indulgenza governativa in merito ai reati fiscali. Di esempi ne potremmo fare altri centomila. Ci preme ricordare un'altra decisione di queste settimane. Una leggina (benedetta) aveva previsto che quando la Guardia di finanza si presentava in azienda non potesse bloccarvi per più di trenta giorni (Articolo 12 del disatteso Statuto dei contribuenti). Una verifica che fosse durata più di un mese avrebbe reso nullo l'accertamento. Una tagliola niente male. Con un'ordinanza di novembre la Corte suprema ha deciso che il termine è ordinatorio e non perentorio. Sapete cosa vuol dire? Che siete fottuti. Dovrebbero rimanere in azienda o nei vostri uffici non più di trenta giorni (peraltro non è necessario che siano consecutivi, altra assurdità), ma se invece ci mettono le tende non succede nulla. Niente di niente. Lo Stato vi prende per i fondelli. In termini perentori, mica ordinatori.

SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.

Falce e minareto: la predilezione della sinistra per gli islamici porta al suicidio della nostra civiltà, scrive il polemista polemologo di Giancarlo Matta. Falce e minareto: è un dato di fatto che la gente di sinistra (qui alludo principalmente ai politici dei vari ranghi) mostri una esagerata predilezione per gli islamici, contraddicendo pertanto i propri ideali, guadagnandosi il giustificato disprezzo di coloro che ragionano (anche tra i suoi elettori), e non di rado anche coprendosi di ridicolo. E probabilmente anche scavandosi la fossa (se non in senso immediatamente letterale - almeno per ora -, quanto meno in senso politico) con le proprie mani. Voglio segnalare in proposito, alcuni esempi e comportamenti persistenti:

-le Amministrazioni Locali prevalentemente di sinistra (le quali dovrebbero essere atee…), che concedono agli islamici per lo più gratuitamente o quasi, immobili per la realizzazione di moschee;

-gli Istituti Scolastici Pubblici prevalentemente diretti da persone ideologicamente di sinistra, che inibiscono le tradizioni e le celebrazioni tipiche della nostra cultura per “non offendere” gli islamici;

-le Asl prevalentemente dirette dalla sinistra, che tollerano le illecite pretese degli islamici di essere visitati da medici del sesso a loro gradito;

-gli impedimenti capziosi dei parlamentari di sinistra, alla emanazione di norme più severe di quelle peraltro esistenti (ma spesso disapplicate) in materia di abbigliamento “religioso” in luogo pubblico, nonostante le evidenti accresciute esigenze della pubblica sicurezza;

-le grottesche “reverenze” di politicanti di sinistra, porte agli islamici in occasione delle loro festività, con la concessione di spazi pubblici dove essi esigono illegittimamente la separazione fisica tra i due sessi, e addirittura vestendosi come loro;

-il perdurante silenzio delle “femministe” (ovviamente di sinistra) sulle violenze che gli islamici commettono verso le donne;

-la simpatia scomposta “a senso unico” manifestata da politicanti di sinistra verso le organizzazioni armate medio-orientali che combattono gli israeliani;

-la pelosa indifferenza dei politicanti di sinistra in materia di tutela dei minori, notoriamente spesso costretti a indossare determinati abbigliamenti e/o a rispettare determinati riti dannosi alla salute;

-l’omertà inammissibile dei politicanti di sinistra sulle alleanze dei nazisti con gli islamici, storicamente accertate;

-l’indegno riconoscimento della qualifica di “combattenti” conferito da politicanti di sinistra agli islamici terroristi che si suicidano per assassinare a tradimento civili indifesi, definendoli assurdamente “kamikaze” (mentre è storicamente noto come questi ultimi fossero dei veri militari che si sacrificavano combattendo solo contro altri militari);

-l’abdicazione tragicomica alle proprie funzioni di tutela dei lavoratori da parte dei sindacati di sinistra, in materia di igiene e sicurezza del lavoro quando a “lavorare” sono gli islamici;

-lo scriteriato incoraggiamento da parte di Amministratori Locali progressisti, delle iniziative di “nuoto islamico” = pratica che crea “disintegrazione” non certo “integrazione” nella nostra società.

-eccetera… .

Il fallimento epocale tanto del comunismo che dell’islamismo dovrebbero essere sufficientemente evidenti ovunque. Di fronte al fallimento di un “ideale” gabellato come nobile (il comunismo, la legge islamica), i rispettivi sostenitori puntano il dito contro l’elemento umano e non contro i loro ideali = “ci si deve impegnare di più, fare meglio… .” Tuttavia, a un certo punto, quando l’obiettivo mai è conseguito, e i disastri sono dinnanzi agli occhi di tutti, sarebbe logico e necessario incolpare quegli stessi ideali, e abbandonarli alla discarica della Storia. I “rossi” - comunque si chiamino - soffrono probabilmente della sindrome “cupio dissolvi”: ne consegue l’atteggiamento del “tanto peggio tanto meglio”. Gli islamici si rendono conto di essere in ritardo rispetto al resto del mondo in quasi tutti i settori dell’attività umana: una consapevolezza che è causa di disperazione e aggressività. Ambedue le forze rappresentano una minaccia per la Libertà in Italia, e in Occidente. Propongo sinteticamente un paragone storico (azzardato?): come la civiltà romana cadde -anche poiché indebolita al suo interno dal “cristianesimo”- per le aggressioni dei barbari dal nord, così la civiltà italiana rischia oggi di cadere -anche poiché indebolita al suo interno dal “comunismo”- per le aggressioni degli islamici dal Sud. L’ “amore” che molte persone ideologicamente di sinistra manifestano -con azioni e omissioni- per gli islamici (al di là dei comunque meschini interessi di “bassa corte” elettorale), “amore” al quale gli islamici replicano con odio malcelato, oltre che essere un importante punto debole da sfruttare a talento di chi combatte ambedue, è anche interessante materia di studio per psichiatri.

Nel blog Lux/ilcannocchiale ho trovato due pezzi molto interessanti che vi sottopongo e vi consiglio, se avete tempo, di visitarlo e leggere altre pubblicazioni, che sono certa troverete molto interessanti, scrive “Lisistrata”. Dal mio punto di vista sono riflessioni completamente condivisibili, ben articolate, approfondite e mai preconcette, ma analitiche e trattate con estrema intelligenza e lucidità: Perché la maggior parte della sinistra è affascinata e sta dalla parte dell'Islam. C’è una domanda che spesso mi tormenta e a cui fatico a dare una risposta: perché larga parte della sinistra sembra affascinata e spesso sta dalla parte dell’Islam? L’Islam (il termine significa “sottomissione”) è esattamente il contrario dei valori ai quali storicamente la sinistra fa riferimento; la sinistra si è sempre vantata di aver difeso gli ideali di progresso peccando semmai per eccesso e non per difetto; l’Islam è la negazione del progresso, di ogni progresso, sociale, politico, economico, scientifico. Diventa allora per me indispensabile porre alcune domande al “popolo” della sinistra.

Alle femministe (ma ce ne sono ancora? Me le ricordo bene in piazza a gridare: “è mia e me la gestisco io”) a tutti quelli, uomini e donne, che credono e si battono per la parità tra i sessi e per le pari opportunità, a chi ha condotto battaglie per il divorzio e per l’aborto dico: leggete un attimo:

Corano, IV Sura: Versetto 15: “Se le vostre donne avranno commesso azioni infami , portate contro di loro quattro testimoni dei vostri. E se essi testimonieranno, confinate quelle donne in una casa finché non sopraggiunga la morte o Allah apra loro una via d'uscita.”

Versetto 34: ”Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono [per esse] i loro beni. Le [donne] virtuose sono le devote, che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse. Allah è altissimo, grande”.

Sura II: Versetto 228: ”Le donne divorziate osservino un ritiro della durata di tre cicli, e non è loro permesso nascondere quello che Allah ha creato nei loro ventri, se credono in Allah e nell'Ultimo Giorno. E i loro sposi avranno priorità se, volendosi riconciliare, le riprenderanno durante questo periodo. Esse hanno diritti equivalenti ai loro doveri, in base alle buone consuetudini, ma gli uomini sono superiori. Allah è potente, è saggio.” Tale iman Mohammed Kamal Mustafa ha scritto pure un Vademecum sul modo di picchiare le mogli. E sapete di dov’è? Non si trova in Iran o in Iraq o in Pakistan, ma è consigliere della Federaciòn Espanola de Entidades Religiosas Islàmicas e l’esimio iman di Valencia, Abdul Majad Rejab, gli ha dato ragione sentenziando:”L’iman Mustafa è islamicamente corretto. Picchiare la moglie è una risorsa”, mentre l’iman di Barcellona, Abdelaziz Hazan, ha aggiunto:”L’iman Mustafa si limita a riferire ciò che è scritto nel Corano. Se non lo facesse, sarebbe un eretico”. E non stiamo parlando di terroristi, questo è l’Islam istituzionale delle moschee, è la parola di alcuni tra i più prestigiosi iman europei. Alle femministe, alle donne in genere quindi chiedo: tutto ciò non contrasta con la nostra Costituzione? La Costituzione Italiana non stabilisce l’uguaglianza tra i sessi? Non difende la libertà delle donne? Non vieta atti discriminatori? Non sostiene che i coniugi godono di uguali diritti e doveri? Avete mai fatto una manifestazione per i diritti delle donne islamiche? Non per quelle di Kabul, ma per quelle che abitano a Milano, Genova, Roma, Napoli. Oppure, perché non ne organizzate una a Rabat, o a Teheran, o a La Mecca, o a Medina, o a Damasco? Oppure i valori in cui credete non sono universali (neppure quelli della nostra Costituzione) e valgono sono per la nostra cultura? Parità tra i sessi, uguaglianza e dignità, divorzio e aborto non sono valori di “sinistra”? Allora chi li nega, chi li calpesta continuamente è di destra? Quindi l’Islam è di destra?

Ai comunisti atei di una volta (ma ce n’è rimasto qualcuno?) quelli che si sarebbero mangiati i preti a colazione, quelli che il Papa non deve intromettersi, a questi mi permetto di ricordare quanto diceva Feuerbach:”La religione è l’infanzia dell’umanità. La gloria di Dio si fonda esclusivamente sull’abbassamento dell’uomo, la beatitudine divina solo sulla miseria umana, la divina sapienza solo sull’umana follia, la potenza divina solo sulla debolezza umana”. E Marx rincarava la dose: “La religione è il gemito della creatura oppressa, l’anima di un mondo senza cuore, così com’è lo spirito di una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l’oppio per il popolo. La critica della religione è dunque, in germe, la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola sacra.” A loro dunque chiedo: non è forse l’Islam un potentissimo narcotico delle masse? Il sintomo di una condizione umana e sociale alienata? Il frutto di una società malata? (sempre citando Marx) Oppure questi paradigmi sono valsi solo per la religione cristiana dell’800? Cosa ne pensate di una religione totalizzante che, di fatto, riconosce come unica legge suprema ciò che insegna il Corano, che aspira a teocratizzare ogni Stato? Ve li mangiate anche loro a colazione? Non insorgete? Perché domani potrebbero aspirare ad uno stato islamico italiano fondato sulla Sharia. Se abitaste in uno dei vari paesi islamici, come potreste far valere il vostro sacrosanto diritto a pretendere una legge fatta dagli uomini e per gli uomini? Vi siete mai chiesti che fine fareste? Non sentite ribollire il sangue nelle vene? E’ giusto che in molti paesi islamici le altre religioni siano discriminate? Fa parte della loro cultura e quindi va bene così? Dal Corano:

Versetto 85: “Chi vuole una religione diversa dall'Islàm, il suo culto non sarà accettato , e nell'altra vita sarà tra i perdenti.”

II Sura: Versetto 191: ”Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell'omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti.”

Sura IV: Versetto 84: ”Combatti dunque per la causa di Allah - sei responsabile solo di te stesso e incoraggia i credenti. Forse Allah fermerà l'acrimonia dei miscredenti. Allah è più temibile nella Sua acrimonia, è più temibile nel Suo castigo.”

Versetto 89: “Vorrebbero che foste miscredenti come lo sono loro e allora sareste tutti uguali. Non sceglietevi amici tra loro, finché non emigrano per la causa di Allah. Ma se vi volgono le spalle, allora afferrateli e uccideteli ovunque li troviate.” Beh certo, se applicassimo a questi versetti un’analisi testuale e una critica ermeneutica anziché prenderli alla lettera, forse non sarebbero così devastanti. Peccato però che questo non avviene o qualcuno è al corrente di un Islam moderato che interpreta il Corano con un taglio laico e ammette la critica testuale? La libertà di professare la religione che si vuole e quindi anche di professarsi apertamente ateo è un valore di sinistra? Quindi chi lo calpesta è di destra? Quindi l’Islam è di destra?

E ancora: nei matrimoni misti, sapete darmi dei dati statistici su quale sia la percentuale relativa alla conversione alla fede cristiana del coniuge musulmano? E quale sia invece la percentuale opposta? Può un musulmano, liberamente, cambiare la sua religione e diventare cristiano? No, non può! E può una donna musulmana sposare un uomo di un’altra fede religiosa? NO, non può! Questo non è forse un atto discriminatorio? Considerare un’altra religione inferiore o addirittura da eliminare non è razzismo?
Ai ragazzi e alle ragazze dei centri sociali chiedo: ma se foste in un paese islamico, i vostri centri esisterebbero? Potreste andarci a bere una birra, farvi una canna, ascoltare un po’ di rock e, perché no, farvi una scopata? Perché non aprite un centro sociale in un qualsiasi paese islamico? E’ troppo “occidentale” aprire un centro sociale alternativo al modello “occidentale”? Se poi vi fanno storie, un po’ di sana disobbedienza civile. E che ci vuole, lo fate in tutta Europa non avrete certo timore a farlo là, o sì? La liberalizzazione delle droghe leggere non è forse un tema di sinistra? Ma come la pensano gli islamici in proposito? Essere contro le droghe leggere vuol dire essere di destra? Quindi l’Islam è di destra?

A tutti gli omosessuali, uomini e donne, di destra e di sinistra, chiedo: non vi pare un po’ troppo facile fare le manifestazioni a New York, a Londra, a Roma (sì, proprio dove c’è il Papa), a Parigi? Perché non farne una dove chi si dichiara omosessuale è veramente discriminato e rischia la vita o il carcere? Che so, a La Mecca (l’equivalente di Roma per i cristiani), al Cairo, a Teheran, nei territori palestinesi, perché non lottare per gli omosessuali arabi? E dei matrimoni tra omosessuali cosa ne pensano gli islamici? Avete mai provato a chiederglielo? Noi gli omosessuali dichiarati ce li abbiamo in parlamento e mi sembra giusto: avete conoscenza di qualche omosessuale che sieda in qualche parlamento di un qualsiasi stato islamico? (ma ci sono i parlamenti, lì?) Maometto, secondo la tradizione islamica, condannò l'omosessualità maschile: "Dio maledirà due volte chi commetterà il peccato di Lot". I giuristi più legati alle norme coraniche considerano che la sodomia debba essere trattata come la fornicazione e punita allo stesso modo. In molti paesi arabi è ancora prevista la pena di morte o il carcere per chi è sorpreso in atti omosessuali; in Palestina gli imam spesso emettono sentenze che scagionano un omicida che abbia ucciso un omosessuale. Secondo le antiche interpretazioni giuridiche della legge sacra, gli sposati non schiavi saranno messi a morte per lapidazione, mentre uno scapolo libero riceverà 100 frustate e sarà esiliato per un anno. Nelle sentenze che seguono i processi per sodomia appare tuttavia spesso l'accusa di "matrimonio tra uomini": questo, in riferimento alle antiche norme coraniche pare permetta ai giudici di condannare a morte anche degli omosessuali non sposati.

Quanto al lesbismo, pare che non sia esplicitamente considerato dalla legge islamica: secondo Maarten Schild, autore di "Sessualità ed erotismo maschile nelle società musulmane", il sesso tra donne è considerato in quanto "sesso fuori del matrimonio e quindi paragonabile all'adulterio", la pena tradizionale è sempre quindi la morte o le cento frustate. Abd al-Azim al Mitaani, sceicco e professore all'università religiosa di Al Azhar (Il Cairo), dice in un intervista riportata dal Manifesto del 25 ottobre 2001: "Per quanto riguarda la sodomia, la maggior parte dei dottori dell'Islam considera che sia l'attivo che il passivo devono essere messi a morte”. E precisano anche che se una bestia viene sodomizzata, l'uomo deve essere giustiziato e l'animale abbattuto. L'omosessualità è attualmente illegale in 26 paesi islamici: Afghanistan, Algeria, Bahrain, Bangladesh, Bosnia, Iran, Giordania, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Kuwait, Libano, Libia, Malesia, Mauritania, Marocco, Oman, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Sudan, Siria, Tajikistan, Tunisia, Turkmenistan, Emirati Arabi uniti e Yemen. Tra questi, l'Iran, la Mauritania, l'Arabia Saudita, il Sudan e lo Yemen prevedono la pena di morte; il Pakistan prevede la fustigazione ed almeno due anni di carcere; in Malesia la pena arriva fino a 20 anni e negli Emirati Arabi fino a 14, mentre in Bangladesh e libia la pena è rispettivamente di 7 e 5 anni di carcere. L'Iran è comunque il paese più zelante nel reprimere l'omosessualità: dal 1980, quando i fondamentalisti hanno preso il potere sotto la guida dell'Ayatollah Khomeini, oltre 4000 gay e lesbiche sono stati giustiziati, stando a quanto riferisce il gruppo in esilio per i diritti dei gay, Homan.

Se questi temi sono di “sinistra”, allora chi nega tutto questo e non solo a parole, ma con la violenza, è di destra? O no? Allora l’Islam è di destra? E di quella peggiore?

A tutti i laici (e io sono tale), a quelli che sostengono che lo Stato e la religione devono restare separati, cosa ne pensate delle teocrazie? La teocrazia è la negazione della democrazia, o no? E’ vero o no che nessun paese islamico ha sottoscritto presso l’ONU la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo? E’ vero o no che nei paesi islamici la Sharia è l’unico riferimento per ciò che riguarda i diritti umani? Avete mai provato a chiedere a un islamico cosa ne pensa, ad esempio, di Dante Alighieri che ha messo Maometto all’inferno, o di Voltaire, o di Darwin e dell’evoluzionismo, o di Freud, o della psicanalisi, ecc.ecc.? Qual è il riferimento massimo, per un laico, che consente una convivenza democratica? Forse la Costituzione? E per un islamico? Forse il Corano e, di conseguenza, la Sharia? Avete mai provato a chiedere ad un islamico:”Ma se dovessi scegliere tra obbedire alla Costituzione del paese che ti ospita o a quello che ti comanda il Corano, come ti comporteresti? In caso di contrasto, a cosa dai la precedenza?” Beh, fatelo, chiedeteglielo!

Ai pacifisti senza ma e senza se, ai sostenitori di una società multiculturale, ai sostenitori dell’integrazione ad ogni costo, chiedo: ma siete sicuri che loro, gli islamici, vogliano integrarsi? Leggete per favore, il Corano punisce l’integrazione: Corano, III Sura: Versetto 12: “Di' ai miscredenti: " Presto sarete sconfitti. Sarete radunati nell'Inferno. Che infame giaciglio!".

Versetto 216: ”Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete.”

Sura IV: Versetto 74: ”Combattano dunque sul sentiero di Allah, coloro che barattano la vita terrena con l'altra. A chi combatte per la causa di Allah, sia ucciso o vittorioso ,daremo presto ricompensa immensa.”

Sura V: Versetto 33: ”La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l'ignominia che li toccherà in questa vita; nell'altra vita avranno castigo immenso”.

Visto che noi italiani abbiamo una crescita demografica pari a zero o poco più, mentre i musulmani che stanno qui si raddoppiano ad ogni generazione (un buon musulmano deve avere almeno 5 figli per moglie) cosa accadrà tra 50-80 anni? Cosa accadrà quando loro saranno il 50% della popolazione o forse di più? A questo, ci avete mai pensato? Cosa accadrà allora? Perché questa non è un’opinione, accadrà perché è una pura e semplice questione matematica. Se la democrazia rappresenta per loro più un mezzo piuttosto che un fine, cosa potrà accadere nel momento in cui saranno (o potranno essere) la maggioranza relativa della popolazione? Volete qualche dato: eccolo! .Considerando i regolari e gli irregolari, il numero di musulmani che vivono in Italia risulta essere stimato oltre il milione. In Europa il loro numero si attesta sui dieci milioni, ed è costantemente in aumento. Infatti, il numero dei neonati musulmani nella Comunità Europea ogni anno è pari al 10%; a Bruxelles arriva al 30% e a Marsiglia tocca il 60%. Sto esagerando? Sono paranoico? L’anno era il 1974, la sede l’Assemblea delle Nazioni Unite, il personaggio l’algerino Boumedienne: cosa disse? Ecco:”Un giorno milioni di uomini abbandoneranno l’emisfero sud per irrompere nell’emisfero nord. E non certo da amici. Perché vi irromperanno per conquistarlo. E lo conquisteranno popolandolo coi loro figli. Sarà il ventre delle nostre donne a darci la vittoria”. Recentemente in parlamento è stata votata una legge sacrosanta che tutela gli animali in quanto esseri “senzienti”, cioè capaci di provare dolore; a prendere a calci un cane si rischia il codice penale. Agli animalisti chiedo: ma la macellazione halal praticata dagli islamici che consiste nello sgozzare l’animale ancora vivo e lasciare che muoia dissanguato in una lenta agonia, vi sembra rispettosa di un essere “senziente”? Non avete nulla da dire? Nulla da obiettare? Cosa dicono i verdi animalisti? Se da un punto di vista antropologico il relativismo culturale è una teoria che ha solide radici teoriche (in pratica dice che ogni cultura elabora modalità diverse per rispondere agli stessi fondamentale bisogni, quindi ogni cultura ha la sua dignità e ogni azione, anche la più orrenda, se inserita nella cultura d’origine assume un suo significato) cosa accade quando una cultura “trasmigra” in un altro territorio dove c’è una cultura diversa? Insomma, semplificando, se ognuno a casa sua è libero di fare ciò che gli pare, cosa accade quando c’è chi lo vorrebbe fare a casa degli altri? Fin dove arriva il confine tra ciò che può concedere l’ospite al suo ospitato? Perché anche per i cannibali mangiare l’uomo è un fatto “culturalmente normale”, ma non per questo permetteremmo ad un cannibale di mangiarsi qualcuno a casa nostra. Il principio di reciprocità (io ti permetto di fare a casa mia ciò che tu mi permetti di fare a casa tua) può essere considerato una forma di valido compromesso? Alla fine ritorno alla domanda iniziale: cosa accomuna un militane della sinistra, un comunista, un ex-comunista, un laico all’Islam? Ad un iman? Ad un ayatollah? Agli ulema? Nulla…sembrerebbe…eppure…Tu l'hai capito perché la sinistra sta dalla parte dell'Islam? “Tu lo hai capito, Lei lo ha capito perché la Sinistra sta dalla parte dell’islam?” E tutti rispondevano:”Chiaro. La Sinistra è terzomondista, antiamericana, antisionista. L’Islam pure. Quindi nell’Islam vede ciò che i brigatisti chiamano il loro naturale alleato”. Oppure:”Semplice. Col crollo dell’URSS e il sorgere del capitalismo in Cina, la Sinistra ha perduto i suoi punti di riferimento. Ergo, si aggrappa all’Islam come a una ciambella di salvataggio”. Oppure:”Ovvio. In Europa il vero proletariato non esiste più, ed una Sinistra senza proletariato è come un bottegaio senza merce. Nel proletariato islamico la Sinistra trova la merce che non ha più, ossia un futuro serbatoio di voti da intascare”. Ma sebbene ogni risposta contenesse un’indiscutibile verità, nessuna teneva conto dei ragionamenti sui quali le mie domande si basavano. Così continuai a tormentarmi, a disperarmi, e ciò durò finché m’accorsi che le mie domande erano sbagliate. Erano sbagliate, anzitutto, perché nascevano da un residuo rispetto per la Sinistra che avevo conosciuto o creduto di conoscere da bambina. la Sinistra dei miei nonni, dei miei genitori, dei miei compagni morti, delle mie utopie infantili. La Sinistra che da mezzo secolo non esiste più. Erano sbagliate, inoltre perché nascevano dalla solitudine politica nella quale avevo sempre vissuto e che invano avevo sperato d’alleggerire cercando d’annaffiare il deserto proprio con chi lo aveva creato. Ma soprattutto erano domande sbagliate perché sbagliati erano  i ragionamenti o meglio i presupposti su cui esse si basavano. Primo presupposto, che la Sinistra fosse laica. No: pur essendo figlia del laicismo partorito dal liberalismo e quindi a lei non consono, la Sinistra non è laica. Sia che si vesta di nero sia che si vesta di rosso o di rosa o di verde o di bianco o d’arcobaleno, la Sinistra è confessionale. Ecclesiastica. Lo è in quanto deriva da un’ideologia che s’appella a Verità Assolute. a una parte il Bene e dall’altra il Male. Da una parte il Sol dell’Avvenir e dall’altra il buio pesto. Da una parte i suoi fedeli e dall’altra gli infedeli anzi i cani-infedeli.

La Sinistra è una Chiesa. E non una Chiesa simile alle Chiese uscite dal cristianesimo quindi in qualche modo aperte al libero arbitrio, bensì una Chiesa simile all’Islam.

Come l’Islam, infatti, si ritiene baciata da un Dio custode del Bene e della Verità.

Come l’Islam non riconosce mai le sue colpe e i suoi errori. Si ritiene infallibile non chiede mai scusa.

Come l‘Islam pretende un mondo a sua immagine e somiglianza, una società costruita sui versetti del suo profeta Karl Marx.

Come l’Islam schiavizza i suoi stessi fedeli, li intimidisce, li rincretinisce anche se sono intelligenti.

Come l’Islam non accetta che tu la pensi in modo diverso e se la pensi in modo diverso ti disprezza. Ti denigra, ti processa, ti punisce, e se il Corano ossia il Partito le ordina di fucilarti ti fucila.

Come l’Islam è illiberale, insomma. Autocratica, totalitaria, anche quando accetta il gioco della democrazia. Non a caso il 95% degli italiani convertiti all’Islam vengono dalla Sinistra o dall’Estrema Sinistra rosso-nera. Il 95% dei musulmani naturalizzati cittadini italiani, idem. (Il mascalzone che non vuole il crocefisso nelle scuole o negli ospedali e che ai suoi confratelli scrive Andate a morire con la Fallaci viene dall’Estrema Sinistra rosso-nera. Il suo compagno è stato addirittura in carcere per sospetta connivenza con le Brigate Rosse).

Come l’Islam, infine, la Sinistra è anti-occidentale. E il motivo per cui è anti-occidentale te lo dico con un brano del saggio che negli Anni Trenta il liberale austriaco Friedrich Hayek scrisse a proposito della Russia bolscevica e della Germania nazionalsocialista.

Ecco qua. “Qui non si abbandonano soltanto i principi di Adam Smith e di Hume, di Locke e di Milton. Qui si abbandonano  le caratteristiche più salde della civiltà sviluppatasi dai greci e dai romani e dal Cristianesimo, ossia della civiltà occidentale. Qui non si rinuncia soltanto al liberalismo del 1700 e del 1800, ossia al liberalismo che ha completato quella civiltà. Qui si rinuncia all’individualismo che grazie a Erasmo da Rotterdam, a Montagne, a Cicerone, a Tacito, a Pericle, a Tucidide, quella civiltà ha ereditato. L’individualismo, il concetto di individualismo, che attraverso gli insegnamenti fornitici dai filosofi dell’antichità classica poi dal Cristianesimo poi dal Rinascimento poi dall’Illuminismo ci ha reso ciò che siamo. Il socialismo si basa sul collettivismo. Il collettivismo nega l’individualismo.  E chiunque neghi l’individualismo nega la civiltà occidentale” Oriana Fallaci, “La forza della ragione” pp.221-225.

Sinistra e musulmani in piazza contro terrorismo e l'islamofobia. Migliaia in piazza Duomo a Milano contro il terrorismo. Ma anche per ribadire opposizione totale a una destra definita "razzista e portatrice di odio". Quasi che la responsabilità degli attentati fosse sua, scrive Giovanni Masini su “Il Giornale”. Bandiere della pace, "Bella Ciao", falci e martelli. E poi Emergency, le Acli, No Tav e No Muos, curdi e attivisti pro Palestina. Tra i partecipanti alla manifestazione indetta oggi a Milano per condannare gli attentati contro Charlie Hebdo sfila il classico repertorio di sigle e movimenti della sinistra radical chic. Tra loro, un discreto numero di musulmani, molti giovani, qualche famiglia con bambini. Gli slogan sono quelli di sempre, a favore del multiculturalismo e dell'integrazione, contro la destra italiana definita "xenofoba" e "razzista". Cose già viste e riviste, oggi riproposte per l'ennesima volta in occasione della celebrazione delle vittime di Charlie Hebdo. Due le parole d'ordine: no al terrorismo e no al razzismo. Dei fondamentalisti il primo, della destra il secondo. Due parole d'ordine messe naturalmente in correlazione: il terrorismo che alimenta il razzismo è a sua volta, in parte, il prodotto di una politica intollerante e discriminatoria. Questa è la tesi soprattutto della sinistra, presente al gran completo a partire dagli alti gradi della giunta Pisapia (il sindaco non c'è, ma manda i suoi saluti): "nous sommes Charlie", prima di tutto. E poi passiamo a contrastare il pericolo verde-nero. Più diritti, più integrazione, più moschee: è questa la ricetta proposta per rispondere agli attentati di Parigi. Una ricetta che, per la verità, è la stessa degli ultimi quindici anni. A sinistra, i fatti degli ultimi giorni hanno cambiato poco, in termini di proposte. Più lineare la posizione dei musulmani (non moltissimi tra le migliaia di persone radunatisi all'ombra della Madonnina): i giovani di "Partecipazione e spiritualità musulmana" esibiscono cartelli con l'hashtag "non in mio nome". Rivendicano la differenza tra Islam e terrorismo, ma c'è anche chi non rinuncia all'idea di porre un limite alla satira, "quando offende la libertà e la sensibilità, soprattutto in campo religioso". Per il rappresentante legale del Caim (Coordinamento Associazioni Islamiche Milanesi) Reas Syed l'espressione "terrorismo islamico" è un ossimoro. Syed rivendica il messaggio di pace dell'Islam e ribadisce che le azioni di chi compie attentati in nome di Allah non siano attribuibili all'Islam tout-court. Tra la sinistra radicale, però, c'è anche chi identifica il problema con la destra e l'Islamofobia. "Salvini è la barbarie e questa piazza è la risposta alla barbarie - attacca il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero - La condanna del terrorismo è nettissima e bisogna sapere che chi semina odio lavora ad alimentare queste dinamiche". Parole dure, pronunciate in una piazza dove appena tre mesi fa il leader della Lega radunava centomila persone per dire no all'immigrazione clandestina, in quella che è stata la maggiore manifestazione della destra italiana degli ultimi anni. Ora sotto le guglie del Duomo la sinistra rosso-arancio torna contarsi con gli slogan di sempre. All'indomani delle stragi parigine, le parole più emblematiche sono quelle di Cecilia Strada, presidente di Emergency e figlia di Gino: "No alla violenza e no al terrorismo". Ma anche "No a chi odia e specula sui fatti di sangue per calcolo elettorale". Porte chiuse agli "islamofobi" quindi, anche se i partiti nel mirino rappresentano milioni di italiani. D'altronde in Francia il Front National di Marine Le Pen è stato escluso dalla grande manifestazione nazionale di domani. Anche qui, in gran parte, la piazza sembra approvare. In corteo c'è posto solo per chi condanna il terrorismo. E l'islamofobia.

Così la sinistra con la kefiah ha creato l'Italia saudita. Per noi italiani è dura renderci conto che siamo, anche noi come i francesi e gli europei tutti, sotto l'attacco di una crociata islamica, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Per noi italiani è dura renderci conto che siamo, anche noi come i francesi e gli europei tutti, sotto l'attacco di una crociata islamica. Per noi è più dura che per gli altri, visto che veniamo da decenni di andreottismo islamico, un barile di petrolio a me e una licenza d'uccidere a te, che ha sminuzzato e invertito la storia, la geografia, i valori, allevando due generazioni di arraffatori politicamente corretti e ipocriti. Di quell'andreottismo furbo e affarista, sminuzzatore e insabbiatore si è nutrita una sinistra felice di mettersi la kefiah e, quando possibile, passeggiare su e giù a braccetto con Hezbollah. L'Italia è stata la patria degli intrugli più disgustosi fra servizi segreti che hanno coperto stragi senza senso apparente (Ustica? Bologna?) perché loro il senso lo conoscevano benissimo. L'Italia dei killer a caccia di dissidenti, come quelli libici con diritto di uccidere nel 1980, l'Italia di Daniele Pifano con il lanciamissili sul balcone per abbattere un aereo israeliano, l'Italia che lascia ammazzare italiani ebrei alla sinagoga e che subisce senza fiatare l'attacco a Fiumicino; l'Italia con la kefiah arafattiana, in intrallazzo libanese, in affari sottosabbia con emirati e con tiranni di ogni dimensione e sorta, perché gli affari sono affari e con la speranza che così agendo alla fine qualcuno ti è grato e l'immunità si può comperare. Errore. Nella crociata appena scatenata e di cui la Francia vede le prime ferite non si fanno prigionieri, non si scontano cambiali, non esistono club di benemerenza. L'Italia fronteggia la nuova crisi in condizioni molto peggiori della Francia che, con i suoi sei milioni di musulmani registrati e perfino autoctoni, ha almeno consapevolezza del problema. Da noi no. Da noi la crociata che ci viene scagliata contro attraverso la paura (per ora, e tocchiamo ferro) con gli insulti, con le bugie e con un sostanziale antisemitismo strisciante che fa da miccia ai fuochi fatui delle discariche sembra apparentemente lontana: come guardare un cinghiale che ti carica con un binocolo rovesciato. Le carte si sono ormai rovesciate e da crociati che fummo noi europei - noi? e che c'entriamo noi? - ora siamo la Gerusalemme assediata da truppe militari e mediatiche, tagliagole e gente pronta a farsi saltare in aria senza batter ciglio. Ce la può fare l'Italia in mezzo alla tempesta di lava, colma com'è di pregiudizi e di oblio? Abbiamo visto ieri di che cosa si tratta. La crociata che la parte più aggressiva e sincera dell'Islam ha lanciato contro l'Occidente non potrà essere respinta soltanto con i corpi speciali chiamati a recuperare ostaggi e vendicare la libertà di espressione, prima ancora che la libertà di stampa. Che si tratti di una crociata contro di noi è ormai evidente. I nuovi crociati islamici si radunano per vie visibili sentieri militari carsici elettronici, tornano addestrati nelle patrie matrigne in cui sono nati ma che odiano, e assediano la nostra Gerusalemme al cui interno si commettono delitti impronunciabili come la parità dei diritti delle donne, la loro istruzione, la graduale garanzia di una vita sessuale gioiosa nel rispetto dell'età e del libero arbitrio. E poi il più satanico dei nostri peccati: la Storia. Abbiamo incoraggiato la Storia a svolgersi separando idee e secoli, costumi e mode, abbiamo festeggiato le nostre contraddizioni. I crociati islamici chiedono con le armi in pugno che il tempo resti inchiodato su un orologio di legno in cui tutti, sempre, ovunque, vestano, parlino, agiscano, in modo tale da non rendere possibile la distinzione fra un'era e un'altra, un prima e un dopo. I nuovi crociati che ci assediano con le catapulte per rovesciarci fuochi di angoscia e fiumi di sangue nelle nostre redazioni satiriche, nelle nostre scuole, nei luoghi simbolici come le torri di Babele di Manhattan, perché non vogliono che il mondo conosca le rughe del progresso, ma soltanto la levigatezza viscida dell'immobilità. Si legge che i nuovi combattenti giovanissimi dell'Isis, o del Jihad, o di al Quaida sono «entusiasti». Ebbri di entusiasmo, febbricitanti per il desiderio di infliggere la morte, la punizione, la vista orrenda delle decapitazioni, l'immagine dei bambini uccisi uno a uno in ginocchio nelle scuole. La loro adrenalina, quella dei nuovi crociati, scorre felice e divampante nelle loro arterie pulsanti e quell'adrenalina accende la furia della distruzione. Quel che i nuovi crociati islamici vogliono, anelano, sognano, è soltanto la distruzione. Chiamano Califfato la liberazione dalla libertà, la liberazione dalla ricerca scientifica, la liberazione da Mozart, da Michelangelo, da Picasso. La liberazione dalla scienza che produce ricerca e medicine, mentre l'estro dei liberi detta letteratura, musica popolare e poesia. E - i nuovi crociati - odiano più di tutti gli ebrei che originati da Giudea e Samaria, sicché per loro un supermercato kosher è un giusto obiettivo e un bambino ebreo di sei mesi un nemico da catturare. Finora la nostra Gerusalemme assediata ha traccheggiato, finto di non capire, agito con una colpevole lentezza zavorrata dai sensi di colpa che sono il più complicato frutto della civiltà occidentale. I due fratelli Kouachi, carnefici miserabili dei giornalisti armati di sola matita, sono stati uccisi nella tipografia di Dammartin - evidentemente non si poteva far altro - malgrado la raccomandazione di prenderli vivi. Ha prevalso il criterio di salvare le altre vite umane. Ma quanti sono disposti ad ammettere che sarebbe stato etico, giusto, buono e opportuno che i due Kouachi fossero stati interrogati, se presi vivi, con tutta la crudele energia necessaria per far loro dare tutte le informazioni utili per questa guerra? Ma l'Occidente assediato è ipocrita, prova orrore per le sue stesse armi e finge di credere che i nuovi crociati siano vittime, sue vittime, e li assolve in anticipo per ogni mostruoso show in cui si spengono vite. L'Occidente si flagella per le antiche crociate di mille anni fa, ma ignora che l'urbanistica e la paesistica italiana, i paesi arroccati sulle colline difesi da un maniero sono state stravolte dai predatori islamici che per secoli hanno stuprato, schiavizzato, deportato le nostre coste. Può farcela a resistere questo nostro Paese slogato dalla furbizia? Capirà che in modo pacato e sereno, senza furie inutili o grida di guerra, si deve preparare a una guerra, deve combattere e non farsi sopraffare? I nuovi crociati contano sulla nostra storica vocazione a fare il pesce in barile, meno interessato al pesce, molto al barile.

Non siamo tutti Charlie. Siamo politicamente corretti, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. Non siamo tutti Charlie. È inutile ripeterlo ossessivamente e prenderci in giro. Purtroppo, o semplicemente perché siamo diversi. Facciamocene una ragione. Siamo con Charlie Hebdo, ma non siamo Charlie Hebdo. Perché viviamo in un Paese che le vignette le cancella con la gomma dell’insofferenza e dell’arroganza, che incarcera i giornalisti e che detesta la critica. Viviamo in un Paese bigotto che vezzeggia gli islamici e minaccia di incarcerare chi sbeffeggia il capo dello Stato. Figuriamoci quanto sarebbe durato Charlie a queste latitudini; un settimanale che prende di mira Dio, Maometto e il Papa. Giovannino Guareschi è finito in galera per una risata di troppo. Difatti in Italia riviste di satira feroce e corrosiva non ce ne sono. E se ci sono, come il Vernacoliere, si dilettano a punzecchiare gli slombati politici italiani o gli innocui cattolici. Guai a toccare l’Islam. Più che per paura della vendetta dei maomettani (almeno fino a questa settimana) per il timore di finire sotto il tiro dei potenti gendarmi del politicamente corretto. La strage in redazione – in quella redazione – è un simbolo. Una sventagliata di mitra lanciata al sorriso dell’Occidente. Ci hanno buttato giù tutti i denti, ma noi dobbiamo sorridere anche sdentati. Perché quella è la nostra forza, deve essere la forza della nostra cultura. Il sorriso e l’irriverenza. Dobbiamo cercare di essere un po’ Charlie, di avere quello spirito, applicato alle nostre idee.  La solidarietà va bene. Ma togliamoci dalla testa di essere tutti Charlie. Perché dopo che ci hanno bruciato la redazione non so in quanti continueremmo a disegnare con costanza e a testa alta la nostra condanna. Mi viene in mente una frase di Ezra Pound: se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui.

Le Pen e Salvini i grandi esclusi. La sinistra non li vuole in piazza. Alla faccia dell'unità nazionale: Front National e Lega restano emarginati. Sono persone non gradite. Li temono più del terrorismo? Scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Alla faccia dell'unità nazionale. La minaccia terroristica dovrebbe ricompattare un Paese, senza distinguo. Ma la sinistra, anzi, le sinistre di Francia e Italia fanno comunella e stabiliscono chi possa partecipare o meno alle manifestazioni di solidarietà per le vittime delle stragi jihadiste. Questi prefetti del «buonismo» hanno perciò deciso che le patenti di presentabilità non vanno rilasciate alla Lega e al Front National. Sembra che abbiano più paura di Matteo Salvini e di Marine Le Pen che dei terroristi islamici. Così alla manifestazione di ieri, organizzata dal Pd, Sel, Anpi e compagnia cantante in piazza Duomo a Milano, la Lega non è stata invitata. Stessa musica a Parigi, dove la gauche caviar ha escluso il Front National dalla grande kermesse che si terrà oggi e dove sfileranno, oltre agli esponenti della sinistra francese anche quelli nostrani, con il premier Matteo Renzi in testa. «Mi fa pena pensare che Renzi sfilerà per le strade di Parigi, quando con le sue politiche a favore dell'immigrazione di massa è complice di quello che rischia di accadere in futuro - ha detto il segretario della Lega Salvini - L'islam è pericoloso, nel nome dell'islam ci sono migliaia di persone in giro per il mondo, e anche sui pianerottoli di casa nostra, pronte a sgozzare e a uccidere». Salvini, assieme ai militanti milanesi, ha distribuito ieri le vignette satiriche di Charlie Hebdo nei pressi del Palasharp, area nella quale la giunta rossa di Milano vuole autorizzare la costruzione di una moschea. «Sono preoccupato - ha aggiunto il leader leghista - perché sia il governo Renzi sia la giunta Pisapia non hanno capito cosa stanno facendo. La Lega farà tutto il possibile affinché le moschee non siano aperte, anche con referendum». Che si tratti di temi sensibili, lo ammettono tutti. Ma la sinistra, nonostante l'acclarata emergenza, appare miope, se non cieca. E il minimizzare il pericolo attentati e negare l'evidenza sulla minaccia jihadista, come hanno scelto di fare il presidente socialista François Hollande e la sua corte salottiera, ha fatto abbassare la guardia a un intero Paese, permettendo una strage senza precedenti a Parigi. Il nostro governo vuole copiare gli errori francesi? Ci auguriamo di no. Hollande e il suo esecutivo, come abbiamo già scritto nei giorni scorsi, erano più preoccupati dell'ascesa del Front National che del pericolo islamico incombente. Così hanno messo la sordina a tutti gli episodi premonitori per non portare ulteriori consensi al partito in ascesa della Le Pen. «In Francia, da tempo i presidenti di sinistra hanno paura di essere accusati di razzismo quando attaccano il terrorismo - ha affermato in un'intervista a La Repubblica il tesoriere del Front National, Walleran de Saint Just - E così anche noi veniamo tacciati di xenofobia, in modo vergognoso, solo perché siamo contro i terroristi. Questo atteggiamento deprime i francesi, che si sentono poco protetti. La sinistra ha una grande responsabilità morale e politica». Quindi, in Francia come in Italia, chi denuncia apertamente le minacce del fondamentalismo viene discriminato, isolato, delegittimato. Strategia molto cara ai post comunisti. Ma sono sicuri di essere al riparo facendo gli ignavi? Credono forse che il loro «politicamente corretto» impedisca al jihadista di turno di tagliargli la gola? Poveri illusi, gli integralisti islamici hanno un'unica parola d'ordine: gli infedeli devono essere cancellati. Per questo fanno ridere quando parlano di valori, di Occidente, di unità nazionale e allo stesso tempo discriminano una parte consistente del Paese. «È squallido che con i cadaveri ancora da seppellire ci sia qualcuno che isola altri, come la Lega e la Le Pen - ha spiegato Salvini - Poi saremmo noi a strumentalizzare? Noi rappresentiamo la maggioranza degli italiani». Sì, è davvero squallido attaccare le opinioni di una partito piuttosto che condannare i terroristi islamici.

Vauro Senesi e il "coccodrillo" per Charlie Hebdo: pioggia di insulti sui social. La doppia morale di Vauro Senesi. Va in tv con la maglia "Je suis Charlie", salvo scordarsi le sue feroci critiche alle vignette di "Charb". Su twitter infatti è scoppiata la bufera dopo il coccodrillo in diretta tv del vignettista di Santoro a Sevizio Pubblico dedicato alle vittime del massacro di Charlie Hebdo: "Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo. Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre. Questi mostri li abbiamo creati noi", afferma Vauro da Santoro. Ma dimentica quelle sue parole di qualche tempo fa contro le vignette di Charlie Hebdo: "Questi disegni sono messaggi violenti che provocano reazioni violente". Implacabile la reazione del web: "Vauro sei un paraculo". 

Criticava Charlie, ora lo piange Tutti contro il coccodrillo Vauro. Il vignettista di Santoro indossa la maglietta di solidarietà, ma quando i francesi pubblicarono i disegni anti islam li accusò di provocare "reazioni violente". E il web si scatena: "Che paraculo", scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale”. Sui social, che non sono la rappresentazione del mondo, ma ne incorniciano comunque un pezzo, c'è chi ricorda che le vignette contro i cristiani non hanno mai prodotto vittime, ecco la differenza tra noi e loro: «Bella la vita Vauro, neh!». C'è chi spegne la tv, perché non può sopportare «Vauro, Ruotolo e tutti quei quaquaraquà che ora alzano le matite al cielo, ma fino a ieri invece...». C'è chi non si ricorda, fino l'altro giorno, vignette di Vauro sull'Islam, e chi ricorda invece che Vauro attaccò le vignette danesi anti-Maometto perché, disse, «messaggi violenti provocano reazioni violente». C'è chi ironizza sul fatto che ora «in Italia aspettiamo la risposta di Vauro, che con sprezzo del pericolo farà una vignetta molto aggressiva. Su Berlusconi o Renzi». E chi, esagerando come solo Twitter è capace di esagerare, nel suo micidiale mix di sintesi e cinismo, digrigna la tastiera: «Vauro con la maglietta "Jesuischarlie", lui, amico dei terroristi islamisti...». E in effetti, l'altra sera, in una trasmissione come Servizio Pubblico di Santoro che faticava parecchio, tra distinguo e cautele, tra buonismo e correctness politica, ad avvicinare i termini «terrorismo» e «Islam», faceva impressione (per alcuni pena) vedere Vauro Senesi, in arte Vauro, in pratica un disegnatore con le sue debolezze e i suoi talenti, come tutti noi, indossare a favore di telecamera la t-shirt con la scritta Je suis Charlie . Che, si vedeva, era fuori taglia, e non solo metaforicamente. Perché a Vauro quella maglietta stava strettissima. Piange i colleghi francesi, ma nega che ci sia una guerra in corso. Condanna i terroristi, ma non dice mai «terroristi islamici». Sbuffa: «Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel Medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo», ma dimentica che i passi li ha fatti la civiltà cristiana, in avanti: e infatti per quanto ritenga esecrabili le vignette satiriche contro il Papa, Comunione e liberazione non ha mai organizzato una crociata su Parigi. Un po' troppi «ma», quando ci sono persone uccise a colpi di Ak47 in nome di Allah. Ieri, sul Corriere della sera , in un pezzo nascosto a pagina 15, non richiamato in prima né postato sul sito del quotidiano, Pierluigi Battista ha firmato un pezzo dal titolo «Vauro e gli altri che bocciarono quelle vignette "provocatorie"», smascherando l'ipocrisia di chi, come Vauro appunto o come Ruotolo, oggi piangono gli eroici giornalisti di Charlie Hebdo , ma ieri li consideravano irresponsabili, dei provocatori. E Vauro ha subito risposto su Dagospia invocando, per par condicio, la censura subita per una vecchia vignetta su Berlusconi. Perdendo sia il senso della misura sia quello del ridicolo. «Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre - ha detto - Questi mostri li abbiamo creati noi». La colpa, anche se a sparare sono gli «altri», è sempre nostra. Per il resto, quella che ci stanno disegnando davanti agli occhi, è una vignetta già vista tante volte. Dentro ci sono molte matite perfettamente appuntite nell'offendere il sentimento religioso cristiano, più spuntate nel farlo con i simboli musulmani. Un'unica mina, una doppia morale. E non fa ridere.

Quell'odio a ritmo di rap dove "balla" il deputato Pd. Molti dei jihadisti, tra cui uno di quelli di Parigi, cantavano le rime violente in voga nelle comunità islamiche, Italia inclusa. In un video compare l'onorevole Chauki, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Ormai non si può più. Ora che il video del killer parigino Chérif Kouachi in versione rapper ha fatto il giro del mondo (ma è stato girato nel 2005), è impossibile non riconoscere il fil rouge che collega tanti jihadisti a questa espressione musicale. Dopotutto anche il presunto carnefice dell'ostaggio decapitato James Foley è l'inglese Abdel-Majed Abdel Bary che, prima di sparire, aveva un microscopico seguito londinese come rapper. E pure qui in Italia le rime violente vanno di moda, con varie sfumature. Si va da Amir Issa che nel video Ius Music , (in cui canta «da Palermo a Torino scoppierà un casino»), ha ospitato un deputato Pd di origini marocchine (Khalid Chauki), ai rapper che incitano all'odio mortale come Anas El Abboubi, ora ventenne, arrestato a giugno 2013 per «addestramento finalizzato al terrorismo internazionale» però poi rilasciato dopo pochi giorni: adesso sarebbe ad Aleppo con il nome di Anas Al-Italy e, come si legge sul suo profilo Facebook, di professione «lavora presso la Jihad». Quand'era in Italia, lui di origini marocchine ma arrivato giovanissimo in provincia di Brescia, rappava: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata, tengo il bersaglio sulla Crociata». Hai letto bene. Dopo, dalla Siria ha annunciato, keffiah al collo e kalashnikov in mano, di aver abbracciato la sharia con i ribelli siriani. Certo i toni sono diversi, ma sempre aggressivi. Intollerabilmente. Ci sono rapper ultrafamosi come Busta Rhymes, Ice Cube, Nas, Everlast o Jay Z che hanno inserito nelle proprie rime espliciti e tolleranti riferimenti alla fede musulmana. E uno, non proprio famoso per coerenza come Snoop Dogg, si è convertito all'Islam per tre anni dal 2009 prima di passare al Rastafarianesimo. Rap islamico si può ascoltare pure in rete e scaricare in free download e, per quanto aggressivo e colorito, rimane lontano dall'integralismo. Come quello celebrato quattro anni fa a Lignano Sabbiadoro dai Giovani Musulmani d'Italia con il concorso di «anashid islamiyà», ossia canzoni islamiche in arabo. Un altro conto sono le rime che inneggiano alla lotta armata e mortale. Sono un segno di quanto pericolosamente, e nell'indifferenza pressoché totale di quasi tutta la politica e l'informazione, la Jihad abbia fatto propri gli strumenti di comunicazione tipici del mondo giovanile: il rap è il linguaggio musicale più usato dagli under 30 e i terroristi lo hanno capito. Dopo una prima e lunga fase di totale chiusura a forme musicali (ad esempio l'Afghanistan talebano era un paese orfano di ogni tipo di musica) hanno drammaticamente assorbito i linguaggi giovanili occidentali per piegarli alla propria propaganda assassina. Ad aprile il rapper olandese-libanese Hozny ha pubblicato un video che mostrava la macabra messinscena dell'esecuzione del deputato Geert Wilders. E proprio in quei giorni il tedesco Deso Dogg (vero nome Denis Mamadou Cuspert) è morto combattendo con i ribelli dell'Isis in Siria. Follie totali. Ora, anche in questo caso, il rischio emulazione si dilata. E senza dubbio il rap, stile di protesta nato negli anni '70 per cantare il bisogno dei neri americani di uscire dai «ghetti» metropolitani, offre la metrica adatta e soprattutto l'indice di penetrazione popolare più alto in tutto l'Occidente. Quindi non sarà difficile che in un futuro immediato saltino fuori altri esempi di integralismo rap. Mutatis mutandis , il punk o il metal sono stati passioni fugaci di terroristi in epoche non troppo lontane. Ma il segreto per non trasformare le eccezioni in una regola è non generalizzare. Oltre che un errore, l'equazione rap = terrorismo sarebbe un assist imperdonabile alla peggiore delle propagande.

Terrorismo, provate a mettervi nei panni di un musulmano. Khalid Chaouki, parlamentare del Pd, parla a cuore aperto dei fatti di Parigi e delle colpe dell'Islam, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Khalid Chaouki è nato a Casablanca, in Marocco. Ha 32 anni, è arrivato in Italia da bambino, è cresciuto tra Parma e Reggio Emilia. È tra i fondatori dell’associazione “Giovani musulmani d’Italia”, della quale è diventato presidente, siede nella consulta per l’islam istituita al ministero dell’Interno, da ultimo è stato eletto alla Camera dei deputati nelle file del Partito Democratico.

Come vive un musulmano quello che sta succedendo a Parigi?

«Con grande tensione, paura e sconcerto. Con la consapevolezza che bisogna tradurre in azione concreta e positiva le sensazioni che affollano la nostra mente».

Proprio in questo momento leggiamo che i terroristi sono rimasti uccisi durante le irruzioni delle forze speciali, ma tra i morti ci sarebbero anche alcuni ostaggi.

«Altri morti innocenti. Spero almeno sia la fine di un incubo, spero che le prossime ore siano di silenzio e raccoglimento».

Torniamo a voi musulmani.

«I fatti di questi giorni impongono una riflessione a tutti noi musulmani, ci dobbiamo guardare dentro, aprire una riflessione e interrogare sul ruolo che vogliamo avere nella società del futuro. Una riflessione che deve essere trasparente, visibile, alla luce del sole».

Cosa c’è dentro il cuore di un musulmano?

«C’è grande dispiacere. C’è angoscia, per l’immagine e l’utilizzo che viene fatto della tua religione. C’è vergogna, nel vedere la tua fede che viene associata alla morte. C’è un dolore profondo, che non viene percepito dall’esterno».

Basta manifestarlo, urlare se serve.

«Infatti, io credo che noi musulmani proprio in queste ore dobbiamo fare un passo avanti, andare oltre e costruire le basi di quello che sarà il modello di convivenza nel futuro».

Trasformare questi eventi tragici in occasione positiva?

«Nella loro tragicità, i fatti di Parigi ci offrono l’opportunità per toglierci di dosso il peso che noi musulmani ci portiamo dietro dall’11 settembre. È arrivato il momento di urlare al mondo la nostra rabbia per il modo in cui viene sottomessa e manipolata la nostra religione».

La moschea in Italia viene considerata come una sorta di Rubicone, la linea che non bisogna attraversare, la bandierina che non bisogna issare sul nostro territorio. Alla luce di quello che sta succedendo in Francia e nel mondo, non pensa che sia una scelta controproducente? Non pensa che sarebbe più facile la prevenzione contro i cosiddetti cani sciolti se ci fossero dei luoghi di aggregazione e preghiera con regole chiare e accettate da tutti? E con possibilità di controllo maggiore da parte delle autorità?

«Sarebbe tutto molto più semplice. Purtroppo l’Italia ha sprecato troppi anni in balia della propaganda, senza ragionare da paese serio. Il diritto al culto va regolamentato, e la moschea può diventare una occasione per isolare chi si nasconde e fa proselitismo dentro gli scantinati».

I fatti a cui assistiamo in diretta televisiva dalla Francia, lei come li giudica, atti di terrorismo o guerra?

«Si tratta di guerra, una guerra asimmetrica che va combattuta con una forte controffensiva culturale da parte di tutti, con il mondo musulmano che deve diventare il nostro principale alleato».

Cosa rimprovera al mondo musulmano?

«Il tentativo di etichettare questi fatti come la deriva violenta di un piccolo gruppo criminale. Non è così. La questione è molto più ampia e ci investe nel profondo. Nel mondo musulmano c’è un problema di reinterpretazione dei testi sacri alla luce della modernità, va sancito in modo solenne il rapporto pacifico con l’Occidente. Ci sono nodi teologici irrisolti che poi portano a gesti criminali».

C’è il pericolo di gesti inconsulti nei confronti delle comunità musulmane?

«Sta già accadendo in Svezia e in Francia, sono state lanciate molotov contro moschee. Serve un senso di unità molto forte, serve lo sforzo di tutti, come sta avvenendo in Francia, con i musulmani che si stanno riversando sulle strade per manifestare sgomento, indignazione e condanna».

Lei è oggetto di insulti sui social network, come li vive, come li sopporta?

«Il mio impegno civile è sempre stato di frontiera, vengo criticato anche da molti islamici che mi accusano di essere troppo moderato».

Non ha paura?

«A volte fa male, a volte fa paura. Ma se accetti una sfera pubblica e ti impegni per un’Italia migliore, allora devi essere preparato a fare i conti con una società impaurita dai fomentatori di odio professionisti».

Cosa le fa più male delle immagini che ci arrivano da Parigi?

«Il senso di impotenza che sta vivendo un grande paese come la Francia. Il totale black-out di una città meravigliosa come Parigi, che adoro e che ho visitato con mia moglie. Le fotografie di una Parigi deserta ci sbattono in faccia il fallimento di tutti noi».

Un divario destinato a diventare voragine. Il divario con la cultura occidentale è destinato a diventare una voragine. Gli ospiti devono osservare le nostre regole, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. I fatti tragici di Francia sono l'ennesima conferma che esiste un abisso tra la cultura occidentale e quella di stampo islamico, che è sostanzialmente rimasta al Medioevo e non accenna a evolversi, anzi sta assumendo sempre di più i caratteri del fondamentalismo. Anche gli islamici immigrati da decenni si sono guardati dall'integrarsi nella nostra società e hanno conservato gelosamente abitudini e costumi atavici della loro terra, trasmettendo ai figli e ai nipoti tradizioni che collidono con le nostre. Altrimenti non si giustificherebbe che molti giovani della seconda e terza generazione, allevati e cresciuti in Europa, siano reclutati da gruppi terroristici animati dal desiderio di combattere contro le nazioni che li accolgono e che hanno concesso loro la cittadinanza con ogni diritto connesso. Non è il caso di dire che la nostra civiltà è superiore, ma non vi è dubbio che sia assai diversa e non si concili con quella improntata agli insegnamenti coranici, spesso interpretati arbitrariamente e/o pedestremente allo scopo di piegarli a scopi politici o bellici. La Bibbia contiene numerosi versi che incitano alla violenza simili a quelli del Corano, ma è indubbio che i cristiani ne abbiano offuscato il significato letterale: ora si attengono al Vangelo, considerando l'antico Testamento una sorta di libro mitologico. È altresì vero che nel secolo scorso, quindi abbastanza recentemente, la cultura occidentale ha espresso mostruosità attraverso regimi totalitari e sanguinari, il nazifascismo e il comunismo, ma è un dato che essi sono stati abbattuti o sono implosi sotto la spinta di movimenti democratici maggioritari. Non si può infine negare che dalle nostre parti abbia avuto il sopravvento l'Illuminismo, cui si deve la prevalenza dell'intelligenza personale sui dogmi religiosi, e ciò ha favorito una distinzione netta fra etica sacra e etica civile, la cui convivenza è realizzabile a condizione che non si sovrappongano, a rischio che una di esse sia annullata. Per noi occidentali sono inconcepibili sia lo Stato etico sia la teocrazia, che, invece, dominano nei Paesi dove gli islamici hanno trasformato in leggi i propri principi. Va da sé che teocrazia e democrazia sono antitetiche e, pertanto, incompatibili. I musulmani del resto, quelli immigrati nelle nazioni politicamente evolute, difficilmente riconoscono il primato dei codici democratici e obbediscono piuttosto ai precetti coranici, tramandati di padre in figlio, che stridono con il laicismo, accettato di buon grado perfino dagli italiani, per secoli succubi di un cattolicesimo oscurantista. I contrasti fra le due civiltà sono insanabili, e sembrano addirittura destinati ad accentuarsi: mentre l'Occidente progredisce anche sul piano dei diritti umani e civili, il Medio Oriente rimane fermo, ingessato nei pregiudizi. Tutto questo non significa che i cristiani europei e americani abbiano tutte le ragioni e nessun torto. Il terrorismo è un fenomeno relativamente nuovo e cominciato per ritorsione contro di noi, autori di autentiche invasioni militari in Irak, Kuwait e Afghanistan (per citarne alcune) che hanno inasprito i rapporti, esasperato gli animi e provocato centinaia di migliaia di vittime che hanno acceso lo spirito di vendetta nelle popolazioni aggredite. Sappiamo che certe iniziative belliche sono state assunte dagli Stati Uniti e alleati non con finalità umanitarie, bensì economiche: per vari lustri l'obiettivo non era liberare popoli oppressi da satrapie ed esportare la democrazia tra gente che non sa nemmeno cosa essa sia, bensì per succhiare petrolio e controllare (male) il mondo. Anche di questo bisogna tenere conto se intendiamo capire: ciò che accade oggi è la conseguenza anche di quanto accaduto in passato. Dopo di che è buona cosa persuadersi che andare d'accordo si può, ma con metodi diversi da quelli adottati sino ad ora. Il terrorismo si vince concedendo a tutti piena libertà, ma ciascuno a casa propria e non in quella di altri. E gli ospiti si comportino da ospiti e non da contestatori: si adattino allo stile di chi li ha invitati o tornino in patria. La base del rispetto è non intromettersi nelle vicende che non ci riguardano. A ogni Paese va data la facoltà di trovare al proprio interno il modo di risolvere i propri problemi, anche mediante la guerra civile. E gli Stati Uniti si mobilitino soltanto su gentile richiesta e non per ristabilire l'ordine a essi caro, ma sgradito a chi lo subisce. Viceversa saremo sempre in guerra.

Perugia, gruppo di stranieri profana una statua della Madonna. Un gruppetto di immigrati ha distrutto una statua della Vergine e ci ha urinato sopra. Ma il vescovo ammonisce: "Non è un atto di odio religioso", scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Una profanazione rivoltante, che ha offeso la sensibilità di tutta Perugia. Una statua della Madonna distrutta e presa a calci da un gruppo di vandali stranieri, che sopra l'immagine sacra avrebbe anche orinato. Un uomo stava pregando davanti alla Madonnina di via Tilli, inginocchiato con la fotografia di una persona cara in mano, quando è stato aggredito da un gruppo di stranieri che lo hanno insultato e gli hanno strappato la foto dalle mani. Quindi si sono accaniti contro la statua della Vergine, scaraventandola giù dall'edicola e spezzandola in due. Quindi, racconta la Nazione, hanno aggravato l'oltraggio spingendosi fino ad orinarci sopra. Venerdì, fortunatamente, la statua è stata ricollocata nella sua collocazione originaria e sul luogo della profanazione è stato recitato un Santo Rosario di riparazione. Dalla Diocesi è arrivata una ferma condanna dell'atto sacrilego, ma anche un invito a "non attribuire questo episodio a un gesto di odio religioso". "Per l'Islam la figura di Maria è molto importante: è la Madre del profeta Gesù concepito nella verginità e la Beata Vergine è la donna più santa - ha commentato il vescovo ausiliare di Perugia-Città della Pieve, mons. Paolo Giulietti - Molti musulmani vengono in preghiera nei santuari mariani del Medio Oriente. Non si può attribuire questo gesto di vandalismo, che come ho detto va condannato in ogni senso, ad un episodio di odio religioso. E' importante non alimentare la diffidenza reciproca soprattutto in questo momento."

Complotti e teoremi: imbecilli scatenati sul web. I dietrologi sono scatenati, negano persino l'esecuzione del poliziotto: "Poco sangue", scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Un partito dell'imbecillità politicamente connotato a sinistra. È quello che sta emergendo, soprattutto sui social network, in questi giorni successivi agli attentati terroristici di Parigi. Un partito transnazionale che ha le sue propaggini nel nostro Paese e che ha una sua precisa carta d'identità «ideologica»: cercare di difendere l'Islam in quanto alternativo all'Occidente e agli Stati Uniti. Parlare di America non è un caso. Come dopo l'11 settembre anche in questi giorni su Facebook e Twitter spuntano strane manifestazioni che mettono in dubbio la veridicità dei fatti. In particolar modo, ha suscitato molti dubbi l'uccisione del poliziotto Ahmed Merabet: «Non si vede il bossolo» e «c'è poco sangue» sono i capisaldi dei complottisti. Che sono sicuri della volontà della Cia o del Mossad di creare un nemico in realtà inesistente. Certo, vista la commozione suscitata dai massacri molti tendono a frenarsi, ma alcuni non ci riescono proprio. Il caso più eclatante in Italia è stato quello del Movimento 5 Stelle: il blog di Grillo ha lasciato spazio a una considerazione del professor Aldo Giannuli che non ha messo in dubbi che la strage sia stata di matrice islamica, ma che gli attentatori siano stati «lasciati fare» da qualcuno. E fin qui siamo nella classica dietrologia all'italiana. Poi, che deputati grillini come Bernini o Sibilia (quello dei microchip) abbiano dato corda a queste tesi, enfatizzando l'omicidio dell'economista antieuro Bernard Maris nella sede di Charlie Hebdo , è un altro paio di maniche. Anche il rigoroso Fatto Quotidiano tra i blog del proprio sito internet ha ospitato l'intervento di una giornalista, Ludovica Amici, che ha scritto: «Chi paga questi jihadisti, chi li addestra e chi li arma, considerato che giravano con dei kalashnikov? I due fratelli potrebbero aver combattuto in Siria con armi fornite loro dal governo francese». Insomma, la verità sembra sempre accertata, ma potrebbe anche essere differente da quella che tutti sembrano osservare. Un po' come Piazza Fontana: dietro c'è sempre un «grande capo» che ha orchestrato tutto. Oppure, ci sono Paesi che in qualche modo si sentono discriminati, a torto o a ragione, che ne approfittano per fare propaganda. Ad esempio, una televisione russa ha sostenuto che gli attentati siano stati organizzati ad hoc per aumentare la pressione contro Mosca. Stesso discorso in Turchia dove la laicità dello Stato viene da più parti messa in discussione. Dietro la strage ci sarebbero servizi segreti deviati con lo scopo di «far crescere l'islamofobia», ha scritto il quotidiano Yeni Safak . Sempre in Turchia c'è chi vede il dittatore siriano Bashar al-Assad, nemico dichiarato dell'Isis, come ispiratore del clima da guerra fredda. E anche in Paesi moderati come la Georgia è stato hackerato il sito della catena francese di supermercati Carrefour con un messaggio eloquente: «Siamo musulmani, il Corano è il nostro libro, crediamo e lavoriamo per Dio, maledetto sia Charlie Hebdo !». Non è un caso: dappertutto l'Islam è l'ultima ancora di salvezza contro il capitalismo americano dopo il crollo dell'Urss. E torniamo così al grillino Bernini. «Non a caso tutte le guerre moderne dell'America nascono da una menzogna!», ha scritto. Come volevasi dimostrare.

La nostra lotta al terrorismo? I giudici condannano Allam. Il verdetto contro il giornalista a Milano, nei giorni degli attentati in Francia. Per le toghe ha offeso i musulmani, ma nel 2007 aveva solo predetto: "Tentano di imporci lo stato islamico", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Siamo tutti Charlie Hebdo. Però l'asticella della libertà di parola non è fissata una volta per tutte. Oscilla, può salire ma può anche scendere ed essere compressa quando le parole sono un atto d'accusa. Capita, è capitato in questi giorni drammatici innescando un cortocircuito inquietante fra la tragedia di Parigi e il palazzo di giustizia di Milano. Dove Magdi Cristiano Allam, giornalista e scrittore, è stato bacchettato per il suo j'accuse contro l'Ucoii, l'Unione delle Comunità islamiche italiane. Nessun legame diretto, ci mancherebbe, fra l'Italia e la Francia, però una vicenda su cui riflettere. Dunque, Allam, oggi editorialista del Giornale e in passato vicedirettore del Corriere della sera , viene condannato per un articolo in cui attacca il volto più importante dell'Islam italiano. In primo grado Allam era stato assolto: i giudici del tribunale civile di Milano gli avevano fatto scudo dietro il principio della libertà di critica. Oggi quella protezione viene tolta dalla corte d'appello che capovolge il verdetto e condanna Allam a risarcire l'Ucoii. Un dietrofront clamoroso, proprio nelle ore in cui la Francia e l'Occidente vivono una delle pagine più buie della loro storia e il mondo intero si interroga sulle ambiguità dell'Islam e si chiede dove passi il confine fra l'Islam cosiddetto moderato e quello più radicale. Nel pezzo pubblicato il 4 settembre 2007 Allam racconta la storia di Dounia Ettaib, allora vicepresidente dell'Associazione donne marocchine, aggredita da alcuni connazionali vicino alla moschea di viale Jenner a Milano. Un grave episodio di intimidazione, ancora più grave perché accaduto nelle nostre strade. Allam definisce «tutti noi italiani vittime, inconsapevoli o irresponsabili, pavidi o ideologicamente collusi, che non vogliamo guardare in faccia la realtà, che temiamo al punto di essere sottomessi all'arbitrio o alla violenza di chi sta imponendo uno stato islamico all'interno del nostro traballante stato sovrano». Parole, come si vede, attuali che paiono scritte dopo la tragedia del giornale satirico francese. Parole che in primo grado i giudici avevano ritenuto non censurabili perché frutto delle legittime opinioni di Allam. Ora il giudizio cambia e arriva la condanna. Nel pezzo Allam faceva anche i nomi e i cognomi di chi sosteneva le tesi dell'Islam più radicale e aveva chiamato in causa l'Ucoii: non c'è «alcun dubbio che nelle moschee e nei siti islamici dell'Ucoii e di altri gruppi islamici radicali si legittimi la condanna a morte degli apostati e dei nemici dell'Islam». Sarebbe questo il punto controverso che avrebbe portato alla condanna di Allam: per i magistrati non si tratterebbe di libertà di critica ma di diffamazione. «La verità - spiega al Giornale l'avvocato Luca Bauccio, legale dell'Ucoii- è che Allam ha scritto il falso. Non è vero che l'Ucoii dia una qualche forma di copertura alle tesi dell'Islam più violento. Anzi, l'Ucoii è l'unica associazione di matrice islamica che abbia firmato la Carta dei valori e ammessa alla Consulta dell'Islam». Il tema è difficile e scivoloso, ma certo Allam è uno degli opinionisti più acuti e duri nei confronti dell'Islam. E della minaccia che oggi le schegge militarizzate del jihidaismo rappresentano per l'Italia. L'articolo incriminato si concludeva con una domanda angosciante che otto anni dopo è ancora lì, pesante come un macigno: «Continueremo a imitare lo struzzo votato al suicidio nell'attesa che i terroristi islamici attuino la loro giustizia qui a casa nostra?» Un quesito che Allam rilancia oggi: «Io racconto la realtà dell'Islam che i tanti commentatori politically correct non vogliono sentire: l'Islam è incompatibile con la nostra democrazia e la nostra civiltà. In gioco non c'è solo la mia libertà di parola, ma quella di tutti noi».

L’urlo di Khomeini: «L’Islam è tutto, la democrazia no». La scrittrice intervistò il leader della rivoluzione iraniana nel 1979. Indossava il chador. Ma alla fine dell’incontro se lo tolse. L’ayatollah scavalcò il velo e sparì. Scrive Oriana Fallaci su “Il Corriere della Sera”. Oriana Fallaci, il terrorismo, il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. La grande giornalista ha affrontato questi temi molte volte nei suoi articoli e nelle sue interviste. Con l’iniziativa «Le parole di Oriana» abbiamo scelto di ripubblicare alcuni di questi suoi interventi, che mantengono - a distanza di molti anni - una forza, un valore e un fascino straordinari. Ecco l’intervista all’ayatollah Khomeini, uscita per il «Corriere della Sera» il 26 settembre 1979. Nella stanzaccia, assiso con le gambe incrociate sul tappetino bianco e blu, immobile come una statua e coperto da una tunica di lana marrone, stava il padrone dell’Iran, il gran condottiero dell’Islam: Sua Eccellenza Santissima e Reverendissima Ruhollah Khomeini. Era un vecchio molto vecchio. E appariva così remoto dietro la superbia, così vulnerabile, insieme solenne, da farti dubitare che avesse soltanto gli ottant’anni dichiarati secondo un calcolo approssimativo, comunque ipotetico, visto che lui stesso ignorava la sua data di nascita. Era anche il più bel vecchio che avessi mai incontrato. Volto intenso, scolpito ad arte, con quelle rughe che lo incidevano a colpi d’ascia in solchi legnosi, quella fronte altissima sul naso importante e ben disegnato, quelle labbra sensuali e imbronciate da maschio che ha molto sofferto a reprimere le tentazioni della carne o forse non le ha represse mai. E quella barba candida, compatta, davvero michelangiolesca. Quelle sopracciglia severe, di marmo, sotto le quali cercavi i suoi occhi con una specie di ansia. Gli occhi infatti non si vedevano perché teneva le palpebre semiabbassate, lo sguardo ostentatamente fisso sul tappetino, quasi volesse dirmi che non meritavo nessuna attenzione. O quasi che dedicarmi attenzione offendesse il suo orgoglio, la sua dignità. Traboccava dignità, questo è certo. Non potevi immaginarlo in mutande, attribuirgli il ridicolo che caratterizza i dittatori. Anzi, al posto di esso coglievi una misteriosa tristezza, un misterioso scontento che lo consumava come una malattia. E in tale scoperta registravi sbalordito i sentimenti che suscitava a osservarlo: un rispetto ineluttabile, una tenerezza inspiegabile, una scandalosa attrazione di cui provavi invano vergogna. Lo aveva scritto proprio lui il Libro Azzurro? Era stato proprio lui a scaraventare tutti nella catastrofe, dipendevano proprio da lui tante infamie, tanti obbrobri? Sì, e che non me ne dimenticassi. Che non mi lasciassi distrarre dal suo enigmatico carisma, sedurre dal suo fascino di antico patriarca. E mentre Bani Sadr si insediava al suo fianco, Salami si sistemava a riguardosa distanza, mi accucciai dinanzi al nemico: decisa ad attaccarlo subito, ignara dell’altrui viltà che all’inizio avrebbe turbato il progetto.

Imam Khomeini, l’intero paese è nelle sue mani. Ogni sua decisione, ogni suo desiderio è un ordine. E sono molti ha portato la libertà, semmai ha finito di ucciderla. Rimase con le palpebre semiabbassate, lo sguardo fisso sul tappetino, e con voce talmente fioca da sembrare l’eco di un sussurro compilò una risposta che Bani Sadr riferì in preda a uno strano imbarazzo. «Conosciamo il suo lavoro e il suo nome. Sappiamo che lei ha viaggiato per molti Paesi e molte genti vedendo guerre, interrogando uomini forti. La ringraziamo dunque degli omaggi che ci porge e delle sue condoglianze per la scomparsa dell’ayatollah Talegani.» Stava prendendomi in giro oppure Bani Sadr non gli aveva tradotto la mia domanda? Mi rivolsi smarrita a Salami. Con un lieve cenno della testa, Salami mi fece capire che il vigliacco non aveva tradotto la domanda. «Traducila tu!» La tradusse, sia pure impallidendo. Ma le palpebre rimasero semiabbassate, le invisibili pupille continuarono a fissare il tappetino, e non un cenno di emozione incrinò la voce fioca che centellinava ogni parola. «L’Iran non è nelle mie mani. L’Iran è nelle mani del popolo. Perché è stato il popolo a consegnare il paese al suo servitore, a colui che vuole il suo bene. Lei ha ben visto che dopo la morte dell’ayatollah Talegani la gente s’è riversata nelle strade a milioni e senza la minaccia delle baionette. E questo significa che in Iran c’è libertà, che il popolo segue gli uomini di Dio. E questo è simbolo di libertà.» Bè, sapeva difendersi. Aveva perfino neutralizzato possibili provocazioni sulla natura di quella morte facendo per primo il nome di Talegani, quindi impedendo su tal soggetto un colpo alla mascella. Lanciai un’occhiataccia a Bani Sadr per avvertirlo di non combinare altri scherzi e continuai.

No, Imam Khomeini: forse non mi sono spiegata bene. Mi permetta di insistere. Volevo dire che siamo in molti, in Iran e fuori, a definirla un dittatore. Anzi il nuovo dittatore, il nuovo tiranno, il nuovo scià della Persia. Ma dalla risposta che Bani Sadr mi dette fu chiaro che anche stavolta aveva inventato una domanda innocua, e per questo era venuto a Qom, s’era imposto come traduttore: per manipolar l’intervista e non correre rischi. «Sì, la sconfitta del tiranno ci ha portato un’epoca densa di valori e di moralità. Noi ce ne rallegriamo e ci sentiamo onorati di interpretar quei valori e tale moralità. Apprezziamo dunque la seconda domanda e...» «Stop!» Zittii Bani Sadr e di nuovo mi rivolsi a Salami che di nuovo confermò il tradimento con un lieve cenno della testa. Allora mi chinai su Khomeini cercando di farmi capire in qualche lingua al di fuori del farsi. «No, Imam, no! Il signor Bani Sadr non mi traduce. Il ne me traduit pas. He does not translate me. Understand, comprì? Ho detto che oggi è lei il dittatore, il tiranno, lo scià. Aujourd’hui c’est vous le dictateur, le tyran, le nouvel shah. Vous. Comprì? Today it is you the dictator, the tyrant, the new shah. Understand?» Capì. O almeno intuì. Infatti le sue palpebre si sollevaron di colpo, e mentre un lampo feroce mi trafiggeva con la violenza di una coltellata vidi finalmente i suoi occhi: intelligentissimi, duri, terrificanti. Però fu un attimo, e passato quello tornarono a concentrarsi sul tappetino. Fissando il tappetino sibilò a Bani Sadr qualcosa che doveva esser tremendo perché il visuccio malinconico diventò grigio, i baffetti parvero vibrare di panico, e rivoli di sudore presero a colare giù per le tempie, le guance, il collo. Poi una mano michelangiolesca come la barba si levò con sdegno a indicargli che era destituito dall’incarico e un indice imperioso ordinò a Salami di sedergli accanto per sostituirlo. Tremando d’emozione Salami si alzò e sedette alla sua destra. «Non aver paura, traducigli quello che ho detto. E chiedigli se ciò lo addolora o lo lascia indifferente» lo incoraggiai. Salami tradusse coraggiosamente. Khomeini restò imperterrito. «Da una parte mi addolora, sì, perché chiamarmi dittatore è ingiusto e disumano. Dall’altra invece non me ne importa nulla perché so che certe cattiverie rientrano nel comportamento umano e vengono dai nemici. Con la strada che abbiamo intrapreso, una strada che va contro gli interessi delle superpotenze, è normale che i servi dello straniero mi pungano col loro veleno e mi lancino addosso ogni sorta di calunnie. No, non m’illudo che i paesi abituati a saccheggiarci e divorarci si mettano zitti e tranquilli. Oh, i mercenari dello scià dicono tante cose: anche che Khomeini ha ordinato di tagliare i seni alle donne. Dica, a lei risulta che Khomeini abbia commesso una simile mostruosità, che abbia tagliato i seni alla donne?».

No, non mi risulta, Imam. E io non l’ho accusata di tagliare i seni alle donne. Però anche senza tagliare i seni alle donne lei fa paura. Il suo regime vive sulla paura. Hanno tutti paura e fanno tutti paura. Anche questa folla che la invoca fa paura. La sente? Dalla finestra alle sue spalle giungeva il frastuono degli scalmanati dietro il primo e il secondo posto di blocco. «Zandeh bad, Imam! Payandeh bad!» E spesso soffocava le nostre voci. «Lo sento eccome. Lo sento anche di notte».

E che cosa prova a sentirli gridare così anche di notte? Che cosa prova a sapere che per vederla un istante si farebbero ammazzare? «Ne godo. Non si può non goderne. Sì, godo quando li ascolto e li vedo. Perché il loro grido è lo stesso con cui cacciarono l’usurpatore, perché sono i medesimi che lo cacciarono, e perché è bene che continuino a bollire in quel modo. Finché i nemici interni ed esterni non saranno domati, finché il Paese non si sarà assestato, bisogna che bollano. Devono essere accesi e pronti a marciare quand’è necessario. E poi il loro è amore».

Amore o fascismo, Imam? A me sembra fanatismo, e del genere più pericoloso. Cioè quello fascista. Chi potrebbe negare che oggi esiste in Iran una minaccia fascista? E forse un fascismo s’è già consolidato. «No, il fascismo non c’entra. Il fanatismo non c’entra. Io ripeto che gridano così perché mi amano. E mi amano perché sentono che voglio il loro bene, che agisco per il loro bene, per applicare i comandamenti dell’Islam. L’Islam è giustizia, nell’Islam la dittatura è il più grande dei peccati, quindi fascismo e islamismo sono due contraddizioni inconciliabili».

Forse non ci comprendiamo sulla parola fascismo, Imam. Io parlo del fascismo come fenomeno popolare, per esempio del fascismo che gli italiani avevano al tempo di Mussolini quando le folle applaudivano Mussolini come ora applaudono lei. E gli obbedivano come ora obbediscono a lei.  «No, quel fascismo si verifica da voi in Occidente, non tra i popoli di cultura islamica. Le nostre masse sono masse mussulmane, educate dal clero e cioè da uomini che predicano la spiritualità e la bontà, quindi quel fascismo sarebbe possibile soltanto se tornasse lo scià oppure se venisse il comunismo. Gridare il mio nome non significa esser fascisti, significa amare la libertà». Ora che le mie domande gli venivano riferite, l’attacco era facile. Però a ciascuna si difendeva meglio, con la bravura di un campione che riesce a schivare qualsiasi colpo cattivo o imprevisto, la resistenza di un incassatore che non si piega nemmeno se gli tiri un pugno nel basso ventre, e faceva questo usando due tecniche rare: l’imperturbabilità e la sincerità. Dopo avermi trafitto con quel lampo feroce non aveva più alzato gli occhi e, senza mai staccare lo sguardo dal tappetino, senza mai muovere un dito o un muscolo, senza mai cambiare il tono della sua voce fioca, rispondeva a ogni accusa o insolenza. Non riuscivo a scomporlo. E non ci riuscivo perché, ecco il punto, credeva fermamente in ciò che diceva: credendoci, non aveva bisogno di ricorrere alle furbizie o alle bugie con cui si difendono sempre gli uomini di potere. Quasi ciò non bastasse, gli piaceva il duello con la straniera che aveva viaggiato per molti Paesi e per molte genti ma ora se ne stava ai suoi piedi ingoffata da chili di cenci a lei estranei, e in segreto gioiva dei suoi assalti.

Allora parliamo della libertà, Imam Khomeini. In uno dei suoi primi discorsi lei disse che il nuovo governo avrebbe garantito libertà di pensiero e di espressione. Tuttavia questa promessa non è stata mantenuta e basta che uno vada contro i suoi precetti perché lei lo maledica e punisca. Per esempio, chiama i comunisti Figli di Satana, le minoranze curde Male sulla Terra...«Lei prima afferma e poi pretende che io spieghi le sue affermazioni. Addirittura pretenderebbe che io permettessi i complotti di chi vuol portare il Paese alla corruzione. La libertà di pensare e di esprimersi non significa libertà di congiurare e corrompere. Per più di cinque mesi io ho tollerato coloro che non la pensano come noi, ed essi sono stati liberi di fare ciò che volevano, ciò che gli concedevo. Attraverso il signor Bani Sadr qui presente ho perfino invitato i comunisti a dialogare con noi. E in risposta essi hanno bruciato i raccolti di grano, hanno dato fuoco alle urne elettorali, hanno reagito con armi e fucili, riesumato il problema dei curdi. Così quando abbiamo capito che approfittavano della nostra tolleranza per sabotarci, quando abbiamo scoperto che erano nostalgici dello scià, ispirati dall’ex regime nonché dalle forze straniere che mirano alla nostra distruzione, li abbiamo messi a tacere.»

Imam Khomeini, ma come può definire nostalgici dello scià uomini che contro lo scià si sono battuti, che dallo scià sono stati perseguitati e arrestati e torturati, che insomma hanno tanto contribuito alla sua caduta? I vivi e i morti a sinistra, dunque, non contano nulla? «Non contano nulla perché non hanno contribuito a nulla, non hanno servito in nessun senso la rivoluzione. Non hanno né combattuto né sofferto, semmai hanno lottato per le loro idee e basta, i loro scopi e basta, i loro interessi e basta. Non hanno pesato per niente sulla nostra vittoria, non hanno avuto nessun rapporto col movimento islamico, non hanno esercitato alcuna influenza su di esso. Anzi, gli hanno messo i bastoni fra le ruote. Durante il regime dello scià erano contro di noi quanto lo sono ora, e ci odiavano più dello scià. Non a caso l’attuale complotto ci viene da loro e il mio punto di vista è che non si tratti nemmeno di una vera sinistra ma di una sinistra artificiale, partorita e allattata dagli americani per lanciare calunnie contro di noi e per distruggerci».

In altre parole, quando parla di popolo, lei si riferisce soltanto ai suoi fedeli. E secondo lei questa gente s’è fatta ammazzare per l’Islam, non per avere un po’ di libertà. «Per l’Islam. Il popolo s’è battuto per l’Islam. E l’Islam significa tutto, anche ciò che nel suo mondo viene chiamato libertà e democrazia. Sì, l’Islam contiene tutto, l’Islam ingloba tutto, l’Islam è tutto».

Non capisco. Mi aiuti a capire. Che cosa intende per libertà? «La libertà... Non è facile definire questo concetto. Diciamo che la libertà è quando si può scegliere le proprie idee e pensarle quanto si vuole senza essere costretti a pensarne altre... E anche alloggiare dove si vuole... Esercitare il mestiere che si vuole...». Bè, incominciava a barcollare e con un po’ di sforzo si poteva forse colpirlo alla mascella.

Alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e nient’altro. Pensare quanto si vuole ma non esprimere e materializzare quello che si pensa. Ora capisco meglio, Imam. E per democrazia cosa intende? Perché, se non sbaglio, indicendo il referendum per la repubblica lei ha proibito l’espressione Repubblica Democratica Islamica. Ha cancellato l’aggettivo Democratica, ha ridotto l’espressione a Repubblica Islamica, e ha detto: “Non una parola di più, non una di meno”. Si riprese subito. «Per incominciare, la parola Islam non ha bisogno di aggettivi. Come ho appena spiegato, l’Islam è tutto: vuol dire tutto. Per noi è triste mettere un’altra parola accanto alla parola Islam che è completa e perfetta. Se vogliamo l’Islam, che bisogno c’è di aggiungere che vogliamo la democrazia? Sarebbe come dire che vogliamo l’Islam e che bisogna credere in Dio. Poi questa democrazia a lei tanto cara e secondo lei tanto preziosa non ha un significato preciso. La democrazia di Aristotele è una cosa, quella dei sovietici è un’altra, quella dei capitalisti un’altra ancora. Non potevamo quindi permetterci di infilare nella nostra Costituzione un concetto così equivoco. Poi per democrazia intendo quella che intendeva Alì. Quando Alì divenne successore del Profeta e capo dello Stato Islamico, e il suo regno andava dall’Arabia Saudita all’Egitto, e comprendeva gran parte dell’Asia e anche dell’Europa, e questa confederazione aveva ogni tipo di potere, egli ebbe una divergenza con un ebreo. E l’ebreo lo fece chiamare dal giudice. E Alì accettò la chiamata del giudice. E andò, e vedendolo entrare il giudice si alzò in piedi. Ma Alì gli disse, adirato: “Perché ti alzi quando io entro e non quando entra l’ebreo? Davanti al giudice i due contendenti devono essere trattati nel medesimo modo”. Poi si sottomise alla sentenza che gli fu contraria. Chiedo a lei che ha viaggiato per molti Paesi e per molte genti: può fornirmi un esempio di democrazia migliore?».

Sì. Quella che permette qualcosa di più che alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e pensare senza esprimere ciò che si pensa. E questo lo dicono anche gli iraniani che, come noi stranieri, non hanno capito dove vada a parare la sua Repubblica Islamica. «Se non lo capiscono certi iraniani, peggio per loro. Significa che non hanno capito l’Islam. Se non lo capite voi stranieri, non ha importanza. Tanto la cosa non vi riguarda. Non avete nulla a che fare con le nostre scelte.» Menomale: l’atmosfera incominciava a riscaldarsi. Quindi non era impossibile fargli perder le staffe. Bastava tener testa alla sua resistenza di incassatore. Rincarai la dose.

Forse la cosa non ci riguarda, Imam, però il dispotismo che oggi viene esercitato dal clero riguarda gli iraniani. E, visto che siamo qui per parlare di loro, vuol spiegarmi il principio secondo cui il capo del Paese dev’essere la suprema autorità religiosa e cioè lei? Vuol spiegarmi perché le decisioni politiche devono esser prese soltanto da coloro che conoscono bene il Corano e cioè da voi preti?. «Il Quinto Principio sancito dall’Assemblea degli Esperti nella stesura della Costituzione stabilisce ciò che lei ha detto e non è in contrasto col concetto di democrazia. Poiché il popolo ama il clero, ha fiducia nel clero, vuol essere guidato dal clero, è giusto che la massima autorità religiosa sovrintenda l’operato del primo ministro e del futuro presidente della Repubblica. Se io non esercitassi tale sovrintendenza, essi potrebbero sbagliare o andare contro la legge cioè contro il Corano. Io oppure un gruppo rappresentativo del clero, ad esempio cinque saggi capaci di amministrare la giustizia secondo l’Islam».

Ah, sì? Allora occupiamoci della giustizia amministrata da voi del clero, Imam. Cominciamo con le cinquecento fucilazioni che in questi pochi mesi sono state eseguite in Iran. Mi dica se lei approva il modo sommario con cui vengono celebrati questi processi senza avvocato e senza appello. «Evidentemente voi occidentali ignorate chi erano coloro che sono stati fucilati. O fingete di ignorarlo. Si trattava di persone che avevano partecipato ai massacri, oppure di persone che avevano ordinato i massacri. Gente che aveva bruciato le case, torturato i prigionieri segandogli le braccia e le gambe, friggendoli vivi su griglie di ferro. Avremmo dovuto forse perdonarli, lasciarli andare? Quanto al permesso di rispondere alle accuse e difendersi, glielo abbiamo concesso: potevano replicare ciò che volevano. Una volta accertata la loro colpevolezza, però, che bisogno c’era dell’avvocato e dell’appello? Scriva il contrario, se vuole: la penna ce l’ha in mano lei. Si ponga le domande che desidera: il mio popolo non se le pone. E aggiungo: se non avessimo ordinato quelle fucilazioni, la vendetta popolare si sarebbe scatenata senza controllo. E i morti, anziché cinquecento, sarebbero stati migliaia».

Lo saranno, di questo passo, Imam. E comunque io non mi riferivo ai torturatori e agli assassini della Savak. Mi riferivo alle vittime che con le colpe del passato regime non avevano nulla a che fare. Insomma, le creature che ancora oggi vengono giustiziate per adulterio o prostituzione o omosessualità. È giustizia, secondo lei, fucilare una povera prostituta o una donna che tradisce il marito o un uomo che ama un altro uomo? «Se un dito va in cancrena, che cosa si deve fare? Lasciare che vada in cancrena tutta la mano e poi tutto il corpo, oppure tagliare il dito? Le cose che portano corruzione a un popolo devono essere sradicate come erbe cattive che infestano un campo di grano. Lo so, vi sono società che permettono alle donne di regalarsi in godimento a uomini che non sono loro mariti, e agli uomini di regalarsi in godimento ad altri uomini. Ma la società che noi vogliamo costruire non lo permette. Nell’Islam noi vogliamo condurre una politica che purifichi. E affinché questo avvenga bisogna punire coloro che portano il male corrompendo la nostra gioventù. Che a voi occidentali piaccia o non piaccia, non possiamo permettere che i cattivi diffondano la loro cattiveria. Del resto voi occidentali non fate lo stesso? Quando un ladro ruba, non lo mettete in prigione? In molti Paesi, non giustiziate forse gli assassini? Non lo fate perché, se restano liberi e vivi, infettano gli altri e allargan la macchia della malvagità? Sì, i malvagi vanno eliminati: estirpati come le erbacce». Aveva detto questo con la solita imperturbabilità. Era venuta anche una mosca, mentre parlava, ed era andata a posarsi sulla sua mano sinistra: grattandosi il capino con le zampette e abbandonandosi a ogni sorta di capriole e di danze. Ma lui non aveva neanche fatto il gesto di liberarsene, le aveva addirittura permesso di salire fino alla sua barba dove ora giocava tutta contenta fra i peli bianchi. E mi faceva impazzire perché mi distraeva e perché stava diventando il simbolo della mia impotenza. Possibile che non barcollasse almeno un poco, che non si arrabbiasse almeno per un secondo? L’unico segno di cedimento era il respiro che di risposta in risposta diventava più fievole denunciando la debolezza del vecchio che ogni tanto ha bisogno di un sonnellino. Sicché, oltre all’irritazione, c’era l’angoscia che mi si addormentasse sotto il turbante. Bisognava impedirlo.

«Imam Khomeini, come osa mettere sullo stesso piano una belva della Savak e un cittadino che esercita la sua libertà sessuale? Prenda il caso del giovanotto che ieri è stato fucilato per pederastia...» «Corruzione, corruzione. Bisogna eliminare la corruzione».

Prenda il caso della diciottenne incinta che poche settimane fa è stata fucilata per adulterio. «Bugie, bugie. Bugie come quelle dei seni tagliati alle donne. Nell’Islam non accadono queste cose, non si fucilano le donne incinte».

Non sono bugie, Imam. Tutti i giornali iraniani hanno parlato di quella ragazza incinta e fucilata per adulterio. Alla televisione c’è stato anche un dibattito sul fatto che al suo amante fosse stata inflitta soltanto una pena di cento frustate sulla schiena. «Se a lui hanno dato cento frustate e basta, vuol dire che meritava le frustate e basta. Se a lei hanno dato la pena di morte, vuol dire che meritava la pena di morte. Io che ne so. Lo chieda al tribunale che l’ha condannata. E poi basta parlare di queste cose: libertà sessuale eccetera. Non sono cose importanti. Uhm! Libertà sessuale. Che cosa significa libertà sessuale. Tutto questo mi stanca. Basta!» Ecco, succedeva. Si addormentava.

Allora parliamo dei curdi che vengono fucilati perché vogliono l’autonomia, Imam. Parliamo...«Quei curdi non sono il popolo curdo. Sono sovversivi che agiscono contro il popolo come quello che ieri ha ammazzato tredici soldati. Io quando li catturano e li fucilano ne provo un gran piacere. Basta. Non voglio parlare neanche di questo, basta. Sono stanco. Voglio riposare». Intervenne Ahmed, con l’aria del principe ereditario cui spetta applicare i desideri del re. «L’Imam ha ripetuto basta. L’Imam è stanco e vuole riposare. L’Imam non vuole più parlare di queste cose». «Allora parliamo dello scià». «No, deve salutarlo e lasciar che riposi. L’ora è passata da almeno mezz’ora. Lo saluti e se ne vada». Ma la parola «scià» era giunta ai divini orecchi. E aveva ottenuto quello che neanche la mosca sulla mano poi sulla barba era riuscita a ottenere con le sue danze e le sue capriole. Inaspettatamente l’immobile turbante si mosse e gli immobili occhi dimenticarono il tappetino per posarsi su Salami. «Ha detto scià?». «Sì, Eccellenza Santissima e Reverendissima». «Che cosa vuol sapere dello scià?». «Ha chiesto che cosa vuoi sapere dello scià» sospirò Salami con espressione preoccupata.

Questo, Imam. Qualcuno ha ordinato di ammazzare lo scià all’estero e ha chiarito che il giustiziere verrà considerato un eroe. Se poi morirà nell’azione, andrà in Paradiso. È lei quel qualcuno? «No! Io non voglio che sia giustiziato all’estero. Io voglio che sia catturato e riportato in Iran e processato in pubblico per cinquant’anni di reati contro il popolo, inclusi i reati di tradimento e di furto. Furto di capitali. Se muore all’estero, quel denaro va perduto. Se lo processiamo qui, ce lo riprendiamo. No, no: io lo voglio qui. Qui! Lo voglio tanto che prego per la sua salute come l’ayatollah Modarres pregava per la salute dell’altro Pahlavi, il padre di questo Pahlavi che era fuggito anche lui portandosi dietro un mucchio di soldi. So che è malato. Me ne dispiace perché potrebbe morire di malattia. Guai se morisse di malattia e mentre sta all’estero».

Ma se vi desse quei soldi, lei smetterebbe di pregare per la sua salute? «Se ci restituisse il denaro, quella parte del conto sarebbe saldata. Ma resterebbe il tradimento che egli ha commesso contro l’Islam e contro il suo Paese. Resterebbe il massacro del Venerdì Nero, il massacro del 15 Kordat cioè di sedici anni fa, e non si può perdonargli i morti che ha lasciato dietro di sé. Soltanto se i morti resuscitassero io mi accontenterei di riavere il denaro che lui e la sua famiglia hanno rubato».

Intende dire che l’ordine di catturarlo e riportarlo in Iran vale anche per la sua famiglia? «Colpevole è colui che ha commesso il reato. Se la famiglia non ha commesso reati, non vedo perché dovrebb’essere condannata. Appartenere alla famiglia dello scià non è un crimine. Non mi risulta ad esempio che il figlio Reza si sia macchiato di colpe verso il popolo, quindi non ho nulla contro di lui. Può rientrare in Persia quando vuole e viverci come un normale cittadino. Che venga».

«Io dico che non viene». «Se non vuol venire, non venga».

E Farah Diba? «Per lei deciderà il tribunale».

E Ashraf? «Ashraf è la gemellaccia dello scià, ladra e traditrice come lui. Per i crimini che ha commesso dev’essere processata e condannata come lui. Sì, voglio anche la gemellaccia».

E l’ex primo ministro Bakhtiar? Bakhtiar dice che ha già pronto un governo per sostituire il governo di Bazargan. E aggiunge che presto tornerà. «Che torni, che torni. Magari a braccetto del suo scià. Così in tribunale ci vanno insieme. Se Bakhtiar dev’essere fucilato o no, ancora non posso dirlo. Però so che dev’essere processato, e devo ammettere che mi piacerebbe molto vedermelo riportare insieme allo scià, mano nella mano. Lo aspetto».

A morte anche Bakhtiar, dunque. A morte Ashraf la gemellaccia, a morte Farah Diba, a morte tutti. Imam Khomeini mi permetta una domanda che naturalmente esula dalla morale di una rivoluzione: è noto che le rivoluzioni non perdonano, non conoscono la pietà. Lei come uomo, anzi come prete, ha mai perdonato nessuno? Ha mai provato pietà, comprensione per un nemico? «Che cosa, che cosa?»

Ho chiesto se sa perdonare, provar pietà, comprensione. E, visto che ci siamo, le chiedo anche questo: ha mai pianto? «Io piango, rido, soffro. Sono un essere umano. O crede che non lo sia? Quanto al perdono, ho perdonato la maggior parte di coloro che ci hanno fatto del male. E quanto alla pietà, ho concesso l’amnistia ai poliziotti che non avevano torturato, ai gendarmi che non s’eran resi colpevoli di abusi troppo gravi, ai curdi che hanno promesso di non attaccarci più. Ma per coloro di cui abbiamo parlato non c’è perdono, non c’è pietà, non c’è comprensione. Ora basta. Sono stanco. Basta». Sembrava irritato, e davvero deciso a congedarmi. Tentai di trattenerlo.

La prego, Imam. Ho ancora molte cose da domandarle. Su questo chador, per esempio, che lei impone alle donne e che mi hanno messo addosso per venire a Qom. Perché le costringe a nascondersi sotto un indumento così scomodo e assurdo, sotto un lenzuolo con cui non si può muoversi, neanche soffiarsi il naso? Ho saputo che anche per fare il bagno quelle poverette devono portare il chador. Ma come si fa a nuotare con il chador? E allora i terribili occhi che fino a quel momento mi avevano ignorato come un oggetto che non merita alcuna curiosità, si levarono su di me. E mi buttarono addosso uno sguardo molto più cattivo di quello che m’aveva trafitto all’inizio. E la voce che per tutto quel tempo era rimasta fioca, quasi l’eco di un sussurro, divenne sonora. Squillante. «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non riguardano voi occidentali. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene.»

Prego? Credevo d’aver capito male. Invece avevo capito benissimo. «Ho detto: se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene». Poi rise. Una risata chioccia, da vecchio. E rise Ahmed. Rise Bani Sadr. Risero, uno a uno, i bruti con la barba: sussultando contenti, sguaiati. E fu peggio che consegnarmi a Khalkhali perché subito i tormenti e le umiliazioni e gli insulti che m’avevan ferito in quei giorni vennero a galla per aggrovigliarsi in un nodo che comprendeva tutto: la birra negata, il dramma del parrucchiere, la via crucis di Maria Vergine che cerca con san Giuseppe un albergo, una stalla dove partorire, fino alla carognata del mullah che m’aveva costretto a firmare un matrimonio a scadenza. E il nodo mi strozzò in un’ira sorda, gonfia di sdegno. «Grazie, signor Khomeini. Lei è molto educato, un vero gentiluomo. La accontento sui due piedi. Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da medioevo». E con una spallata lasciai andare il chador che si afflosciò sul pavimento in una macchia oscena di nero. Quel che accadde dopo resta nella mia memoria come l’ombra di un gatto che prima se ne stava appisolato a ronfare e d’un tratto balza in avanti per divorare un topo. Si alzò con uno scatto così svelto, così improvviso, che per un istante credetti d’esser stata investita da un colpo di vento. Poi, con un salto altrettanto felino, scavalcò il chador e sparì.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”contro Travaglio e Luttazzi: che c'entra l'editto islamico con quello bulgaro? Bene, ora spiegaci che c’entra l’editto islamico con l’editto bulgaro, spiegaci che cosa c’entra - caro Marco-senza-vergogna-Travaglio - la vostra industrietta macinasoldi con la satira vera, quella degli ammazzati di Parigi che graffiavano nella carne viva del pianeta: la religione, l’islam, l’ebraismo, l’Occidente, la crisi. Spiegaci che cosa cazzo c’entra (scusa la parola cazzo, ma fa sempre satira) con le vostre cazzate dove il rischio massimo era una reprimenda di Sandro Bondi; che cosa c’entra cioè il martirio vero (inteso come pericolo di vita) con il martirio finto (inteso come requisito di carriera). La rivista Charlie Hebdo rischiava la pelle ogni giorno senza guadagnarci granché, si faceva il mazzo per sopravvivere sul mercato: non pretendeva d’essere inserita d’ufficio nella tv di Stato con programmi scadenti, roba che poi moriva da sola anche nella tv privata (come a La7) perché semplicemente non faceva ascolti: vero Luttazzi?, vero Guzzanti?, vero Dandini?, eccetera. Le vignette danesi riprese dai francesi giocavano in un altro campionato, non erano le mutande di Anna Falchi o le cacche di Daniele Luttazzi o il Papa sodomizzato all’Inferno che tanto piaceva a Sabina Guzzanti, non erano le barzellette sporche per le quali voi presunti satiri scomodavate Senofonte e l’articolo 21 della Costituzione, ergendovi a oppressi. Gli ammazzati di Hebdo non facevano comizi a manifestazioni di capi-partito come Grillo o Di Pietro, non andavano in vacanza con fonti univoche e poi politiche come Ingroia, non facevano spettacolini teatrali e libri e dvd e pseudo-lezioni universitarie e monologhi in prima serata da Santoro: facevano satira per davvero e li ricorderemo come esempio coraggioso di libertà di opinione, non li ricorderemo per “l’odore dei soldi” di cui non è rimasto nulla se non i soldi (tuoi) e l’odore (vostro). Gli ammazzati di Hebdo non pretendevano immunità giudiziarie e civili per autoproclamazione, non pretendevano di poter dire tutto quello che volevano su chi volevano e come volevano: senza mai pagarne un prezzo, perché “la satira non si processa”. Non evocavano di continuo il regime e la censura, non pretendevano di essere intoccabili persino da una magistratura peraltro acclamata, insomma: non avevano bisogno di pararsi il sedere col diritto di satira ogni volta che gli scappava una cazzata. Perché loro, la satira, non la facevano su Ruby e sulla Carfagna, non la facevano dicendo nano e ciccione o piegandosi su cartacce giudiziarie d’accatto: loro la facevano sulle libertà individuali e collettive sin dagli anni Sessanta, mica su Berlusconi per vent’anni di fila. E ora tu, macchietta rinsecchita e senza sorriso, a sangue caldo torni a romperci le palle coi tuoi ciclostile sul regime, e a pagina 22 del Fatto Quotidiano ospiti pure l’equilibrato Luttazzi che si paragona ai francesi e scrive testualmente che «non c’è bisogno di trasferirsi nei Paesi arabi per trovare resistenze alla satira sulla religione», rivelandoci di aver ricevuto minacce di morte e d’esser stato costretto a mesi sotto scorta. Ma certo, è un paragone calzante, dietro casa di Luttazzi erano pronti Ferrara e la Santanché coi kalashnikov, c’era anche un piano per prendere ostaggi nel fortino clandestino della Raidue targata Freccero. O forse no, Travaglio e Luttazzi non dicevano sul serio. Forse era satira anche quella, dev’essere così. Comunque occhio: i tre terroristi francesi li hanno seccati, Ferrara e la Santanchè e Berlusconi sono ancora in giro.

Marco Travaglio, travaso di bile: insulta Filippo Facci (e si auto-smentisce), scrive “Libero Quotidiano”. Filippo Facci attacca la "macchietta rinsecchita" Marco Travaglio, e la "macchietta rinsecchita" perde la testa. La firma di Libero ha accusato il vicedirettore del Fatto Quotidiano per l'improvvido paragone tra "editto islamico" in riferimento alle stragi parigine e l'editto "bulgaro" di berlusconiana memoria, ricordandogli che i redattori di Charlie Hebdo si guadagnavano da vivere rischiando (davvero) la vita, mentre Travaglio si guadagna da vivere recitando lo stesso copione, trito e ritrito e stratrito, ormai da vent'anni. Apriti cielo, Marco Manetta ha dato di matto. La livorosa risposta è arrivata sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, in cui dà a Facci del "poveretto con le mèches" per poi aggiungere: "Se ogni tanto capisse ciò che legge e ascolta, il tapino scoprirebbe che non ho fatto alcun paragone". Peccato che il paragone lo ricordi proprio Travaglio nella riga successiva, in cui in preda all'abitudinario travaso di bile ricorda che lui ha scritto: "Quella di Parigi è una tragedia, in Italia siamo sempre alla farsa". Dunque, continua, "ho semplicemente sbeffeggiato l'ipocrisia di una classe politica e giornalistica", e dunque, aggiungiamo noi, ha fatto quel paragone insensato che sta cercando di negare.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: il maestrino Marco Travaglio trafitto dai suoi stessi forconi. Marco Travaglio ha fatto bene a lasciare lo studio di Servizio Pubblico giovedì sera: anche se l’ha fatto senza calcoli e solo per un’alterigia da lesa maestà, per cedimento. In questo modo l’attenzione è finita sul suo delimitato scazzo con Michele Santoro e non su come ci si era arrivati: non su un’intera puntata, cioè, che aveva logorato Travaglio minuto dopo minuto e aveva alluvionato un modo di fare giornalismo e opposizione, se c’è differenza. Tutt’altro discorso meriterà un giorno Michele Santoro, che per anni si è portato la bestia in casa - accudito e viziato come un gatto siamese cui tutto è concesso - salvo accorgersi, in un momento di resipiscenza dettata dai tempi, che una bestia restava: anche quando non serve, anche quando la ragionevolezza sta palesemente da un’altra parte, anche quando, soprattutto, non è chiaro se esista ancora un pubblico (una piazza) a cui rivolgersi senza sfasciare veramente tutto. Hai voglia a dire a Travaglio - come ha fatto Santoro - che anche lui deve rispettare le regole: quali? Le regole erano che Travaglio poteva miagolare a piacimento, poteva graffiare anche le tende e il divano, tanto il padroncino alla fine lo coccolava. Se poi i tempi ora esigono un’altra sensibilità, intesa come variante dell’intelligenza, beh, giovedì sera era inutile chiederla a Travaglio: lui ha un format solo, ed è la sua egolatria. Nel rivedere l’episodio solo via internet, come avrà fatto la maggioranza, si potrebbe anche pensare a una trascurabile scossa umorale e magari funzionale agli ascolti, anche se giunta fuori tempo massimo. Non è così. L’onnipotenza del monologante è andata in crisi progressivamente, man mano che la pacatezza imbolsita del governatore Claudio Burlando distillava graniti argomentativi poggiati via via su interventi di altri, e applausini, puntualizzazioni di Santoro, battute sulla figuraccia genovese di Grillo, soprattutto il candore dei ragazzi seduti in trasmissione, quegli «angeli del fango» che hanno trafitto Travaglio coi suoi stessi forconi. Travaglio ha avuto più spazio di chiunque, non escluso il suo monologo di quasi undici minuti che al solito ha spazzolato in superficie l’universo mondo: da Renzi ai giudici in ferie, da Burlando al Mose, da Scajola alla Protezione Civile, pretesti per battutoni che Maurizio Crozza, in confronto, pare Oscar Wilde. Ma, blocco dopo blocco, tirava un’aria che lo lasciava lì come un coglione. Intanto Burlando, accusato genericamente di essere un cementificatore, convinceva con la sua aria dimessa e con un’immagine di politica intesa come arte del possibile: «Noi possiamo aggiustare quello che in passato si è fatto male, dobbiamo fare cose realistiche... La differenza tra chi fa un discorso e prende applausi, e chi governa a lungo perché ha preso voti, è questa qui: noi dobbiamo fare cose realistiche, e voi - rivolto a Travaglio - potete anche dire cose che realistiche non sono». E fin qui ci poteva anche stare. Infatti a indebolire i nervi di Travaglio è stato il successivo intervento di Stefano, un cosiddetto angelo del fango che in pratica ha difeso tecnicamente gli argomenti di Burlando. E la critica di un ragazzino pesa a Travaglio più di qualsiasi altra, perché sale dalla stessa Piazza Tahrir in cui pescano lui e Grillo. «Travaglio ha fatto un discorso che forse non vede completamente la realtà», ha detto il ragazzo, che peraltro abita dove il fiume è esondato e conosce bene il quartiere. Travaglio intanto restava lì coi suoi appuntini, il quadernino, la lezioncina imparata per l’occasione. Poi Santoro è intervenuto a difesa del ragazzo ed è pure partito l’applauso, come è meglio spiegato nel dialogo riportato in questa pagina. Burlando a un certo punto ha pure detto: «Lei, Travaglio, non è informato». E Travaglio: «Sono informatissimo». Ma era sempre più chiaro che non era vero. Travaglio era lì per fare le veci di Ferruccio Sansa, campioncino di contraddizioni diciamo così, ineleganti: difende in tv l’ex sindaco Adriano Sansa anche perché è suo figlio, ne scrive sul Fatto Quotidiano, attacca Burlando che ha attaccato suo padre, inoltre scrive anche di Grillo dopo aver arringato le genti a un V-day e dopo aver collaborato con Grillo e, peraltro, abitando affianco a Grillo, sulle colline di Sant’Ilario. Ma una parte della realtà, giovedì sera, è venuta fuori lo stesso. L’ex sindaco Adriano Sansa, negli anni Novanta, si limitò a un’opera di pulizia dei corsi d’acqua ma non proseguì i lavori anti-alluvione cominciati in precedenza da Burlando. È solo una parte della realtà, ma questo è venuto fuori durante la puntata di Servizio Pubblico. E quindi è vero.

SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.

Lettera di Buzzi al Garantista: «Sono innocente». Caro Sansonetti, sono il famigerato Salvatore Buzzi, arrestato il 2 dicembre nell’inchiesta Mafia Capitale, che ti scrive la notte di Natale per chiederti di darmi un attimo del tuo tempo. Sono accusato di essere un mostro, un mafioso, un corruttore e non ho alcuna possibilità di difendermi. E la gloriosa cooperativa 29 giugno, ove lavoravano 1254 persone, è stata commissariata e nessuno ha ricevuto né stipendio né tredicesima, causando gravi disagi a tutti i lavoratori, in gran parte svantaggiati. Sono stato condannato a mezzo stampa e solo tu, Bordin e Ferrara avete un minimo provato a prendere le distanze dall’inchiesta; ma la presunzione di innocenza non dovrebbe valere anche per me? Io mi reputo una persona seria e onesta, che ha lavorato tanto per creare un gruppo cooperativo ove lavorano migliaia di persone e che non ha mai rubato nulla alle aziende che amministra. Conosco Carminati da oltre 30 anni e l’ho frequentato dal 2012, quando era un uomo libero e senza pendenze; non ho mai commesso reati con lui né, tanto meno, l’ho visto commetterne! I miei rapporti con lui sono sempre stati alla luce del sole e non ho mai nascosto la sua frequentazione, era lui il maniaco della sicurezza, ma constato che è servita a poco. Non ho mai corrotto un politico, ma ho finanziato legalmente moltissimi esponenti politici; casomai sono io che ho subìto qualche “delicata estorsione” da qualche solerte funzionario e/o dirigente. Sto provando a far uscire le mie ragioni e ho scritto una lunga lettera al mio avvocato, articolata sui punti più controversi, per farla avere a Rosi Bindi nella sua funzione di presidente della Commissione Antimafia della Camera. La lettera spiega analiticamente molti episodi che mi sono contestati. Non ti chiedo di credermi a priori, ma ti chiedo di chiamare il mio avvocato e documentarti anche sulle fonti della difesa, e se ti convinco anche un po’, aiutami nella mia solitaria battaglia per far valere le mie ragioni e riconquistare l’onore perduto. Certo ho detto tante parole in libertà, ma sfido chiunque nell’intimità, se registrato, a non doversi poi scusare per qualche giudizio avventato espresso: e io ho avuto le microspie in ufficio e in auto per due anni. La Procura, inoltre, censura con aggettivi dispregiativi la semplice attività di lobbing, del tutto legittima. Siamo in uno Stato di diritto e non in uno Stato etico. Non voglio rubarti ancora tempo, ti chiedo solo di documentarti sulle ragioni della difesa con la serietà che ti contraddistingue. Augurandoti buone feste ti porgo i miei più cordiali saluti.

«Buzzi in galera sulla base di chiacchiere», scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. All’indomani della lettera che Salvatore Buzzi ha indirizzato dal carcere di Nuoro al nostro direttore, ci è sembrato opportuno, visto che le ragioni dell’accusa sono stranote e mediaticamente avvincenti, cercare di comprendere anche le istanze della difesa, ad oggi poco esplorate, per usare un eufemismo.

«Buzzi resta in galera – ci spiega il suo legale Alessandro Diddi – sulla base di semplici indizi: di intercettazioni telefoniche alle quali non hanno fatto seguito accertamenti che potessero confortare le esultanze proprie delle sue chiacchierate al telefono. Non ci sono state acquisizioni documentali, nessuna verifica sui conti correnti. È in galera sulla base di chiacchiere».

«Sono accusato di essere un mostro, un mafioso, un corruttore e non ho alcuna possibilità di difendermi», scrive Salvatore Buzzi in una lettera scritta a mano la notte di Natale dal carcere di Nuoro che è giunta al Garantista soltanto ieri «Sono stato condannato a mezzo stampa – spiega il patron della Cooperativa 29 giugno a Piero Sansonetti – e solo tu, Bordin e Ferrara avete un minimo provato a prendere le distanze dall’inchiesta; ma la presunzione di innocenza non dovrebbe valere anche per me?».

Difficile, visto il clima di gogna mediatica venutosi a creare, ignorare anche solo parte delle accuse rivolte a Buzzi da tribune e talk di ogni genere. E ancor più difficile, dato il visibilio scandalistico suscitato da ”Mafia capitale”, porsi semplici domande come ”E se fosse tutta una montatura?”, oppure, “Ma Salvatore Buzzi che cosa ne pensa di questa inchiesta? E se ha intenzione di difendersi, su quali basi?”. Temi di questo genere sono piuttosto invisi, e suonano quasi come sacrileghi. Ma modestamente confortati dalla Costituzione, ci è parso doveroso parlare della vicenda Buzzi, con Alessandro Diddi, il legale che lo rappresenta.

Avvocato, Buzzi è attualmente detenuto nel carcere di Nuoro ed è stata respinta l’istanza di scarcerazione. Su quali basi il suo cliente resta in cella?

«Salvatore Buzzi resta in galera sulla base di semplici indizi: di intercettazioni telefoniche alle quali non hanno fatto seguito accertamenti che potessero confortare affermazioni ed esclamazioni proprie delle sue chiacchierate al telefono. Non c’è stata nessuna verifica amministrativa. Non ci sono state acquisizioni documentali, nessuna verifica su conti correnti e libri mastri. È in galera sulla base di chiacchiere».

Ma quali sono dunque i gravi e sufficienti indizi di colpevolezza che dovrebbero trattenerlo in carcere?

«Ogni volta che Buzzi diceva al telefono ”Abbiamo vinto!”, il carabiniere all’ascolto ne deduceva che aveva vinto grazie a una turbativa d’asta. A nessuno è venuto in mente di verificare se dalle carte risultassero irregolarità».

In assenza dei verbali di aggiudicazione, si presume che gli appalti che si è assicurato Buzzi sono frutto di azioni delittuose.

«Gioire per una gara vinta, non è la stessa cosa che gioire perché un piano criminale è andato a compimento. Le gare possono essere vinte legittimamente, e dai miei riscontri stanno emergendo numerose assurdità in proposito».

A che cosa si riferisce?

«Intrapreso lo studio dei fatti contestati, ed avuto accesso alle relative carte, mi sono imbattuto in gare d’appalto nelle quali le cooperative di Buzzi erano l’unico concorrente in lizza. Mi spiega quale utilità avrebbe il pagamento di una tangente, per una gara alla quale partecipa un solo concorrente? E in secondo luogo faccio un’altra rivelazione. Si parla di corruzione per alcune gare che, dati alla mano, non sono state vinte dalla cooperativa di Buzzi. Ma allora a che cosa sarebbe servito elargire mance così generose e tessere trame tanto diaboliche?»

Nella lettera che ci ha inviato, Buzzi ammette di aver detto “tante parole in libertà”. “Ma sfido chiunque – ha scritto nell’intimità, se registrato, a non doversi poi scusare per qualche giudizio avventato espresso”. Soltanto eccessi verbali, dunque? È questa la colpa del suo cliente?

«Chi è di Roma, o ci vive da molto tempo, sa molto bene che in questa città vige una “romanitas” del tutto dissimile da quella augustea. Il linguaggio in voga, in pressoché ogni ambiente, è sempre molto colorito e guascone. Si tende a dar vita a dialoghi intercalati da eccessi caricaturali, spavalderie assortite, battutacce a volte esilaranti. E talvolta ci scappano anche improperi e si fa la voce grossa, per darsi l’aria da rodomonte. È questo che fa delle intercettazioni uno strumento talvolta pericoloso: l’interpretazione letterale di parole in libertà come tante ne diciamo tutti noi nelle conversazioni private di ogni giorno».

E ritorniamo alla domanda di prima: reputa fondata la carcerazione preventiva?

«In qualità di docente universitario, e non come suo avvocato, la reputo una scelta irragionevole. Pericolo di fuga? Non ce n’è, Buzzi è da due mesi un sorvegliato speciale. Reiterazione del reato? Un po’ complesso, visto quello che Buzzi ormai rappresenta per l’opinione pubblica. Inquinamento delle prove? Proprio no, perché tutto è stato sequestrato».

E in qualità di avvocato?

«In qualità di avvocato non posso che constatare come la nostra giurisprudenza abbia intrapreso da qualche tempo una bruttissima china. L’idea di trattenere in carcere qualcuno sulla base dei “gravi indizi di colpevolezza” è diventata piuttosto desueta. Sempre più spesso si fa strame delle garanzie che normano le esigenze cautelari. Con il risultato che noi tutti siamo meno a piede libero di quanto possiamo immaginare. Finire in prigione, è diventato più semplice di quanto ciascuno di noi si aspetta».

A un certo punto Buzzi ci scrive: «Non ho mai corrotto un politico, ma ho finanziato legalmente moltissimi esponenti politici». Che cosa può dirci di questi rapporti intrattenuti con la politica?

«Buzzi ha fatto versamenti legittimi e documentati a fondazioni politiche che ne hanno sostenuto le istanze. Sono state considerate erogazioni illecite e invece ce n’è regolare traccia. Buzzi ha sostenuto candidature, ha pagato eventi e manifestazioni».

Buzzi dice peraltro di non aver mai sottratto un euro dalle aziende che amministra. Nessun contraccambio da queste attività?

«Buzzi non è l’inventore geniale di un business fatto sulla pelle delle persone disagiate. Le cooperative come quelle di Buzzi lavorano nel sociale, e hanno bisogno dell’aiuto dello Stato che le finanzia nel tentativo di colmare il gap tra un libero cittadino e uno svantaggiato. Chi darebbe lavoro a ex carcerati come quelli cui Buzzi ha dato un orizzonte di vita nuova e dignitosa? È del tutto evidente che il fondatore di una cooperativa esprima la propria predilezione per questo o quel candidato più sensibile ai temi sociali. E del tutto legittimo che possa scegliere di sostenere questa persona o quell’altra. Questa si chiama democrazia, non corruzione. Siamo un Paese di grandi ipocriti».

Ci ha colpito molto un altro passaggio della lettera. Buzzi dice che non solo non ha mai corrotto, e che casomai è stato lui ”a subire qualche delicata estorsione da qualche solerte funzionario e/o dirigente”. Ne parliamo?

«Su questo aspetto devo attenermi al momento al segreto professionale. Mi limito a ricordare su tutti la vicenda dell’appalto per il Cara di Castelnuovo di Porto. Il giudice del Tar Linda Sandulli sospese l’assegnazione dell’appalto a Buzzi: deteneva quote in una società che faceva manutenzione nello stesso centro».

Lui di sinistra, Carminati di destra: quanto appeal mediatico ha avuto l’idea di larghe intese delinquenziali in questo caso?

«Buzzi è sempre stato e resta un comunista. La conoscenza di Carminati l’ha fatta in carcere trent’anni fa. Ma Buzzi lo ha frequentato solo a partire dal 2012, quando era un uomo libero e senza pendenze».

Il suo cliente tiene a precisare che non ha «mai commesso reati con lui né, tanto meno, l’ho visto commetterne».

«Tutta la vicenda si è innescata nel 2010, perché Carminati venne sospettato di aver avuto un ruolo nella rapina di un caveau. Da allora si cominciarono a conoscere vita, morte e miracoli di quest’uomo, sebbene venne riconosciuto del tutto estraneo al delitto per il quale partì la sua ”marcatura a uomo”. Intercettazione dopo intercettazione, venne il momento dell’incontro tra Buzzi e Carminati in un bar. Carminati si offrì di mediare per un credito che Buzzi doveva riscuotere. E da lì, successe il pandemonio. Se Carminati non avesse fatto capitolino in questa vicenda, altro che mafia capitale. Salvatore Buzzi avrebbe continuato a godere della fama di uomo buono, intelligente, e impegnato».

Caro Buzzi, assurdo accusarti di essere un mafioso, scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Se Salvatore Buzzi fosse milanese, probabilmente lo conoscerei. Sarebbe uno dei tanti ex detenuti con cui avrei avuto contatti e collaborazione in qualche mia veste istituzionale. E la Cooperativa 29 giugno sarebbe stata una di quelle con cui avrei organizzato il lavoro, interno e esterno alle carceri milanesi di S. Vittore, Opera e Bollate, come la Cooperativa Alice e le altre. L’avrei frequentato, sarei andata a qualche pranzo come quello della famosa fotografia cui partecipò anche l’attuale ministro Poletti, magari sarei diventata sua amica, sapendo benissimo che non stavo frequentando l’oratorio della mia parrocchia. Perché i casi sono due: o si crede nella Costituzione e in tutte le leggi che predicano il reinserimento dei detenuti o non ci si crede. Nel primo caso, bisogna sapere quanto sia fondamentale il lavoro per dare speranza non solo a chi esce dal carcere di poter fare una vita normale, ma anche a tutti noi, perché sappiamo che quell’ex detenuto difficilmente commetterà ancora reati. Ben vengano quindi quelli come Buzzi cha hanno la capacità di mettere in piedi una cooperativa che dà lavoro a 1254 persone. E male, anzi malissimo fa il governo se cerca, come sta facendo, di intralciare in qualche modo questo tipo di attività. La lettera di Buzzi mi colpisce prima di tutto per questo aspetto della vicenda, perché conosco tanti “Buzzi”, ogni tanto “sfrutto” le loro capacità professionali e manuali dando loro qualche lavoretto in più, qualche aiuto a muover le mani nella direzione giusta. Ma la lettera di Salvatore Buzzi pone anche ben altri problemi: mostro, mafioso, corruttore. Questa è oggi la sua fotografia, questo sono le sue impronte digitali, il suo dna. Mostro per il solito circo mediatico-giudiziario messo in piedi da magistrati esibizionisti e giornalisti in toga. Su questo punto, caro Salvatore, non c’è speranza. Tu stesso ti sei domandato, quando eri ancora libero e rispettato, come mai sia stato arrestato Claudio Scajola per quella vicenda assurda che ha riguardato un altro mio ex collega parlamentare, Amadeo Matacena. Neanche io ho capito perché, e posso dare una sola spiegazione: se arresti, conquisti qualche titolo e qualche foto sui giornali. Altrimenti, poche righe in cronaca. Ma neanche mi convince l’incriminazione di Matacena, visto che anch’io, insieme a Vittorio Sgarbi, fui indagata per otto mesi per lo stesso reato, “concorso esterno in associazione mafiosa”. E so che è un reato inesistente. Come lo so io, lo sanno e lo dicono in tanti, così come in tanti, quelli che lo conoscono, sanno bene che Buzzi non è un mafioso. Dove sono i tartarughini, con la testa nascosta, i garantisti del Pd? Se la loro identità politica non è più quella del giustizialismo, come vent’anni fa, si facciano sentire. Se devono “far pulizia” nel Pd romano, la facciano, problema loro. Ma alzino la voce per dire che non si deve più confondere la giustizia con la morale e che vogliono uno Stato di diritto laico e rispettoso nei confronti del “signor chiunque”. Le mie esperienze, sia giudiziarie che politiche, mi hanno reso non solo sensibile, ma anche molto diffidente nei confronti delle Grandi Inchieste, soprattutto se basate sulla contestazione del reato associativo, come contenitore che tutto comprende e tutto giustifica. E mi sta molto sulle scatole un Procuratore (che non conosco ) che fa conferenze stampa e che crea un nuovo reato, l’associazione mafiosa in salsa romana, solo per poter usare tutti gli strumenti, anche persecutori, consentiti per i reati più gravi, come il 416-bis. E altrettanto non apprezzo un ministro che applica l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario (che andrebbe abolito subito) a indagati che non sono neppure accusati di omicidi e stragi. Si vogliono forse creare nuovi “pentiti” come Scarantino? Purtroppo la storia giudiziaria di questo paese, se e quando fa giustizia, la fa molti anni dopo, quando la reputazione e la vita di tanti sono ormai rovinate. Ma so per esperienza che far uscire qualche voce dal silenzio e dal vocio urlante del consueto circo a volte a qualcosa serve ed è giusto farlo. Io so che Salvatore Buzzi non è un mostro e non è un mafioso. Non so se sia solo un lobbista, come lui dice, o anche un corruttore o un concusso. Questo, ma solo questo, lasciamolo alla magistratura. Ma, si spera, a una magistratura requirente normale, senza elmetto e senza selfie.

PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.

Umberto Bossi: "Processatemi a Roma", scrive “Libero Quotidiano”. Un tempo "Roma ladrona". Oggi "processatemi a Roma". Protagonista della peculiare parabola è il Senatùr per eccellenza, Umberto Bossi, che attende di essere giudicato nel caso legato a Francesco Belisto, il tesoriere truffaldino della Lega Nord, la vicenda in cui è invischiato anche il Trota, il figlio Renzo Bossi. E' successo, infatti, che gli avvocati di Bossi (padre) abbiano presentato un'istanza per spostare nella capitale le cause pendenti tra Milano e Genova (il 29 ottobre scorso è stato deciso che per il reato di appropriazione indebita ipotizzato sia competente il tribunale di Genova). Insomma, oggi, il Senatùr chiede che a restituirgli l'onore sia il tribunale di Roma.

La Lega Nord accusata di "banda armata": 18 anni dopo, le Camicie verdi a processo, scrive “Libero Quotidiano”. A processo, diciotto anni dopo. Si tratta della paradossale vicenda che riguarda le 34 "camicie verdi" della Lega Nord per le quali è stato richiesto il rinvio a giudizio per banda armata dalla procura di Bergamo per aver "promosso, costituito, organizzato o diretto un'associazione di carattere militari". Per inciso, le Camicie verdi erano quelle che si definivano "un servizio d'ordine organizzato nell'ambito dei territori della Padania". Ora, se il gip accoglierà la richiesta, partirà il processo. L'inchiesta - Nel frattempo il leader del Carroccio, Matteo Salvini, ha detto che chiederà il risarcimento dei danni per "un processo senza senso", anche perché per la stessa imputazione stato già assolto un gran numero di leghisti, da Umberto Bossi e fino a Maroni e Calderoli. Per altri leghisti il procedimento era stato sospeso parecchie volte in attesa di responsi della Consulta. L'inchiesta era stata avviata nel 1996 dal procuratore di Verona Guido Papalia perché la maggior parte degli indagati proveniva da quella provincia. Successivamente la maggior parte dei magistrati avevano accolto l'eccezione di competenza territoriale, infatti le Camicie verdi furono fondate il 2 giugno 1996 a Pontida, in provincia di Bergamo. E dunque è là che ora il processo, dopo quasi due decenni, dovrebbe ripartire.

Lega, il processo da rifare dopo 18 anni, scrive Mario Giordano su “Libero Quotidiano”. Scusate, ci siamo sbagliati. Il Procuratore di Verona Guido Papalia aveva diritto di indagare sulle Camicie Verdi più o meno quanto il sottoscritto ha diritto di presiedere l’assemblea dell’Onu. Cioè, nulla. Per fortuna ce ne siamo accorti in fretta: ci abbiamo messo solo 18 anni. L’inchiesta sui leghisti responsabili di «associazione militare con scopi politici»,infatti, era nata il 1996. Al Quirinale, tanto per dire, c'era Scalfaro. Nel 1996 si disputavano le Olimpiadi di Atlanta, l’inventore di Facebook Mark Zuckenberg era appena uscito dall’asilo, gli sms erano scambiati solo da pochi adepti e i telefoni cellulari erano così poco diffusi che le intercettazioni di quell’inchiesta vennero fatte tutte su telefoni fissi. Uno degli indagati, Matteo Bragantini, a quel tempo era un giovane studentello con i capelli lunghi. Oggi è un parlamentare di lungo corso con i primi segni dell’incanutimento e un po’ di pancetta. Però gli è andata meglio che a un altro dei 36 indagati, classe 1925, che nel frattempo è morto, senza nemmeno aver potuto scoprire che Papalia non aveva alcun diritto di perseguitarlo. Però adesso non prendetevela con la giustizia: per capire se un procuratore può indagare o no su un fatto ci vorrà il suo tempo, no? Bisogna esaminare le carte con attenzione, magari serve anche un sussidiario di geografia per capire i confini delle province di Verona e Bergamo. Non è che si possa far tutto semplice. E poi che volete? Diciotto anni e ci arrivano anche loro. Non lo fanno apposta a tirarla per le lunghe: lo dimostra il fatto che, appena si sono accorti che le Camicie Verdi erano state costituite a Pontida e accertato che Pontida non è provincia di Verona (promossi!), hanno predisposto il trasferimento «immediato» del fascicolo a Bergamo. Immediato, proprio così. 18 anni dopo, ma immediato. Nei tribunali mica si perde tempo. Peccato solo che in questi 18 anni, nel frattempo, sia successo di tutto. Ricorderete: udienze, ispezioni della Digos in via Bellerio, scontri con la polizia, Maroni in barella, dibattiti in Parlamento, giornali scatenati. Sull’inchiesta di Papalia (che non doveva nemmeno cominciare) è stata scritta la qualunque, compresi gli indimenticabili titoli sui «Terroristi in Camicia Verde», «Secessione a Padania armata», «Organizzazioni militari leghiste», «Verde scuro tendente al nero» intere trasmissioni di Santoro, paginate indignate dei commentatori intelligenti. Ecco: scusate, ma ci siamo sbagliati. È nato tutto da un equivoco. Anzi, da un errore. Non se n’è accorta nemmeno la Corte Costituzionale: coinvolta per cinque volte nella vicenda, per cinque volte ha rimandato il fascicolo a Verona. Cioè nel posto sbagliato. Anche alla Consulta, evidentemente, ci sono problemi con la geografia. Adesso ricomincia tutto da Bergamo. E ricomincia da zero. Dispiace un po’ per Papalia, che tutte le inchieste si porta via: nel frattempo è andato in pensione, ma il suo lavoro è stato inutile. O meglio: è stato utile solo a lui. Gli è servito a farsi un po’ di pubblicità, che fa sempre bene, e forse un po’ di carriera, arrivando a farsi nominare Procuratore Capo a Brescia. «Terun de la madonna, vuol arrestare il Va’ Pensiero», lo apostrofò Bossi. Del resto la giustizia italiana è fatta così: il procuratore di Trani mette sotto inchiesta Moody’s e Standard's&Poor, Henry John Woodcock fa sfilare a Potenza Savoia e showgirl, Raffaele Guariniello convocherebbe a Torino pure San Gennaro se solo potesse. Basta che un magistrato intravveda la possibilità di avere l’attenzione dell’opinione pubblica e zac, l’inchiesta è aperta. Tanto che problema c’è? Al massimo finisce tutto in nulla. O peggio: 18 anni dopo si scopre che l’indagine non doveva nemmeno cominciare perché Bergamo non è Verona. Che importa? Le telecamere ormai sono lontane. E gli errori della giustizia, si sa, non li paga nessuno.

Papalia e le camicie verdi: «Così non è giustizia diciotto anni sono troppi», scrive Cremonesi Marco su “Il Corriere della Sera”. «Non c'è il minimo dubbio. Una giustizia così lenta non è più giustizia». Guido Papalia è in pensione da circa un anno. Ma nel 1996, diciotto anni fa, fu lui ad avviare, da procuratore di Verona, il procedimento contro la «Guardia nazionale padana», le cosiddette Camicie verdi. Secondo i leghisti, un servizio d'ordine. Secondo varie procure, un'associazione militare. Il processo, però, non è partito: la procura di Bergamo (oggi competente sulla vecchia indagine) ha chiesto sabato al gip il rinvio a giudizio di 34 militanti di allora. Procuratore, lo avvierebbe ancora quel procedimento? «Ah, non c?è dubbio. Tra l'altro, l'ho avviato io a Verona dopo una riunione con diverse procure che si svolse a Mantova. Fu lì che si decise che il procedimento si sarebbe dovuto svolgere a Verona. Ma sul fatto che fosse motivato, dubbi non ce n'erano da parte di nessuna delle procure. E io, di dubbi, continuo a non averne: la costituzione di associazione militare, sulla base della legge del 1948, c'è in pieno».Per quei fatti, buona parte dei capi leghisti non sono stati processati in quanto parlamentari. Non è stridente?«Certo, ma fu una decisione del Parlamento italiano, che considerò quei fatti come opinioni degli eletti, libera espressione di pensiero. Ma badi che, invece, il Parlamento europeo a suo tempo sancì che i responsabili andassero processati».Molti di quei militanti oggi sono magari tranquilli padri di famiglia.«Credo anch'io. Certamente non esistono più le camicie verdi di allora. Però, le persone sono coinvolte per quei fatti di allora, sulla base di una legge vigente. Per dire: noi a suo tempo avevamo contestato anche l?attentato alla Costituzione e all'integrità dello Stato. Poi, però, la legge fu modificata e quei capi di imputazione sarebbero stati insussistenti. Ma la legge che c'è, va rispettata». La lunghezza del procedimento era inevitabile? «I processi non possono durare tanto, ce lo diciamo tutti. E non dovrebbero esistere meccanismi tanto dilatori. Però, qui non parliamo di cavilli, ma di momenti processuali che hanno determinato una stasi inevitabile, come le eccezioni di costituzionalità. Che dovrebbero essere decise immediatamente, e non dopo tre o quattro anni». E dunque, si può essere processati per fatti di quasi vent'anni fa che peraltro non hanno portato ad altri reati specifici.«Sì. Ma io credo che quando si tratterà di decidere, si terrà conto della situazione attuale. Anche psicologicamente, credo se ne terrà conto».

Lega Nord, Rosi Mauro assolta: non prese i soldi del partito. Lei attacca: "Maroni e Salvini, la pulizia non c'è stata", scrive “Libero Quotidiano”. "Altro che scope, nella Lega la pulizia non c'è stata". Sono i giorni della rivincita per Rosi Mauro: l'ex vicepresidente del Senato della Lega Nord, fedelissima di Umberto Bossi, è stata assolta dall'accusa di essersi intascata 100mila euro del partito. Peccato che prima del processo sia stata la Lega stessa a "epurarla", sull'onda dello scandalo della gestione dei soldi del partito. Prima di lei, sul patibolo, erano già saliti l'ex tesoriere Francesco Belsito e, di fatto, il fondatore e leader storico dei padani, Umberto Bossi. "La verità deve ancora venire fuori - si sfoga la Mauro sul Giornale -, ma è chiaro che un un complotto, colpirono me per affossare Bossi, per farlo fuori". Era l'aprile del 2012, la Lega stava cercando di uscire faticosamente dagli scandali giudiziari e finanziari. Bobo Maroni aveva preso in mano il partito e la prima operazione fu soprattutto mediatica: cacciare la vecchia guardia, il cerchio magico di Bossi e sostituirla con volti nuovi e puliti, tra cui quello di Matteo Salvini. Nella famosa serata delle ramazze, a Bergamo, c'erano tanti leghisti arrabbiatissimi con i "traditori" e con lei, la Mauro, salutata con cori tipo "terrona" e "Rosi p... l'hai fatto per la grana". Quella classe dirigente fu spazzata via a suon di insulti. "Mettiamola così - spiega la Mauro -, mi sono fatta cacciare. Mi dissero di fare un passio indietro e io rifiutai. Chiesi a Maroni: Perché dovrei farlo se non ho commesso alcun reato?. Lui mi rispose che era una questione di opportunità politica". Da due anni con la nuova nomenklatura leghista l'ex "badante" del Senatùr non ha più rapporti: "E nessuno si è fatto vivo" per complimentarsi per l'assoluzione. E Salvini? "Con Matteo ho condiviso un lungo percorso nella Lega. Penso che anche lui, come altri, in quel momento sia stato travolto dalla furia dell'attacco mediatico contro di me".

Rosi Mauro: "Io assolta. E la pulizia nella Lega non c'è stata". La serata delle scope non è servita. Sono stata giustiziata per far fuori Bossi, ma molti restano al loro posto, scrive Enrico Lagattolla su “Il Giornale”.

«Me la ricordo la serata delle scope, eccome. Ecco, a Roberto Maroni direi che quello spettacolo non è servito a nulla. Io non ci sono più, ma molti di quelli che dovevano essere spazzati via sono ancora al loro posto».

Per una che è stata dipinta come la «strega nera» del Carroccio, la reazione è assai misurata. Ma lei, Rosi Mauro, ora è semplicemente «contenta».

«Contenta di una cosa che in cuor mio già sapevo».

Ovvero, che con l'uso spregiudicato dei fondi della Lega non aveva nulla a che fare. Per questo, ieri, l'ex vicepresidente del Senato è stata prosciolta dal gip di Milano. E dopo essere stata silurata dal partito senza processo e prima del processo, dopo essersi presa gli insulti dai colleghi lumbard e da una parte della platea leghista - «terrona» era il meno, qualcuno gridava «Rosi p..., l'hai fatto per la grana» - ora può voltare pagina.

Rosi Mauro, due anni fa venne «giustiziata» dal triumvirato Maroni-Calderoli-Dal Lago.

«Mettiamola così: mi sono fatta cacciare. Mi dissero di fare un passo indietro e io mi rifiutai. Chiesi a Maroni: Perché dovrei farlo se non ho commesso alcun reato?».

E cosa le venne risposto?

«Che era una questione di opportunità politica».

Ne fu convinta?

«Ma figuriamoci!».

E allora qual è la verità?

«La verità deve ancora venire fuori, ma è chiaro che fu un complotto. Colpirono me per affossare qualcun altro».

La butto lì: Umberto Bossi.

«Certo! È stato un complotto per fare fuori Bossi».

Ordito da chi?

«I responsabili sono sotto gli occhi di tutti. Quello che mi consola è che la nostra gente l'ha capito».

Ne è sicura?

«Tutte le persone del movimento che ho incontrato in quel periodo me lo dicevano: Rosi, non mollare e vai avanti».

A due anni di distanza, pensa a qualche rivalsa nei confronti del partito o delle persone che l'hanno affondata?

«Qualche querela è già partita, vedremo come andrà a finire. Altre potrebbero partire. Ma non c'è fretta, di pazienza ne ho molta».

Facile immaginare che ce ne sia voluta parecchia in questi due anni.

«Da quando è scoppiato il caso ne ho viste di cotte e di crude. Quello che mi ha fatto più male sono le cose che sono state scritte su di me. Sono finita in prima pagina, leggevo notizie incredibili che sapevo essere false. La verità è che io sono entrata nella Lega nel 1987, e non ho mai tentato di fare le scarpe a nessuno».

Oggi il giudice di Milano l'ha assolta dall'accusa di essersi intascata quasi 100mila euro del partito. Qualcuno da via Bellerio l'ha chiamata?

«Nessuno della nomenklatura si è fatto vivo. Ma non mi aspettavo diversamente, anche perché è da due anni che con queste persone ho interrotto i rapporti. Invece, con molte delle seconde linee continuiamo a sentirci. E ovviamente oggi mi hanno chiamata».

A distanza di due anni, cosa direbbe a Roberto Maroni?

«Che la famosa serata delle scope non è servita a nulla. Che quelle scope hanno funzionato male, perché la pulizia vera non c'è stata».

E al segretario Matteo Salvini? Anche lui, con toni più morbidi, chiese la sua testa.

«Con Matteo ho condiviso un lungo percorso nella Lega. Penso che anche lui, come altri, in quel momento sia stato travolto dalla furia dell'attacco mediatico contro di me».

Ora che questa vicenda si è chiusa, cosa farà?

«Ancora non lo so. Ma di sicuro, questo sarà un bel Natale».

I GRANDI PROCESSI DEL 2014 ED I GRANDI DUBBI: A PERUGIA, KERCHER; A TARANTO, SCAZZI; A TORINO, ETERNIT; A MILANO, STASI; SENZA DIMENTICARE CUCCHI A ROMA.

I grandi processi del 2014. Dalla condanna di Amanda e Raffaele fino a quella di Alberto Stasi per l'omicidio di Chiara Poggi, 4 casi giudiziari che hanno diviso l'opinione pubblica, scrive “Panorama”. Casi trattati analiticamente nei libri di Antonio Giangrande che parlano delle città del processo, salvo che per Sarah Scazzi in cui si parla in libri ad ella dedicati.

La condanna di Amanda e Raffaele. 30 gennaio 2014: Dopo 11 ore di camera di Consiglio i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Firenze hanno condannato Amanda Knox a 28 anni e sei mesi di carcere e Raffaele Sollecito a 25 anni per l'omicidio di Meredith Kercher. Una sentenza che accoglie la tesi della Cassazione, che aveva respinto la condanna d'Appello della corte di Perugia di assoluzione per i due giovani che si sono sempre detti innocenti. Nessuno dei due imputati era in aula. Amanda si trova dal giorno dopo la sentenza di assoluzione nella sua casa a Seattle. Raffaele Sollecito invece dopo aver sostenuto la sua innocenza in tutte le fasi del processo ha preferito attendere la sentenza lontano dall'aula e dalle decine di telecamere e giornalisti che hanno affollato l'aula. Ma la battaglia legale non è ancora finita. E' certo infatti che i due condannati faranno a loro volta ricorso in Cassazione. "E' stata una bella botta, faremo ricorso, Amanda e' innocente". Così ha commentato uno dei difensori di Amanda Knox, Luciano Virga, alla lettura della sentenza. La parola fine non è stata ancora scritta. Sono già in molti a chiedersi come si comporterà il nostro paese e soprattutto come si comporteranno gli Stati Uniti in caso di richiesta di estradizione per Amanda. Soddisfatti i familiari della vittima. Il fratello e la sorella di Meredith, presenti in aula, hanno sorriso dopo la lettura della sentenza. In primo grado, a Perugia, Amanda venne condannata a 26 anni e Raffaele a 25. In Appello vennero assolti. La Cassazione ha poi annullato quella seconda sentenza ordinando un nuovo appello, quello di Firenze.

La vergogna del Processo Eternit. 19 novembre 2014. La Cassazione ha annullato senza rinvio, dichiarando prescritto il reato, la sentenza di condanna per il magnate svizzero Stephan Schmidheiny nel maxiprocesso Eternit. Sono stati annullati anche i risarcimenti per le vittime. La prescrizione è maturata al termine del primo grado. Schmidheiny era stato condannato dalla Corte d'appello di Torino il 3 giugno 2013 a 18 anni di reclusione per la morte da amianto di circa mille persone, soprattutto in Piemonte. La decisione della Prima sezione penale della Cassazione ha suscitato le proteste dei numerosi familiari delle vittime dell'amianto presenti nell'Aula magna. "Vergogna, vergogna" hanno detto in tanti, urlando subito dopo la lettura del verdetto. "Il pg dice che non è possibile giudicare un disastro provocato dall'amianto perché lo si è cessato di lavorare tanti anni fa, ma si dimentica che l'amianto è una bomba a orologeria a lungo periodo: non è possibile che coloro che l'hanno innescata siano trattati come dei gran signori". Così Bruno Pesce, coordinatore dell'Afeva (associazione familiari e vittime dell'amianto) di Casale Monferrato, ha commentato la richiesta del pg della Cassazione di annullare le condanne del processo Eternit. "Siamo sconcertati, non ce l'aspettavamo", aggiunge. "Per quanto ci sforziamo di approfondire questa richiesta, continuiamo a ritenerla incomprensibile. Il problema è che vediamo ancora tanta diffusione dell'amianto sul territorio, dagli smaltimenti abusivi agli scarti dell'Eternit, dalle tonnellate e tonnellate di cemento-amianto. È veramente incredibile che non si tenga conto di questo". Paolo Liedholm, nipote di Nils, grande calciatore e allenatore svedese che vive a Casale Monferrato e ha perso la mamma nel 2008 per una grave malattia legata all'amianto, ha commentato così la sentenza della Cassazione: "Ora lo hanno stabilito con chiarezza: se si vuole uccidere qualcuno in Italia il miglior mezzo è l'amianto perché è legale". "In Svezia tutto questo non sarebbe neanche successo - precisa Liedholm- perché dopo pochi ammalati sarebbe intervenuta l'autorità amministrativa e avrebbe chiuso la fabbrica. In Italia, invece, la si tiene aperta e si fa un processo penale dopo 20 anni, quando tutto invece é prescritto..."

L'omicidio di Chiara Poggi: condannato Stasi. 17 dicembre 2014: Alberto Stasi è stato condannato a 16 anni di carcere per l'omicidio dell'ex fidanzata Chiara Poggi, uccisa a Garlasco il 13 agosto 2007. Questa la sentenza emessa dalla Corte d'Assise d'appello di Milano al termine di una camera di consiglio durata 5 ore. A Stasi non è stata comminata l'aggravante della crudeltà, contestata dalla procura generale, che aveva chiesto una pena di 30 anni. È l’esito di un percorso processuale incerto e aperto fino all’ultimo. Una storia giudiziale lunga più di sette anni, che si è combattuta senza esclusione di colpi tra difesa e parte civile, la quale finalmente ha visto riconoscere la bontà delle sue argomentazioni quando tutto sembrava perso dalla Cassazione, che ha azzerato le prime due sentenze di assoluzione e riaperto la partita. Una partita in cui un ruolo centrale l’ha giocato la prova scientifica, chiamata a mettere pezze sulle diverse toppe dell’indagine, ma che come spesso accade nei delitti di sangue si è rivelata fonte di dubbi piuttosto che di certezze.

Caso Scazzi: i ricorsi dopo l'Appello. Il 14 novembre 2014 scorso, le porte di un'aula di giustizia si sono riaperte a Taranto per l’ennesima udienza del processo d'appello sulla morte di Sarah Scazzi. In quella stessa aula di giustizia è entrato ancora da uomo libero solo Michele Misseri, oggi sessantenne, padre di Sabrina e marito di Cosima. In primo grado la Corte di Assise di Taranto gli ha inflitto otto anni di reclusione ritenendolo colpevole di concorso in soppressione di cadavere. Intanto Sabrina oggi ha 28 anni, è in carcere da più di quattro e con la prospettiva di finire lì i suoi giorni perchè ha sulle spalle una condanna all'ergastolo. La madre 59 anni, è entrata nella stessa cella della figlia pochi mesi dopo. Fu Misseri a confessare il delitto e a far ritrovare i resti della povera Sarah, ma pochi giorni dopo chiamò in correità la figlia indicandola, di fatto, come la reale autrice dell'omicidio. Misseri è il "perno" di tutta l'inchiesta e del processo, anche se il giudizio di primo grado ha visto la condanna di nove imputati accusati di reati diversi. Tutti hanno fatto ricorso, ma per un imputato la Corte di assise di appello dovrà dichiarare l'estinzione del reato perchè Cosimo Cosma, nipote di Michele Misseri, al quale erano stati inflitti sei anni per concorso in soppressione di cadavere, è morto il 7 aprile scorso per una grave malattia. Gli altri imputati che hanno cercato di far valere le loro ragioni dinanzi ai giudici di appello sono Carmine Misseri, fratello di Michele, condannato a 6 anni per concorso in soppressione di cadavere; l'ex legale di Sabrina, Vito Russo jr, al quale vennero inflitti 2 anni per favoreggiamento personale; e infine altri tre condannati per favoreggiamento, Giuseppe Nigro, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano. 

Tutta la verità sul delitto di Sarah Scazzi.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande.

Caso Scazzi, intervista allo scrittore Antonio Giangrande che da avetranese ha scritto due libri: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese” e “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. La condanna e l’appello. Il resoconto di un avetranese”.

Due libri sul caso Sarah Scazzi. Interi reportage che raccontano un omicidio e tutto ciò che lo circonda “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keaton dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande. Risultato? “Un processo da rifare e due persone, Sabrina e Cosima, non legalmente in carcere indipendentemente dal fatto che siano colpevoli o no”. Un analisi approfondita, quella dello scrittore, dalle confessioni ai processi, dall’analisi dei personaggi alle intercettazioni ambientali e telefoniche. Giangrande è anche presidente dell’associazione Contro tutte le mafie ed è da anni che si occupa del caso Scazzi e di altri processi che ritiene “non correttamente svolti”.

Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

«Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. Eppure la presunzione d'innocenza è quasi una bestemmia, un lusso che non possiamo permetterci quando s'accende la sarabanda mediatica attorno - e dentro - al dolore e all'orrore di un delitto terribile e la “voglia di giustizia” diventa slogan buono per qualche striscione da appendere a favore di telecamera.  «Assassina/o, devi morire», gridano i popolani fuori le caserme o i commissariati. Urla e insulti da parte della gente che si raccoglie in folla per godersi lo spettacolo e vedere da vicino la “colpevole di turno”. Ma questi non hanno niente da fare?E’ successo a Cosima Serrano, Sabrina Misseri, a Veronica Panarello.  Anche Anna Maria Franzoni aveva sentito quelle urla la prima volta che l’avevano portata in prigione pochi giorni dopo la morte del piccolo Samuele. Le scene che abbiamo visto a Cogne e ad Avetrana, per citare solo due dei casi più famosi di cronaca nera degli ultimi anni, dovrebbero spingere, con un pizzico di cinismo, a non stupirsi più di tanto delle urla scagliate contro Veronica Panarello, accusata dell'omicidio del figlio Loris, al momento del suo arrivo nel carcere di piazza Lanza a Catania. In carcere, questo odio sociale, espresso a ruota libera sul web («devi morire», «ci vuole la pena di morte»), è ancora più duro. Il carcere non è solo un luogo di pena. E’ la realtà che credevi non esistesse, e che adesso appartiene alla tua vita. In effetti, i giornalisti stazionano nei piccoli centri con aggiornamenti costanti relativi all’evoluzione del caso di cronaca  e riportando qualsiasi notizia utile a farne parlare. Ma qual è l’utilità della ripetizione continua e morbosa di immagini di volti straziati dal dolore? Volti di mostri che potrebbero anche non essere tali. Qual è, dunque, la linea che separa la cronaca dall’accanimento? Il confine entro il quale la notizia secca viene preservata dal divenire puro e semplice gossip? Venti anni di “telenovelas” e di “politica del qualunquismo”, somministrato a suon di sorrisi, hanno reso questo confine labile, estremamente labile. L’accelerazione della rete, poi, ha esasperato e dilatato a dismisura un fenomeno complesso ma certo inarrestabile. Nonostante ciò, il problema resta. Resta il problema di comprendere dove arriva, realmente, la cronaca, cioè la narrazione dei fatti, per garantire alle persone strumenti di comprensione e dove, invece, comincia la speculazione. Come nel caso della notizia del ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi, data al programma televisivo di Rai3 “Chi l’ha visto?”, mentre in collegamento diretto da Avetrana c’era la madre della ragazza. Gli arrestati sono innocenti fino a prova contraria. E non basta dirlo, come hanno fatto alcuni conduttori tv che nel frattempo speculano sulla morte delle vittime, bisogna anche praticarlo. In Procura e sui giornali. Ma qui vogliamo provare a ragionare per assurdo. E ci chiediamo: ma anche se fossero  colpevoli, meriterebbero di essere insultati e linciati, come stanno facendo media e cittadini-spettatori? Se sono colpevoli, anzi poiché sono colpevoli – dicono gli urlatori senza conoscere atti e fatti – non devono stare in carcere solo pochi anni, devono stare in galera per sempre. «Dovete – dice questo coro di giustizieri – buttare la chiave». Accusati ma innocenti fino a prova contraria. Accusati, ma non ancora definitivamente colpevoli davanti alla legge. Eppure, i media li hanno già condannati. Quello che importa in questo contesto non è se sia colpevole o innocente. Quello che importa qui è che ogni giorno, accendendo la tv o la radio, sfogliando un qualsiasi quotidiano cartaceo o online, veniamo a sapere di particolari, di dettagli di ogni interrogatorio, di ogni domanda posta dagli inquirenti, di ogni risposta data o non data: informazioni riservate inerenti ad atti di indagine che dovrebbero essere coperte dal segreto professionale. Bene. Qui non c’è reato? Mi chiedo come sia possibile questa totale mancanza di umanità. In nome delle vittime si giustificano i sentimenti peggiori: la vendetta, la violenza, l’odio. Ci si crede superiori a chi si condanna. È come se, nel giorno del giudizio, si stesse dalla parte di Dio a decidere chi deve essere punito e chi premiato. Il male appartiene all’altro, al mostro, a cui non si riesce a guardare con un po’ di umanità e di amore. La Costituzione italiana parla di reinserimento per il reo, di una seconda possibilità che deve essere offerta a chiunque. In questi casi di cronaca mediatica lo Stato di diritto sparisce, la Costituzione diventa un ricordo lontano. Si ritorna alle società barbare, all’occhio per occhio, dente per dente. Anni e anni di giustizialismo hanno cambiato la testa delle persone. Siamo davanti a un mutamento antropologico e cognitivo profondo. Ogni tanto sembra di cogliere segnali di un ravvedimento, di un ritorno a principi di civiltà. Ma poi ci accorgiamo che la storia più prossima ci racconta invece che stiamo attraversando un’epoca buia, senza pietà e senza capacità di identificarci con gli altri: con il loro dolore, ma anche con le loro parti buie, con le loro sofferenze ma anche con quella cattiveria che c’è nell’essere umano. Negandola diventiamo ancora peggiori. Ci sentiamo la parte buona della società, i migliori, e da questo ingannevole pulpito spariamo le nostre sentenze. Ci si crede superiori a chi si condanna, come se venissimo da Marte. Da un altro pianeta. Ma siamo italiani e lo rimarremo per sempre. Nessuno è migliore di un altro in questa Italia. Decine di miei saggi in anni di studio sociologico tendono a dimostrarlo. Uguali nella devianza. Siano essi giudici, che giudicati.  Le donne che hanno aspettato le loro simili uscire in manette, con lo smartphone in mano per fare le foto, non hanno avuto dubbi sulla loro colpevolezza – lo ha detto la tv, lo dicono i giudici – non hanno avuto pietà per donne come loro, per le loro paure e fragilità. Ci si chiederà ma le vittime che fine fanno in questo discorso? Non interessa che siano state uccise? Certo che interessa e che dispiace molto. Ma non è rinunciando alla presunzione di innocenza, né evocando la vendetta che li si riporta in vita. Non è così che li si piange. Il linciaggio e l’odio che vediamo esibirsi rendono solo questa società peggiore».

Lei ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

«Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti, compresi quelli favorevoli alle imputate. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia laurea in Giurisprudenza presa in soli due anni a Milano, con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista, mi ha reso immune da ogni condizionamento. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo è dal 1998 che non mi abilitano alla professione di avvocato in un esame di Stato che come tutti i concorsi pubblici ho provato con i miei libri essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione».

Ha scritto due libri sul caso Scazzi. Su cosa si è basato?

«Nei miei libri su Sarah racconto i fatti attraverso tutti i documenti del processo e riporto, citandone gli autori, questioni interessanti affrontate in modo imparziale».

Imparziale? In che senso?

«Faccio una considerazione per renderne l’idea. Il processo, per opportunità, non doveva tenersi a Taranto, ma solo l’avvocato Coppi ha avuto il coraggio di chiedere la rimessione del processo in altra sede per legittimo sospetto che i giudici non fossero sereni nel giudicare. La Cassazione ha respinto. Non tutti sanno, però, che la norma in oggetto è sempre disapplicata dagli ermellini. Sia mai che si leda l’infallibilità delle toghe. Comunque tutti gli avvocati di Sabrina, e ne ha cambiati tanti, son concordi nel credere alla sua innocenza, compresa Francesca Conte. Lo stesso discorso vale per i criminologi esperti presenti in tv, come Massimo Picozzi od Alessandro Meluzzi. Di conseguenza cade l’accusa per Cosima, per la quale addirittura non c’è nient’altro che un sogno».

Quindi giudici non sereni, e gli avvocati?

«Per quanto riguarda gli avvocati mi chiedo come abbiano fatto tutti i principi del foro ad arrivare ad Avetrana ed a proporsi in modo gratuito. L’avvocato Russo è stato convocato a rendere conto del suo operato, gli altri, no. Per quanto riguarda i consulenti tecnici invece, c’è da dire che chi è partito a sostenere una parte è finito ad avvantaggiarne un’altra. La criminologa Roberta Bruzzone, con il primo avvocato di Michele Misseri, Daniele Galoppa, è accusata dallo zio Michele di averlo indotto a dire il falso ed ad accusare la figlia. Alessandro Meluzzi consulente della famiglia Scazzi, sicuro della colpevolezza di Sabrina, cambia repentinamente idea e da tempo è convinto della sua innocenza».

Mentre i magistrati?

«Per quanto riguarda i magistrati c’è da sottolineare che in appello il sostituto procuratore generale, Pina Antonella Montanaro, è lo stesso Pubblico Ministero del caso Sebai. Il serial killer non creduto, ma condannato per l’unico omicidio per il quale non vi erano stati trovati colpevoli. Per gli altri delitti ci sono condannati che in carcere si professano innocenti. Il Giudice a latere, Susanna De Felice è il giudice che ha assolto Niki Vendola. La Procura di Taranto è invece rappresentata da Pietro Argentino, indagato per falsa testimonianza in quel di Potenza. La falsa testimonianza è quel reato di cui si accusano tutti i testimoni che hanno reso dichiarazioni che non erano in linea con la tesi accusatoria».

Insomma dubbi sulla serenità di giudizio. Li ha potuti verificare in altre occasioni?

«Recentemente la Corte di Appello ha accolto la richiesta dell’accusa di sospendere i termini di custodia cautelare. Strano. La dottoressa Montanaro, non appena ha avuto la parola dal giudice, si è premurata di chiedere di far restare le due donne in carcere. A suo dire la richiesta è d’obbligo perché il processo sarà particolarmente complesso. In un secondo grado di giudizio di natura cartolare e con ampie richieste delle difese respinte, come si fa a dire che il processo sarà particolarmente complesso, anziché chiedere al giudice di verificare, più avanti, se davvero il processo sarà talmente complesso da superare i termini di custodia cautelare? Motivo per cui la sua richiesta sarebbe dovuta essere respinta anche se le difese hanno obiettato solo con un gesto simbolico, con una reprimenda per l’intempestiva richiesta della PG».

Ma questo non porta a dire che le due donne, condannate in primo grado all’ergastolo, siano in carcere ingiustamente. Ci sono elementi invece che potrebbero sostenere questa tesi?

«Ovviamente. In un processo indiziario, appunto gli indizi, per formare una prova devono essere gravi, precisi e concordanti. E questo non risulta. Orari tirati da tutte le parti; testimonianze contraddittorie, dubbie e/o oniriche, perizie contestate ed incomplete. Ma non stiamo qui ad arzigogolare su veri o presunti indizi fonte di condanna, o veritieri o meno convincimenti personali di magistrati, avvocati e consulenti tecnici e sorvoliamo su efficaci o meno interpretazioni delle intercettazioni ambientali e telefoniche. Soffermiamoci su un fatto in particolare e fondamentale».

Quindi c’è un fattore più importante di tutti questi?

«Certo. In ogni Ordinamento Giuridico mondiale la confessione di un evento di cui se ne dichiari la paternità è considerata la prova regina. Ad Avetrana abbiamo un reo confesso che, a sostegno inequivocabile della sua confessione, ha fatto trovare il corpo della vittima del reato da lui confessato. Tale confessione è reputata dall’accusa e dalle parti civili e dichiarata dalla Corte d’Assise di primo grado inattendibile. Diverso è invece l’atteggiamento nei confronti della versione accusatoria nei confronti di Sabrina: attendibilissima. Le dichiarazioni di Michele sono credibili solo a convenienza».

E così sarebbe Michele l’assassino?

«Non posso dirlo ma una cosa in particolare mi preme affermare. Michele può essere considerato responsabile reo confesso del delitto o bugiardo patentato. Sabrina può essere considerata efferata assassina o innocente sacrificale. Tutto ciò è opinabile basando il giudizio su vani indizi: non precisi, non certi, non concordanti. Ma su Cosima cosa c’è? Il sogno di un fioraio, che viene contestato dalle testimonianze di chi, invece, nello stesso momento del rapimento ha visto Sarah libera, viva e vegeta. E ciò basta a far marcire in carcere un essere umano».

Quindi Cosima sarebbe un’altra vera vittima di tutto questo?

«Io credo che, siano essi innocenti o colpevoli, i protagonisti della vicenda meriterebbero un processo equo da parte di magistrati non influenzati per colleganza di Foro da eventuali errori commessi nelle fasi precedenti dai colleghi d’accusa e di giudizio. Anche nella prospettazione del reato. Si è escluso per principio l’omicidio colposo o l’omicidio preterintenzionale. Perché? Perché di esseri umani discutiamo in questa intervista e si discute nei fascicoli di causa. Non di inchiostro nero su carta bianca. E perché solo di verità si nutre la giustizia e la rimembranza della povera piccola Sarah».

Ma lei si ritiene innocentista?

«Io non sono innocentista. Non sono neanche colpevolista. Ma da degno giurista sono un semplice garantista e spero, nel profondo del cuore, che lo siano Magistrati e Media. Ed ognuno, con la propria verità, siano molto vicini alla verità storica. Purtroppo io dispero. Sin dalle prime fasi, ripeto a dire, che tutti saranno condannati a Taranto, in primo ed in secondo grado. Sarà la Cassazione a Roma, in lontani lidi, a rinfrancare la giustizia. La Suprema Corte non potrebbe non vedere i travisamenti di questo processo: che la Corte d'Assise sia stato presieduto da Cesarina Trunfio, vicino all’ufficio della pubblica accusa, quale ex sostituto procuratore di Taranto; che un giudice popolare sia stato sostituito in corso di dibattimento per aver manifestato il proprio pregiudizio; che i giudici abbiano fatto richiesta di astensione, dopo che un loro fuori onda era stato diffuso dalle tv; che siano state ignorate le sentenze della Cassazione che per due volte ha “annullato provvedimenti di custodia cautelare emessi nei confronti di Sabrina Misseri per mancanza di sufficienti indizi di colpevolezza”, tanto per citarne alcuni. E poi l’abominio totale. Se un giudice avesse già giudicato Giovanni Buccolieri, magari dichiarandolo innocente perché davvero spinto a firmare un verbale che non conteneva la verità, come poteva esistere un processo d'appello basato solo su quel sogno trasformato in realtà? E questa è la contraddizione delle contraddizioni. Un processo minore che dovrebbe essere celebrato prima per capire se il maggiore ha motivo di esistere, visto che il minore funge da stampella che sorregge l'accusa nel maggiore, invece inizierà solo il 2 marzo 2015 di fronte al giudice monocratico di Taranto e forse non sarà neppure celebrato, perché si porterà avanti sino alla prescrizione, ormai sicura, data la durata delle indagini, per fare in modo che non incida in alcun modo nel processo maggiore. Da non dimenticare poi, le speculazioni della Rai su Sarah Scazzi. Un processo pubblico che diventa cosa privata. La Rai impedisce l’uso pubblico delle immagini del processo di primo grado per il delitto di Sarah Scazzi. Un aspetto che i giornalisti stanno bene attenti a non approfondire. La Rai si è aggiudicata l’esclusiva televisiva del processo più mediatico della storia: a quale costo? A chi sono andati i diritti tv per le riprese esclusive del processo a Taranto? Al solo privilegio della tv di Stato in dispregio della libera concorrenza, o qualcuno ci ha guadagnato, perlomeno in visibilità? I difensori di Sabrina e Cosima si sono duramente opposti alla riprese televisive del processo e, in particolare, delle loro assistite. La Procura si è dimostrata favorevole alle riprese, così come la famiglia di Sarah. Cesarina Trunfio, presidente della Corte d’Assise di primo grado, ha stabilito il divieto di ripresa per tutte le telecamere, tranne per quelle della trasmissione "Un giorno in Pretura", in onda su Rai3. Il programma poi si impegnerà ad inoltrare le riprese alle altre trasmissioni. Per quanto riguarda la trasmissione integrale del dibattimento, sarà consentita a definizione del processo, e quindi dopo la sentenza di primo grado. Perché questa discriminazione mediatica? Perché questo uso monopolistico del diritto di cronaca? La Rai ha cessato ogni rapporto con youtube, dove i suoi video erano visibili nel suo canale predisposto e da cui si potevano estrapolare o inserire nelle pagine di terzi, previo rispetto dell’indicazione di autore e testata. Poca remunerazione dissero. Oggi chi vuol visionare i video Rai deve purgarsi con 30 secondi di pubblicità e comunque l’utente non può scaricare il filmato con le immagini del processo, alla faccia dell’impegno dell’inoltro alle altre trasmissioni. A prescindere dall’obbligo posto dalla magistratura tarantina, c’è un articolo, nella legge sul diritto d’autore, che rappresenta, mutata mutandis, quello che in altri paesi del mondo viene chiamato fair use e fair dealing: è l’art. 70 della Legge 22 aprile 1941 n. 63, che al primo comma recita: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.” Questa norma è la massima espressione del concetto di libera utilizzazione. Eppure la Rai contesta ogni video riprodotto da terzi su Youtube senza scopo di lucro ed a fini di critica, cronaca, divulgazione scientifica, a costo di far chiudere i suoi canali, reclamando la violazione del Copyright: “Dopo aver esaminato la contestazione, Rai ha deciso che il reclamo per violazione del copyright è ancora valido”. Così avvisa Youtube dopo la segnalazione della contestazione. La Rai è un’azienda pubblica e di pubblico dominio sono le sue opere. Anche perchè gli utenti, in qualità di contribuenti fiscali e pagatori del canone, finanziano la Rai e sono di diritto soci e quindi proprietari delle opere prodotte dall’emittente di Stato. Perché speculare su un delitto, impedendo da divulgazione delle fasi del processo, fregarsene delle norme sul diritto d’autore, disobbedire agli ordini del giudice di Taranto e far finta di niente? Le fasi del processo sul delitto di Avetrana non devono cadere nell’oblio, ma devono essere visionate e ben conosciute per poter trarre giusto giudizio senza mediazione opinabile».

Senza dimenticare, però il caso Cucchi. Ilaria Cucchi: «Sì, a volte ho pianto, ma non mi fermerò mai», scrive Manuela Saraceno su “Il Garantista”. Incontro Ilaria Cucchi in un quartiere popolare di Roma, un luogo vivace ma allo stesso tempo dimenticato: il Pigneto. Tra uno spritz, un boccone e brevi interruzioni di gente comune che le si avvicina per un abbraccio o una semplice parola di conforto, inizia la nostra chiacchierata.

L’abbiamo vista in tv, nel programma “Questioni di famiglia” in onda su RaiTre. Come è andata nei panni dell’inviata?

«Per me è stata un’esperienza bellissima, anche se breve. Mi ha trasmesso emozioni molto forti e mi ha consentito di raccontare le storie quotidiane di gente comune. Purtroppo la trasmissione è stata chiusa perché gli ascolti sono andati male, ma sono felice di averne fatto parte e per questo devo ringraziare coloro che mi hanno voluta lì».

È stata scelta come inviata perché in quel momento faceva notizia?

«Non credo, anzi escludo assolutamente qualunque tipo di strumentalizzazione da parte loro. La proposta di RaiTre è arrivata a fine settembre 2014, quindi prima della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma. Eravamo quattro inviati, tutti con la propria storia alle spalle. Probabilmente questi cinque anni e ciò che è successo a Stefano mi hanno reso una persona diversa da quella che ero prima, più diretta, più sensibile a certi temi. Credo che siano questi i motivi per cui mi hanno scelta».

Si è avuta l’impressione che una volta ottenuta la partecipazione alla trasmissione il caso Cucchi sia finito nel dimenticatoio. È così?

«Intende dire che è come se dopo l’inizio della trasmissione io abbia smesso di pensare a mio fratello?»

Alcuni hanno mosso anche questa critica. La hanno accusata di utilizzare la vicenda di Stefano per fare carriera in tv.

«Intanto ti dico che non ho mai utilizzato la trasmissione per pubblicizzare alcunché. La mia pagina ufficiale conta qualcosa come trentacinquemila visualizzazioni, e ciò senza che io l’abbia mai sponsorizzata o pubblicizzata. Mi hanno accusata di strumentalizzare la morte di mio fratello. È vero, ho strumentalizzato la morte di Stefano, ma non per sete di successo! L’ho fatto perché fino a cinque anni fa non sapevo, ad esempio, quale fosse la realtà delle carceri; come tante persone ne avevo sentito parlare distrattamente, ma avevo sempre pensato che in fondo fosse qualcosa che non mi avrebbe mai riguardato. Dopo quello che è successo a Stefano ho capito che non potevo più far finta di niente e che d’indifferenza si può morire. Il mio compito – è l’unico senso che posso dare a quello che mi è capitato – è fare in modo che tanti sappiano e che sempre meno persone decidano di voltarsi dall’altra parte. Se strumentalizzare serve a questo, ben venga».

Quali iniziative state pensando di realizzare per ricordare Stefano?

«Intanto a pochissimi giorni dalla sentenza, e questo forse non tutti lo sanno, abbiamo dato inizio ad un progetto meraviglioso che interessa i licei romani. Quasi ogni giorno racconto la mia esperienza a ragazzi che mi ascoltano in silenzio per ore e che sono veramente straordinari; sono loro che arricchiscono me, e non il contrario, perché mi regalano la speranza che prima o poi le cose cambieranno. Inoltre per mantenere vivo il ricordo di Stefano, grazie all’aiuto del Comune di Roma e della Regione Lazio, stiamo cercando di portare avanti un progetto importante che dovrebbe chiamarsi “La Casa di Stefano”. Io e la mia famiglia possediamo un vecchio casale che si trova a San Gregorio da Sassola. È un luogo al quale siamo particolarmente legati, perché apparteneva a mio nonno e perché è lì che è sepolto mio fratello. L’idea è quella di creare un luogo in cui i ragazzi che escono dalle comunità di recupero per tossicodipendenti possano trovare un futuro, possano trovare delle motivazioni e quindi anche un lavoro. È tutto ancora a livello embrionale, però la nostra idea è questa».

Come avete vissuto in famiglia i giorni di custodia cautelare di Stefano?

«Ti posso parlare delle sensazioni di quei sei giorni. La prima è stata quella di rabbia nei confronti di Stefano per averci traditi; per noi, in quel momento, il vero problema non era la possibile reclusione in carcere, ma la droga. Ciò che credevamo uscito per sempre dalle nostre vite in realtà era tornato e forse anche in maniera peggiore di prima. Dopo la rabbia c’è stata la preoccupazione per Stefano chiuso in carcere, per come poteva vivere quei momenti, per quello che lo aspettava».

In un’intervista ha dichiarato che “Stefano è morto perché la giustizia non è uguale per tutti”. Di cosa è morto Stefano?

«Stefano è morto di ingiustizia, perché subito dopo essere stato pestato nei sotterranei del Tribunale, è stato per circa un’ora in un’udienza davanti a un pubblico ministero ed a Giudici che non l’hanno guardato in faccia, che non hanno ascoltato la sofferenza della sua voce. Loro dicono che guardavano dall’altra parte e quindi non hanno visto l’imputato che era in quell’aula, io ho ascoltato la registrazione dell’udienza e ti assicuro che dalla voce di Stefano si capisce benissimo che sta male, che è sofferente. Più volte si scusa, perché non riesce a parlare, eppure queste persone lo hanno mandato in carcere come “albanese senza fissa dimora” sulla base di un verbale sbagliato, in cui l’unica cosa esatta era il suo nome: Stefano Cucchi. Stefano era lì, davanti ai loro occhi ed è morto perché abbiamo una giustizia che non si preoccupa neanche di guardare in faccia chi sta mandando in carcere».

È considerata una donna forte, ma le è mai capitato di perdere le speranze?

«Mai, assolutamente mai. Anzi dopo ogni batosta la volontà di non fermarmi, di non abbassare la testa, aumenta sempre di più. Paradossalmente è così. Sarò un’ingenua, ma credo che arriverà il momento in cui finiranno le ingiustizie, in cui qualcuno si renderà conto che non si può continuare in eterno a negare l’evidenza. Devo confessare però, che subito dopo la sentenza del 31 ottobre di quest’anno, dopo cinque anni nei quali difficilmente avevo versato una lacrima perchè sentivo di non potermi fermare a piangere, ho avuto un momento nel quale ho voluto, per qualche tempo, vivere quelle mie sensazioni e quel mio dolore insieme ai miei affetti, in maniera intima. Ciò non vuol dire che io mi sia arresa o che intenda farlo. Io non mi fermo».

Ha dichiarato che la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma rappresenta un “fallimento dello Stato”. Crede ancora nella giustizia e nelle Istituzioni?

«Ci credo, perché la giustizia non è quella che ha conosciuto Stefano e non è quella che abbiamo conosciuto noi in primo grado. Non ce l’ho con i giudici, altrimenti non andrei in quelle aule per chiedere giustizia, dico semplicemente che quelle indagini erano sbagliate e tutte volte ad affermare una verità precostituita».

Per questo motivo ha fatto un esposto nei confronti di Paolo Arbarello, consulente dei pm nell’inchiesta sulla morte di Stefano?

«Ho fatto un esposto perché questa persona si è presa gioco di noi. A incarico appena ricevuto, già dichiarava alle telecamere del Tg5 che era un caso di colpa medica e che sarebbe stato suo compito dimostrarlo. Quelli erano segnali chiari, non doveva essere un caso di responsabilità dello Stato, doveva sembrare una morte naturale, al massimo una morte per colpa medica, ma sicuramente non bisognava tirare in ballo altri tipi di responsabilità. Questo perché chiedere allo Stato di inquisire e giudicare sé stesso è una delle cose più difficili che si possa fare, significa chiedere di ammettere che il sistema non funziona».

A proposito di colpa medica, è vero che avete accettato dall’ospedale Sandro Pertini un risarcimento milionario?

«È vero, abbiamo accettato questo risarcimento perché rappresenta un riconoscimento della responsabilità medico-sanitaria. Nel momento in cui ci è stato proposto l’accordo ci era stato chiesto di estenderlo anche agli altri imputati e di rinunciare ad ogni diritto anche per i futuri gradi di giudizio. Bene, noi abbiamo accettato a condizione che l’accordo non riguardasse gli altri imputati e che ci fosse consentito di continuare la nostra battaglia processuale. Abbiamo fatto ciò perché siamo convinti che ci siano delle responsabilità scomode, che continuiamo a pretendere che vengano accertate».

Segue con particolare attenzione il caso Magherini. Riccardo, come Stefano, rientra nell’immaginario collettivo tra coloro che “se la sono cercata”. Crede che il suo caso, nonostante le molte testimonianze ed i video, avrà gli stessi risvolti di quello di suo fratello?

«Credo di no, credo che siamo in un momento di svolta, prima di tutto nell’immaginario collettivo. Se è vero che la gente per proteggersi tende sempre a dire “beh lui in fondo se l’è cercata, era un tossicodipendente e gli è capitato”, oggi sempre più persone si rendono conto che non è così, che siamo tutti potenzialmente a rischio. Ricordo il 3 marzo di un anno fa, quando morì Riccardo. Ricordo che non si parlò di quella vicenda e che io stessa, in un primo momento, fui perplessa perché passò la notizia di un ragazzo che era morto perché fatto di cocaina. Oggi fortunatamente la gente si ribella, non ci sta più. Vengono fatti i video e le persone sono disposte ad intervenire anche in prima persona. Ci sono tante testimonianze e non si possono ignorare. Alla famiglia Magherini, così come alla mia ed a quelle di molte altre vittime del sistema, viene fatta una doppia violenza. Le nostre famiglie sono chiamate in prima persona, nonostante il dolore e la drammaticità dell’evento, a mettersi sul fronte se vogliono sperare di arrivare alla verità; ci viene chiesto di farci carico del compito che spetterebbe invece allo Stato ed alle Istituzioni: quello di fare chiarezza. Prendi il caso di Stefano, per dimostrare a tutti che le cose stavano in maniera diversa, che non si trattava di una morte naturale, abbiamo dovuto fare quelle foto. Se non le avessimo fatte, staremmo ancora a parlare di caduta dalle scale».

Il Procuratore Capo di Roma, Giuseppe Pignatone, ha garantito che studierà tutto il fascicolo di Stefano, ed in presenza di nuovi elementi si è reso disponibile a riaprire le indagini. Finalmente verranno accertate le responsabilità? Il vento sta cambiando?

«Sono felice di questo, però so cosa è stata la nostra vita per cinque anni, per cinque anni siamo stati presi in giro! Mi auguro che questa volta ci sia la volontà e la forza di cambiare il vento, di fare in modo che finalmente la verità su queste morti sia più importante di tutto, più importante di questi meccanismi che a noi vittime non devono appartenere e non devono riguardare».

Cosa pensa della proposta di liberalizzare le droghe leggere?

«Mi fa terribilmente paura. Qualcuno, forse anche tu, ti spettavi una risposta diversa da me. Io sono una madre, ho due bambini: Giulia che ha sei anni, e Valerio che ne ha dodici ed inizia ad uscire con i suoi amici. Per lui inizia la crisi preadolescenziale. Ci riflettevo stamattina, è tutto molto più precoce rispetto a quando ero bambina io, adesso la sola idea che mio figlio possa incappare nelle amicizie sbagliate, e questo può succedere comunque, e possa ottenere la droga in modo semplice, possa usarla, mi fa venire la pelle d’oca. Forse hanno ragione quelli che dicono che le droghe leggere vanno liberalizzate, ma da mamma mi fa paura. In tanti si aspettavano che io dicessi che Stefano è morto perché esistevano quelle leggi. Ci tengo a precisare che sono contenta che non esista più la legge Fini-Giovanardi, ma non dirò mai che Stefano è morto a causa di quella legge. La Fini-Giovanardi esisteva, Stefano ne era a conoscenza ed ha commesso un errore: l’ha violata. Era giusto, quindi, che fosse arrestato, quello che non doveva succedere è tutto il resto che non c’entra nulla con le leggi che esistevano in quel momento».

Avete ricevuto sin da subito grande solidarietà, soprattutto dalla gente comune; quanto questo vi ha aiutato e vi aiuta a combattere la vostra battaglia?

«È stato fondamentale, perché quando accadono queste vicende si viene immediatamente assaliti dalla sensazione di essere soli. Il sostegno delle persone comuni ci ha reso più sopportabile la solitudine, e l’indignazione della gente, la presa di posizione delle persone, hanno consentito che non si stendesse un velo sulla vicenda di Stefano, come quasi sempre accade in questi casi».

Come avete accolto la notizia che il Comune di Roma intitolerà una strada a Stefano?

«È meraviglioso, il mio sogno è che Via Golametto, quella piccola stradina che porta alla Città Giudiziaria, venga intitolata: Via Stefano Cucchi. In tal modo tutti gli avvocati, le forze dell’ordine, gli agenti penitenziari, tutti coloro che passano lì ogni mattina, potrebbero ricordarsi di Stefano, dell’ultimo tragitto che ha fatto a piedi nella sua vita».

Che lavoro faceva e che lavoro fa ora, e in che cosa la sua vita è cambiata, se è cambiata, dopo ciò che è successo a Stefano?

«Continuo a fare esattamente quello che facevo prima, lavoro nello studio di famiglia, mio papà è geometra ed io faccio l’amministratore di condominio. La mia vita da questo punto di vista non è cambiata, la porto avanti magari con più fatica di prima, però è rimasta assolutamente la stessa. In più mi sono investita di un ruolo secondo me importantissimo, quello di farmi portatrice di queste realtà e lo faccio perché da quando ho capito di cosa stiamo parlando non riesco più a voltarmi dall’altra parte».

C’è ancora la tv ed il giornalismo nel futuro di Ilaria Cucchi?

«Chiaramente non sono una giornalista, né pretendo di essere considerata tale. Nel corso di questi cinque anni ho capito quanto i mezzi di informazione siano fondamentali nelle nostre vicende, perché se non ci fosse l’informazione pubblica queste storie finirebbero tutte e immediatamente nel dimenticatoio, nel silenzio. Quello che posso dirti è che in me c’è la ferma volontà di utilizzare tutti i mezzi che mi saranno concessi per continuare a parlare di quanto è accaduto a Stefano».

SLIDING DOORS A MILANO: CRISAFULLI E BARILLA'. LA VITA CAMBIATA SENZA SAPERE UN CAZZO.

Sliding Doors è un film che tratta una tematica affascinante: il Destino, le sue sottili trame e le coincidenze di cui si serve per sovvertire la vita della gente. Una pellicola che gioca sull'eterno interrogativo dei "ma" e dei "se", sulle occasioni mancate e sugli infimi particolari che possono cambiare la nostra vita. Sliding Doors vuol essere un'ironica e paradossale riflessione sull'importanza del caso nella nostra vita: basta un banale imprevisto e il corso dell'esistenza può subire una virata decisiva. Accade a volte che grandi o piccole disgrazie si rivelino alla lunga circostanze provvidenziali e viceversa. Forse non c'è la necessaria profondità nell'affrontare un tema così controverso e impegnativo come il rapporto tra il caso e la necessità nelle vicende umane, ma probabilmente e più semplicemente il film (nella miglior tradizione della commedia cinematografica) ci consegna l'ottimistica e bonaria morale che non bisogna mai scoraggiarsi di fronte alle difficoltà, tanto prima o poi le cose si sistemano.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Sliding Doors è un film del 1998 diretto da Peter Howitt, al suo esordio alla regia. Il film prende spunto da un'idea del regista polacco Krzysztof Kieślowski, che aveva trattato il tema del destino nel suo film del 1981 Destino cieco. Helen è una giovane donna che lavora nelle pubbliche relazioni ed è fidanzata con Gerry. Dopo essere stata bruscamente licenziata, si dirige in tutta fretta verso la metropolitana. Un aspetto molto importante della storia è che sull'ascensore andando via dal posto di lavoro le cade un orecchino e James glielo raccoglie. In quel momento la sua vita si divide in due dimensioni parallele:

Helen prende la metropolitana sulla metropolitana rincontra James che le ha appena raccolto l'orecchino in ascensore e cominciano a parlare (da prima Helen abbastanza scontrosa ma poi si scusa) e rincasando prima del tempo trova il fidanzato a letto con l'ex fidanzata Lydia; così si rifà una vita con l'affascinante James conosciuto su quella metropolitana. Si accorge poi di essere rimasta incinta e quando va a riferirlo a James scopre dalla sua segretaria che è all'ospedale con la moglie a trovare sua mamma. Helen è disperata e quando James la trova le spiega che sta ottenendo il divorzio e finge d'essere sposato per non recare troppo dolore alla madre in ospedale. I due si chiariscono e riconfermano i loro sentimenti reciproci. Subito dopo, mentre Helen attraversa la strada, passa un mezzo che la investe.

Helen perde la metropolitana e, chiamato un taxi, subisce un tentativo di scippo che la fa rincasare più tardi. Trova sì il fidanzato solo, ma anche indizi del passaggio di un'altra donna (l'ex fidanzata Lydia) come per esempio 2 bicchieri di brandy posti sul comodino di fronte la finestra e Gerry, per nascondere il tutto getta uno dei 2 bicchieri in un cestino offrendo la bibita a Helen come scusa. Ottiene un lavoro come cameriera e conduce una vita piena di sacrifici, sentendosi male diverse volte sul lavoro scopre così di essere incinta ma non trova mai il momento di dirlo al fidanzato Gerry, che la tradisce nuovamente. Lei lo scopre perché Lydia li chiama entrambi a casa sua (a loro insaputa) per riferire loro d'essere incinta di Gerry. Helen sconvolta scappa, Gerry la insegue e, litigando con lui, cade dalle scale.

A questo punto le due storie si ricollegano: Helen è in ospedale e i medici dicono al fidanzato (James nel primo caso e Gerry nel secondo) che ha perso il bambino (i due ragazzi in entrambe le storie non sanno che Helen aspettasse un bambino da loro) ma che lei si riprenderà. Helen che prese la metropolitana nella prima storia, invece muore nelle braccia del suo nuovo amore James, mentre l'altra della seconda storia si riprende. La Helen della seconda "storia" incontra James in ospedale sull'ascensore, poiché anche lui uscendo da lì dopo esser andato a trovare sua mamma. A Helen cade l'orecchino e lui glielo raccoglie, come nella prima versione, come se la seconda storia andasse a confluire nella prima.

MILANO. CRISAFULLI E BARILLA'. Milano, i boss e l’errore giudiziario. “La vita cambiata senza sapere un cazzo”, scrive Davide Milosa su “Il Fatto Quotidiano”. I fratelli Crisafulli, intercettati in carcere nell'ambito dell'operazione Pavone eseguita oggi, raccontano come andarono i fatti che portarono alla condanna di Daniele Barillà. Innocente e assolto dopo sette anni di galera ingiusta. La storia riscritta dalle intercettazioni. Succede ascoltando i dialoghi in cella tra i fratelli Crisafulli, Biagio e Alex, boss di peso della malavita milanese coinvolti oggi nell’operazione Pavone 4 coordinata dal pm Marcello Musso. Al centro c’è un clamoroso errore giudiziario che a metà anni Novanta ha condannato l’imprenditore Daniele Barillà, che sarà assolto nel 2000, ma solo dopo aver scontato sette anni di galera. E’ il 28 gennaio 2007, quando Alex Crisafulli dice al fratello: “Ti saluta Carlos Bianchi quello che hanno arrestato della Tipo rossa nel ’92. Quello dei 50 chili che manteneva i contatti ti ricordi?”. Quindi commenta: “Il fatto della Tipo che casualità”. Risponde Biagio: “Una vita cambiata senza saper un cazzo”. Sì perché le cose vanno così: il giorno di San Valentino del 1992 è in corso un pedinamento del Ros. Si segue una Punto con il carico di droga e una Tipo amaranto che fa da staffetta. A un certo punto la Tipo esce a uno svincolo e contemporaneamente entra in scena quella di Barillà che inconsapevolmente si mette dietro all’auto dei trafficanti. Scatta l’arresto alla base del quale c’è un errore degli investigatori: non aver annotato la targa della Tipo amaranto giusta. Risultato: l’imprenditore viene fermato, con lui anche il monzese Carlo Bianchi. Torniamo allora a quell’anno. Il primo take dell’agenzia Ansa è delle 17,23 del 25 febbraio 1992. Si dà conto dell’operazione Pantera, inchiesta anti-droga condotta assieme dal Ros di Genova e di Milano. A coordinare l’operazione c’è Francesco De Caprio, il capitano Ultimo che un anno dopo darà scacco matto a Totò Riina. Sotto la Madonnina nessuno si sorprende. Da pochi giorni è scoppiata Mani Pulite. Mario Chiesa è stato arrestato mentre tentava di gettare nel water una mazzetta. In quel 1992, così, i 288 chili sequestrati al porto di Livorno passano in sordina. La stampa s’interessa poco al maxi-sequestro e ai collegamenti tra la malavita milanese e i cartelli colombiani. Per molti, però, si aprono le porte del carcere. Anche per Daniele Barillà. É accusato di aver contribuito a trasportare, fungendo da staffetta, 51 chili di droga. Quando lo portano in caserma è la vigilia di San Valentino. Quelli del Ros non hanno dubbi: la sua Tipo amaranto è l’auto che seguiva la Punto con la droga a bordo. Nessun dubbio e così per Barillà la giustizia corre veloce. Primo grado, Appello e Cassazione in pochi anni. Risultato: 15 anni di carcere. Ne sconterà sette, dopodiché la corte d’Appello di Genova annullerà la sua condanna dopo aver accettato la sua richiesta di revisione del processo. E’ un clamoroso errore giudiziario ratificato dalla Cassazione che concederà un maxi-risarcimento a Barillà. Una vicenda incredibile sulla quale i fratelli Cisafulli si dilungano. Commenta Biagio: “Tu sei lì che stai facendo le tue solite cose…”. Alex riprende: “Lui in un modo io invece la fortuna dall’altra, perché io inconsapevolmente me ne sono andato”. Dentino ricorda: “Ti ho chiamato io, eravamo al ristorante quella sera ti ricordi? Era tardi eravamo già a tavola!”. Quindi i due boss passano a discutere di chi fece quell’inchiesta. Dice Dentino: “Tutti i cani erano su questa operazione no? Una furia di cani quei carabinieri”. E poi c’era quel maresciallo “che era un infiltrato”. E poi quel Michele Riccio, che all’epoca comandava il Ros di Genova e che solo anni dopo finì coinvolto in processi di mafia. E poi c’è quel De Caprio che fece la Duomo connection e che, racconta Alex Crisafulli, depose in aula sulla questione di Barillà. “Questo è arrivato tutto come un pentito incappucciato, ha parlato di me, della Duomo Connection: Crisafulli quando l’ho incontrato avevo la certezza morale che andasse là a comprare la droga però non avevo le prove… “. E del resto del coinvolgimento di Alex Crisafulli e anzi del fatto che probabilmente su quella Tipo poi smarcatasi c’era lui, ne parla anche la moglie Daniela D’Orsi. E’ il 10 marzo 2007 e in tv sta andando in onda la fiction della Rai proprio sul caso Barillà. “C’era in tv, è risarcimento record per quello lì che è stato arrestato al posto di Alex! (Crisafulli Alessandro)”. Ma se ora Barillà abita in Spagna e si è rifatto una vita, sua nipote Francesca Barillà assieme alla madre Miriam Favorido è finita nella rete del Ros. Entrambe accusate di traffico di droga per aver gestito due batterie per conto del clan calabrese dei Muscatello.

CASO MARO’. ITALIANI POPOLO DI MALEDUCATI, BUGIARDI ED INCOERENTI. DICONO UNA COSA, NE FANNO UN’ALTRA.

Italiani, popolo di maleducati: non lasciamo passare i pedoni

Il 60,5% degli automobilisti italiani non si fermano davanti al pedone che attraversa sulle strisce o al semaforo. I conducenti più corretti sono i lombardi. I colleghi romani sono i più indisciplinati, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Il 60,5% degli automobilisti italiani non si fermano davanti al pedone che attraversa sulle strisce o al semaforo. È la drammatica media calcolata dall'Associazione sostenitori amici della polizia stradale (Asaps) monitorando 2mila "tentativi di attraversamento" in cinque delle più importanti città italiane. I conducenti più corretti (o meno scorretti, a seconda dei punti di vista) sono quelli lombardi, il 47% dei quali rispetta il diritto di precedenza del pedone, mentre i colleghi romani sono i più indisciplinati: il 45% rispetta i semafori ma solo il 15% le strisce. Per ogni città presa in analisi (Milano, Firenze, Roma, Napoli e Palermo) l’Asaps ha testato 200 tentativi di attraversamento sulle strisce e 200 in presenza di semaforo. Nel complesso, a Firenze dà la precedenza ai pedoni il 43% degli automobilisti, a Palermo il 39%, a Napoli il 38%, nella Capitale il 30%. Percentuali basse, che calano ulteriormente se si prendono i considerazione i soli passaggi "zebrati": a fermarsi, in questo caso, è appena il 22% dei conducenti milanesi, il 18% dei fiorentini e dei napoletani, il 12% dei palermitani. "Nei momenti del rilevamento - premette Giordano Biserni, presidente dell’Associazione - non erano presenti nelle vicinanze agenti della polizia locale, questo per certificare la spontaneità del gesto". Sarebbe interessante, tuttavia, poter analizzare quante multe vengono elevate a carico di automobilisti che non rispettano la precedenza del pedone. "Secondo l’articolo 191 del Codice della strada - continua Biserni - il conducente di un veicolo che non dà la precedenza ad un pedone che attraversa (o è nell’imminenza di farlo) sulle strisce è passibile di una contravvenzione da 162 a 646 euro e della decurtazione di 8 punti dalla patente". Una sanzione che potrebbe avere un’indubbia efficacia se fosse attuata costantemente. I frequenti investimenti di pedone hanno quasi sempre conseguenze tragiche. Come ricorda l’Asaps, sono 549 i morti e 21.234 i feriti complessivi nel 2013 e quasi il 30% travolti proprio sugli attraversamenti protetti. Mentre nei primi undici mesi del 2014 sono già 43 i morti e 363 i feriti (solo fra i pedoni) causati da pirati della strada.

Se fosse solo quello.

Quei nostri marò, ostaggi degli indiani ma anche di una verità indesiderata. Il caso dei due fucilieri di Marina, "trattenuti" in India, in qualità più di ostaggi che di imputati, si rivela oramai ogni giorno come una miniera di "anomalie", cioè; per parlar chiaro, di porcate. Ed ogni giorno di più il "grido di dolore" per la loro sorte, la parola d'ordine "riportiamoci a casa i nostri marò" si rivelano un espediente ambiguo e truffaldino per coprire situazioni e persone che con tali mezzi sono finora riusciti a tenersi fuori anche dai più naturali interrogativi che il caso prepotentemente propone siano loro rivolti, scrive Mauro Mellini su “Brindisi Report”. La giustizia indiana, lo abbiamo detto, scritto e ripetuto, non sta facendo una gran bella figura in tutta questa vicenda. Anzi, bisogna constatarlo senza che se ne possa trarre, oltre che un auspicio poco confortevole per la sorte di quei due nostri connazionali, e neanche un po’ di sollievo per i paragoni con le cose e lo stato della giustizia nostrana, si sta dimostrando ancora peggiore di quest’ultima. Il che non ha bisogno di commenti. Gli Indiani non sembra che abbiano alcuna fretta ed alcuna voglia di giudicare i due fucilieri di Marina italiani. Sarà magari per le stratosferiche somme incassate per risarcimenti e cauzioni, sarà perché temono di vedersi “sgonfiare” tra le mani un caso che essi hanno sbandierato come un’aggressione alla loro Nazione, un gesto razzista di sopraffazione, certo è che stanno facendo abbastanza per dare l’impressione che, tutto sommato, avrebbero preferito che i due non tornassero in India. E non sembrano troppo preoccupati di lasciar intendere che si tratta proprio di ostaggi e non di imputati in custodia cautelare. Da parte italiana le “anomalie” e le ambiguità sono assai maggiori. Se è vero che il tempo trascorso dal fatto ed il perdurare di quello strano stato di sequestro di persone è scandaloso anche per chi è abituato alle cose italiane, è certo però che, intanto, malgrado il clamore che di tanto in tanto si riaccende sulla vicenda, l’informazione in Italia sulle modalità del malaugurato incidente, sulle questioni e le responsabilità che esso implica, in ordine agli avvenimenti anche successivi alla sparatoria (rientro della nave in acque territoriali indiane, ad esempio, tempestività della notizia dell’accaduto alle diverse Autorità italiane etc.) è assai limitata ed evanescente. Gridare “ridateci i marò”, evitando però di mettere in chiaro di fronte al mondo e di fronte all’ONU, ai nostri alleati ed ai cointeressati alla lotta alla pirateria circostanze essenziali del fatto addebitato ai due militari è cosa a dir poco strana. E stranissima in un Paese come l’Italia in cui la cronaca nera si pasce abitualmente di tutto il materiale probatorio dei processi e formula giudizi e sentenze in fatto ed in diritto fin dalle prime battute delle vicende, che poco o nulla si sappia dei particolari del luttuoso incidente, del comportamento addebitato ai due militari (se vi è un addebito vero e proprio) di quello del capitano della nave e degli altri ufficiali di essa, delle comunicazioni con le Autorità italiane. Per non parlare, poi dei comportamenti successivi. Un’altra considerazione. Una parte notevole delle circostanze, specie successive all’incidente, sono pervenute alla stampa solo perché sottolineate dal Ministro degli Esteri, Ambasciatore Terzi di Sant’Agata, le cui dimissioni, per il “siluramento” della sua iniziativa (l’unica certa e, a quel che ci consta, seria) per “riportare a casa” i due militari sono state scioccamente ed arrogantemente liquidate definendole “irrituali”. Terzi è “rimasto sulla breccia” della polemica che altri sembrava voler eludere a tutti i costi, con il silenzio, le ambiguità e le “coperture” di una retorica rancida. Questo significa che si stanno delineando, oramai, due posizioni: quella che cerca di “tacitare” le vittime, stampa, cittadini che vogliono verità e quella, ancora esigua e che si cerca di far passare per una “impuntatura” di un ministro non confermato nella sua carica, di chi vorrebbe giuocare a carte scoperte. La nostra tesi che molti, specie al Ministero della Difesa, temono più la presenza ed il processo in Italia dei due marò che una conclusione ingiusta e precostituita di un loro processo in India, trova ogni giorno conferma ed indizi. Anzitutto quello del silenzio sulle prescrizioni impartite ai militari. Vorremmo sbagliarci, ma non è facile che ciò possa avvenire. La verità. Come al solito è più difficile da vedere che non il suo contrario. Ma credo che, intanto, possiamo esigere che la stampa non si volti dall’altra parte. Pare che qualcuno si dia un gran da fare a convincere giornalisti, opinione pubblica e, magari, le famiglie dei due militari che non bisogna prendere e portar avanti iniziative, diradare le nebbie dell’ambiguità. Ma rinunziare persino all’intervento della Croce Rossa Internazionale, evitare di “internazionalizzare” il caso. Tutta questa gente, in sostanza, si sta adoperando perché i nostri militari accettando la sorte degli ostaggi, diventino ostaggi, oltre che degli Indiani, di eventuali corresponsabili di Via XX Settembre. Dove pare che si abbia interesse a non affrontare la questione delle regole e delle istruzioni di servizio dei due marò, della loro assenza o inadeguatezza. Doppiamente ostaggi dunque. Come tali, del resto ricevuti beffardamente (purtroppo) al Quirinale. Peggio di questo non sembra che altro possa scoprirsi.

Mauro Mellini, 87 anni, avvocato, è stato deputato e uno dei fondatori del Partito Radicale, e componente del Consiglio superiore della magistratura. Ha fondato la rivista "Giustizia Giusta", e continua ad occuparsi dei grandi temi della società italiana producendo una vasta pubblicistica e saggistica.

Wu Ming: i due marò, quello che i media (e i politici) italiani non vi hanno detto, scrive “DielleMagazine”. Una delle più farsesche “narrazioni tossiche” degli ultimi tempi è senz’altro quella dei “due Marò” accusati di duplice omicidio in India. Fin dall’inizio della trista vicenda, le destre politiche e mediatiche di questo Paese si sono adoperate a seminare frottole e irrigare il campo con la solita miscela di vittimismo nazionale, provincialismo arrogante e luoghi comuni razzisti. Il giornalista Matteo Miavaldi è uno dei pochissimi che nei mesi scorsi hanno fatto informazione vera sulla storiaccia. Miavaldi vive in Bengala ed è caporedattore per l’India del sito China Files, specializzato in notizie dal continente asiatico. A ben vedere, non ha fatto nulla di sovrumano: ha seguito gli sviluppi del caso leggendo in parallelo i resoconti giornalistici italiani e indiani, verificando e approfondendo ogni volta che notava forti discrepanze, cioè sempre. C’è da chiedersi perché quasi nessun altro l’abbia fatto: in fondo, con Internet, non c’è nemmeno bisogno di vivere in India! Verso Natale, la narrazione tossica ha oltrepassato la soglia dello stomachevole, col presidente della repubblica intento a onorare due persone che comunque sono imputate di aver ammazzato due poveracci (vabbe’, di colore…), ma erano e sono celebrate come… eroi nazionali. “Eroi” per aver fatto cosa, esattamente? Insomma, abbiamo chiesto a Miavaldi di scrivere per Giap una sintesi ragionata e aggiornata dei suoi interventi. L’articolo che segue – corredato da numerosi link che permettono di risalire alle fonti utilizzate – è il più completo scritto sinora sull’argomento. Ricordiamo che in calce a ogni post di Giap ci sono due link molto utili: uno apre l’impaginazione ottimizzata per la stampa, l’altro converte il post in formato ePub. Buona lettura, su carta o su qualunque dispositivo.

Il 22 dicembre scorso Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due marò arrestati in Kerala quasi 11 mesi fa per l’omicidio di due pescatori indiani, erano in volo verso Ciampino grazie ad un permesso speciale accordato dalle autorità indiane. L’aereo non era ancora atterrato su suolo italiano che già i motori della propaganda sciovinista nostrana giravano a pieno regime, in fibrillazione per il ritorno a casa dei «nostri ragazzi”, promossi in meno di un anno al grado di eroi della patria. La vicenda dell’Enrica Lexie, la petroliera italiana sulla quale i due militari del battaglione San Marco erano in servizio anti-pirateria, ha calcato insistentemente le pagine dei giornali italiani e occupato saltuariamente i telegiornali nazionali. E a seguirla da qui, in un villaggio a tre ore da Calcutta, la narrazione dell’incidente diplomatico tra Italia e India iniziato a metà febbraio è stata – andiamo di eufemismi – parziale e unilaterale, piegata a una ricostruzione dei fatti distante non solo dalla realtà ma, a tratti, anche dalla verosimiglianza. In un articolo pubblicato l’11 novembre scorso su China Files ho ricostruito il caso Enrica Lexie sfatando una serie di fandonie che una parte consistente dell’opinione pubblica italiana reputa verità assolute, prove della malafede indiana e tasselli del complotto indiano. Riprendo da lì il sunto dei fatti. E’ il 15 febbraio 2012 e la petroliera italiana Enrica Lexie viaggia al largo della costa del Kerala, India sud occidentale, in rotta verso l’Egitto. A bordo ci sono 34 persone, tra cui sei marò del Reggimento San Marco col compito di proteggere l’imbarcazione dagli assalti dei pirati, un rischio concreto lungo la rotta che passa per le acque della Somalia. Poco lontano, il peschereccio indiano St. Antony trasporta 11 persone. Intorno alle 16:30 locali si verifica l’incidente: l’Enrica Lexie è convinta di essere sotto un attacco pirata, i marò sparano contro la St. Antony ed uccidono Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian Valentine (45 anni), due membri dell’equipaggio. La St. Antony riporta l’incidente alla guardia costiera del distretto di Kollam che subito contatta via radio l’Enrica Lexie, chiedendo se fosse stata coinvolta in un attacco pirata. Dall’Enrica Lexie confermano e viene chiesto loro di attraccare al porto di Kochi. La Marina Italiana ordina ad Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani. Il capitano – che è un civile e risponde agli ordini dell’armatore, non dell’Esercito – asseconda invece le richieste delle autorità indiane. La notte del 15 febbraio, sui corpi delle due vittime viene effettuata l’autopsia. Il 17 mattina vengono entrambi sepolti. Il 19 febbraio Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono arrestati con l’accusa di omicidio. La Corte di Kollam dispone che i due militari siano tenuti in custodia presso una guesthouse della CISF (Central Industrial Security Force, il corpo di polizia indiano dedito alla protezione di infrastrutture industriali e potenziali obiettivi terroristici) invece che in un normale centro di detenzione. Questi i fatti nudi e crudi. Da quel momento è partita una vergognosa campagna agiografica fascistoide, portata avanti in particolare da Il Giornale, quotidiano che, citando un’amica, «mi vergognerei di leggere anche se fossi di destra». Che Il Giornale si sia lanciato in questa missione non stupisce, per almeno due motivi:

1) La fidelizzazione dei suoi (e)lettori passa obbligatoriamente per l’esaltazione acritica delle nostre – stavolta sì, nostre – forze armate, impegnate a «difendere la patria e rappresentare l’Italia nel mondo» anche quando, sotto contratto con armatori privati, prestano i loro servizi a difesa di interessi privati. Anomalia, quest’ultima, per la quale dobbiamo ringraziare l’ex governo Berlusconi e in particolare l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, che nell’agosto 2011 ha legalizzato la presenza di militari a difesa di imbarcazioni private. In teoria la legge prevede l’uso dell’esercito o di milizie private, senonché le regole di ingaggio di queste ultime sono ancora da ultimare, lasciando il monopolio all’Esercito italiano. Ma questa è – parzialmente – un’altra storia.

2) Il secondo motivo ha a che fare col governo Monti, per il quale il caso dei due marò ha rappresentato il primo grosso banco di prova davanti alla comunità internazionale, escludendo la missione impossibile di cancellare il ricordo dell’abbronzatura di Obama, della culona inchiavabile, letto di Putin, della nipote di Mubarak, dell’harem libico nel centro di Roma e tutto il resto del repertorio degli ultimi 20 anni. Troppo presto per togliere l’appoggio a Monti per questioni interne, da marzo in poi Latorre e Girone sono stati l’occasione provvidenziale per attaccare l’esecutivo dei tecnici, mantenendo vivo il rapporto con un elettorato che tra poco sarà di nuovo chiamato alle urne. E’ il tritacarne elettorale preannunciato da Emanuele Giordana al quale i due marò, dopo la visita ufficiale al Quirinale del 22 dicembre, sono riusciti a sottrarsi chiudendosi letteralmente nelle loro case fino al 10 gennaio quando, secondo i patti, torneranno in Kerala in attesa del giudizio della Corte Suprema di Delhi.

Qualche esempio di strumentalizzazione? Margherita Boniver, senatrice Pdl, il 19 dicembre riesce finalmente a fare notizia offrendosi come ostaggio per permettere a Latorre e Girone di tornare in Italia per Natale. Ignazio La Russa, Pdl, il 21 dicembre annuncia di voler candidare i due marò nelle liste del suo nuovo partito Fratelli d’Italia (sic!). L’escamotage, che serve a blindare i due militari entro i confini italiani, è rimandato al mittente dagli stessi Latorre e Girone, irremovibili nel mantenere la parola data alle autorità indiane.

LA QUERELLE SULLA POSIZIONE DELLA NAVE E UNA CURIOSA “CONTROPERIZIA”

La prima tesi portata avanti maldestramente dalla diplomazia italiana, puntellata dagli organi d’informazione, sosteneva che l’Enrica Lexie si trovasse in acque internazionali e, di conseguenza, la giurisdizione dovesse essere italiana. Ma le cose pare siano andate diversamente. Il governo italiano ha sostenuto che l’Enrica Lexie si trovasse a 33 miglia nautiche dalla costa del Kerala, ovvero in acque internazionali, il che avrebbe dato diritto ai due marò ad un processo in Italia. La tesi è stata sviluppata basandosi sulle dichiarazioni dei marò e su non meglio specificate «rilevazioni satellitari”. Secondo l’accusa indiana l’incidente si era invece verificato entro il limite delle acque nazionali: Girone e Latorre dovevano essere processati in India. Nonostante la confusione causata dal campanilismo della stampa indiana ed italiana, la posizione della Enrica Lexie non è più un mistero ed è ufficialmente da considerare valida la perizia indiana. La squadra d’investigazione speciale che si è occupata del caso lo scorso 18 maggio ha depositato presso il tribunale di Kollam l’elenco dei dati a sostegno dell’accusa di omicidio, citando i risultati dell’esame balistico e la posizione della petroliera italiana durante la sparatoria. Secondo i dati recuperati dal GPS della petroliera italiana e le immagini satellitari raccolte dal Maritime Rescue Center di Mumbai, l’Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, nella cosiddetta «zona contigua». Il diritto marittimo internazionale considera «zona contigua» il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione.

Il capoverso qui sopra è stato molto criticato, ma nella sostanza riassume la posizione dell’India sulla «zona contigua», posizione ribadita ieri dalla Corte suprema di New Delhi: «The incident of firing from the Italian vessel on the Indian shipping vessel having occurred within the Contiguous Zone, the Union of India is entitled to prosecute the two Italian marines under the criminal justice system prevalent in the country.» Quest’aspetto verrà approfondito nel prossimo post di Miavaldi. Anche in quest’occasione, i media italiani hanno disinformato pesantemente, ripetendo a tamburo che secondo l’India l’incidente “non è avvenuto in acque territoriali”, senza però dire come proseguiva il discorso, e quindi cosa significhi. Secondo la Corte suprema l’incidente non è avvenuto nelle acque territoriali e perciò non è competenza dello stato del Kerala, ma è avvenuto nella “zona contigua”, sulla quale l’India – intesa come nazione tutta – rivendica la giurisdizione. Per questo il processo è stato spostato dal livello statale a quello federale.

A contrastare la versione ufficiale delle autorità indiane – che, ricordiamo, è stata accettata anche dai legali dei due marò e sarà la base sulla quale la Corte suprema indiana si pronuncerà – è apparsa in rete la ricca controperizia dell’ingegner Luigi di Stefano, già perito di parte civile per l’incidente di Ustica. Di Stefano presenta una serie di dati ed analisi tecniche a supporto dell’innocenza dei due marò. Chi scrive non è esperto di balistica né perito legale – non è il mio mestiere – e davanti alla mole di dati sciorinati da Di Stefano rimane abbastanza impassibile. Tuttavia, è importante precisare che Di Stefano basa gran parte della sua controperizia su una porzione minima dei dati, quelli cioè divulgati alla stampa a poche settimane dall’incidente. Dati che, sappiamo ora, sono stati totalmente sbugiardati dalle rilevazioni satellitari del Maritime Rescue Center di Mumbai e dall’esame balistico effettuato dai periti indiani. Nella perizia troviamo stralci di interviste tratti dal settimanale Oggi, fotogrammi ripresi da Youtube, fermi immagine di documenti mandati in onda da Tg1 e Tg2 (sui quali Di Stefano costruisce la sua teoria della falsificazione dei dati da parte della Marina indiana), altre foto estrapolate da un video della Bbc e una serie di complicatissimi calcoli vettoriali e simulazioni 3d. Non si menziona mai, in tutta la perizia, nessuna fonte ufficiale dei tecnici indiani che, come abbiamo visto, hanno depositato in tribunale l’esito delle loro indagini il 18 maggio. Di Stefano aveva addirittura presentato il suo lavoro durante un convegno alla Camera dei deputati il 16 aprile, un mese prima che fossero disponibili i risultati delle perizie indiane! In quell’occasione i Radicali hanno avanzato un’interrogazione parlamentare al ministro degli Esteri Terzi, chiedendo sostanzialmente: «Ma se abbiamo mandato i nostri tecnici in India e loro non hanno detto nulla, perché dobbiamo stare a sentire Di Stefano?» Il lavoro di Di Stefano, in definitiva, è viziato sin dal principio dall’analisi di dati clamorosamente incompleti, costruito su dichiarazioni inattendibili e animato dal buon vecchio sentimento di superiorità occidentale nei confronti del cosiddetto Terzo mondo. Se qualcuno ancora oggi ritiene che una simile perizia artigianale sia più attendibile di quella ufficiale indiana, cercare di spiegare perché non lo è potrebbe essere un inutile dispendio di energie. Di Stefano in persona è intervenuto nei commenti qui sotto… e mal gliene incolse. Oltre a ulteriori, serissimi dubbi sulla sua “analisi tecnica”, ne sono emersi anche sul suo buffo curriculum, sulla sua laurea (si fa chiamare “ingegnere” ma non risulta lo sia), sui suoi trascorsi e su precedenti, non meno raccogliticce “perizie”. Dulcis in fundo: presentato come tecnico super partes, in realtà Di Stefano è un dirigente del partitino neofascista Casapound. Suo figlio Simone è il candidato di Casapound alla presidenza della regione Lazio. Con Casapound, Di Stefano anima un “comitato pro-Marò”. Dopo che la discussione/inchiesta ha portato alla luce queste cose, Di Stefano è stato raggiunto dal Fatto quotidiano e ha ammesso di non essere andato molto più in là di una ricerca sul web, di non aver mai avuto contatti diretti con fonti indiane e di aver ricevuto alcuni dati da analizzare da giornalisti italiani suoi amici, omettendo di verificarli alla fonte primaria. Costui si aggirava da anni al centro o alla periferia di inchieste cruciali (Ustica, Ilva etc.), presentato dai media mainstream e dalle destre (fascisti e berluscones) come “esperto”, senza che nessuno avesse mai pensato di verificarne i titoli, la reale competenza, i metodi impiegati e chi gli dava copertura politica. Eppure non sarebbe stata un’inchiesta difficile, tant’è che per scoprire certi altarini sono bastati due giorni di discussione seria su un blog. Naturalmente, sia Di Stefano sia i suoi amici di estrema destra, dopo aver accusato il colpo, han cercato di rispondere facendo il free climbing sugli specchi e gridando al complotto internazionale ai loro danni.

UNGHIE SUI VETRI: «NON SONO STATI LORO A SPARARE!» 

Altra tesi particolarmente in voga: non sono stati i marò a sparare, c’era un’altra nave di pirati nelle vicinanze, sono stati loro. Nel rapporto consegnato in un primo momento dai membri dell’equipaggio dell’Enrica Lexie alle autorità indiane e italiane (entrambi i Paesi hanno aperto un’inchiesta) si specifica che Latorre e Girone hanno sparato tre raffiche in acqua, come da protocollo, man mano che l’imbarcazione sospetta si avvicinava all’Enrica Lexie. Gli indiani sostengono invece che i colpi erano stati esplosi con l’intenzione di uccidere, come si vede dai 16 fori di proiettile sulla St. Antony. Il 28 febbraio il governo italiano chiede che al momento dell’analisi delle armi da fuoco siano presenti anche degli esperti italiani. La Corte di Kollam respinge la richiesta, accordando però che un team di italiani possa presenziare agli esami balistici condotti da tecnici indiani. Gli esami confermano che a sparare contro la St. Antony furono due fucili Beretta in dotazione ai marò, fatto supportato anche dalle dichiarazioni degli altri militari italiani e dei membri dell’equipaggio a bordo sia dell’Enrica Lexie che della St. Antony. Staffan De Mistura, sottosegretario agli Esteri italiano, il 18 maggio ha dichiarato alla stampa indiana: «La morte dei due pescatori è stato un incidente fortuito, un omicidio colposo. I nostri marò non hanno mai voluto che ciò accadesse, ma purtroppo è successo». I più cocciuti, pur davanti all’ammissione di colpa di De Mistura, citano ora il mistero della Olympic Flair, una nave mercantile greca attaccata dai pirati il 15 febbraio, sempre al largo delle coste del Kerala. La notizia, curiosamente, è stata pubblicata esclusivamente dalla stampa italiana, citando un comunicato della Camera di commercio internazionale inviato alla Marina militare italiana. Il 21 febbraio la Marina mercantile greca ha categoricamente escluso qualsiasi attacco subito dalla Olympic Flair. A questo punto possiamo tranquillamente sostenere che:

1) l’Enrica Lexie non si trovava in acque internazionali; 

2) i due marò hanno sparato. Sono due fatti supportati da prove consistenti e accettati anche dalla difesa italiana, che ora attende la sentenza della Corte suprema circa la giurisdizione.

Secondo la legge italiana ed i suoi protocolli extraterritoriali, in accordo con le risoluzioni dell’Onu che regolano la lotta alla pirateria internazionale, i marò a bordo della Enrica Lexie devono essere considerati personale militare in servizio su territorio italiano (la petroliera batteva bandiera italiana) e dovrebbero godere quindi dell’immunità giurisdizionale nei confronti di altri Stati.

La legge indiana dice invece che qualsiasi crimine commesso contro un cittadino indiano su una nave indiana – come la St. Antony – deve essere giudicato in territorio indiano, anche qualora gli accusati si fossero trovati in acque internazionali.

A livello internazionale vige la Convention for the Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation (SUA Convention), adottata dall’International Maritime Organization (Imo) nel 1988, che a seconda delle interpretazioni, indicano gli esperti, potrebbe dare ragione sia all’Italia sia all’India.

La sentenza della Corte Suprema di New Delhi, prevista per l’8 novembre ma rimandata nuovamente a data da destinarsi, dovrebbe appunto regolare questa ambiguità, segnando un precedente legale per tutti i casi analoghi che dovessero verificarsi in futuro. Il caso dei due marò, che dal mese di giugno sono in regime di libertà condizionata e non possono lasciare il Paese prima della sentenza, sarà una pietra miliare del diritto marittimo internazionale.

IMPRECISIONI, DIMENTICANZE, SAGRESTIE E ROMBI DI MOTORI

In oltre 10 mesi di copertura mediatica, la cronaca a macchie di leopardo di gran parte della stampa nazionale ha omesso dettagli significativi sul regime di detenzione dei marò, si è persa per strada alcuni passaggi della diplomazia italiana in India e ha glissato su una serie di comportamenti “al limite della legalità” che hanno contraddistinto gli sforzi ufficiali per «riportare a casa i nostri marò». In un altro articolo pubblicato su China Files il 7 novembre, avevo collezionato le mancanze più eclatanti. Riprendo qui quell’esposizione. Descritti come «prigionieri di guerra in terra straniera» o militari italiani «dietro le sbarre», Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in realtà non hanno speso un solo giorno nelle famigerate carceri indiane. I due militari del Reggimento San Marco, in libertà condizionata dal mese di giugno, come scrive Paolo Cagnan su L’Espresso, in India sono trattati col massimo riguardo e, in oltre otto mesi, non hanno passato un solo giorno nelle famigerate celle indiane, alloggiando sempre in guesthouse o hotel di lusso con tanto di tv satellitare e cibo italiano in tavola. Tecnicamente, «dietro le sbarre» non ci sono stati mai. Un trattamento di lusso accordato fin dall’inizio dalle autorità indiane che, come ricordava Carola Lorea su China Files il 23 febbraio, si sono assicurate che il soggiorno dei marò fosse il meno doloroso possibile: «I due marò del Battaglione San Marco sospettati di aver erroneamente sparato a due pescatori disarmati al largo delle coste del Kerala, sono alloggiati presso il confortevole CISF Guest House di Cochin per meglio godere delle bellezze cittadine. Secondo l’intervista rilasciata da un alto funzionario della polizia indiana al Times of India, i due sfortunati membri della marina militare italiana sarebbero trattati con grande rispetto e con tutti gli onori di casa, seppure accusati di omicidio. La diplomazia italiana avrebbe infatti fornito alla polizia locale una lista di pietanze italiane da recapitare all’hotel per il periodo di fermo: pizza, pane, cappuccino e succhi di frutta fanno parte del menu finanziato dalla polizia regionale. Il danno e la beffa.» Intanto, l’Italia cercava in ogni modo di evitare la sentenza dei giudici indiani, ricorrendo anche all’intercessione della Chiesa. Alcune iniziative discutibili portate avanti dalla diplomazia italiana, o da chi ne ha fatto tristemente le veci, hanno innervosito molto l’opinione pubblica indiana. Due di queste sono direttamente imputabili alle istituzioni italiane. In primis, aver coinvolto il prelato cattolico locale nella mediazione con le famiglie delle due vittime, entrambe di fede cattolica. Il sottosegretario agli Esteri De Mistura si è più volte consultato con cardinali ed arcivescovi della Chiesa cattolica siro-malabarese, nel tentativo di aprire anche un canale “spirituale” con i parenti di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori morti il pomeriggio del 15 febbraio. L’ingerenza della Chiesa di Roma non è stata apprezzata dalla comunità locale che, secondo il quotidiano Tehelka, ha accusato i ministri della fede di «immischiarsi in un caso penale», convincendoli a dismettere il loro ruolo di mediatori. Il 24 aprile, inoltre, il governo italiano e i legali dei parenti delle vittime hanno raggiunto un accordo economico extra-giudiziario. O meglio, secondo il ministro della Difesa Di Paola si è trattato di «una donazione», di «un atto di generosità slegato dal processo». Alle due famiglie, col consenso dell’Alta Corte del Kerala, vanno 10 milioni di rupie ciascuna, in totale quasi 300mila euro. Dopo la firma, entrambe le famiglie hanno ritirato la propria denuncia contro Latorre e Girone, lasciando solo lo Stato del Kerala dalla parte dell’accusa. Raccontata dalla stampa italiana come un’azione caritatevole, la transazione economica è stata interpretata in India non solo come un’implicita ammissione di colpa, ma come un tentativo, nemmeno troppo velato, di comprarsi il silenzio delle famiglie dei pescatori. Tanto che il 30 aprile la Corte Suprema di Delhi ha criticato la scelta del tribunale del Kerala di avallare un simile accordo tra le parti, dichiarando che la vicenda «va contro il sistema legale indiano, è inammissibile.» Ma il vero capolavoro di sciovinismo è arrivato lo scorso mese di ottobre durante il Gran Premio di Formula 1 in India. In un’inedita liaison governo-Il Giornale-Ferrari, in poco più di una settimana l’Italia è riuscita a far tornare in prima pagina il non-caso dei marò che in India, dopo 8 mesi dall’incidente, era stato ampiamente relegato nel dimenticatoio mediatico. Rispondendo all’appello de Il Giornale ed alle «migliaia di lettere» che i lettori hanno inviato alla redazione del direttore Sallusti, la Ferrari ha accettato di correre il gran premio indiano di Greater Noida mostrando in bella vista sulle monoposto la bandiera della Marina Militare Italiana. Il primo comunicato ufficiale di Maranello recitava: «[…] La Ferrari vuole così rendere omaggio a una delle migliori eccellenze del nostro Paese auspicando anche che le autorità indiane e italiane trovino presto una soluzione per la vicenda che vede coinvolti i due militari della Marina Italiana.» La replica seccata del Ministero degli Esteri indiano non si fa attendere: «Utilizzare eventi sportivi per promuovere cause che non sono di quella natura significa non essere coerenti con lo spirito sportivo.» Pur avendo incassato il plauso del ministro degli Esteri Terzi, che su Twitter ha gioito dell’iniziativa che «testimonia il sostegno di tutto il Paese ai nostri marò», la Scuderia Ferrari opta per un secondo comunicato. Sfidando ogni logica e l’intelligenza di italiani ed indiani, l’ufficio stampa della casa automobilistica specifica che esporre la bandiera della Marina «non ha e non vuole avere alcuna valenza politica.» In mezzo al tira e molla di una strategia diplomatica improvvisata, così impegnata a non scontentare l’Italia più sciovinista al punto da appoggiare la pessima operazione d’immagine del duo Maranello-Il Giornale, accolta in India da polemiche ampiamente giustificabili, il racconto dei marò – precedentemente «dietro le sbarre» –  è continuato imperterrito con toni a metà tra un romanzo di Dickens e una sagra di paese. Il Giornale, ad esempio, esaltando la vittoria morale dell’endorsement Ferrari, confida ai propri lettori che «i famigliari di Massimiliano Latorre, tutti con una piccola coccarda di colore giallo e il simbolo della Marina Militare al centro appuntata sugli abiti, hanno pensato di portare a Massimiliano e a Salvatore alcuni tipici prodotti locali della Puglia: dalle focacce ai dolci d’Altamura per proseguire poi con le orecchiette, le friselle di grano duro.» L’operazione, qui in India, ha raggiunto esclusivamente un obiettivo: far inviperire ancora di più le schiere di fanatici nazionalisti indiani sparse in tutto il Paese. Ma è lecito pensare che la mossa mediatica, ancora una volta, non sia stata messa a punto per il bene di Latorre e Girone, bensì per strizzare l’occhiolino a quell’Italia abbruttita dalla provincialità imposta dai propri politici di riferimento, maltrattata da un’informazione colpevolmente parziale che da tempo ha smesso di “informare” preferendo istruire, depistare, ammansire e rintuzzare gli istinti peggiori di una popolazione alla quale si rifiuta di dare gli strumenti e i dati per provare a capire e pensare con la propria testa.

PARLARE A CHI SI TAPPA LE ORECCHIE

In questi mesi, quando provavamo a raccontare la storia dei marò facendo due passi indietro e includendo doverosamente anche le fonti indiane, ci sono piovuti addosso decine di insulti. Quando citavamo fonti dai giornali indiani, ci accusavano di essere «come un fogliaccio del Kerala»; quando abbiamo provato a spiegare il problema della giurisdizione, ci hanno risposto «L’India è un paese di pezzenti appena meno pezzenti di prima che cerca di accreditarsi come potenza, ma sempre pezzenti restano. E un pezzente con soldi diventa arrogante. Da nuclearizzare!»; quando abbiamo cercato di smentire le falsità pubblicate in Italia (come la memorabile bufala di Latorre che salva un fotografo fermando una macchina con le mani e si guadagna le copertine indiane come “Eroe”) ci hanno dato degli anti-italiani, augurandoci di andare a vivere in India e vedere se là stavamo meglio. Ignorando il fatto che, a differenza di molti, noi in India ci abitiamo davvero. Quando tutta questa vicenda verrà archiviata e i marò saranno sottoposti a un giusto processo – in Italia o in India, speriamo che sia giusto – sarà bene ricordarci come non fare del cattivo giornalismo, come non condurre un confronto diplomatico con una potenza mondiale e, soprattutto, come non strumentalizzare le nostre forze armate per fini politici. Una cosa della quale, anche se fossi di destra, mi sarei vergognato. Dopo mesi e mesi di propaganda a senso unico e rintocchi assordanti di una sola campana, quest’articolo è stato un sasso nello stagno. E’ il più “socializzato” della storia di Giap ed è stato ripreso in lungo e in largo per la rete. La discussione qui sotto è partecipata e ricchissima di spunti, approfondimenti, correzioni, precisazioni, conferme, rilanci, rivelazioni, scoperte. “Pare un film di 007″, ha scritto un commentatore sbigottito, riferendosi ai colpi di scena che si susseguivano rapidi. Mentre scriviamo, si sfiorano ormai i 300 commenti, con decine di sotto-discussioni ramificate, compresa la vera e propria inchiesta collettiva su metodi e titoli del dicentesi ingegner Di Stefano. Leggere tutto quanto è appassionante, ma anche impegnativo e non tutti hanno il tempo di farlo. Ci ripromettiamo, noi e Matteo Miavaldi, di preparare e pubblicare un secondo post, che aggiorni, faccia il sunto della discussione, affronti i punti critici, tenga accese le braci di un’informazione diversa sul caso. — fonte: wumingfoundation.com

"Marò sacrificati a interessi economici. Ora ci pensi l'Onu". L’ex ministro Terzi: siamo in una giungla, il governo si rivolga all’Onu, scrive Lorenzo Bianchi su “Il Quotidiano Nazionale”. «L’Italia evita le vie maestre del diritto e sceglie invece i sentieri della giungla. Questa è la mia sintesi sulla questione dei marò». Giulio Terzi di Sant’Agata, già ambasciatore a Washington, ha lasciato la carica di ministro degli Esteri il 26 marzo dell’anno scorso quando si decise di rimandare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in India. L’ex titolare della Farnesina ripete ancora oggi che quella decisione fu presa sulla spinta di interessi economici. «Lo disse chiaramente il presidente del consiglio Mario Monti nel suo intervento del 27 marzo. Cambiammo una posizione enunciata a tutto il mondo con i comunicati dell’11 e del 18 marzo 2013. Furono infatti gli indiani a violare gli affidavit. La Corte Suprema di Nuova Delhi aveva detto che i due paesi dovevano avviare consultazioni sulla base della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto Marittimo, in sigla Unclos, articolo 100. Noi eravamo disponibili. L’India disse che non se ne discuteva neppure».

Invece?

«Il 21 marzo la posizione del governo italiano fu ribaltata nel giro di poche ore».

Come mai non sono state coinvolte le Nazioni Unite?

«Ho informato il segretario generale del Palazzo di Vetro Ban Ki moon a Londra a margine della conferenza sulla Somalia, 8 o 9 giorni dopo il sequestro dei nostri fucilieri. Fu una trappola nella quale caddero la squadra navale e il comando operativo interforze che autorizzarono la Lexie ad andare a Kochi. Fui informato dalla difesa solo 5 o 6 ore dopo».

Come mai?

«Non si è mai capito il motivo del ritardo».

In ogni caso quale fu la risposta di Ban Ki moon a Londra?

«Mi disse: la questione deve essere risolta secondo il diritto internazionale. Me lo ha ripetuto almeno venti volte».

Quindi l’arbitrato internazionale, che l’Italia invece ha lasciato cadere.

«Torniamo all’Unclos, prevede una procedura di 30 giorni per avere misure cautelari, ossia l’affidamento dei marò a un Paese terzo, fino alla decisione della corte di Amburgo sul merito, in due o tre mesi. Su questa base a metà marzo avevamo deciso di trattenere Latorre e Girone in Italia. Invece poi per un anno e mezzo non si è fatto nulla».

Perché?

«Per non smentire l’operato di Monti. La cosa si è trascinata fino al governo di Renzi. È un motivo politico. Il progetto di internazionalizzazione è finito. L’unica volta nella quale Renzi dice di aver parlato dei marò è stato al G 20 di Brisbane in un corridoio con Modi durante una pausa caffè, senza un incontro bilaterale. Avremmo una potenzialità enorme di risolvere il pasticcio».

Come?

«Sollevando la questione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La lotta alla pirateria è all’ordine del giorno almeno ogni due o tre mesi. In ogni caso l’Italia potrebbe chiedere una discussione dopo un’azione preparatoria con i paesi nostri amici, gli Usa per esempio. Come si fa la lotta alla pirateria senza l’immunità funzionale ai militari che vi partecipano?».

Altre vie?

«Mi risulta che durante il governo Letta sia stata sondata a Ginevra la ex alta Commissaria dell’Onu Navi Pillay. Mi consta che la porta fosse aperta, ma non è stato fatto nulla. Infine c’era un terza possibilità».

Quale?

«L’8 luglio scorso il presidente della Croce Rossa Internazionale Peter Maurer ha inviato una lettera alla presidenza del consiglio e ai ministeri interessati sul caso dei fucilieri di marina. Citava considerazioni umanitarie. Offriva i suoi buoni uffici. Non c’è stata nessuna risposta. Latorre è stato male, si sa di sofferenze psicologiche di Girone. Pensi con quale maggior peso sarebbe sollevata la questione».

Si torna agli interessi.

«Vorrei che qualcuno dichiarasse pubblicamente i motivi per i quali un anno e mezzo fa c’è stata quella decisione».

Arrestate lo Stato, scrive Andrea Cangini su “Il Quotidiano Nazionale”. In una nazione così evidentemente incline al sotterfugio e al reato c’è bisogno anche di un’informazione manettara e moralista, inflessibile in scena e sempre arrabbiata. Un giornale di denuncia, una denuncia giudiziaria. Non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che lo spirito del «Fatto quotidiano» rappresenta la punta estrema di un sentimento largamente diffuso poiché politicamente corretto. Si è persa la terza dimensione, quella all’interno della quale la politica diventava grande percorrendo col mento all’insù le terre alte del potere, dell’interesse nazionale, della guerra e dello Stato. Ma politica, potere, interesse nazionale, guerra e Stato sono parole cadute in disgrazia, ormai prive di senso o dall’accezione negativa. Non resta allora che il moralismo giudiziario. L’esibita pretesa di schiacciare la politica sul terreno delle buone maniere, della coerenza assoluta, del codice penale e della rettitudine estrema. Rettitudine sconosciuta alle vite degli uomini, e dunque estranea anche alla quotidianità dei suoi profeti. Ma non è certo colpa di Marco Travaglio, di Antonio Padellaro o di Peter Gomez se per avere fatto sesso con una donna consenziente l’uomo più influente del mondo quindici anni fa è finito sotto processo del Congresso americano e di un Tribunale – sempre a favore di telecamere, s’intende – e per l’intera durata di quel duplice giudizio la Storia si è fermata e la cronaca abbondantemente sfamata. Dice: il punto è che Bill Clinton mentì alla nazione. E con questo? Davvero qualcuno pensa che un leader politico, il presidente degli Stati Uniti, addirittura, dica o possa dire sempre e solo la verità? Pretenderlo, è un segno di follia. Un’ossessione evidente. Eppure, solo in pochi colsero l’assurdità del «caso Lewinsky». Lo spirito del «Fatto» è dunque lo spirito del tempo, un tempo la cui letteratura sono i rotocalchi di gossip e i verbali delle procure. Un tempo fatto apposta per sputtanare la politica e svuotare gli Stati. Può anche essere un’idea, ma nessuno, neanche i colleghi del «Fatto», sa indicare alternative possibili. I «tecnici»? Abbiamo già dato. I magistrati? Ne faremmo volentieri a meno. Diciamo che ci sono bastate le avanguardie: i Di Pietro, i De Magistris, gli Ingroia... Se ne esce solo con una retorica politica, e in mancanza d’altro la retorica nazionale va sempre bene: è comunque un appiglio grazie al quale i leader politici possono eventualmente elevarsi. Ma la politica ha bisogno di simboli. Tutti hanno bisogno di simboli, e anche di eroi. La divisa è un simbolo; il soldato in divisa un’annunciazione di eroismo. Non ci vuole molto a capire che da quando sono prigionieri in India «i due marò» hanno cessato di essere due uomini in carne e ossa e sono diventati un unico simbolo, il simbolo della forza e della credibilità dello Stato italiano nel mondo. Ma per quelli del «Fatto», che in questi termini ieri ne hanno scritto, sono solo due italiani «accusati di omicidio». In galera, dunque, mettiamo direttamente in galera lo Stato.

“Il Mercato dei Marò”  è un’opera che narra la gestione di un avvenimento internazionale “tutto italiano”, come lo definisce  l’autore del libro l’Avvocato Mauro Mellini, proponendoci l’analisi di una vicenda assurda, forse unica nella storia moderna di uno Stato di diritto quale dovrebbe essere l’Italia, Patria di antiche tradizioni giuridiche, storiche e culturali, scrive Fernando Termentini su “Libero Reporter”. Un testo che stigmatizza l’assenza dello Stato nell’affrontare eventi  che dopo  più di 1000 giorni ancora presentano punti oscuri…E’  la storia evidente di come l’Italia abbia delegato le proprie funzioni sovrane ad uno Stato Terzo, affidandogli la gestione di un’azione giudiziaria indebita nei confronti di due militari italiani, due Sottufficiali della Marina Militare italiana, Fucilieri della prestigiosa Brigata S.Marco, incaricati dal Parlamento di assolvere compiti di contrasto alla pirateria marittima. Un racconto che ci propone un dramma che coinvolge due cittadini italiani e le loro famiglie e che cela “verità nascoste”, quelle che il 22 marzo 2013 hanno suggerito al Governo Monti di dare corso all’estradizione passiva di due nostri connazionali, consegnandoli nelle mani di un Paese in cui è prevista la pena di morte. Un’azione di “contrasto dissuasivo”, quella dei due Sottufficiali incaricati di garantire protezione anti pirateria ad  un a nave battente Bandiera italiana  ed in navigazione in acque internazionali,  durante la quale sarebbero stati uccisi due poveri pescatori indiani secondo quanto affermato, ma mai provato, dallo Stato Federale indiano del Kerala. Il Mercato dei Marò ci propone pagina dopo pagina questi ed altri dubbi a cui dopo 1000 giorni non è stata data ancora una risposta logica e convincente. Piuttosto confermano come lo Stato stia negando qualsiasi tutela a due suoi cittadini, peraltro titolari di uno  “status” particolare, quello di militari in servizio. Perplessità mai chiarite fin dal giorno successivo ai fatti, il 16 febbraio 2012, quando  un Comando Militare acconsentì che l’Armatore della nave  autorizzasse la petroliera a rientrare  in acque territoriali indiane, consegnando di fatto  i due Fucilieri di Marina  alla giurisdizione indiana.  Un atto di assenso dato sulla linea di Comando Operativo mai chiarito e reso noto solo il 17 ottobre del 2012 dall’allora Ministro della Difesa Gianpaolo Di Paola, Ammiraglio in quiescenza. Un chiarimento ufficializzato dal Ministro dopo  8 mesi dagli eventi, perché costretto a rispondere ad una precisa interrogazione parlamentare. Un testo quello scritto dall’Avvocato Mellini, che propone anche spunti di carattere giuridico che aiutano a comprendere come la vicenda dei due Fucilieri di Marina, nata da disposti legislativi nazionali in parte imprecisi, è portata avanti dalle Istituzioni senza alcun riferimento al Diritto Internazionale ed alle Convenzioni sul diritto del mare. Un’analisi anche delle versione dei fatti, quella indiana e quella italiana, che aiuta  ad individuare  i lati oscuri di una vicenda che coinvolge da oltre 1000 giorni i  due Marò. Una storia assolutamente italiana e peculiarmente italiana nel momento che improvvisamente agli eventi si accavallano notizie di tangenti internazionali. Fatti che coinvolgono, peraltro, un’importante realtà industriale italiana, Finmeccanica e che hanno portato a livello istituzionale di  considerare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone  “merce di baratto” con l’India, con un approccio che l’autore definisce a ragione “un vero e proprio atto di tradimento”. “Il Mercato dei Marò”, non è, quindi, un testo solo narrativo, ma una vera e propria denuncia della scarsa efficacia di come le Istituzioni stanno gestendo una vicenda di risonanza internazionale. Potrebbe essere il testo della scenografia di una tragicommedia  in cui protagonisti e comparse si scambiano i ruoli senza che nulla accada. E’, invece, il resoconto di una storia recente  ancora non terminata dominata dall’ipocrisia con cui è stata gestita la sorte di due nostri concittadini ai vari livelli istituzionali fino ad arrivare ad una non meglio connotata posizione del Presidente Napolitano quale Capo supremo delle Forze Armate. Un testo che denuncia anche l’assenza inaccettabile dell’Europa assolutamente disattenta alla sorte dei due cittadini europei proponendo la triste realtà che una volta “ripartiti i due Marò, restano, invece, “affaristi e cialtroni”. Il Mercato dei Marò è, in sintesi, la storia di un baratto senza fine, dove la merce di scambio non sono i sacchi colmi di grano o le gerle piene di frutta di un tempo. Piuttosto, due uomini, due cittadini italiani colpevoli di servire lo Stato, ma dallo Stato abbandonati per motivi ancora occulti.  Un mercanteggiare che dura ormai da più di 1000 giorni e dopo le dimissioni dell’Ambasciatore Terzi e la fine del Governo Monti si connota, sempre di più, come una “contrattazione di fronte ad un bicchiere di thè”, nelle migliori tradizioni di un Suck arabo.  Qualcosa di unico nella storia moderna e forse irripetibile, dove emergono, come ben delineato nel testo,  figure politiche italiane che riconoscono di fatto la giurisdizione indiana “concordando” una modesta sentenza da scontare in Italia. “Un premio” per i due militari per aver adempiuto al loro dovere nel rispetto delle  “regole d’ingaggio”  e da una necessità di legittima difesa”. Uno scenario fosco in cui emergono possibili interessi  personali anche di ex Ministri il cui parere fu determinante quando fu deciso di restituire all’India Massimiliano Latorre e Salvatore Girone quel fatidico 22 marzo 2013, oggi titolari di cariche di prestigio o prossimi ad assumere leadership politiche. Nel frattempo, Il “mercato” continua a danno della sovranità nazionale italiana e propone al mondo un’Italia sempre più timida nell’affermare i propri diritti ed a tutelare quelli dei propri cittadini. I due Marò sono lontani dalla loro Patria e dalle loro famiglie da quasi tre anni, colpevoli solo di aver detto  “OBBEDISCO” e, questo, non è più accettabile. E’ tempo, invece, che il baratto in corso sia messo in liquidazione e l’Italia si riappropri delle sue tradizioni storiche, culturali e giuridiche, con soluzioni anche suggerite da “Il Mercato dei Marò”. Dobbiamo essere grati all’Avvocato Mauro Mellini per essersi voluto cimentare in un impegno gravoso affrontandolo senza compromessi, ma privilegiando la massima trasparenza ed onestà intellettuale, tipica di coloro che rifiutano il compromesso privilegiando il diritto. Grazie Mauro !

Chi è il Generale Termentini? Ho frequentato l’Accademia Militare e lavorato come Ufficiale dell’Arma del Genio per 40 anni. Ho partecipato a missioni di Peace Keeping in Somalia, Bosnia, Mozanbico e quale esperto nel settore della bonifica dei campi minati e degli ordigni esplosivi in Kuwait, Bosnia, Pakistan per l’Afghanistan in occasione della Operation Salam. Una volta congedato ho fornito consulenza nel settore della bonifica ad ONG ed alle Nazioni Unite.

Napolitano doveva abdicare per dire finalmente la verità su giudici e Marò. Solo ora che va via dal Quirinale alza i toni sui grandi nodi della giustizia, scrive Francesco Carta su “La Notizia Giornale”. Ci ha impiegato otto anni Giorgio Napolitano per togliersi i sassolini dalla scarpa. Anzi, macigni veri e propri, considerando la forza delle parole usate contro un potere, quello della magistratura, per anni immune da accuse o critiche di ogni sorta. Ora, invece, il capo dello Stato, nelle vesti di presidente del Csm, non ha usato mezzi termini davanti al plenum dei magistrati. E allora, sebbene avesse precisato che “non spetta al capo dello Stato” valutare la “riforma della giustizia”, ha poi esordito proprio premendo sulla necessità di riformare il sistema. In modo organico. Dando vita ad un processo innovatore che ridia efficienza alla macchina della giustizia”. Tutto questo, tenendo però fermo un principio: “La politica e la magistratura non devono percepirsi come mondi ostili” e non devono orientare i loro rapporti nel segno del “reciproco sospetto”. Insomma, basta con l’eterna “lotta” tra magistratura e politica. Bisogna tornare a collaborare. E per farlo il primo passo è abbandonare il “protagonismo” di certi giudici. Se infatti da una parte “è fondamentale l’azione repressiva dei pm e della polizia”, è pur vero che “l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario” si garantiscono solo con “comportamenti appropriati“, cioè evitando “cedimenti a esposizioni mediatiche o a tentazioni di missioni improprie”. Cosa che, dice ancora Napolitano, accade spesso, dato che non si possono non “segnalare comportamenti impropriamente protagonistici e iniziative di dubbia sostenibilità assunti, nel corso degli anni, da alcuni magistrati della pubblica accusa”. Lo sforzo, dunque, dev’essere indirizzato al superamento di ogni ostilità. Affinchè questo accada, però, è necessario che sia la magistratura per prima a cambiare atteggiamento. A cominciare dalle tante correnti interno al corpo dei giudici che spesso sfiancano la stessa integrità delle toghe. “Le correnti – ha detto infatti il numero uno del Csm – sono state e devono essere ambiente qualificato di crescita, formazione e dibattito, in direzione di un miglioramento complessivo della funzione giudiziaria”. Insomma, formazione, integrità, trasparenza. E imparzialità. Ecco perché è necessario che il sistema giudiziario sia affidato “ad un organo indipendente e imparziale, che garantisce la regole della civile convivenza e la stessa credibilità delle istituzioni democratiche. Questi valori vengono posti in dubbio in presenza di ingiustificate lungaggini, sia in campo civile che penale”. Ecco, allora, che si torna al punto di partenza: è necessaria una riforma. Napolitano lo sa. E ora anche i giudici. L’assicurazione di un processo “rapido e corretto” per i marò ricevuta un anno fa dall’ambasciatore indiano “è rimasta una frase”. Duro l’attacco del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ieri, in collegamento con il marò, Salvatore Girone, in India. “Ci sono state prove molto negative, scarsa volontà politica di dare una soluzione equa e un malfunzionamento della giustizia indiana che non è solo italiana”, ha aggiunto il Capo dello Stato. Non sono mancati, poi, i plausi e l’elogio nei confronti di Girone: “Sono molto colpito dalla serenità mostrata da lei e dalle vostre famiglie”. Il quale ha contraccambiato immediatamente l’affetto espresso dal capo dello Stato: “Sono ancora fiducioso nelle nostre istituzioni nonostante tutto quello accaduto”.

AD AMBURGO LA PROVA DEI MARO’ TRADITI. Iniziato con anni di ritardo avanti al “Tribunale Internazionale del Mare” l’arbitrato sulla vicenda della Enrica Lexie, dei pescatori indiani uccisi sul peschereccio Saint Antony e dei Marò Italiani tenuti in ostaggio in India, sono subito cominciate ad emergere prove tutt’altro che segrete, di molte delle quali avevamo dato conto con i nostri scritti, di un’incredibile “combine”, nella quale i nostri Marò, anziché il ruolo degli “assassini” (come disinvoltamente sono stati definiti in parecchi documenti indiani) sembra abbiano quello delle “vittime sacrificali”, gentilmente offerte proprio da mani e cattive coscienze italiane a copertura di chi sa quale altro delitto da altri commesso. Un tradimento di fronte al quale aver parlato di “mercato dei Marò” è cosa che sembra doverci rendere responsabili di eccessivo riguardo per chi li ha “forniti” quali, capri espiatori, in cambio di chi sa quali affari. Anche se l’Arbitrato internazionale non dovrà risolvere direttamente problemi di responsabilità ma di giurisdizione, dalle carte esibite proprio dagli Indiani risulta che i due poveri marinai non furono uccisi dalle armi in dotazione ai Marò. Lo avevamo già scritto. Ma chi aveva il dovere di esserne informato assai meglio di noi andava parlando di “non provata innocenza” dei due militari italiani (queste le espressioni di Emma Bonino, una volta militante del garantismo ed ora sostenitrice della necessità di “svuotare le carceri”) mentre qualcun altro parlava di accordi con l’India per una condanna “clemente” a “non più di sette anni di carcere”. Ma l’interrogativo vero ed angoscioso è questo: perché tanto servilismo da parte delle Autorità militari (Ministro delle Difesa, Ammiraglio Di Paola) e diplomatiche (Ministri e vice ministri degli Esteri Bonino, Pistelli, etc.) e dei presidenti del Consiglio (Monti, Letta, Renzi) con un ritardo nella richiesta dell’Arbitrato internazionale ripetutamente e bugiardamente dato come per richiesto? Un ritardo che ha danneggiato per più versi i nostri Marò dando al mondo l’impressione che fossimo noi a doverne temere la decisione e rendendo ancor più gravi le sofferenze dei due nostri Militari. Per non parlare della clamorosa baggianata della revoca della decisione, già annunziata, di non consentire la “restituzione” all’India di La Torre e Girone. Quale “affare” si temeva potesse danneggiare un atteggiamento di piena difesa dei diritti dei Nostri? E quali patti oscuri erano stati combinati con i più corrotti potentati indiani che non consentissero di difendere adeguatamente i nostri Militari? Sono interrogativi angosciosi che tuttavia non possiamo non porci. Mauro Mellini – giustiziagiusta.info su “La Valle dei Templi”.

Marò, le pallottole rinvenute nei corpi dei pescatori incompatibili con le armi di Latorre e Girone. Giulio Terzi: "I risultati delle autopsie consegnati al Tribunale di Strasburgo dimostrano la malafede indiana", scrive “Il Tempo”. Proiettili che hanno colpito a morte i due pescatori indiani non sarebbero quelli in dotazione ai militari in servizio con la Nato e quindi dei due fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. È quanto emerge dai documenti dell'autopsia sui due pescatori e consegnati dall'India al Tribunale di Amburgo in occasione dell'arbitrato internazionale. La pallottola estratta dalla testa di una delle vittime indiane, è lunga 31 millimetri, molto più grande delle munizioni calibro 5 e 56 Nato in dotazione ai marò, lungo appena 23 millimetri. L'incongruenza tra le dimensioni dei proiettili fu segnalata nel 2013 anche da Staffan De Mistura in un'audizione presso le commissioni esteri e difesa della Camera e del Senato, ma ora la conferma arriverebbe direttamente dai documenti indiani consegnati al Tribunale di Amburgo, dove è in corso l'arbitrato internazionale tra India e Italia sulla vicenda. Finora in India non è iniziato il procedimento giudiziario a carico dei due fucilieri italiani, a cause dello scontro sulla giurisdizione del caso, prima tra le autorità giudiziarie dello stato indiano del Kerala e quelle federali e poi tra India e Italia. Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono accusati di aver ucciso il 15 febbraio 2012 due pescatori indiani, scambiati per pirati, quando i due fucilieri del battaglione San Marco erano di stanza sulla nave mercantile Enrica Lexie, a largo delle coste indiane. Furono arrestati quando la nave attraccò in India su richiesta delle autorità locali. "Questa ulteriore rivelazione dimostra con ancora più vigore quanto tutta questa macchinazione sulla colpevolezza dei due marò sia stata pretestuosa, strumentalizzata per fini politici e sia stata lasciata passare incomprensibilmente dal governo Letta e Renzi dopo quella disastrosa decisione di rimandare i due fucilieri in India il 22 marzo", dice Giulio Terzi, diplomatico ed ex ministro degli Esteri. "Di fronte a queste prove della malafede indiana l'Italia deve alzare la visibilità su questo caso e dimostrare come siano state utilizzate procedure a nostro danno. Si tratta di un fatto importantissimo - prosegue Terzi - che dimostra come per tre anni l'India abbia tenuto nascosto un documento richiesto più volte dall'Italia contravvenendo a tutte le norme sulla cooperazione giudiziaria. Ma il fatto ancora più importante è che il documento è diventato pubblico solo grazie al Tribunale di Amburgo che lo ha concesso legittimamente, in base alla legge sulla trasparenza, mentre l'India non ha dato seguito alle rogatorie che io stesso e gli altri colleghi di governo avevamo fatto verso l'India affinché mandassero alla magistratura italiana tutte le prove raccolte e le analisi e gli accertamenti fatti su questo caso. Si è celato e non si è dato corso a quello che l'Italia chiedeva, si teneva nascosto un elemento così importante per tenere in piedi una costruzione assurda di colpevolezza nei confronti dei nostri due soldati, che da questo documento dimostrano assoluta estraneità alla cosa - rimarca l'ex ministro. È importante che questo aspetto venga ripreso con grande fermezza dall'Italia nei confronti dell'India, che è contravvenuta a tutte le norme sulla cooperazione giudiziaria".

Marò, ora l'India ammette: "I proiettili non erano loro". E spunta la truffa dei testimoni fotocopia. La perizia: pallottole troppo grandi per essere dei fucilieri. A cui si aggiungono testimonianze fatte con "copia e incolla", scrive Claudio Cartaldo su “Il Giornale”. Che il processo messo in campo dall'India nei confronti dei due fucilieri di marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, fosse al limite del ridicolo, non è una novità. Ma dalle carte che i legali indiani hanno consegnato al Tribunale internazionale per il diritto del mare di Amburgo, emergono alcuni dettagli sconcertanti. Non solo quelle testimonianze fotocopia rilasciate da alcuni pescatori sopravvissuti il giorno in cui Valentine Jelastine e Akeesh Pink persero la vita, ma soprattutto l'allegato numero 4 che riporta l'autopsia svolta sul corpo dei due pescatori uccisi. Sembrava essersi persa nei cassetti dei tribunali indiani, e invece è rispuntata ad Amburgo. Nel documento, la prova che i proiettili che hanno colpito a morte i due indiani non sono quelli in dotazione ai marò. Come riporta il Quotidiano Nazionale, in un articolo a firma di Lorenzo Bianchi, le testimonianze di chi avrebbe assistito alla morte dei due pescatori si assomigliano eccessivamente. Come se nell'essere redatte fossero state scritte dalla stessa mano e opportunamente falsificate in modo da dimostrare la colpevolezza di Latorre e Girone. Dopo gli eventi del 15 febbraio 2012 al largo delle coste del Kerala, i testimoni dichiarano che gli assassini sono i "sailors", i marinai, facendo nome e cognome dei due marò. Le testimonianze, allegate tra le carte che l'India ha depositato ad Amburgo, sono contenute nell'allegato 46. A rilasciarle sono il comandante del peschereccio, Freddy Bosco (34 anni), e il marinaio Kenserian (47), i quali dichiaro "onestamente e con la massima integrità" che la loro imbarcazione "finì sotto il fuoco non provocato e improvviso dei marinai Massimiliano Latorre e Salvatore Girone della Enrica Lexi". Il primo campanello d'allarme riguarda proprio il duplice errore riportato nei verbali. Entrambi i marinai, infatti, avrebbero sbagliato a pronunciare il nome della nave difesa dai Marò, che infatti si scrive "Lexie". Ora, la cosa più probabile è che entrambe le dichiarazioni siano state scritte dalla stessa persona con una sorta di "copia e incolla" necessario per far coincidere le due versioni. Ma non sono solo queste le corrispondenze. Altri passaggi sembrano scritti con la carta carbone. Secondo i due testimoni, i "tiri malvagi" hanno provocato la "tragica morte dei cari amici e colleghi Valentine, alias Jalestin, e Ajesh Binke". Anche sulle loro condizioni dopo l'evento, la versione coincide in maniera sospetta. I due pescatori avrebbero subito una "indicibile miseria e una agonia della mente, una perdita di introiti. La nostra ordalia non è finita". Secondo Luigi Di Stefano, perito di parte che ha seguito la vicenda di Ustica, l'India non avrebbe dovuto consegnare queste carte al Tribunale di Amburgo. Che non aveva il compito di giudicare le responsabilità dei Marò, ma solo quale fosse il Paese legittimato a tenere il processo. Un modo quindi per ribadire la colpevolezza non dimostrata di Latorre e Girone, mossa che però ha fatto calare un velo di legittima dubbiosità sulla veridicità delle testimonianze. Non è tutto. Perché il più interessante dei documenti consegnati dai legali indiani ai giudici di Amburgo è l'autopsia che l'anatomo patologo K. S. Sasika fece sui due pescatori uccisi. Nella seconda pagina dell'allegato 4, infatti, si legge che il proiettile estratto dal cervello di Jalestine è troppo grande per essere uscito dalle armi dei fucilieri di marina. Quello misurato dal medico aveva un'ogiva di 31 millimetri, una circonferenza di 20 millimetri alla base e di 24 nella zona più larga. Le munizioni in dotazione ai Marò, invece, sono dei calibro 5 e 56 Nato. Il proiettile italiano misura solo 23 centimetri, quindi è evidente che quello estratto dalla testa del pescatore non possa essere stato esploso dai mitra Minimi e Beretta Ar 70/90 di Latorre e Girone. Infine, dalle carte si evince che il Gps del Saint Antony dove hanno trovato la morte i pescatori venne fatto recapitare dal capitano dell'imbarcazione non il giorno in cui attraccò al porto, ma solo 8 giorni dopo. Conservando tutto il tempo necessario a manometterne i dati.

Ecco le prove indiane a favore dei marò. Sul «Giorno» i documenti di Nuova Delhi al Tribunale del mare. Dalle munizioni alle testimonianze, l'accusa non regge, scrive Fausto Biloslavo su "Il Giornale". Gli indiani si incastrano da soli sul caso marò. Fra gli allegati consegnati al tribunale del mare di Amburgo, che ha sospeso la giurisdizione di Delhi sul caso, c'è pure l'autopsia sui due pescatori uccisi. L'India considera Massimiliano Latorre e Salvatore Girone colpevoli, senza processo, di aver sparato deliberatamente. Peccato che la misura del proiettile estratto dal corpo di una delle due vittime, Valentine Jelestin, non corrisponda a quello del calibro Nato dei fucili mitragliatori Beretta in dotazione ai marò. Lo rivela il quotidiano il Giorno grazie agli allegati indiani ottenuti da Luigi Di Stefano, uno dei periti della strage di Ustica, che ha seguito fin dall'inizio l'odissea dei fucilieri di Marina del reggimento San Marco. L'anatomo patologo K. S. Sasikala esaminò i cadaveri e poi fu «silenziato» dalle autorità indiane. Il documento del suo referto è l'allegato numero 4. Nella seconda pagina viene descritto il proiettile estratto dal cervello di Jelestin. Il patologo misura l'ogiva lunga 31 millimetri. L'impatto può averla rimpicciolita, ma si avvicina molto di più al proiettile calibro 7,62 dell'Ak 47, il fucile mitragliatore russo, che è lungo 39 millimetri. Uno schiacciamento di 8 millimetri risulta compatibile. I marò avevano in dotazione il Beretta Ar 70/90 che utilizza pallottole Nato calibro 4,56 di 45 millimetri. Difficile, se non impossibile che il colpo si rimpicciolisca di ben 14 millimetri. La circonferenza del proiettile fatale misurata dall'esperto indiano è di 20 millimetri alla base e 23 nella parte più larga. Anche queste misure sono poco compatibili con le cartucce usate dai marò. Se fosse stato veramente un kalashnikov ad uccidere i pescatori l'accusa ai fucilieri di Marina decade completamente. L'Ak 47 viene usato dalla guardia costiera dello Sri Lanka, che ha più volte sparato e ammazzato pescatori indiani accusati di gettare le reti al di fuori delle loro acque. Altra assurdità sono le deposizioni identiche allegate dagli indiani di due pescatori che erano a bordo con le vittime. Il comandante del peschereccio Freddy Bosco ed il marinaio Kinserian dichiarano senza ombra di dubbio, che alle 16.30 del 15 febbraio 2012 il loro peschereccio «finì sotto il fuoco non provocato e improvviso dei marinai Massimiliano Latorre e Salvatore Girone della Enrica Lexi». Ovviamente avevano individuato i marò pistoleri e storpiano il nome del mercantile italiano difeso dai fucilieri per le minacce di attacchi dei pirati alla stessa maniera dimenticando la «e» finale. Un verbale fotocopia, che ribadisce la linea ufficiale: i marò sono colpevoli dei «tiri malvagi» che hanno provocato la «tragica morte dei cari amici e colleghi Valentine, alias Jelastin, e Ajesh Binke». Fra i documenti indiani si scopre che il Gps del St. Anthony, il peschereccio colpito, è stato consegnato dal comandante Bosco alla polizia, assieme ad un computer malridotto, non all'arrivo nel porto del Kerala con i due cadaveri, ma ben otto giorni dopo, il 23 febbraio. A pensar male c'era tutto il tempo per manomettere i dati registrati dall'apparecchio. Non è mai stato chiarito perché lo stesso Bosco, una volta sceso a terra, davanti alle telecamere indiane, abbia dichiarato che la sparatoria era avvenuta alle 21.00, di sera e non alle 16.30, nel mezzo del pomeriggio. Un altro dettaglio interessante, che salta fuori dai documenti, è l'apparizione del vero proprietario del St. Anthony, un certo Prabhu. Il titolare decide di affondarlo perdendo inspiegabilmente una fonte di guadagno. «Misteri ed incongruenze sono tanti - spiega Di Stefano a il Giornale - In sole 5 paginette la polizia del Kerala dimostra, dopo aver ispezionato la petroliera italiana, il peschereccio colpito e visto le salme, che Latorre e Girone hanno sparato e ucciso. Questo è un castello di carte». Fra gli allegati ufficiali indiani non manca la fantasiosa ricostruzione della presunta fuga e caccia alla nave fantasma, che ha sparato ai pescatori. In realtà la Lexie aveva fatto subito marcia indietro verso il porto di Kochi quando gli indiani l'hanno richiesto. Il risultato è che i marò subiscono questa odissea da «1.300 giorni», come ha twittato ieri il deputato di Forza Italia, Elio Vito. Un' «ingiusta e illegale detenzione da parte dell'India - scrive - alla quale i vari governi italiani che si sono succeduti, da Monti a Renzi non hanno saputo mettere fine. Vergogna! Vergogna! Vergogna! #marò liberi».

Marò, il sospetto sui proiettili: arrivano dallo Sri Lanka? Scrive “Libero Quotidiano”. A quasi quattro anni dall'inizio del caso Marò, spunta una prova che potrebbe rivelarsi l'elemento chiave per risolvere, una volta per tutte, la questione che divide India e Italia. Il tutto ruota attorno a un proiettile. Come scrive Il Mattino, l'autopsia condotta dal dottor Sasika sui corpi dei due pescatori morti, ha aperto una nuova e cruciale pista che verte tutta sulla balistica. Il proiettile che è stato trovato nel cervello di Jalestine, uno dei due pescatori, è lungo 31 millimetri. E, proprio per questo dettaglio, si può dedurre che a spararlo non furono i nostri marò, che hanno in dotazione proiettili calibro 5.56x45 Nato, lunghi 23 millimetri, otto in meno del proiettile analizzato dunque. L'ipotesi Sri Lanka - Da dove viene allora quella pallottola? I proietti di quel genere e di quella lunghezza sono sparati solo da un tipo di arma: la Pk, una mitragliatrice kalashnikov usata soprattutto dai russi. L'arma è molto comune, tant'è che è stata usata in molti conflitti passati alla storia, dal Vietnam all'Afghanistan. E, oggi, a usarla ci sono, fra gli altri, anche le truppe indiane e la Marina dello Sri Lanka. I due paesi sono in conflitto per la gestione delle zone di pesca dei tonni, zone in cui proprio quel fatidico giorno, i due pescatori uccisi, stavano pescando. Dettaglio questo, che diventa ora cruciale. Pochi margini di errore - Da sottolineare, inoltre, che le armi in dotazione ai marò, anche se modificate, non avrebbero mai potuto sparare quel tipo di proiettile. Potrebbe essere dunque proprio da questa rigorosa, e con pochissimi margini di errore, perizia balistica che dipenderanno le sorti dei nostri fucilieri, nelle mani ora della corte di Amburgo. Tutto, o quasi, dipende da quegli 8 millimetri e da quello che i fori sui corpi dei due pescatori rivelano. Dal tipo di pallottola, al colpo sparato da molto, molto lontano, operazione quasi impossibile per i marò e per il tipo di armi che avevano con loro, sembra che siano arrivati gli elementi tanto attesi per provare la loro innocenza.

Il giallo dei Marò e la pista dei proiettili che porta alla Marina dello Sri Lanka, scrive “Il Messaggero”. Otto millimetri che fanno la differenza e che potrebbero aprire la strada al riconoscimento dell’innocenza dei due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Gli otto millimetri sono quelli di un proiettile di cui si sa anche chi lo ha prodotto e da quale arma è stato sparato. Dati con un margine di errore minimo emersi dall’autopsia che il dottor Sasika compì sui corpi dei due pescatori morti il 15 febbraio del 2012 e ora consegnata dall’India ai giudici del Tribunale di Amburgo. Nella seconda pagina dell'allegato 4 si legge che il proiettile che venne estratto dal cervello di Jalestine presenta un’ogiva di 31 millimetri e una circonferenza di 20 millimetri alla base e 24 nella parte più larga. A sparare quel colpo non possono essere stati quindi i nostri marò. Per un motivo molto semplice: i proiettili che avevano in dotazione i fucilieri di Marina sono dei calibro «5.56x45» Nato e la loro lunghezza è di 23 millimetri. Otto millimetri in meno, appunto, del proiettile ritrovato nella scatola cranica dell’indiano. C’è invece un unico proiettile che è compatibile con la lunghezza di 31 millimetri ed è il calibro «7,62X54 R». Proiettile utilizzato per la PK, la mitragliatrice Kalashnikov, arma prodotta in Russia ed entrata in servizio nel 1961 ma anche per la più moderna PKM fabbricata da Russia, Jugoslavia e Cina che la produce nella versione Tipo 80. Ad utilizzare questo tipo di arma sono i Paesi dell’ex Unione Sovietica, dell’ex Patto di Varsavia, dell’ex Jugoslavia e decine di altri nel mondo ma anche i contractors che si occupano di maritime security. Una mitragliatrice abbastanza comune quindi che è stata utilizzata in innumerevoli conflitti: in Vietnam, Cambogia, Afghanistan, Cecenia ma anche in Iraq e Libia. Oggi anche l’Isis se ne serve. Sono armi poco costose, di facile manutenzione e semplici da riparare in quanto i pezzi di ricambio si trovano facilmente in tutto il mondo. Le Forze Armate italiane non utilizzano munizioni di quel calibro, tantomeno del calibro più piccolo «7,62x39», quello che viene utilizzato per gli AK47 per intenderci. Quel giorno a bordo dell’Enrica Lexie vi erano solo Minimi e Beretta AR 70/90 che, come è risaputo, utilizzano proiettili calibro 5,56 x45 Nato, molto più piccoli del 7,62x54 R rinvenuto sul cadavere dell’indiano.

Ecco i documenti dell'autopsia che scagiona i nostri marò. Il documento prova che i proiettili in dotazione ai due fucilieri non sono compatibili con le ferite dei pescatori uccisi, scrive Giuseppe De Lorenzo su “Il Giornale”. Non sono stati loro. E' questo ciò che emergere dall'autopsia sui pescatori uccisi in India realizzata dal medico legale indiano, l'anatomo patologo K. Sasika. Non sono stati i marò. I documenti resi pubblici oggi da Dagospia, arrivano in soccorso di quanto già scritto nei giorni scorsi. I legali indiani, infatti, hanno consegnato al Tribunale di Amburgo il documento che fino ad ora era rimasto nascosto nei cassetti delle aule giudiziarie indiane. Nella seconda pagina dell'allegato 4, si legge chiaramente che il proiettile estratto dal cervello del pescatore Jalestine non è di quelli dati in dotazione alle truppe italiane. E' troppo grande. Il proiettile misurato dall'anatomo patologo, infatti, ha una ogiva di 31 millimetri, misura una circonferenza di 20 millimetri alla base e nella zona più larga arriva fino a 24 millimetri. Dalle armi dei Marò, invece, possono essere esplosi solo i colpi calibro 5 e 56 Nato, che misurano 23 millimetri appena, ben 8 millimetri in meno di quelli che hanno ucciso i pescatori. Impossibile dunque non capire che chi ha ucciso Jalestine non poteva usare i mitra Minimi e Beretta Ar 70/90 che invece portavano con loro Latorre e Girone. Quello che rimane da chiedersi, è come sia possibile che l'Italia, i suoi legali, i governi Letta e Renzi non siano riusciti ad ottenere prima l'accesso a questi documenti. Che arrivano a scagionare i Marò a 3 anni dall'inizio della loro ingiusta detenzione.

Proiettili troppo lunghi, marò, somali e cingalesi: cosa non torna, scrive Matteo Miavaldi su “Eastonline”, blog di controinformazione di cui doverosamente ne riportiamo la posizione. La scorsa settimana il Quotidiano Nazionale, con un articolo firmato da Lorenzo Bianchi, ha lanciato il "nuovo" scoop dei proiettili che scagionerebbero i marò. Bianchi, in realtà, si appoggia alle teorie di Luigi Di Stefano, perito di parte civile nel caso Ustica, che da anni sostiene l'innocenza e l'estraneità dei fucilieri di Marina nel caso di omicidio di Ajesh Binki e Valentine Jelastine, i pescatori morti a bordo del St. Anthony il 15 febbraio del 2012. Niente di nuovo, in verità, ma questa volta grazie allo zelo di Di Stefano abbiamo a disposizione parte dei documenti inviati dai legali di parte indiana al Tribunale del Mare di Amburgo, che il perito (grazie!) si è fatto spedire via mail direttamente da Amburgo. Si tratta di una documentazione molto densa e interessante, per chi segue il caso, che merita un'analisi fatta senza fretta per capire meglio cosa ci sia di "nuovo". Ma per ora, sulla storia dei proiettili, un paio di cose le possiamo dire. Di Stefano basa i suoi calcoli sui dati recuperati dal referto dell'autopsia compilato dal dottor K. Sasikala, medico legale di Thiruvananthapuram (Kerala), la persona che ha esaminato i corpi dei due pescatori. La parte che non torna a Di Stefano è contenuta nel referto che interessa Valentine Jelastine. Sasikala scrive di aver trovato nel cranio di Jelastine un proiettile lungo 3,1 cm. Troppo lungo, secondo Di Stefano, considerando che i proiettili in dotazione ai fucilierisarebbero solo calibro 5.56 per i fucili Beretta (6) e le mitragliatrici Minimi (2) che hanno in dotazione. Le ogive dei 5.56, dice Di Stefano, sono troppo piccole per combaciare col proiettile nel cranio di Jelastine; più probabile sia un calibro 7.62, che però i marò non possono sparare siccome, quoto dall'intervista a Di Stefano pubblicata recentemente sul Quotidiano Nazionale: «È una cartuccia molto diffusa in quell'area. È il proiettile dei mitra usati dai pirati della Somalia e dalla guardia costiera dello Sri Lanka sugli Arrow Boat. Gli italiani non hanno armi in grado di sparare pallottole così grosse». Un inciso prima di proseguire. Lo smontaggio probatorio di Di Stefano (e di chi lo riprende sui media nazionali, a quanto pare in molti) si basa su un solo proiettile tra quelli ritrovati tra i corpi delle vittime (nel corpo di Binki/Pink – diversa traslitterazione, ma è sempre lui – Sasikala ne trova uno lungo 2,4 cm, ad esempio); inoltre, l'esame balistico condotto dalla scientifica indiana (alla presenza di personale militare italiano mandato dalla nostra scientifica in qualità di osservatore) ha dato come esito la compatibilità di due delle armi da fuoco in dotazione ai fucilieri di Marina a bordo della Enrica Lexie. Più precisamente, il rapporto della balistica - ripreso poi nel rapporto dell'Ammiraglio Piroli consegnato alla Marina Italiana e pubblicato più di due anni fa in esclusiva da Repubblica - dice che le armi che hanno ucciso Binki e Jelastine hanno la matricola dei sottufficiali Andronico e Voglino, non di Latorre e Girone. E questo è un bel problema che, quando si aprirà il processo, dovranno sbrogliare le parti in causa. Anche il problema del proiettile troppo lungo, considerando i dati che abbiamo a disposizione, al momento rimane irrisolto. Qui non siamo esperti di balistica e se qualcuno che legge questo blog volesse dare un contributo scientifico sul discorso del proiettile troppo lungo – un secondo parere oltre a quello di Di Stefano - questo spazio è a totale disposizione. In presenza però di dati parziali- mancano, ad esempio, tutte le indagini successive condotte dalla National Investigation Agency (Nia), la polizia federale che ha preso in mano il caso dalla polizia del Kerala - prima di parlare di "prove definitive che scagionano i marò" sarebbe meglio aspettare almeno la pubblicazione completa dell'impianto accusatorio se non, pazza idea, il processo (quando e dove mai si aprirà). Per ora, è interessante notare come durante l'ispezione dell'Enrica Lexie, alla presenza del console generale Cutillo e dei maggiori italiani Fratini e Flebus, la polizia del Kerala nella cabina 405 trova – oltre ai fucili Beretta e alle mitragliatrici Minimi – anche una mitragliatrice 7.62 e una scatola da 250 munizioni per la suddetta mitragliatrice. Un'altra scatola di munizioni da 7.62 mm viene ritrovata anche nella cabina numero 329, assieme a munizioni da pistola di 9 mm. Quindi non è vero che a bordo della Enrica Lexie ci fossero solo armi e munizioni da 5.56 mme, come minimo, non si può escludere del tutto che i marò interessati nello scontro a fuoco (e a questo punto chissà se sono stati davvero Latorre e Girone o altri due fucilieri) non abbiano sparato anche dei proiettili calibro 7.62. Ammesso che quel proiettile «troppo lungo» sia effettivamente di un calibro 7.62. Abbiamo abbastanza dati per escluderlo? No. Ha senso incaponirsi, a distanza di tre anni, su dati parziali che escono alla spicciolata, senza aver accesso a tutto il materiale probatorio (che il Tribunale del Mare, rispondendo alla richiesta di Di Stefano, ha deciso di occultare parzialmente siccome alcuni documenti sono «confidential»)? Credo di no. Ha senso urlare allo scandalo, al complotto indiano, in presenza di documentazione parziale e sottendendo tra l'altro che gli indiani siano così imbecilli da consegnare al Tribunale del Mare di Amburgo dei documenti che gli si ritorcerebbe contro? Per chi scrive, no. Dopo una prima analisi superficiale dei documenti resi pubblici da Di Stefano - al quale, nonostante ci "confrontiamo" da tre anni in disaccordo più o meno su tutto ciò che riguarda il caso Enrica Lexie, va il mio ringraziamento per aver condiviso materiale sul quale lavorare -alcune cose non tornano nemmeno a me: ad esempio, non si capisce come mai la mitragliatrice 7.62 non sia stata provata durante l'esame balistico della scientifica del Kerala, e, mi pare, non figuri nemmeno tra le prove repertate. Non dobbiamo dimenticare che i documenti che abbiamo visionato finora si riferiscono esclusivamente alla prima parte delle indagini, condotte dalla polizia del Kerala; nel gennaio del 2013 il caso passa alla Nia, che conduce ulteriori indagini. Dell'operato della Nia, ad oggi, non sappiamo ancora assolutamente nulla. Infine, due parole e un disegnino sullo Sri Lanka e la Somalia. Di Stefano e chi lo riprende, ormai da oltre tre anni, insistono nell'incolpare dell'omicidio di Binki e Jelastine o i «pirati della Somalia» o la guardia costiera cingalese, che entrambi – in massa – popolerebbero le acque del Kerala «infestate di pirati». Come già ripetuto a questo punto centinaia di volte – e per chi vuole, lo ribadiscono anche gli avvocati di parte indiana ad Amburgo – i pirati somali in Kerala NON CI SONO. La Somalia è dall'altra parte dell'Oceano Indiano, a migliaia di chilometri di distanza dall'India, ed episodi di pirateria somala in India non se ne sono riscontrati. Per quanto riguarda il possibile coinvolgimento della guardia costiera dello Sri Lanka, come avevo già scritto sul blog Giap anni fa, trattasi di «panzana grottesca, considerando che le coste del Kerala affacciano ad Ovest mentre lo Sri Lanka si trova a Sud-Est rispetto ad un altro stato indiano, il Tamil Nadu! Gli scontri per le acque di pesca si verificano da anni tra il golfo di Mannar e la baia di Palk, le acque che dividono lo Sri Lanka dal Tamil Nadu. Il Kerala non c'entra nulla». Dove siano Kerala, Tamil Nadu e Sri Lanka lo potete vedere su Google Maps.

La vergogna dei marò traditi e abbandonati. Domani sono 36 mesi di calvario Errori a ripetizione e scelte sballate Così il nostro Paese si copre di ridicolo, scrive Antonio Angeli su “Il Tempo”. Domani, 15 febbraio 2015, scocca il terzo rintocco della vergogna italiana per i due marò Latorre e Girone, accusati in India di aver fatto il loro dovere di militari e di italiani. Tre anni fa, il 15 febbraio 2012, il mai chiarito incidente in acque internazionali e, poco dopo, il loro arresto. In qualunque parte del mondo una condanna a tre anni è dura per gli imputati e per le loro famiglie. Tanto più in Italia, dove i colpevoli di gravi crimini vengono denunciati a piede libero. Loro: Massimiliano Latorre, attualmente in convalescenza nella sua Taranto, e Salvatore Girone, agli arresti domiciliari nell’Ambasciata italiana di Nuova Delhi, tre anni di detenzione li hanno già scontati, con le loro famiglie. Ma non sono colpevoli. Colpevole è invece una politica ondivaga e incerta, portata avanti da tre presidenti del Consiglio, un commissario straordinario, tre ministri della Difesa più cinque degli Esteri, uno dei quali (Emma Bonino) arrivò perfino ad affermare che noi italiani non sapevamo se i marò sono colpevoli o innocenti. E a ben poco è servita la determinazione dell’attuale esecutivo unita a quella del Capo dello Stato che, appena eletto, ha messo i nostri marinai del San Marco in cima alle priorità del Paese. Perché le cose cambiano anche in India e il «nuovo interlocutore», il premier Narendra Modi, che ha stravinto le elezioni la scorsa estate, ha ora preso una sonora bastonata nelle locali, ma importanti, consultazioni a Nuova Delhi. Così oggi il ministro Gentiloni, che confidava nella «trattativa riservata», ha di fronte un uomo sconfitto. Tanto che Narendra Modi ha gelato i suoi sostenitori, a pochi giorni dall’inaugurazione di un tempio e di una statua consacrate in suo onore, che lo levavano a rango di semidio, a Rajkot, nel Gujarat, stato nel quale il premier è stato per anni primo ministro. Ora si è detto «costernato» e ha pregato i suoi sostenitori di dedicare quel tempio a qualche altra divinità. Cose che accadono in India. E in Italia, nonostante lo sdegno di big della politica come Elio Vito (FI), Ignazio La Russa (FdI) e l’ex ministro e ambasciatore Giulio Terzi, la vita prosegue come sempre, tanto che giusto ieri l’Ice, l’Agenzia per la promozione e l’internazionalizzazione delle imprese italiane all’estero, ha siglato un accordo di rappresentanza in Italia della manifestazione fieristica indiana «Everything About Water», l’esposizione specializzata dedicata al settore del trattamento delle acque, un «big business» del futuro. «Sono passati tre anni - commenta il Cocer, il sindacato delle stellette - da quando i nostri connazionali, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sono stati trattenuti in India. Oggi, a tre anni di distanza, la situazione è ancora incredibilmente indefinita». E mentre l’Italia continua, in qualche modo, a partecipare alle missioni internazionali, la compagna di Latorre dà voce alla speranza di tutti gli italiani: «L’unica cosa che mi sento di dire, l’unica parola che vorrei dire, è la parola fine». Grazie a Paola Moschetti: l’unica parola che vorremmo sentire su questa vicenda è: «Fine».

Il blitz per liberare i marò? Grasse risate con Libero, scrive Mazzetta su “Giornalettismo”. In un sondaggio tra i lettori ieri Libero ha chiesto: «sareste favorevoli a un blitz militare per liberarli?». Perfetto accoppiamento con il piano redatto all’epoca dall’esperto Gianandrea Gaiani. Libero si segnala ancora una volta per le esibizioni finto-patriottiche sul caso marò, roba che sembra ispirata ai diari di Galeazzo Musolesi, ma che al lettore-tipo del quotidiano sembra piacere moltissimo. Dopo le «rivelazioni» di un giornalista del QN, Lorenzo Bianchi, su perizie delle quali si sarebbe accorto solo ora e solo lui, Libero ha deciso che i marò sono palesemente innocenti e quindi che la loro vicenda è divenuta ancora di più insopportabile per l’orgoglio nazionale. Ecco allora spuntare il sondaggio, al quale più dell’80% dei rispondenti ha detto sì (c’è stato anche chi l’ha fatto a sfottere), ideale complemento dell’articolo dell’esperto che spiegava come si potrebbe fare il blitz. Una «provocazione» è segnalato a margine, non sia mai che qualcuno accusi la testata di fomentare odio contro gli indiani o di chiedere davvero un blitz militare contro un paese che ha più di un miliardo e duecento milioni di abitanti ed è una superpotenza nucleare. Gianandrea Gaiani si è già occupato di marò, ma senza brillare. È riuscito anzi a validare sul Sole 24ore la buffa perizia del sedicente ingegnere di Casapound, Luigi Di Stefano. Anche in questo caso si rivela parecchio deludente, ecco il suo piano: Gli uomini dell’intelligence militare non hanno avuto difficoltà ad affittare una piccola imbarcazione da pesca sportiva senza dare troppo nell’occhio in un’area come quella di Kochi visitata da numerosi turisti stranieri. Nella tarda serata all’Embarkation Jetty, l’imbarcadero a nord dell’isola di Willingdon, non c’è mai molta gente e nell’oscurità nessuno ha fatto caso ai quattro uomini arrivati a bordo di un furgoncino Tata che aveva percorso tutta la Malabar Road per salire a bordo del piccolo motoscafo. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone hanno lasciato le loro camere all’albergo Trident, nell’isola di Willingdon ad appena 500 metri dall’aeroporto militare, utilizzando un ingresso di servizio nascosti all’interno di due carrelli utilizzati per il trasporto della biancheria. Gli agenti della polizia indiana che sorvegliano con discrezione e in abiti borghesi i movimenti dei due fucilieri da quando hanno ottenuto la libertà su cauzione li credono nelle loro camere (dove due militari della delegazione italiana tengono luci e televisione accesa) e non fanno caso a un furgone Tata che si dirige a nord lungo la Bristow Road. Segue un breve tragitto in barca fino al nostro sottomarino Scirè, che a Gaiani piace tanto e che ne dovremmo essere orgogliosi in quanto esempio d’italico ingegno, anche se è un progetto tedesco. Sottomarino che poi fila rapido e invisibile verso casa. Un piano di una pulizia esemplare, anche se forse c’è da ripensare la mossa del cesto della biancheria che è un po’ troppo inflazionata e forse banale, se non fosse che Gaiani mostra di non essere a conoscenza di fatti che lo rendono irrealizzabile. Prima di tutto in India c’è un solo marò, perché Salvatore Girone è in Italia, ma ancora prima c’è che quando abbiamo ipotizzato di non far tornare i marò dalla licenza loro concessa in Italia, l’India ha minacciato di trattenere altri italiani, cominciando dal nostro ambasciatore. Il problema non è quindi nel come farli venire via, ma nel far venire via tutti o nel farli venir via i marò senza irritare l’India. E l’idea di un blitz militare non sembra proprio la più adatta allo scopo. Poi c’è anche che il marò rimasto in India, Massimiliano Latorre oggi non sta più all’albergo Trident di Kochi da un bel pezzo, si trova infatti nella capitale, ospite da tempo della nostra ambasciata insieme al commilitone ora in licenza. Da tanto tempo che già sono emersi problemi di convivenza con la moglie dell’ambasciatore. A differenza di Kochi e dell’abergo Trident, l’ambasciata di New Delhi dista circa un migliaio di chilometri dal mare, un po’ troppi per pensare che l’uso dello Scirè resti un’opzione praticabile o che sia una buona idea quella di trasportare attraverso tutta l’India Latorre, l’ambasciatore e la famiglia (quantomeno) all’interno di cesti per la biancheria. Che poi l’ambasciata non è un albergo, servirebbe proprio un altro trucco al posto dei cesti. Fatti rilevanti e considerazioni che Gaiani che ha mancato. Un vero peccato. E pensare che in fondo all’articolo Gaiani pregusta addirittura il successo di cotanta beffa e volge il ricordo commosso alle imperiture gesta dei nostri eroici marinai: Per questo l’unica risposta che l’Italia può dare a Nuova Delhi è riportare a casa Latorre e Girone con l’astuzia e un colpo di mano che rinnoverebbe (senza sparare un colpo e senza affondare una sola nave), le gesta degli incursori che nella Prima guerra mondiale violarono la base navale austriaca di Premuda e nella Seconda quelle britanniche di Alessandria e Gibilterra. Una beffa che darebbe una lezione all’arroganza dell’India e qualche punto all’orgoglio nazionale di un’Italia che oggi più che mai ha bisogno di eroi. Sul bisogno d’eroi non m’esprimo, ma è mia opinione che buffonate del genere non facciano il bene del paese e neppure quello dei marò. Purtroppo non finirà qui, attorno ai maro’ si è raccolto un circo di patrioti da operetta, perfettamente allineato a Libero per stile e qualità. Lo spettacolo continuerà e non mancheranno altre esibizioni del genere.

I due Marò abbandonati e traditi da due governi, la Bonino fa melina, Letta non chiede l'arbitrato internazionale, scrive Fernando Termentini su “Veritalia”. Il Temporeggiatore tiene lontano Annibale da Roma! Tra poche ore sapremo il destino dei nostri Fucilieri Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, o meglio NON  sapremo il loro destino, vi sono molti strani indizi che lasciano pensare che domani la corte suprema indiana rinvierà ulteriormente la decisione su questo sequestro che si trascina da due anni con la complicità di due governi Italiani vergognosi, che per motivi oscuri lasciano il pallino del gioco in mano indiana e non si attivano con l' unica procedura che il diritto internazionale prevede, l' arbitrato internazionale, uno strumento per dirimere le controversie fra stati. Da tanto tempo denunciamo il non fare da parte della signora Ministro Bonino e del Presidente Letta che da novelli Ponzio Pilato, hanno incaricato il bellimbusto già scelto dal Governo Monti Staffan De Mistura per ... " non fare niente " , ascoltando le notizie provenienti dai ridestati media ci rendiamo conto che sta per andare in scena l' ennesima truffa verso i cittadini da parte di questo scellerato Governo, hanno avuto oltre 10 mesi per agire, ma tolto il sintetico commento di Enrico Letta il giorno dell' insediamento " i Marò sono una priorità di questo esecutivo ", si è scelto di seguire  la linea raccontata da Livio nel famoso verso " Fabius quoque movit castra... " La cosa assurda è che questa tattica usata da Quinto Fabio Massimo passato alla storia come il Temporeggiatore, non impedì ad Annibale di distruggere l' esercito Romano l' anno seguente nella battaglia di Canne in Puglia,  (la più grande disfatta mai subita dai Romani ). Continua a serpeggiare il dubbio che questa vicenda sia legata a doppio filo alla vicenda delle tangenti versate a personaggi vicino a Sonia Gandhi per la fornitura degli ormai famigerati elicotteri, e guarda caso nel momento in cui il governo Indiano ha cancellato la commessa a Finmeccanica l'arbitrato internazionale è stato prontamente richiesto. Ipotizziamo a questo punto, e nemmeno dobbiamo sforzarci di fantasticare tanto che:

1) La sentenza è già concordata, si tratterrà di una pena inflitta dal tribunale indiano che dovrà sembrare una vittoria per l'opinione pubblica Italiana, dopo che è stato fatto terrorismo mediatico paventando la pena capitale per i due Fucilieri.

2) si ritarderà ulteriormente il processo, facendo in moto che la fine del processo slitti a dopo le elezioni indiane, (a tal riguardo segnaliamo le proteste dei pescatori orchestrate con perfetto tempismo in Kerala a due giorni dalla decisione della corte suprema).

3) in virtù dell'accordo tra i due stati per far scontare le pene ai condannati nel paese d' appartenenza firmato dal governo Monti, ci sarà il rientro in Italia dei Fucilieri, ma da condannati.

4) l' unico esponente di un certo livello che ha sempre ribadito che l' unica via percorribile per far tornare in Italia Max e Salvo è l' ex Ministro degli affari Esteri Giulio Terzi di S. Agata che con un moto di orgoglio diede le dimissioni dall' incarico poichè non si sentiva di avallare il sequestro dei Fucilieri con la compiacenza del caro Monti e le pressioni dei gruppi economici portate da Corrado Passera nel vergognoso consiglio dei ministri in cui fu deciso il rinvio in India di Max e Salvo.

5) circola in rete da poco tempo una perizia alquanto fantasiosa che sicuramente è stata richiesta dai poteri forti per far passare l'accaduto come una fatalità, e quindi ammettere la versione indiana che a nostro avviso in qualsiasi tribunale porterebbe ad una assoluzione per insufficienza di prove.

6) a conferma dei punti precedenti vi è l' intenzione indiana di istituire un processo in base ad una legge speciale che porta l' imputato a dover dimostrare la propria innocenza, cosa alquanto inaudita e fuori da ogni correttezza tipica da un tribunale che normalmente dovrebbe basare tutti i procedimenti sulla presunzione di innocenza lasciando che sia la pubblica accusa a presentare le prove, non a caso questa legge, la famigerata Sua Act è usata contro i terroristi ed ha una polizia speciale incaricata delle indagini.

7) ultimo punto... ricordiamo ai lettori l' appello lanciato ai giornalisti presenti all' ambasciata Italiana in occasione della visita della delegazione parlamentare a Delhi da Massimiliano Latorre, " raccontate la verità ", ed eccola la verità, i nostri uomini sono innocenti e saranno processati e condannati per favorire le due caste, quella indiana arcinota e quella Italiana occulta, di seguito il contributo video che non manchiamo di sottolineare, e un interessante scritto del Gen. Fernando  Termentini, uno dei pochi a condannare vivamente questo sequestro indiano e la " ammuina " italiana. Il comandante in seconda della nave Enrica Lexie, dice ai microfoni di Radio Capital le seguenti parole " non sono stati i Marò a colpire i pescatori" ed ecco l'interessante articolo da leggere a fondo: Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, cosa accadrà il 10 febbraio. Domani, 10 febbraio 2014, la Corte Suprema indiana dovrebbe emettere il verdetto decisivo su come procederà sul piano giudiziario nei confronti dei due nostri Fucilieri di Marina ceduti dall’Italia all’India per un’indebita azione penale e contro ogni dettato del diritto internazionale e di quello pattizio. Una storia dai connotati molto oscuri che trova origine da due atti fondamentali. L’assoluta disattenzione indiana del Diritto internazionale e della Convenzione del Mare (UNCLOS) per quanto attiene alla collocazione di dove dovrebbero essere avvenuti gli eventi, 20,4 miglia dalla costa, assolutamente in acque internazionali. La totale noncuranza italiana per non aver preteso l’applicazione del diritto di immunità funzionale riconosciuto dal diritto pattizio a tutti i militari del mondo, se coinvolti in eventi gravi in occasione dell’espletamento del compito loro assegnato dallo Stato di appartenenza. Prerogativa peraltro riconosciuta dall’India ai suoi militari anche nel caso di reati volontari come avvenuto recentemente in Congo dove due soldati inquadrati nel contingente di pace Onu hanno stuprato una donna. Una data fondamentale il 10 febbraio, dopo 24 mesi di gioco delle tre carte gestito da un’India disattenta alle regole, poco rispettosa dell’Italia, ma molto sensibile alle pressioni interne esercitate da caste potenti, qualcuna forse vicina anche alle organizzazioni malavitose locali complici della pirateria marittima. Cosa deciderà la Corte Suprema indiana non è facile prevederlo, qualsiasi ipotesi potrà essere sconfessata considerata la elasticità di interpretare ed applicare le leggi in vigore nel Paese, come è fino ad ora avvenuto. Un esempio fra tutti, la decisione del 18 gennaio 2013 della Suprema Corte che pur ammettendo che i fatti fossero avvenuti in acque internazionali, decideva di instituire un Tribunale Speciale con un giudice monocratico al quale affidare il caso incaricando la NIA di svolgere le indagini. Siamo arrivati ad oggi passando da una serie di rinvii di giudizio non sempre motivati, accompagnati però da parole di estremo ottimismo di molti rappresentanti istituzionali italiani. Per costoro tutto sarebbe dovuto terminare entro dicembre 2013 e Massimiliano e Salvatore avrebbero trascorso liberi il Natale a casa. Certezze avvalorate da affermazioni di condivisione dell’approccio indiano alla vicenda, come quelle ufficializzate a maggio u.s. dal Vice Ministro agli Esteri Pistelli quando, pur male informato sullo status dei due Fucilieri di Marina da lui chiamati “Lagunari”, ci riferiva di “Regole di ingaggio” condivise e sottoscritte con l’India.  Il tutto accompagnato dalle continue assicurazioni del dott. Staffan de Mistura sulla sicurezza di un processo equo e rapido, completamente mutuate in più di un’occasione dal Ministro degli Affari Esteri Emma Bonino, in verità, però, sempre molto distaccata dal caso forse perché allergica alla foggia delle uniformi militari. A qualche ora dalla decisione che tutti aspettiamo dall’India la notizie si accavallano e, come di consueto, molte sono in contraddizione tra loro con lo scopo di portare avanti l’azione di disinformazione in corso da 24 mesi focalizzata a ribadire la colpevolezza dei nostri Marò e nello stesso tempo a presentare al mondo “un’India comprensiva e pronta a concedere”. Domani, quasi sicuramente, la Suprema Corte ci dirà che i due Fucilieri di Marina saranno giudicati non più per atti di terrorismo, ma perché colpevoli di un atto di violenza in mare, un reato che prevede un ampio ventaglio di sanzioni, compresa la pena di morte. Pena capitale che, però, non sarà applicata dalla “magnanima India”, prevedendo solo dieci anni di carcere. Ieri sera una serie di notizie da Delhi confermano queste ipotesi. L’opinionista Siddharth Varadarajan, Accademico ed ex direttore Hindu dichiara “Quando il processo nei confronti dei marò comincerà, la questione della giurisdizione indiana potrà essere contestata dall'Italia", come peraltro contemplato nella sentenza della Corte suprema del gennaio 2013. La difesa italiana - ha aggiunto - potrebbe presentare un secondo ricorso anche presso la stessa Corte suprema che un anno fa aveva sottratto il caso alla polizia del Kerala”, ma in questo caso “i tempi si allungherebbero notevolmente". ''The Asian Age'' ricorda che dopo avere dato il via libera alla Nia di perseguire Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sulla base del Sua act, adesso il Ministero dell’Interno ha rivisto la sua posizione e i due fucilieri di Marina saranno processati con una legge che prevede un massimo di reclusione di 10 anni e una multa.  The Times of India sostiene che il ministero dell'Interno ha mantenuto l'uso della Legge per la repressione della pirateria (Sua Act del 2002) disponendo che sia applicato l’art.3 comma 'a' che prevede che chi "commette un atto di violenza contro una persona a bordo di una piattaforma fissa o una nave e che mette in pericolo la navigazione sicura di essa sarà punito con la prigione per un periodo che può giungere fino a dieci anni ed è sottoponibile a multa". The Indian Express, da parte sua, ribadisce che contro Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sarà applicata la sezione 302 del Codice penale indiano che implica una possibile condanna a morte, anche se “la possibilità per gli imputati di essere condannati alla pena capitale - conclude il giornale - è' davvero bassa”. Nessun giornale indiano ci dice però come New Delhi intenda uscire da questa nuova situazione estremamente confusa, lasciando in sospeso l’importantissima decisione a quale agenzia sarà affidato il caso, con un sicuro e scontato allungamento dei tempi. Il dott. de Mistura, da parte sua, rilascia un’intervista al quotidiano Il Tempo nella quale ci ricorda che “Lunedì sarà il giorno della verità” e che “Ora l'accusa deve scoprire le sue carte e per ognuna di queste abbiamo pronte le contromosse”. Parole rassicuranti, ma poco concrete. Infatti se la Corte indiana deciderà di applicare la SUA pur derubricando il reato da evento terroristico ad atto di violenza, l’accusa non sarà tenuta a scoprire alcuna carta perché l’ordinamento giuridico indiano con riferimento alla SUA prevede che chi dovrà scoprire le proprie carte deve essere la difesa dei due Marò per affermarne l’innocenza. ll dott. de Mistura precisa, anche, che lunedì 10 non potrà essere considerato come  "il giorno del giudizio", ma dimentica di chiarirci se il giudice potrebbe accogliere l’istanza della pubblica accusa sulla revoca dell’affidamento giudiziario all’Ambasciata italiana  dei due Fucilieri, nel qual caso si potrebbe prospettare l’arresto dei due. Conclude l’intervista con la frase “Ora dobbiamo riportare a casa con onore Girone e Latorre”. Non possiamo condividere queste conclusioni perché non si può accettare che si parli di onore dopo aver riconosciuto all’India l’indebito diritto di giudicare ed emettere una sanzione detentiva di dieci anni. Sicuramente se tutto ciò avvenisse la vicenda non verrà conclusa con un “soluzione onorevole” anche se in molti si impegneranno per dimostrala tale. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone appartengono alle nostre Forze Armate e sono stati catturati e detenuti in modo assolutamente illegittimo dall'India mentre erano in missione antipirateria nell'interesse di tutta la Comunità internazionale. Latorre e Girone devono essere restituiti all'Italia "con onore", come ha sottolineato lo stesso Capo dello Stato e quindi rimandati in Patria senza alcuna condanna nei loro confronti e non “portatori di condanne concordate” attraverso non meglio definite regole di ingaggio di cui si è parlato, per poi essere restituiti all’Italia in base all’accordo bilaterale dell’agosto 2012 sulla gestione dei condannati italiani o indiani. Qualsiasi cosa sarà decisa domani non sarà un episodio che riguarderà solo Latorre e Girone. Ogni decisione diversa da un immediato rimpatrio dei Fucilieri di Marina senza alcun addebito nei loro confronti, rappresenterebbe, infatti, un precedente aberrante e pericolosissimo per tutti i nostri soldati impegnati in missione all'estero. Se accettato dall’Italia, sancirebbe la rinuncia esplicita alla Sovranità nazionale sulle sue Forze Armate con una ricaduta assolutamente negativa sul ruolo internazionale del Paese e soprattutto sulla sua credibilità nel tutelare all'estero i nostri connazionali e le nostre imprese. Alla luce di quanto noto, invece, domani con ogni probabilità si attuerà quanto condiviso e sottoscritto fin dall’inizio fra Italia ed India come ci ha raccontato a maggio u.s. il Vice Ministro Pistilli, magari con una postilla aggiuntiva all'accordo: i Fucilieri una volta condannati rientreranno in Italia solo dopo che esponenti del governo indiano verranno esclusi da qualsiasi coinvolgimento con le vicende giudiziarie di Finmeccanica. Un altro pezzo importante della storia della nostra Nazione gestito con frettolosa segretezza senza il coinvolgimento dell’opinione pubblica e del Parlamento. La storia si ripete, accadde anche il 10 novembre 1975 quando Italia e Yugoslavia firmano un Trattato per trasferire alla Yugoslavia la sovranità statuale sulla Zona B del Territorio libero di Trieste. Forse proprio anche a questa tradizione tutta italiana si riferiva il Ministro degli Esteri Bonino quando più volte in questi mesi si è richiamata ad una “secret diplomacy” di kissingeriana memoria ed ha sempre invocato la massima riservatezza. Quello stesso Ministro che ora si indigna se l’India decidesse di applicare comunque la Sua Act, come ha dichiarato ieri sera alla stampa dicendo, "Talune anticipazioni che provengono oggi da New Delhi sull'iter giudiziario del caso dei nostri fucilieri di Marina mi lasciano interdetta e indignata”.  Forse Signora Ministro la sua indignazione non sarebbe tale se si fosse esposta per caldeggiare la sorte dei due militari italiani. Piuttosto, la sua scelta di rilanciare al Premier l’onore della decisione in una questione di politica internazionale di primaria importanza non le danno il diritto di indignarsi. Piuttosto, almeno si impegni perché martedì si dimetta chi fino ad ora ha confidato in soluzioni “eque, rapide e giuste” e sia dato immediato corso alla costituzione di una Commissione di inchiesta Parlamentare che accerti le responsabilità oggettive di chi ha deciso il 22 marzo 2013 di restituire i nostri militari all’India, i motivi che hanno indotto a tale decisione e perché non sia stato avviato l’Arbitrato Internazionale.

Terzi: "Monti ha tradito i nostri marò", scrive Maria Giovanna Maglie su “Libero Quotidiano”. «Sì, lo confermo: nel mese di luglio il presidente della Croce Rossa Internazionale ha offerto al governo italiano i buoni uffici dell’organizzazione, e non ha mai avuto risposta. È profondamente sbagliato immaginare la risoluzione di una vicenda seria e grave di politica estera attraverso la scorciatoia di una malattia o di un malore pur seri, ma se quell’offerta fosse stata presa in considerazione come doveroso, oggi riportare a casa i marò sarebbe più semplice. Sottolineo anche che nel contenzioso su Finmeccanica, nonostante la contrarietà degli indiani, un arbitro internazionale è stato nominato per decisione del presidente della Camera di Commercio internazionale: a dimostrazione che, se si tratta di affari, decisioni anche conflittuali si prendono in sedi internazionali. Ma per due militari che hanno compiuto il proprio dovere la debolezza è micidiale, le chiacchiere nauseanti. Sono passati 523 giorni e tre governi: è una macchia indelebile sulla nostra dignità di nazione». Se c’è uno che la storia dolorosa di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone la conosce nelle pieghe, nelle miserie, nei retroscena, è Giulio Terzi di Sant’Agata, ministro degli Esteri del governo Monti fino al giorno di clamorose e pubbliche dimissioni in risposta all’imbroglio della riconsegna all’India dei due marò. Terzi è una figura rara di public servant, una carriera brillante culminata come ambasciatore in posti chiave come Israele, le Nazioni Unite, Washington, prima della nomina alla Farnesina. Per un anno si è beccato con stile accuse e insulti, anche i miei, perché lavorava silenziosamente a un arbitrato internazionale che consentisse di non far rientrare i due marò in permesso in Italia senza violare alcun accordo né commettere scorrettezze. Gli era riuscito, poi ha capito quale gioco sporco si stesse giocando. E ha deciso per il beau geste, la denuncia pubblica. Trasformandosi in testimone scomodo per chiunque si provi a ciurlare nel manico, a fare annunci muscolari a cui seguono solo inerzia e complicità.

«Appena ho avuto notizia di questo incidente, avvenuto fuori dalle acque territoriali indiane, e della richiesta della Guardia Costiera indiana di far invertire la rotta alla Enrica Lexie per indirizzarla verso il porto di Kochi, ho subito detto che la nave non doveva lasciare le acque internazionali. Dovevamo tenere la nostra nave e i nostri militari in sicurezza: in acque internazionali la giurisdizione italiana sulla propria nave di bandiera era incontestabile. La risposta che mi arrivò mi sorprese e irritò: mi riferirono che l’incidente si era verificato diverse ore prima, e che la nave aveva già invertito la rotta, eseguendo ordini e indicazioni del ministero della Difesa: perciò, nel momento in cui mi era stata fatta la prima comunicazione, si trovava già circondata da unità della Guardia Costiera indiana, e molto vicino al porto di Kochi. Chiesi subito copia di tutte le comunicazioni tra Unità di Crisi della Farnesina e Autorità militari, e dovetti constatare con estremo disappunto che il ministero della Difesa aveva informato l’Unità di Crisi della Farnesina soltanto parecchie ore dopo».

Veniamo ai giorni dello scandalo. Lei annunciò la decisione di trattenere definitivamente i marò che per la seconda volta erano in permesso in Italia, ma dopo qualche giorno furono costretti a ripartire per l’India, e lei si dimise. Che cosa accadde?

«Il primo ritorno dei nostri sottoufficiali in Italia, il “congedo natalizio” a fine 2012, lo avevo ottenuto personalmente a seguito di una conversazione con il mio omologo indiano Salman Khurshid, come gesto simbolico di distensione dell’India nei confronti dell’Italia per il prosieguo di questa vicenda. Lo ottenemmo sulla base di un affidavit, che poi venne replicato anche per la licenza elettorale del febbraio-marzo successivo. Nell’affidavit avevamo inserito una clausola importante: il governo italiano s’impegnava, tramite l’ambasciatore a Nuova Delhi, a fare “tutto il possibile” per far tornare i marò in India a fine licenza. Ciò significava che se la magistratura italiana, presso la quale erano aperti da inizio novembre 2012 due procedimenti penali per l’incidente che veniva addebitato a Latorre e Girone (uno presso la Procura militare e uno presso quella ordinaria), avesse trattenuto il passaporto ed emanato misure cautelari, impedendo che i due ripartissero dall’Italia per tutto il periodo delle indagini e del processo, nessuno avrebbe potuto dire nulla». «Al primo rientro dei due marò chiesi al presidente del Consiglio Monti di sollecitare la Procura di Roma, come avvenuto in altri casi, ad esempio quelli di Lozano e Baraldini. Quando Latorre e Girone tornarono per votare, in febbraio, vi era peraltro stato un nuovo importante sviluppo. Il 18 gennaio la Corte Suprema indiana aveva emanato una sentenza sul ricorso inoltrato dai legali di Latorre e Girone: per la Corte Suprema l’incidente nel quale era incorsa la Lexie configurava un’azione antipirateria avvenuta al di fuori delle acque territoriali indiane, e quindi era coperta dall’articolo 100 del Trattato UNCLOS (la Convenzione Onu sul Diritto del mare). Poteva allora entrare in campo l’arbitrato, previsto quando le consultazioni bilaterali non hanno dato esito. L’arbitrato può essere di due tipi: consensuale se i due Paesi nominano di comune accordo i loro arbitri; obbligatorio se una delle due parti non accetta l’arbitrato. La nazione che accetta l’arbitrato, a discapito di chi lo rifiuta, può chiedere la nomina d’ufficio e procedere comunque. In quel febbraio del 2013, dunque, dopo consultazioni interministeriali approfondite, si decise di chiedere formalmente all’India l’attivazione di un arbitrato consensuale. L’India rispose che non voleva saperne, reiterò questa risposta negativa ripetutamente. A quel punto il governo italiano annunciò di voler trattenere in Italia i marò fino a che l’arbitrato obbligatorio, che parallelamente stavamo attivando, non avesse stabilito quale Paese avesse giurisdizione. Tutti eravamo d’accordo, facciamo un comunicato del governo in due occasioni diverse, a distanza di una settimana, e lo inviamo a 150 sedi su tutta la rete diplomatica. I toni indiani ovviamente montano, comprese le dichiarazioni di Sonia Gandhi, ma era scontato».

Non mi pare che ci fossero dei pericoli, la vicenda veniva finalmente riportata sui binari del diritto internazionale. Certo, si apriva formalmente una controversia fra due grandi Paesi, ma c’erano tutti gli estremi per gestirla in modo civile. Invece...

«Invece il 21 marzo parte una convocazione del presidente del Consiglio per una riunione riservata dei ministri più interessati alla vicenda. Il giorno precedente alla convocazione avevo ricevuto un paio di telefonate nelle quali mi si allertava che un collega di governo si stava agitando freneticamente perché temeva per gli interessi economici in India, e riteneva che i due marò dovessero essere rispediti indietro immediatamente. Mi preparai a sostenere con il dovuto vigore la validità di una linea che era stata sino a quel punto fortemente condivisa soprattutto dai ministri della Difesa e della Giustizia, oltre che dal premier. Ma, con profonda tristezza, mi resi conto che ero rimasto solo. Nonostante la mia netta opposizione ci si rivide la mattinata successiva, e lì la decisione era stata presa. Il giorno dopo, il ministro della Difesa Di Paola e il sottosegretario de Mistura andarono a convincere Latorre e Girone affinché ripartissero. Fornirono garanzie che tutto si sarebbe risolto in poche settimane: sappiamo che non ce n’erano. Ecco perché decisi di dare le dimissioni. Provai un grande dolore nel constatare di dover rappresentare nel mondo un Paese che si comportava dando così scarso valore alla propria sovranità e interesse nazionale». «Quel politico che si agitava era Corrado Passera, ma evidentemente Monti, Di Paola e gli altri erano d’accordo. A me risulta che Di Paola e de Mistura, oltre che dare garanzie, minacciarono pesantemente i due marò. Non solo non hanno pagato, hanno avuto vistose ricompense. È passato un anno e mezzo da quei momenti, prima c’è stato un inutile governo Letta poi un bellicoso Renzi, che appena insediato chiamò i marò e promise azioni efficaci. Che cosa è stato fatto?». Non è stato fatto assolutamente nulla.

La coerenza è merce rara, ma in Italia la conosce solo la mafia, scrive Eugenio Scalfari su “La Repubblica”. Qualche tempo fa, prendendo spunto dalle parole pronunciate da papa Francesco che giudicava la povertà come il più grave male che affligge il mondo degli umani, dedicai il mio articolo a quel tema il quale non si limita a dividere gli abitanti del nostro pianeta in ricchi e poveri. Da questa (crescente) diseguaglianza nascono una serie di altri malanni: la sopraffazione, le più varie forme di schiavitù sia pure chiamate in modi diversi, l'invidia, la gelosia, la corruzione, il malgoverno, le rendite parassitarie e perfino guerre e sanguinose rivoluzioni. Anche oggi utilizzerò parole recentissime di Francesco che hanno come tema la coerenza. "Gli uomini e le donne  -  ha detto  -  dovrebbero comportarsi in modo coerente con il loro pensiero e la loro visione della vita, ma purtroppo molto spesso le cose non vanno così. Accade che coloro che si dichiarano cristiani e pensano di esserlo, nella realtà vivono da pagani mettendosi sotto i piedi ogni straccio di coerenza. Questo è un peccato gravissimo e non deve più accadere. La Chiesa sarà molto vigile su questo peccato di incoerenza che ne provoca molti altri, fuori dalla Chiesa ma anche dentro la Chiesa". Francesco ha detto queste parole dal balcone del Palazzo Apostolico ad una piazza gremita e quando ha pronunciato la frase sulla gravità del peccato di incoerenza ha gridato quelle parole a voce altissima con quanto fiato aveva in corpo. Questo è dunque il tema sul quale oggi vi intratterrò: la coerenza, la sua frequentissima violazione e i danni gravi che ne derivano. Ed ora la coerenza. Mi è rimasto meno spazio di quanto pensassi ma qualcosa dirò. Noi non siamo un Paese abitato da persone coerenti. Parlo naturalmente di coerenza nei rapporti con la società e quindi con la vita pubblica e le istituzioni che la rappresentano. Noi non amiamo lo Stato, non amiamo le Regioni (che del resto fanno poco o nulla per meritarselo). Non amiamo i giudici e i loro tribunali. Insomma non amiamo chi emette regole alle quali dovremmo attenerci. Detestiamo le tasse e cerchiamo di evaderle. Noi amiamo il "fai da te". È una libertà? Certo è una grande e importante libertà, ma con un limite: la puoi applicare in pieno purché non danneggi gli altri e la società che tutti ci contiene. Le mafie prosperano in Italia perché i capi ottengono completa obbedienza e rispetto dello statuto dell'organizzazione e ai riti di iniziazione. Se li tradiscono li aspetta il giudizio del capo e la punizione da lui decretata. Perciò, salvo rare eccezioni, i mafiosi sono coerenti. I non mafiosi no. L'esercito ausiliario della mafia è fatto da non mafiosi il cui "fai da te" ha scelto quella zona grigia che tiene un piede dentro la scarpa mafiosa ed uno fuori. Senza di loro la mafia conterebbe assai poco ma con loro conta moltissimo. Le mafie sono Stati nello Stato perché lo combattono ma ci vivono dentro. Le persone coerenti della nostra vita pubblica sono molto poche. Li chiamiamo "padri della Patria", una buona definizione, ma quanti sono da quando nacque lo Stato unitario? Certamente Mazzini, Garibaldi, Cavour lo furono. In modi diversi e spesso conflittuali ma l'obiettivo era unico. Gran parte della Destra storica che andò al governo dopo la morte di Cavour, e lo tenne per sedici anni costruendo lo Stato unitario nel bene e nel male, merita quel titolo: Ricasoli, Sella, Minghetti, Fortunato, Silvio Spaventa, Nitti e in tempi più recenti Einaudi, De Gasperi, Parri, La Malfa, Di Vittorio, Trentin, Lama, Adriano Olivetti, Calamandrei, Berlinguer, Raffaele Mattioli, Menichella, Pertini, Ciampi, Napolitano. Ma poi ci furono scrittori e personaggi da loro creati, in Italia e in Europa, che sono esempi di coerenza. Pensate a padre Cristoforo dei "Promessi Sposi" e pensate a Jean Valjean dei "Miserabili" di Victor Hugo. Ed alcuni santi, specialmente monaci, a cominciare da Francesco d'Assisi e Benedetto. Sembrano tanti questi nomi e molti altri me ne scordo. Ma gli incoerenti sono una massa, senza nome e senza volto ma una quantità che esiste in ogni Paese del mondo. Qui da noi è una moltitudine, una popolazione che vuole ignorare la sua storia e vivere il presente ignorando passato e non riuscendo ad immaginare futuro. Se i docenti delle nostre scuole partissero dal concetto della coerenza e lo applicassero nel bene e nel male ai fatti accaduti, credo farebbero un'opera santa e fornirebbero un'educazione che costituisce la base di un Paese civile.

L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.

Un reportage su come la stampa ha presentato ed enfatizzato un evento mediatico giudiziario.

Blitz contro neofascisti, 14 arresti. Nel mirino politici, magistrati e sedi Equitalia, scrive “La Stampa”. Il gruppo clandestino aveva elaborato un piano per “minare la stabilità sociale” del Paese e voleva anche fondare un “proprio” partito. 14 persone arrestate e 48 indagate. È il bilancio dell’operazione antiterrorismo dei carabinieri del Ros, denominata “Aquila Nera”, che hanno scoperto un gruppo clandestino che, richiamandosi agli ideali del disciolto movimento neofascista “Ordine Nuovo”, progettava «azioni violente contro obiettivi istituzionali». Il piano degli indagati era «basato su un doppio binario»: «da un lato atti da compiersi su tutto il territorio nazionale al solo fine di destabilizzare l’ordine pubblico e la tranquillità dello Stato e dall’altro un’ opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro “nuovo” partito». Il gruppo si proponeva di uccidere politici “senza scorta”, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e compiere attentati nei confronti di Questure, Prefetture e far saltare le sedi di Equitalia con il personale dentro. Gli arresti sono avvenuti tra L’Aquila, Montesilvano, Chieti, Ascoli Piceno, Milano, Torino, Gorizia, Padova, Udine, La Spezia, Venezia, Napoli, Roma, Varese, Como, Modena, Palermo e Pavia. Nell’ordinanza di custodia cautelare si contestano i reati di associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico e associazione finalizzata all’incitamento, alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e tentata rapina.  I provvedimenti scaturiscono da un’attività investigativa, guidata dal procuratore dell’Aquila Fausto Cardella e dal pm, Antonietta Picardi, avviata nel 2013 dai carabinieri del Ros. In particolare, le indagini sono partite attorno al gruppo “Avanguardia ordinovista” guidato da Stefano Manni, 48 anni, originario di Ascoli Piceno ma residente a Montesilvano, fino a dieci anni fa era nell’Arma dei carabinieri. Vanta un legame di parentela con Gianni Nardi, terrorista neofascista che negli anni ’70 insieme a Stefano Delle Chiaie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito, uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. “Avanguardia ordinovista” intratteneva contatti con altri gruppi di estrema destra con cui, secondo i militari del Ros, intendeva unirsi nel processo di destabilizzazione e lotta politica quali i “Nazionalisti Friulani”, il “Movimento Uomo Nuovo” e la “Confederatio”.  Tra gli indagati anche Rutilio Sermonti, già appartenente al disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, prolifico scrittore e artista. È considerato una delle figure più note nel panorama degli intellettuali di estrema destra. Scrivono i Ros: «Sermonti fornisce sostegno ideologico alla struttura avendo inoltre redatto un documento denominato “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione esplicitamente ispirato all’epoca fascista. E incita i sodali del gruppo "all’offensiva"». Stando a quanto dichiarato in conferenza stampa dal generale Mario Parente, Comandante Nazionale dei Ros, e dal Procuratore della Repubblica dell’Aquila, Fausto Cardella, il gruppo avrebbe «utilizzato il web ed in particolare il social network Facebook come strumento di propaganda eversiva, incitamento all’odio razziale e proselitismo». A tal riguardo Manni aveva realizzato un doppio livello di comunicazione: in uno con un profilo pubblico lanciava messaggi volti ad alimentare tensioni sociali e a suscitare sentimenti di odio razziale, in particolare nei confronti di persone di colore in un altro, con un profilo privato limitato ad un circuito ristretto di sodali, discuteva invece le progettualità eversive del gruppo. Secondo quanto si è appreso sarebbero coinvolti anche due aquilani. Il gruppo necessitava di armi per poter realizzare i propri scopi. Ne aveva recuperate alcune sotterrate dopo l’ultima guerra mondiale, altre le aveva acquistate in Slovenia tramite contatti locali. Un ulteriore approvvigionamento era stato studiato tramite una rapina ai danni di un collezionista, poi sventata da uno stratagemma dei militari. Tra i progetti sfumati, hanno riferito gli investigatori, anche quello di assassinare il noto ordinovista, Marco Affatigato, ritenuto “infame” poiché asseritamente legato ai servizi segreti. Affatigato, esponente di Ordine Nuovo dal 1973 al 1976, è attualmente latitante in quanto accusato di «associazione sovversiva». Durante le indagini sono state utilizzate anche persone sotto copertura. «Noi crediamo di essere arrivati prima che l’organizzazione entrasse in azione, i progetti c’erano, non potevamo correre il rischio di scoprire dopo quanto fossero concreti», ha detto il procuratore distrettuale antimafia dell’Aquila, Fausto Cardella. «Abbiamo verificato che il comportamento e le condotte degli indagati rientravano nella fattispecie dell’articolo 270 bis, e abbiamo agito di conseguenza - ha continuato -. Per la prima volta abbiamo applicato la norma che prevede la presenza di agenti infiltrati, che hanno avuto un ruolo molto importante, assieme alle intercettazione e agli altri strumenti investigativi utilizzati». Cardella sottolinea che «la procura nazionale antimafia ha gli strumenti, tutte le potenzialità per creare un coordinamento più stretto tra le procure, serve una norma, un legge che gli dia facoltà a farla». Ha poi spiegato anche che «le non precisate azioni eversive erano in cantiere anche in Abruzzo, dove era la base operativa». 

“Uomini degenenerati, Stato tuteli l’igiene”. La folle Costituzione di Sermonti, scrive Andrea Cumbo su “Il Fatto Quotidiano”. Aberrante ogni attività che faciliti le donne a lavorare". Dal divieto di possedere tv private alla contrarietà all produzione di energia se non "quella umana o animale". Ecco l'Italia progettata da Rutilio Sermonti, l'ideologo del “Nuovo fronte politico italiano”. "Lo Stato considera aberrante qualsiasi iniziativa diretta a indurre e a facilitare alla parte femminile della popolazione un crescente accesso alle attività economiche retribuite". Sono quindi promossi corsi di economia domestica destinate a qualificare professionalmente la preziosa attività di casalinga. Così recitano gli articoli 14 e 15 dello “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita”, scritto da Rutilio Sermonti, 94enne ex repubblichino, considerato l’ideologo del gruppo neofascista “Avanguardia ordinovista”, finito il 23 dicembre nelle rete dei Ros, che hanno arrestato 14 membri nell’ambito dell’operazione “Aquila Nera”. Sermonti è ancora lucidissimo e la sua idea di una nuova Carta Costituzionale, composta di 85 articoli (leggi) , benché possa sembrare poco incline ai progressi degli ultimi settant’anni, è molto seria. Il capitalismo e la meccanizzazione sono il nemico numero uno della società, che deve muoversi per limitarne i danni. Così, nell’articolo 18, si legge che lo Stato deve privilegiare l’igiene sulla medicina: “Secoli di sviluppo economico finalizzato al profitto hanno provocato un modello di sviluppo gravemente pregiudizievole per l’integrità psico-fisica”. Tanto che non esistono più uomini e donne “completamete sani”, a differenza che tra le altre specie, per le quali “i rari menomati vengono prontamente eliminati dalla selezione naturale. Lo Stato ha il dovere di contrastare tale tendenza degenerativa”. Per igiene si intende proprio la preservazione di questi danni, causati dalla “ridicola pretesa di dominare la natura e di fare tutto spingendo un bottone“. Del progresso, insomma, il gruppo guidato da Stefano Manni non vuole saperne. La parola chiave è risparmio energetico: al bando ogni attività di “aumento di energia artificiale disponibile diversa da quella umana o di animali domestici, tranne che non sia strettamente indispensabile”. Per questo gli orari lavorativi verranno anticipati per sfruttare la luce solare e sarà prevista “l’educazione del pubblico attraverso vacanze che non siano a centinaia di chilometri”, per limitare il trasporto su gomma. La luce elettrica verrà limitata nelle campagne, al pari della programmazione h24 in televisione. Le trasmissioni saranno disponibili solo per alcune ore, dopodiché l’apparecchio, non importa se a schermo piatto o meno, dovrà essere spento. E proprio la disciplina dell’uso del mezzo televisivo avrebbe risolto il più grande conflitto d’interessi degli ultimi venti anni: l’articolo 70 vieta espressamente ai privati il possesso di una rete televisiva. Al contrario, è permesso l’uso commerciale degli altri mezzi stampa (radio e carta stampata, internet non è contemplato nella Costituzione) purché non svolgano azione persuasiva contraria a quella deliberata dalla Camera delle Funzioni. Quest’ultima è l’organo legislativo dell’ordinamento progettato dai neofascisti, dove tutti, anche i semplici cittadini, possono portare avanti proposte, per le quali, tuttavia, è esclusa la modalità del voto a maggioranza. Stando al restyling delle “leggi fascistissime” del ’25 e del ’26, chi promulga le leggi è il presidente della Camera delle funzioni, una sorta di neo-Duce scelto dalla stessa, che decade solo per morte o invalidità. “Le c.d. tornate elettorali – si legge infatti nelle disposizioni transitorie – non esistono più e le designazioni del popolo avvengono in modo continuo, meditato a ragion veduta e silenzioso”. Cosa si intenda per “silenzioso”, Sermonti non l’ha ancora spiegato. Nel testo viene riversata anche l’ideologia dei neofascisti sui diritti civili. “Viene tutelata la famiglia che nasce dalla comune volontà di due persone di sesso diverso che stipulano tra loro un patto indissolubile e di reciproca dedizione. Si denomina matrimonio”, recita l’articolo 28, da cui si evince una scarsa inclinazione ai cambi di nomenclatura. “Al padre è affidata la rappresentanza della famiglia nei rapporti con terzi ritenendosi il maschio più idoneo a tali funzioni”, si legge negli articoli seguenti, mentre il “divorzio è previsto solo in presenza di requisiti oggettivi, tra cui non figura la volontà dei coniugi in caso di presenza di figli minorenni”. Nell’Italia di Avanguardia ordinovista ritornerebbe anche la legalizzazione della prostituzione. Obbligatorio, si intende, il controllo sanitario.

Inchiesta “L’Aquila nera”. Ecco chi sono gli aspiranti terroristi di “Avanguardia Ordinovista”. «Progettavano attentati anche contro magistrati ed Equitalia», scrive Alessandro Biancardi su “Prima da Noi”. Due anni di indagini, indagini effettuate anche monitorando le pagine personali dei social network degli indagati e ascoltando le loro telefonate. Secondo la procura aquilana oltre i proclami e le frasi offensive, i propositi violenti c’era e il gruppo capeggiato da Stefano Manni, ex carabiniere marchigiano residente a Montesilvano, era pronto a colpire davvero. Il gruppo si identificava con la sigla “Avanguardia Ordinovista” e quale “Centro Studi Progetto Olimpo”, scuola politica di area neofascista. Secondo la procura de L’Aquila, pm Antonietta Picardi, si tratta della moderna riedizione del Movimento Politico Ordine Nuovo, che nasceva proprio quale omonimo “Centro Studi”. Il piano degli indagati nell'ambito dell'operazione del Ros che ha portato agli arresti disposti del gip dell'Aquila era «basato su un doppio binario»: «da un lato atti destabilizzanti da compiersi su tutto il territorio nazionale e dall'altro un' opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro "nuovo" partito».

I PROTAGONISTI.

STEFANO MANNI: IL PARENTE DI GIANNI NARDI. Secondo i carabinieri del Ros Manni, 48 anni, residente a Montesilvano, è il capo indiscusso dell’organizzazione. Nato ad Ascoli Piceno, ma residente a Montesilvano, è un ex sottufficiale dei carabinieri, congedato per infermità dopo oltre un decennio di servizio attivo. Il fatto di essere un ex militare è utilizzato dal Manni per accreditarsi quale conoscitore di dinamiche investigative, di addestramenti militari. Manni si vantava anche di una parentela con il terrorista Gianni Nardi. I due potrebbero avere una parentela alla lontana considerando che le rispettive famiglie sono originarie di Venarotta, piccolo comune dell’ascolano. Peraltro, i Carabinieri hanno rilevato come l’uomo, dopo essere stato congedato dall’Arma dei Carabinieri, sia stato assunto dalla “S.E.I. Servizi Elicotteristici Italiani” S.P.A., realtà industriale riconducibile alla famiglia Nardi. La storia di Gianni Nardi è quella di un terrorista neofascista che negli anni '70, insieme a Stefano Delle Chieie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito, rappresentava uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. Indiziato per l’omicidio del Commissario di Polizia Luigi Calabresi (che stava indagando su di lui in ordine ad un traffico d’armi tra Svizzera e Italia), morì in un incidente d’auto che, all’epoca, destò particolari sospetti circa l’accidentalità dell’evento. Molti anni dopo la morte, fu accertato che il suo nome era ricompreso nell’elenco degli appartenenti alla formazione paramilitare clandestina Gladio. Su Facebook Manni era molto attivo, con un profilo palese ed altri fake utilizzati per amplificare i messaggi divulgati dal primo ad un circolo ristretto di collaboratori. Due le cerchie di seguaci: una conosciuta di persona, un’altra no. Il linguaggio utilizzato con gli uni o gli altri appare differente: nella dimensione pubblica su Facebook Manni è esplicito nell’esporre quelle che ritiene essere le problematiche della società contemporanea, ma vago e generico nelle intenzioni e proposte di “soluzione”. Nel ristretto del privato cerchio degli affiliati, esplicitandava invece la via violenta da intraprendere per stabilire «il nuovo ordine sociale». Il doppio livello, ha ricostruito la Procura, vi è anche nelle operazioni di verifica dei soggetti con ‘gli amici’ con i quali entrare in contatto: una identificazione dei semplici simpatizzanti, eseguita per lo più con il coinvolgimento dei più stretti collaboratori, e un attento esame degli “operativi” che viene svolto con metodo militare (in almeno un caso, un utente sospettato di essere agente sotto copertura è stato oggetto di attente indagini interne ed in seguito se ne è programmata l’eliminazione).

MARINA PELLATI: LA CONVIVENTE. Marina Pellati, 49 anni, anche lei residente a Montesilvano, è la convivente di Manni. Secondo gli investigatori avrebbe effettuato proselitismo utilizzando principalmente Facebook, dove è registrata con numerosi profili anche utilizzando identità fittizie, compresa quella di un fantomatico “generale dei Carabinieri di 71 anni” che garantirebbe sostegno ideologico al suo gruppo tramite una pagina Facebook denominata “Nuovo Centrostudi Ordine Nuovo”.

RUTILIO SERMONTI: L’AUTORE DELLA “COSTITUZIONE”. Rutilio Sermonti, 93 anni, di Ascoli Piceno viene definito come l’ideologo del gruppo. Già appartenente al disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, scrittore e artista è considerato una delle figure più importanti nel panorama degli intellettuali di destra. A conoscenza, tramite Manni, dell’esistenza dell’associazione e della progettualità della stessa fornisce sostegno ideologico «riconoscendo la legittimità secondo il proprio pensiero dei fini perseguiti, incitandone l’operatività». É autore di un documento denominato “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che, fatto circolare clandestinamente dagli associati ed intercettato dai Carabinieri, rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica, composta da 85 articoli e 10 disposizioni transitorie, nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione ispirato all’epoca fascista. Il documento costituisce per l’associazione, unitamente ad altri saggi e scritti ideologicamente riconosciuti, il manuale al quale fare riferimento. Sermonti si avvale della collaborazione di Mario Mercuri, 80 anni di Petritoli, Ascoli Piceno, anche lui indagato, che organizza incontri con Manni e altri operativi ed è, a sua volta, promotore di una fondazione.

LUCA INFANTINO. Luca Infantino, 33 anni di Legnano (Milano), secondo gli inquirenti sarebbe il co-promotore dell’organizzazione e starebbe allo stesso livello di Manni. «Condivide ogni aspetto strategico dalle condotte volte al proselitismo», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, «le verifiche di nuovi associati, la programmazione di azioni violente, la realizzazione di un disegno politico formale parallelo». Manni ipotizza la creazione di una dimensione politica ufficiale e legittimata da far crescere parallelamente al progetto eversivo, Infantino compie i primi passi per la costituzione di tale contesto ufficiale, fondando il “Centro Studi Progetto Olimpo” e la “Scuola Politica Triskele”. Realtà da ritenersi regolari –sostengono gli stessi investigatori- che servivano per fare proseliti.

MARIA GRAZIA CALLEGARI. Lei, originaria di Varese, è strettissima collaboratrice di Manni. Componente della ristretta cerchia di soggetti che, nell’ambito dell’associazione, ha diritto di espressione in ordine ad ogni tematica, compresa la valutazione delle azioni da compiere e delle modalità esecutive. Manni le ha affidato il compito di verifica dei profili Facebook di simpatizzanti, nonché della verifica di secondo livello incontrando personalmente potenziali nuovi “operativi” da arruolare. «Ha espresso più volte disponibilità all’azione in prima persona», chiariscono i Ros.

KATIA DE RITIS: LA CONSIGLIERA COMUNALE. Katia De Ritis, 55 anni di Lanciano, viene identificata dai carabinieri come un importantissimo punto di riferimento di Manni. Come Infantino, si dedica alla vita politica pubblica ma contemporaneamente «lavora sottotraccia». In tal senso, è presente nei quadri del partito politico “Fascismo e Libertà – Socialismo Nazionale” di cui è vice segretario nazionale; in tale veste, è stata eletta consigliere comunale d’opposizione nelle ultime consultazioni amministrative nel comune di Poggiofiorito (Chieti). Alla dimensione politica pubblica affianca una parallela attività clandestina eversiva, sostengono gli inquirenti, e rappresenta per Manni «un punto di riferimento sia per la promozione di incontri programmatici tra affiliati, che per l’individuazione di strategie e obiettivi». Secondo la procura vanta contatti con militanti dell’organizzazione semiclandestina di estrema destra “Militia” operante a Roma. Nell’ultimo periodo d’indagine secondo la procura si è spesa per «individuare obiettivi fisici da colpire e canali per il reperimenti di armi da fuoco e per i contatti con altri gruppi operativi».

PANDOLFINA DEL VASTO: L’AMICO CON L’ARSENALE. Emanuele Lo Grande Pandolfina del Vasto, 63 anni, originario di Palermo ma residente a Pescara avrebbe invece espresso disponibilità a compiere azioni anche da solo, vista la lentezza alla messa in atto di azioni violente da parte del Manni, considerata persona «troppo riflessiva». Secondo gli inquirenti avrebbe dato dimostrazione della sua determinatezza mettendo in atto le fasi prodromiche alla rapina ai danni un cacciatore, suo amico.

FRANCO LA VALLE E FRANCO MONTANARO. Franco Montanaro, 46 anni di Roccamorice, appartenente a Condeferatio, un’organizzazione autonoma e radicata in tutta Italia, ha ritenuto, dicono gli inquirenti, di dover agganciare Manni e il suo nuovo gruppo per la commissione di azioni violente. La Valle, Montanaro e Manni si conoscono almeno dal novembre 2001, data in cui hanno partecipato a un Forum a Fara Filorum Petri in provincia di Chieti.

LUIGI DI MENNO DI BUCCHIANICO. Luigi Di Menno Di Bucchianico, 47 anni di Lanciano, è in possesso di porto d’armi per uso sportivo. «Nei suoi ideali vede un intervento violento contro personalità dello Stato (sia esse nazionali che locali)», scrivono gli inquirenti, «finalizzato alla dimostrazione di una strategia della tensione e alla dimostrazione della loro esistenza». Secondo la ricostruzione degli inquirenti ha messo a disposizione del gruppo le sue idee e i suoi obiettivi in una riunione tenuta nell’ottobre 2014 presso l’abitazione della De Ritis e avrebbe mostrato insofferenza per la lentezza della messa in azioni da parte di Manni.

FRANCO GRESPI. Franco Grespi , 52 anni di Milano, secondo quanto analizzato dai carabinieri del Ros, si sarebbe invece occupato del reperimento di fondi per l’acquisto di armi, fornendo disponibilità per azioni violente (rapine, omicidi, acquisto di armi tramite canali illegali stranieri). In particolare, il Grespi «si é occupato del reperimento di esplosivi e armi da fuoco, per le quali ha intessuto contatti con fornitori stranieri; ha dato la disponibilità per essere l’esecutore materiale dell’attentato a Marco Affatigato e per rapine presso supermercati e abitazioni private».

ORNELLA GAROLI. Ornella Garoli, 53 anni anche lei di Milano e compagna di Grespi avrebbe invece dato la sua disponibilità alla commissione di azioni violente; «oltre a commentare sulla chat la sua posizione ideologica, ha operato sopralluoghi presso supermercati abruzzesi finalizzati alle rapine e si è prestata a essere una delle persone che dovevano compiere la rapina presso l’abitazione di un cacciatore che deteneva l’arsenale».

NICOLA TRISCIUOGLIO. Trisciuoglio, 53 anni di Napoli, pur non avendo un ruolo verticistico in seno all’associazione, viene considerato dagli investigatori comunque interno al gruppo, «sostenitore sul piano della condivisione ideologica». Ex avvocato napoletano, radiato dall’ordine degli avvocati partenopeo nel 2005, ha svariati precedenti per truffa, estorsione ed altro, nonché pregiudizi per reati di istigazione all’odio razziale ed apologia al fascismo. Ha fondato il “Movimento Uomo Nuovo” e il movimento politico “Identità Nazionale”. Concorda con il Manni l’attuazione di un disegno eversivo stragista.

VALERIO RONCHI. Valerio Ronchi, 48 anni di Mariano Comense si è reso disponibile all’azione violenta. Anch’egli su sia su Facebookche in conversazioni telefoniche ha affermato che l’unica soluzione per le problematiche italiane è l’attuazione di azioni violente atte a destabilizzare lo Stato. Ha partecipato unitamente alla convivente, Giuseppa Caltagirone, al primo incontro della Scuola Politica Triskele organizzato da Luca Infantino con il beneplacito di Stefano Manni, tenutosi a Milano l’8 febbraio 2014. Dall’intercettazione ambientale effettuata dal R.O.S dei Carabinieri, Valerio Ronchi ha ribadito, anche in quell’occasione, la necessità dell’attuazione di azioni violente indirizzate «non solo contro le strutture».

Arrestati i neofascisti del terzo millennio. "Riprenderemo la strada dell'Italicus". Gli arrestati fanno parte di un gruppo di estrema destra che si rifà al movimento Ordine Nuovo. Dai verbali emerge il loro piano eversivo: la loro rivoluzione nera, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Operazione antiterrorismo dei carabinieri del Ros coordinato dalla procura dell'Aquila: 14 gli arresti in varie regioni italiane nei confronti di un gruppo che si richiama agli ideali del disciolto movimento neofascista «Ordine Nuovo» e che progettava azioni violente contro obiettivi istituzionali. Tra gli arrestati Rutilio Sermonti. L'ideologo, reduce Repubblichino, ex Ordinovista, tra i fondatori del Movimento sociale e candidato con Forza nuova alle provinciali di Latina nel 2009. È lui l'intellettuale che aveva il compito di scrivere una Costituzione fascista. «É autore infatti di un documento denominato “ Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che, fatto circolare clandestinamente dagli associati ed intercettato dai Carabinieri, rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica, composta da 85 articoli e 10 disposizioni transitorie, nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione ispirato all’epoca fascista» si legge nell'ordinanza di custodia cautelare. «Tale documento costituisce per l’associazione, unitamente ad altri saggi e scritti ideologicamente riconosciuti, il manuale al quale fare riferimento». Sermonti in contatto con gli arrestati è considerato “il Vate”, il “Mentore”. A casa del repubblichino sono stati organizzati vari summit dell'organizzazione. Uno degli incontri è avvenuto anche a Milano, nello studio dell'archeologo, studioso del nazifascimo, Giancarlo Cavalli. In tutto sono 55 gli indagati, e tutti accusati di essere promotori di un’associazione denominata “Avanguardia Ordinovista”, « tramite la creazione di un CENTRO STUDI “PROGETTO OLIMPO” che richiama gli ideali del disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, alla quale partecipano con il proposito del compimento di atti di violenza (tramite attentati a Equitalia, magistrati e forze dell’ordine) al solo fine di destabilizzare l’ordine pubblico e la tranquillità dello Stato e poi introdursi tramite un’apparente attività lecita di partecipazione alle elezioni con il partito da loro creato, all’interno dell’ordine democratico quale unica soluzione alla destabilizzazione sociale», si legge nel mandato di cattura. «Un piano eversivo “studiato a tavolino”» proseguono gli inquirenti, basato su un doppio binario: «da un lato la previsione di atti destabilizzanti da compiersi su tutto il territorio nazionale e dall’altro un’opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro “nuovo” partito, da loro costituito, che dovrebbe rappresentare per lo Stato l’unica soluzione alla disfatta e alla strategia del terrore». L'organizzazione era strutturata su un doppio livello: simpatizzanti, raccolti principalmente su Facebook e un circolo ristretto di collaboratori. Se sulla pagina del social network si facevano proclami generici di rivoluzione nera, era nel privato che il progetto prendeva forma: «Nel privato cerchio degli affiliati, veniva esplicitata la via violenta da intraprendere per stabilire il nuovo ordine sociale». Un doppio livello messo in piedi anche nella verifica dei soggetti con i quali il gruppo di estremisti entrava in contatto: «Una identificazione dei semplici simpatizzanti, eseguita per lo più con il coinvolgimento dei più stretti collaboratori, e un attento esame degli “operativi” che viene svolto con metodo militare». Per i sospetti infiltrati il piano prevedeva la soluzione finale: l'uccisione. «In almeno un caso, un soggetto sospettato di essere agente sotto copertura è stato oggetto di attente indagini interne ed in seguito se ne è programmata l’eliminazione» continuano gli investigatori. Alla cellula eversiva sono state trovare anche armi e si è scoperto che stava progettando un omicidio contro Marco Affatigato, ex  di Ordine nuovo sospettato di far parte dei servizi segreti. La sua colpa è quella di essere «infame», di aver tradito i camerati. Il piano di morte non verrà però portato a termine. Un quadro pesante. Ipotesi inquietanti. Che fanno ripiombare il Paese negli anni della strategia della tensione. Tra gli arrestati c'è Stefano Manni, ex carabiniere in congedato per infermità. Lui vanta parentele con uno dei leader di Ordine Nuovo, il terrorista Gianni Nardi.«I due potrebbero avere una parentela alla lontana» annotano i militari del Ros. Un elemento che confermerebbe tale vicinanza tra i due è, secondo la procura e i Carabinieri, l'assunzione di Manni, dopo il congedo, «alla “S.E.I. Servizi Elicotteristici Italiani” S.P.A., realtà industriale riconducibile alla famiglia Nardi». La storia dell'ex ordinovista Nardi è quella di un terrorista neofascista che negli anni '70, insieme a Stefano Delle Chiaie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito rappresentava uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. Indiziato, tra l'altro, per l’omicidio del Commissario di Polizia Luigi Calabresi(che stava indagando su di lui in ordine ad un traffico d’armi tra Svizzera e Italia). Nardi morì in un incidente d’auto. «Molti anni dopo la morte, fu accertato che il suo nome era ricompreso nell’elenco degli appartenenti alla formazione paramilitare clandestina Gladio» si legge nell'ordinanza. Tra di loro gli indagati ricordano gli anni delle bombe. Evocano una nuova strategia, «credo sia il caso di riprendere la strada dell'Italicus...ma su ampissima scala...Nicola questo è un popolo che non merita nulla, l'ultima dimostrazione l'abbiamo data, che io sono italiano e quindi l'abbiamo data, con il non funerale di Priebke». E sempre sulla strategia da adottare Manni dice: «L'unico modo legale...è ..è....l'unico modo...non è legale....ma l'unico modo, è destabilizzare fortemente la situazione colpendo obiettivi ma mirati no le stazioni». Il braccio destro di Manni è Luca Infantino che ha una sua idea di organizzazione: deve avere una « struttura organica schematica e militare, con idee precise e obiettivi programmati, facendo presente che l’atto eversivo deve essere fattibile ed è necessario trovare gente disponibile ad effettuarlo. La gente disponibile ad attuare il piano ci sarebbe ed anche le armi starebbero arrivando, ma, fino a quando non si hanno persone di fiducia, le armi, non ha intenzione di farle arrivare» scrivono i detective. Nei suoi dialoghi e scritti Infantino ribadisce più volte la necessità «dell’individuazione degli obiettivi da colpire e nella fattispecie Equitalia, Banche, Poste, Prefetture, Uffici regionali e Statali, precisando che le azioni compiute non devono essere indicative della provenienza politica, pertanto non bisogna colpire la Kienge perché altrimenti verrebbe individuata l’area politica responsabile dell’azione. Quest’ultima deve essere simultanea e potrebbe colpire le città di Roma, Milano e Firenze per creare una punta di terrore, in quanto solo due bombe ad Equitalia non verrebbero commentate sui media». Tra le centinaia di intercettazione, ce ne sono alcune in cui i neofascisti ragionano su come portare avanti le azioni violente. Anche contro gli imprenditori dell'accoglienza: «Vedi Forza Nuova ha identificato, come si dice, identificato, li ha resi pubblici, tutti gli alberghi, le strutture che li stanno ospitando, con loro faremo i conti dopo,tu hai un albergo, hai giocato sulla pelle degli italiani, ospitando i baluba, facendo dare 50 euro al giorno ai baluba io non ti ammazzo, ammazzo i figli tuoi a futura memoria, affinchè tu abbia un ricordo indelebile per tutta la vita, hai tradito il popolo italiano, il popolo italiano ti ripaga scannandoti tuo figlio davanti agli occhi, quando dico scannandoti non intendo una (incomp) tagliare da qui a qui (poco comp) faremo i conti dopo , adesso è fondamentale colpirli dove si aggregano, è fondamentale colpirli dove si aggregano». Colpire per uccidere. È questa secondo la procura l'aspetto più pericoloso dell'organizzazione fascista. «Vedi Lui’….se tu mi dici è mi mandano in servizio senza benzina e poi li scorti, devi morire, sei un poliziotto devi morire, sei un carabiniere devi morire, devi morire perché tu hai tradito il tuo popolo a vantaggio del (...) non c’è una pena alternativa…tu mi dirai che ti metti ad ammazzare tutte le Forze dell’Ordine, si, ma io non credo che siano tutte, perché oggi tu stai pagando 30 mila euro al mese per una Fornero che senza fare nulla va a fare shopping», continua il duce versione 2.0 Stefano Manni. «Noi, si è sempre stati, “puri e duri”, non l'abbiamo promesso, ma appena ci riuniremo torneremo! Siamo rimasti pochi, ma bastiamo!» così un'ex ordinovista sulla pagina facebook del movimento di Manni. «Io personalmente attendo il via, ho sete di vendetta, ma non voglio fare la scheggia impazzita, uccideremo con efferatezza!!! Vendetta!!», scrive un altro. Infine non mancano i riferimenti al gruppo fascista romano Militia fondato da Maurizio Boccacci, ex leader del movimento politico occidentale. Katia De Ritits infatti, una delle indagate, è un importantissimo punto di riferimento di Manni. E come un'altro dei personaggi sotto inchiesta, Infantino, «attua l’esposizione ad una vita politica pubblica parallelamente all’esecuzione di un disegno eversivo e clandestino». È presente infatti nei quadri del partito politico “Fascismo e Libertà – Socialismo Nazionale” di cui è vice segretario nazionale. Con questa formazione è stata eletta consigliere comunale d’opposizione nelle ultime consultazioni amministrative nel comune di Poggiofiorito, provincia di Chieti. Per Manni è il contatto con i militanti dell’organizzazione semiclandestina di estrema destra “Militia”già finita sotto processo per ricostituzione del partito fascista. Altri contatti d'area spuntano in Friuli. Uno degli indagati spiega di aver preso contatti con i Nazionalisti friulani, «e ho allargato un pò di contatti... sono i Nazionalisti Friulani, sono ben predisposti, belli decisi». Insomma, un nucleo nero che puntava a fare davvero la guerra allo Stato.

Manifesto dell'eversione nera. Tra le intercettazioni spunta il sermone neofascista dell'ideologo repubblichino che voleva riscrivere la Costituzione, continua Giovanni Tizian. In una delle riunioni a casa di Rutilio Sermonti, quest'ultimo spiegava ai suoi adepti il senso della loro loro lotta. «In Italia è in atto uno stato-fantoccio, voluto dai nemici della nazione, col favore degli sciagurati antifascisti, traditori per vocazione, oltre al fatto che la stragrande maggioranza degli Italiani non conosce altro che quello». Per questo, scrivono gli inquirenti, diventa, indispensabile attuare l’azione di lotta contro lo Stato e solo «la distruzione dello status-quo, permetterebbe la creazione di un nuovo Stato, definito Repubblica dell’Italia Unita, per il quale l’anziano si è prodigato nel formulare un dettagliato Statuto». Un proclama della rivoluzione neofascista. «Noi che, da legionari nel cuore, al male non opponiamo piagnistei ma il combattimento. E' il momento, io grido, di battere sugli scudi. E' il momento, perchè il popolo è alla disperazione (e se la merita!). E' il momento, perchè il baratro sta per inghiottire il mondo intero, a cominciare dagli stessi criminali. E' il momento, perchè la Terra medesima ci ha intimato lo sfratto. La lotta per distruggere lo stato-fantoccio deve quindi divenire prioritaria e senza quartiere, con tutti i mezzi disponibili e tutti quelli escogitabili, salvo solo quelli incompatibili con la nostra intima natura. […] E non si chiami, quella da noi bandita, guerra civile, perchè per guerra civile s'intende quella tra due parti di una stessa patria, e i nostri nemici, con l'autentica Patria italiana non hanno nulla a che fare, e sono solo la squallida serva della plutocrazia mondiale, assassina e suicida sotto i nostri occhi».

Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare. 

Avanguardia Ordinovista: neofascisti tutti da ridere, scrive Alessandro D’Amato su “Nextquotidiano”. Progettavano attentati e compravano armi per azioni terroristiche. Eppure gli indagati nell'operazione Aquila Nera non sembravano brillare da altri punti di vista: «Quella nemmeno sa dove sta di casa il comune», dice il sindaco di Poggiofiorito parlando di una consigliera arrestata. Volevano 10, 100, 1000 Occorsio. Progettavano attentati ad Equitalia «con i dipendenti dentro». Ma da quello che si legge nelle risultanze di indagine su Aquila Nera, quelli di Avanguardia Ordinavista sembrano più un esercito di rintronati che un gruppo pronto ad azioni terroristiche. Gli arrestati nell’ambito dell’operazione sono: Stefano Manni, 48 anni, di Ascoli Piceno ma residente a Montesilvano (Pescara); Marina Pellati (49), di Varese, residente a Montesilvano; Luca Infantino (33), di Legnano (Milano), Piero Mastrantonio (40) dell’Aquila; Emanuele Pandolfina Del Vasto (63) di Palermo, residente a Pescara; Franco Montanaro (46) di Roccamorice (Pescara); Franco La Valle (51) di Chieti; Maria Grazia Callegari (57) di Venezia, residente in provincia di Torino; Franco Grespi (52) di Milano, residente a Gorizia; Ornella Garoli (53) di Milano, residente a Gorizia; Katia De Ritis (57) di Lanciano (Chieti). Ai domiciliari sono finiti Monica Malandra di 42 anni dell’Aquila, Marco Pavan (30) di Venezia, residente a Padova e infine, Luigi Di Menno di Bucchianico 47enne di Lanciano (Chieti). La base operativa era Montesilvano (Pescara).

AVANGUARDIA ORDINOVISTA: NEOFASCISTI TUTTI DA RIDERE. Gli indagati sono 44 in tutto. I reati contestati sono associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, associazione finalizzata all’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi nonché tentata rapina. I provvedimenti scaturiscono da un’attività investigativa (guidata dal procuratore dell’Aquila Fausto Cardella e dal pubblico ministero Antonietta Picardi) è stata avviata, nel 2013, dal R.O.S. nei confronti di un’associazione clandestina denominata Avanguardia Ordinovista che, “richiamandosi agli ideali del disciolto movimento politico neofascista “Ordine Nuovo” e ponendosi in continuità con l’eversione nera degli anni ’70, progettava azioni violente nei confronti di obiettivi istituzionali, al fine di sovvertire l’ordine democratico dello Stato”. Eppure, se si va a cercare su internet le risorse online degli aspiranti terroristi, si trovano soltanto cose di cui sorridere. L’associazione eversiva smantellata dai Carabinieri del Ros nell’ambito dell’operazione Aquila nera è «connotata da caratteristiche di evidente pericolosità, avente il programma di porre in atto azioni violente e attentati in maniera tale da destare allarme, spaventare la comunità civile e indurre a credere da un lato nella necessità di un cambiamento sociale e politico, dall’altro nella capacità del gruppo di realizzare tale cambiamento», si legge nell’ordinanza di custodia emessa dal Gip dell’Aquila Romano Gargarella, secondo il quale si tratta «della classica ‘strategia della tensione’, avente fine, scopi e modalità di tipo terroristico. Tanto che è risultato dalle loro stesse parole esplicitate in conversazioni private o anche attraverso facebook che gli adepti sono disposti a compiere atti criminali eclatanti pur di realizzare il loro programma». Ma nei fatti quello che riuscivano a fare era pubblicare post contro l’allora ministro Cécile Kyenge e contro Laura Boldrini e aizzare a commettere atti di violenza nei confronti di persone solo perché perché appartenenti ad un diverso gruppo nazionale, etnico o razziale.

L’IDENTIKIT SOCIAL DEGLI ARRESTATI. Stefano Manni, ex carabiniere, è considerato l’ideologo del gruppo. Sul suo profilo Facebook scrive di essere un membro dell’OVRA (la polizia segreta fascista che lavorava alla repressione dell’antifascismo), mentre la sua foto profilo sul social network era quella di un Babbo Natale che faceva il saluto romano, mentre nell’immagine di copertina c’era almeno la Buonanima. L’ordinanza fa anche sapere che Manni era solito utilizzare fake per mettere in rilievo i suoi “pensieri” sui social network. Tra le sue referenze c’era quella di essere parente di Gianni Nardi, terrorista fascista attivo negli anni Settanta. Manni, fa sapere l’ordinanza, aveva realizzato un doppio livello di comunicazione: in uno con un profilo pubblico lanciava messaggi volti ad alimentare tensioni sociali e a suscitare sentimenti di odio razziale in particolare nei confronti di persone di colore in un altro, con un profilo privato limitato ad un circuito ristretto di sodali, discuteva le progettualità eversive del gruppo. Poi c’è Katia De Ritis, considerata uno dei pezzi grossi dell’organizzazione perché è consigliere comunale a Poggiofiorito. Ebbene, sentite come ha reagito oggi Corino Di Girolamo, sindaco della cittadina in provincia di Chieti, quando gli hanno fatto sapere dell’arresto. «Quella neanche sa dove sta di casa il comune. Pensa, eletta nella minoranza, vota tutti i nostri provvedimenti di maggioranza. Con Poggiofiorito non c’entra niente, sono solo dei nazisti», dice parlando del vicesegretario di Fascismo e Libertà. Eletta nello scorso maggio nel consiglio comunale «ma con 149 voti totali», puntualizza il sindaco, la De Ritis «sta là e non dice mai una parola, lei e il suo collega. Si sono infilati nelle elezioni per via del fatto che l’altra opposizione (di centrosinistra ndr) non si è presentata. Ma io lo dicevo ai cittadini: non li votate che sono degli scatenati, dei nazisti. E invece questo è un paese di pazzi… non mi dite niente. E ora li hanno arrestati. Quindi mi sa che al prossimo consiglio comunale del 29 dicembre non si farà vedere, vero?».

SE QUESTO È UN IDEOLOGO. Infine c’è Rutilio Sermonti. Secondo l’accusa, aveva un ruolo di indirizzo ideologico, in particolare di “estensore di una nuova costituzione repubblicana basata su un ordine costituzionale di ispirazione marcatamente fascista”. Residente nella provincia di Ascoli Piceno, ex aderente a Ordine Nuovo, Sermonti sul suo sito si presenta come «coniugato in seconde nozze, con moglie e figlio universitario a carico». E se ci tiene a farlo sapere, ci sarà un perché. Ma questo arzillo 93enne ha lasciato Ordine Nuovo quando è stato dichiarato fuorilegge, in seguito è stato vicino a Pino Rauti e si è occupato di ambiente per il Movimento Sociale Italiano prima di mollare il partito e continuare a seguire Rauti nelle sue scarse fortune elettorali dopo la svolta di Fiuggi e la nascita di Alleanza Nazionale. E’ anche, per soprannumero, un contestatore del darwinismo, giusto per capire con chi abbiamo a che fare. Ideologo? «A grandi linee è come negli anni ’70, solo che con la tecnologia avanzata dobbiamo stare molto più attenti», dicono in uno stralcio di una intercettazione ambientale dei Ros dei Carabinieri, raccolta nell’ambito dell’operazione “Aquila Nera”, due soggetti indagati. L’argomento della conversazione e’ la strategia del gruppo che si ispirava agli ideali del disciolto movimento neofascista Ordine Nuovo. «C’è una struttura e da li non si scappa – dice uno dei due all’interno di un’auto, jeans e giubbotto nero -. Chi c’è sopra dirà tu fai questo… tu fai quello… perché poi comunque c’e’ una strategia». L’organizzazione non trascurava nemmeno la ricerca del consenso: «Gli obiettivi già praticamente ci sono – spiega ancora il soggetto intercettato -, il fatto è che, qualora il popolo ha un problema e quelli la non lo possono risolvere, il popolo non va piu’ belante da loro. Cercherà altri punti, qualcuno li dovrà aiutare». Tutto qui.

«I nuovi ordinovisti? Cantavamo insieme le canzoni delle SS». Rutilio Sermonti, repubblichino 93enne, fratello dell’attore Vittorio, è l’ ideologo dei neofascisti: «Ma quali miei adepti, sono solo chiacchieroni», scrive Fabrizio Caccia, inviato a Colli del Tronto (Ascoli Piceno) su “Il Corriere della Sera”. Lo troviamo intento a disegnare un lupo, «l’animale per eccellenza simbolo di ferocia e violenza, non è così?», ironizza Rutilio Sermonti, 93 anni e la mano ancora ferma, col pennino che tratteggia alla perfezione l’animale digrignante sotto lo sguardo fiero della sua seconda moglie, Krisse, Clarissa, nata in Finlandia e «sposata davanti al sole, con rito solo nostro, in cima al Monte Pellecchia, in Abruzzo, a 2 mila metri d’altezza, molto vicino al nido delle aquile...». La notte del 22 dicembre a casa sua sono arrivati i carabinieri: «Erano le tre, dormivamo - ricorda Sermonti -. Si sono messi a fare luce con le torce contro le nostre finestre. “Aprite!” ci dicevano. E noi due, spaventatissimi: “Neanche per sogno, ora chiamiamo la polizia”. Alla fine ci hanno convinti, sono entrati e si sono messi a perquisire la casa, portando via il computer. Bene, io dico, perché nel mio computer c’è tutta la verità. E quello che penso è scritto nei miei libri». Secondo la Procura dell’Aquila, invece, sarebbe proprio lui - l’ex repubblichino, tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano e poi di Ordine Nuovo - l’ideologo di «Aquila Nera», il grande vecchio che avrebbe ispirato con le sue teorie rivoluzionarie il progetto terroristico della banda di «Avanguardia ordinovista», il gruppo di neo-fascisti che avrebbe voluto sovvertire la Repubblica a colpi di attentati, rapine e omicidi. Ma lui non ci sta: «Avanguardia ordinovista? Mai sentita nominare. La verità è che io sono l’ideologo di tanti che non conosco, che leggono i miei libri e poi chissà cosa gli viene in mente. E chi sarebbero i miei adepti? L’ex carabiniere Stefano Manni e sua moglie Marina? Sì, ora ricordo, son venuti più volte qui a casa mia...». La signora Clarissa rammenta che venivano «quasi in adorazione», il signor Manni, la moglie e altri che i coniugi Sermonti chiamavano «il gruppo di Pescara». «Vennero da noi tre o quattro volte, erano simpatici, amichevoli, poi mettevano su Facebook le mie foto e i miei testi». E passavano le ore a farsi raccontare da Rutilio i tempi della guerra o di quando giurò davanti al Duce allo Stadio dei Marmi il 28 ottobre 1938. E qualche volta cantavano anche, tutti insieme, le canzoni fasciste («Diventiamo tutti eroi con la morte a tu per tu») oppure delle SS («Waffen Waffen Waffen»), ma senza mai accennare a propositi bellicosi, come quello di uccidere i politici e gli extracomunitari e addirittura replicare la strage dell’Italicus e «carbonizzare» il capo dello Stato. «Chi è Stefano Manni? Solo un millantatore - s’indigna Rutilio Sermonti sulla sua sedia a rotelle -. Un chiacchierone che riempiva i discorsi di fregnacce e bla-bla-bla. Uno a cui piaceva sentirsi qualcuno. Ma per essere qualcuno bisogna fare qualcosa e lui non ha mai fatto niente. Manni il deus ex machina dell’organizzazione? Ma scherziamo, al massimo della macchina del caffè...». Il vecchio pittore e scrittore, autore con Pino Rauti di «Una storia del fascismo», confessa di sentirsi preso in giro: «Manni l’ultima volta mi promise mille euro per dare alle stampe il mio ultimo libro “Non omnis moriar”, ma il suo bonifico ancora l’aspetto e due mesi fa gli scrissi al computer un elenco di insulti che i carabinieri potranno riscontrare. Da quel giorno chiusi con lui». Rutilio Sermonti è fratello di Giuseppe lo scienziato e Vittorio l’illustre dantista: «Giuseppe mi ha telefonato appena saputa la notizia dal telegiornale, con Vittorio non ci vediamo da sette anni e mi piacerebbe tanto riabbracciarci, come quando un tempo ci vedevamo a Roma al ristorante di mio nipote Andrea, il figlio di Giuseppe, a Trastevere». Oggi fanno impressione i suoi racconti dal fronte jugoslavo, dopo l’8 settembre, lui arruolato nella Schutzpolizei («Gli ufficiali tedeschi amavano ripetere: con Sermonti non si muore...»). Senza l’ombra di un pentimento, neppure un dubbio sul fatto di essersi schierato coi nazisti. Anzi mostra con orgoglio la croce di ferro della Wehrmacht appesa al muro, vicino a un manifesto di Julius Evola e a una foto in bianco e nero di Pio Filippani-Ronconi («Mio grande amico») con l’uniforme delle Waffen-SS. «È vero, sono un ideologo - conclude Sermonti -. Ma non della violenza! Uccisi della gente, in guerra, con la mitragliatrice: ma appunto solo in guerra uccidere è legittimo, per me! La violenza popolare io l’ho prevista, mai incoraggiata».

Ritratto degli aspiranti terroristi: un ex carabiniere e un gruppetto di chiacchieroni, scrive Ugo Maria Tassinari su “Il Garantista”. Il caso di … è brutto dirlo ma credo sia il caso di riprendere la strada dell’Italicus [...] ma su ampissima scala [...] “Nicò io purtroppo l’ho scritto… l’ho scritto più di una volta… ogni volta che l’ho scritto mi è costato un ban, io la vedo, tanto lo sto dicendo io, non lo sta dicendo Nicola Trisciuoglio, è giunto il momento di colpire, ma non alla cieca, tipo la stazione di Bologna, tra l’altro non attribuibile a noi, quell’opera d’arte, vanno colpiti precisi obiettivi banche, prefetture, questure, uffici di equitalia, uffici delle entrate, con i dipendenti dentro, è brutto dirlo Nicò ma è arrivato il momento di farlo, ma farlo contestualmente non a Pescara e fra otto mesi a Milano, no, una mattina alle 8.20, contemporaneamente 500 persone premono 500 telecomandi”. Questa intercettazione, immediatamente diffusa anche in formato video su youtube dal Ros dei Carabinieri (che hanno un ottimo ufficio stampa, va riconosciuto) è il punto di fuoco dell’intera inchiesta che ha portato ieri all’arresto di 14 militanti neofascisti in un blitz partito dall’Aquila e che vede tra i 44 indagati anche un intellettuale nero del prestigio di Rutilio Sermonti, antico sodale di Pino Rauti (ha 93 anni). A parlare è il capo indiscusso dell’organizzazione, Stefano Manni, un carabiniere congedato per infermità (lui stesso parla di aver subito un ictus da aneurisma, invocandolo come possibile esimente per i suoi reati) con una forte vocazione alla menzogna: tant’è che dopo aver annunciato un programma così impegnativo “buca” un appuntamento a Napoli con Trisciuoglio perché deve andare a vedere la recita natalizia della figlia. Ma con il camerata si giustifica con un fermo a opera dei carabinieri per la sua attività su Internet. È sottile il confine tra il palco virtuale di facebook, dove i due sono bravi a fare proselitismo, e la realtà. E anche se gli enunciati terrificanti sembrano millanterie di due chiacchieroni da bar come fai a non porti il dubbio che il delirio possa produrre effetti di realtà? Siamo ancora sotto choc per l’afroamericano di Baltimora che dopo aver sparato alla fidanzata annuncia su Instagram che vendicherà i fratelli ammazzati dalla polizia razzista. E va a New York dove uccide due cops: un latino e un cinese …Questa è gente – mi segnala in tempo reale uno dei miei tanti informatori – capaci di scatenare un flame su internet contro una camerata di bell’aspetto colpevole di aver espresso compassione per gli immigrati, a colpi di frizzi e lazzi sulla sua passione per la dotazione organica dei “negri”. E le diverse sigle dei gruppi ultrafascisti menzionati nell’ordinanza di custodia non risultano aver prodotto altro che l’elezione di qualche consigliere comunale in paesini di poche centinaia di abitanti o convegni che guadagnano due colonne in cronaca locale solo se c’è il boicottaggio di rito dell’antifascisteria.Il dato di fatto o, se volete, il problema è che il blitz aquilano porta per la prima volta alla ribalta una forma specifica di associazione liquida che non si limita – come a suo tempo Stormfront – a esprimere opinioni atroci ma annuncia l’intenzione di passare agli atti. La prima associazione sovversiva 2.0, quindi. E tra le tante cose curiose c’è un’anomalia notevole. Noi tendiamo ad associare la rete alla gioventù. Be’, i 14 arrestati sono tutti ultratrentenni: tre nati negli anni ’50, 7 nel decennio succes- sivo, due soltanto nei formidabili anni ’70, altrettanti all’inizio dei terribili ’80… Se ci aggiungiamo che il presunto ideologo è nato prima del fascismo…Gli aspetti grotteschi o apertamente ridicoli (come i cimeli della seconda guerra mondiale da utilizzare come armi) sono evidenti eppure anche un ipergarantista come me e sistematico coltivatore del pregiudizio negativo contro le “grandi retate” ha un minimo di difficoltà a liquidare il tutto come una buffonata. Perché in casi del genere il rasoio di Occam non funziona, né le regole della razionalità “economica” che orientano l’agire dei criminali “sani di mente”. Certo fa ridere un capo che dichiara di aver lavorato per l’Ovra (vedi il profilo di Manni su facebook) e poi progetta l’omicidio di Marco Affatigato perché è “uomo dei servizi segreti”. Ma il suo interlocutore nella famosa telefonata delle “stragi in serie” non è uno scemo del villaggio. La sua organizzazione di sostegno ai detenuti ha sviluppato forti legami con la Curia napoletana, tanto da trovare ospitalità per le sue iniziative in un convento della periferia orientale di Napoli. A uno dei convegni di “Uomo nuovo” ho partecipato anch’io come relatore. E al mio fianco sedeva un rispettato detenuto di lungo corso, l’ergastolano Mario Tuti… Non se ne sono accorti i carabinieri che hanno operato contro la nuova “spectre” nera ma un filone dell’indagine abruzzese porta alla variante napoletana del sistema Buzzi, tra San Gennaro e Pulcinella.

Avanguardia Ordinovista: mammamia quanto somigliano ai colonnelli di Monicelli e Tognazzi! Scrive Riccardo Paradisi su “Il Garantista”. Per capire qualcosa di questa eversione nera con epicentro in Ascoli Piceno che pretendeva di rovesciare l’ordine democratico vagheggiando al telefono di attentati a magistrati, banche e sedi d’Equitalia sarebbe utile rivedersi Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli, parodia irresistibile del golpe del principe Valerio Borghese con uno strepitoso Ugo Tognazzi nelle vesti di Beppe Tritoni, ex professore di ginnastica alla Farnesina. Un mitomane che passa giorni e notti a organizzare un colpo di stato che puntualmente fallisce e che finisce nei tavolini dei bar di Roma a vendere piani di golpe agli africani. Di questo Stefano Manni, 48 anni, che si occupava del reclutamento e del reperimento dei fondi dell’organizzazione Avanguardia ordinovista si sa che vantava un legame di parentela con Gianni Nardi, terrorista neofascista che negli anni ’70 insieme a Stefano Delle Chiaie, era uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. Intendiamoci questo Manni, fino a 10 anni fa un sottufficiale dell’Arma, congedato per infermità, non è una personcina a modo. E’ un incitatore d’odio, un potenziale violento, uno che trafficava in armi e cose losche. Da qui a vedervi il regista di un colpo di spalla alla democrazia però ce ne passa. Tanto più che il ruolo di ideologo dell’organizzazione sarebbe stato rivestito da Rutilio Sermonti, un uomo di 93 anni, che vive in povertà, un reduce ormai quasi completamente sordo. Sermonti è indagato per aver scritto uno “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita”, l’accusa che gli viene rivolta è di avere immaginato «una nuova costituzione repubblicana basata su un ordine costituzionale di ispirazione marcatamente fascista». I congiurati di Vogliamo i colonnelli si vedono in una riunione a porte e finestre chiuse sul litorale di Santa Severa in una villetta di proprietà della contessa Lamatrice alla presenza del colonnello greco Andrea Automaticos finanziatore dell’impresa. ”Una riunione che passerà alla storia” dice Beppe Tritoni che fa mettere tutto a verbale compresa la discussione sul nome in codice da dare all’impresa. «Or-po: ordine e potere» è la proposta che si leva dalla riunione. «Sarebbe più esatto Famiglia e Valore» dice un altro. Ma poi gli si fa notare che le iniziali sono ”Fa-va” e non è il caso. Alla fine viene approvata la formula ”Volpe ne- ra” su proposta di Tritoni. Provvedimenti che dovrà prendere il nuovo regime: ripristino della pena di morte, riapertura dei casini, disciplina tra gli studenti con lo slogan: ”parlate solo quando siete interrogati”, rieducazione per gli omosessuali. All’esigenza manifestata di un soggetto in grado di stendere un piano operativo si mette a verbale che «necessita uomo con ampiezza di vedute, scaltrezza, capacità di sintesi tattica- strategica». Un uomo che sappia con le parole giuste lanciare l’appello alla maggioranza silenziosa ”ma non sorda al richiamo della patria”. «Ho un’idea semplicemente geniale – dice il colon- nello Aguzzo – perché non il maresciallo Eliseo Talloni». «Ma è vivo?» Dice il notista del verbale, «Mi par bene sia nato il 25- 4-1887». Risposta di Aguzzo: «Ho avuto l’onore di vederlo a Montecatini nell’ottobre scorso, bevve quattro bicchieri senza battere ciglio, una roccia, lucido, vigile a mio avviso l’uomo giusto». Ecco.

Storia dei sei fratelli Sermonti e dei giudici astuti, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Quella dei fratelli Sermonti è una storia davvero intrigante. Sono sei fratelli, quattro maschi e due femmine. Nati tra l’inizio e la fine degli anni venti. Di alcuni di loro sappiamo poco, ma pare che sia tutta gente ingegnosa e non molto conformista. Sappiamo qualcosa di più dei tre più famosi: uno scienziato, che si chiama Giuseppe ed è uno dei massimi genetisti italiani, ma non è darwinista (neanche creazionista, per fortuna…) e perciò ogni tanto viene contestato nelle università; Giuseppe ha 89 anni. Poi c’è un letterato, che si chiama Vittorio, famoso per le sue letture di Dante, scrittore, giornalista, pensatore, romanziere insegnante e un po’ poeta. Ha 85 anni. E’ stato il professore di italiano, al Tasso di Roma, di ragazzini come Paolo Mieli e Valerio Veltroni. E’ quello che conosco meglio, perché negli anni 80 ho lavorato con lui all’Unità, lo portò Reichlin e lo mandava anche a scrivere pezzi di cronaca nera (grandiosi i suoi reportages da Vermicino, dove stava morendo nel 1981, il piccolo Alfredino Rampi). Simpaticissimo, Vittorio, carismatico, coltissimo, ha sposato una figlia di Suni Agnelli, Samaritana, e ne ha avuto un figlio, Pietro, che è un attore piuttosto famoso. Poi c’è questo Rutilio, che ha 94 anni, è fascista da quando era ragazzino, ha fatto il volontario a Salò, ha partecipato alla fondazione del Msi, ma poi il Msi gli sembrava moderato e allora ha partecipato alla fondazione di Ordine Nuovo. Infine ci sono due signore e unaltro fratello maschio dei quali non so dirvi nulla. Rutilio, il fratello maggiore, è considerato – mentre viaggia verso i cento anni – un terrorista pericoloso. Da chi? Dai magistrati, poveretti. Rischia una condanna a 20 anni di galera. Se dovrà scontarli tutti uscirà a 114 anni, ma se otterrà gli sconti per buona condotta, forse, a 110 sarà fuori. A me pare che questi fratelli Sermonti – comunisti, fascisti, scienziati – siano tutti un po’ scombiccherati. Vittorio – che è un tifoso fradicio della Juventus, era amico di Boniperti, sa a memoria anche la formazione che vinse lo scudetto nel 1960, con Sivori Nicolè e Charles, e a casa sua aveva un campetto di calcetto invece del giardino – racconta che quando erano piccoli – lui aveva sei anni – il padre li riuniva e gli leggeva Dante, con voce roboante. Pure il padre doveva essere un bel tipino. La lettura di Dante quando si è troppo acerbi può avere vari effetti. A qualcuno provoca amore per Dante (e per Vittorio è stato così) qualcun altro lo spinge alla ribellione estrema – perché per un ragazzino Dante può essere molto molto noioso, specie il canto su Pia dei Tolomei – fino alla scelta fascista e ordinovista. Di qui a pensare che un signore di 94 anni sia pericoloso, ce ne passa. E se si legge la sfilza di capi di imputazione decretati dai magistrati, si scopre che sono praticamente tutti reati di opinione, o ”tentativi”. Certo, le opinioni di questi 14 fascisti sono orripilanti. Ma siamo sicuri che in un paese libero, nel 2014, debba esistere ancora il reato di opinione, come esisteva ai tempi del fascismo? No, perché alla fine uno non capisce più chi siano i fascisti…

L’Aquila nera: fascisti su Marte, ma via Facebook, scrive  Nanni Delbecchi su “Il fatto Quotidiano”. Nemmeno i fascisti sono più quelli di una volta. Il che, per un Paese fondamentalmente fascista da sempre, è una bella mazzata, da gettare nel dubbio anche Pasolini. Bei tempi – per le camicie nere – quelli in cui Ordine Nuovo trescava con i Servizi, seminava stragi, progettava golpe e, insomma, le trame erano una cosa seria. “Trama nera, trama nera, sol con te si fa carriera”, cantava fiero il gruppo Gli amici del vento. Caro, vecchio Ordine Nuovo. Ma che dire di questi neoavanguardisti ordinovisti sgamati dall’operazione “Aquila Nera”, capitanati dall’ex carabiniere Stefano Manni, infiltrata di peso nelle istituzioni una consigliera comunale di Poggiofiorito (e ho detto Poggiofiorito), agenti provocatori sparpagliati per tutte le province d’Italia, gemellati con Militia Christi e base operativa a Montesilvano, prova evidente che anche il terrorismo ha scoperto la delocalizzazione? Costoro si richiamavano alla famigerata organizzazione neofascista in continuità con l’eversione degli Anni Settanta, e per questo sono stati incarcerati, ci mancherebbe. Ma certo che, se si vanno a vedere i loro progetti e soprattutto le loro radici, ci si trova di fronte a un declino clamoroso. Farneticazioni omicide di Mein Kampf a parte (non a caso amate anche da Manni e compagnia), il pensiero di destra mescola da sempre orrore e profondità. Un calderone ribollente a base di teoria della razza, culto delle élite, superomismo, cicli cosmici, fiamme, rune e asce bipenni in cui tra tanta paccottiglia ci si può imbattere anche in Nietzsche, Heidegger, Guenon, Céline, Tolkien e, ci vogliamo rovinare, anche in Evola e Malaparte. Ma quelli di “Aquila nera” più che della terra degli Hobbit sembrano frequentatori di Il mio hobby; nel loro caso il ciclo non è cosmico, ma decisamente comico. Sognavano di uccidere Giorgio Napolitano o in subordine almeno Pier Ferdinando Casini. Ma nella pratica quotidiana avevano anche obiettivi più alla mano, come coprire di insulti gli extracomunitari sui social network, un occhio di riguardo per l’ex ministro Cécile Kyenge con virile sprezzo della macumba. E poi, l’hobby prediletto: progettare rapine e attentati proprio come se fossero modellini di aeroplani. Dal sogno nel cassetto, “riprendere la strada dell’Italicus su ampia scala”, a quello più realistico ma anche creativo l’attentato a Equitalia “con i dipendenti dentro” (tutta un’altra cosa, diciamolo, se i dipendenti sono in pausa pranzo). Se tanto mi dà tanto, il cerchio dei riferimenti culturali si restringe parecchio. Addio Nietzsche, Guenon e Céline. Il Pantheon di Manni parte da Calderoli e Borghezio, passa per Ben Hur (“Siamo figli di Roma imperiale. Siamo eredi di un glorioso passato”), il reality I re della griglia (“Voglio sentire odore di carne bruciata”), il capo della Spectre che sogna di distruggere il mondo schiacciando un pulsante, il Corrado Guzzanti di Fascisti su Marte, alla conquista del Pianeta rosso al grido di battaglia di “A mali estremi, estrema destra”, e si conclude trionfalmente con gli ufficiali nostalgici reclutati dall’onorevole Giuseppe Tritoni (alias Ugo Tognazzi) in Vogliamo i colonnelli di Monicelli. Certo che per essere delle aquile nere volavano piuttosto basso. Un momento però; c’era anche l’ideologo di riferimento, il padre nobile del “nuovo ordine nuovo”, seppure non nuovissimo di suo, visti i 94 anni compiuti. L’ex repubblichino Rutilio Sermonti, che si era evoluto dai tempi di Salò al punto da confezionare una Carta costituzionale nei cui articoli venivano messi nero su bianco il divieto ai diritti politici e l’obbligo per le donne di restarsene dentro casa, ai fornelli. Insomma, questi camerati con uso cucina che discutevano i loro progetti eversivi su Facebook (però sui canali riservati agli amici, le precauzioni non sono mai troppe) e sognavano la dittatura per via costituzionale, sono oltre i Fascisti immaginari descritti da Luciano Lanna e Filippo Rossi e anche oltre i Fascisti su Marte. Questi sono fascisti economici, taroccati da qualche fabbrichetta clandestina. Nella Storia, dice Marx, le tragedie ritornano in forma di farsa, ma questi avanguardisti sono peggio nella farsa che nella tragedia. Aridatece i colonnelli.

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

Il 41 bis a Carminati è ferocia e demagogia, scrive Piero Sansonetti su  “Il Garantista”. Il ministro della Giustizia, l’altro giorno, ha detto sì alla richiesta della Procura di Roma e ha affibbiato il 41 bis, cioè il carcere duro, a Massimo Carminati, il presunto capo di “Mafia Capitale”, ex componente prima dei Nar e poi della banda della Magliana. Il 41 bis è un articolo del regolamento carcerario del tutto incostituzionale, perché prevede un trattamento inumano e degradante di alcuni detenuti. È illegale. E tuttavia è piuttosto frequente. Viene deciso dal ministro su richiesta dei Pm. È riservato a chi è sospettato di una dozzina di delitti – elencati nel regolamento – tra i quali, ovviamente, non compare la corruzione politica o la concussione, né il percepimento o l’elargizione di tangenti. C’è invece l’associazione mafiosa. Per la precisione il 41 bis nasce con lo scopo di combattere la mafia. E nasce come misura temporanea e d’emergenza. Dura da 22 anni. Recentemente, sul nostro giornale, un magistrato come Ingroia – che certo non appartiene, diciamo così, alla piccola schiera dei magistrati liberali – ha spiegato che il 41 bis serve a impedire che alcuni boss possano comunicare con l’organizzazione mafiosa e dare ordini e continuare a dirigere l’attività di Cosa Nostra o della ’ndrangheta o della camorra. E sulla base di questo principio Ingroia in persona aveva chiesto che fosse revocato il 41 bis a Provenzano, visto che non è più in grado di dare ordini a nessuno. Per dare il carcere duro a Carminati si sono inventati il reato di associazione mafiosa. È chiarissimo che il gruppetto che organizzava le tangenti a Roma – se sarà riconosciuto colpevole – svolgeva una normalissima azione illegale, senza uccidere, senza compiere attentati, e senza nessunissimo collegamento né con Cosa Nostra né con la ’ndrangheta. Se il 41 bis serve a interrompere il collegamento tra arrestato e mafia organizzata, che c’entra Carminati? Niente. Il 41 bis serve solo a coprire, con un po’ di spettacolo, un po’ di fumo, il flop di una inchiesta che finora non ha prodotto niente di niente, salvo qualche arresto, con pochi indizi e senza prove, e lo spargimento di sospetti un po’ su tutti.

Il manicheismo assoluto dell’inchiesta Mafia Capitale, scrive Francesco Petrelli, segretario dell’Unione Camere Penali Italiane su, “Il Garantista”. I fatti accadono. Non accadono come risultato di un complotto. Ma non accadono neppure a caso. Proviamo a leggerli nelle loro cadenze più evidenti. Con l’indagine “Mafia Capitale”, esplosa a Roma i primi di dicembre 2014 con alcuni arresti per fatti di corruzione e associazione mafiosa che legano criminalità comune e potere politico capitolino, lo sviluppo investigativo impresso dal Capo della Procura romana assume caratteristiche originali. Ciò che emerge con sufficiente chiarezza è la deliberata decifrazione in chiave di mafiosità di tutti i fenomeni criminali, secondo una prassi che porta con sé tutto l’armamentario affinato nell’ambito della pregressa esperienza investigativa mafiosa, siciliana e calabrese, e che trasforma l’art. 416 bis in un indiscriminato strumento di lettura di tutti i fatti delittuosi più o meno ordinari. Così come scriveva Martin Heidegger: “date un martello a un bambino e trasformerà tutto il mondo in un chiodo”: nonostante qualche analogia con Tangentopoli (che si coglie nei proclami reiterati della Procura, nell’enfatizzazione mediatica dell’indagine e dei suoi sviluppi, e in quella telecamera fissa fuori dalla porta carraia di via Varisco …), è questo il tratto distintivo. Là una quasi inaspettata onda di consenso popolare per l’indagine, sulla quale incredule saltano sopra le Procure, cavalcandola sino alle sue estreme conseguenze, qui una scientifica, preventiva e meticolosa articolazione di sofisticati strumenti mediatici messi in mostra senza alcun pudore. L’ingenuo manicheismo che sortiva fuori dall’azione della magistratura milanese come un fenomeno spontaneo e divideva la società civile buona dalla politica corrotta dei partiti, qui diviene il feroce strumento ideologico che giustifica l’affondo sui crimini della capitale, trasformata in una Gotham city in cui domina l’orbo veggente che teorizza di mondi mediani e nella quale loschi passati carcerari incrociano il disinvolto presente dei manager metropolitani. La Procura antimafiosa è il Bene assoluto che ridisegna la storia e riscrive i codici e attraverso la sua azione giudiziaria modella la Verità e la sua virtuosa rappresentazione. Male è la politica che non si piega più ai veti della magistratura e impone norme contrarie ai suoi voleri. Male è il giornalismo che non si piega ai desiderata delle Procure e che offre spazi informativi a chi cerca il senso delle cose al di fuori dell’unico pensiero che tutti i media pontificando avallano (“Mi conferma – chiede al ministro un po’ stizzita la Annunziata, costituzionalmente mal consigliata – che queste nuove norme anticorruzione non si applicheranno ai fatti di Roma?!). Male sono i giudici che assolvono e che prescrivono i reati, da Roma a L’Aquila e fino agli ermellini della Corte Suprema. Male è l’avvocatura. Obliquo ed obsoleto strumento favoreggiatore. Intralcio pericoloso all’accertamento della verità intesa, non come risultato provvisorio e falsificabile, ma come esito del parto gemellare che ha messo al mondo la Verità e l’Indagine al tempo stesso. La storia, come è noto, non si ripete mai uguale a se stessa, e qui le differenze sotto un profilo strutturale appaiono assai qualificanti: Tangentopoli nasceva spontanea e, a guardarla oggi, un po’ naif. Piegava la procedura, ma lo faceva secondo cadenze improvvisate, via via messe a fuoco sulla spinta cinica della necessità. “Mafia Capitale” è invece il manifesto di un Manicheismo assoluto, una macchina ideologicamente spietata, postmoderna, sofisticata, tecnologica, multimediale e perniciosa perché produttiva di irreparabili squilibri. Vediamone alcuni: visto che il legislatore imbelle tentenna ad introdurre norme che consentano di applicare a fenomeni criminali corruttivi le nome antimafia, la Procura romana trasforma con lucida operazione genetica i fenomeni corruttivi in reati di mafia. I giudici lavorano con i fatti e li plasmano sulle norme. Così se le norme non si piegano ai fatti, saranno i fatti a piegarsi alle norme. Le Procure fanno a meno del Legislatore. Le Procure fanno a meno anche della compressione delle garanzie. Scrive il dott. Gratteri su MicroMega, uscendo a ottobre dall’ “ombra del suo ministero”: “con la nostra riforma non arretreremo le garanzie di un millimetro”. Non c’è bisogno infatti. Le garanzie non si abrogano con le leggi ma si elidono nei fatti: la mafiosità postulata impone al processo ritmi e cadenze necessitate dalla gravità del fenomeno: che l’indagato in vincoli venga interrogato a sua garanzia il più presto possibile e subito dopo l’esecuzione della misura e senza che possa leggere granché delle oltre mille pagine dell’ordinanza appena notificatagli. Se poi davvero vi è tanta urgenza di rimescolare le carte di fronte a tanto evidente e corposa fonte di Verità, che l’avvocato insegua l’indagato nelle carceri poste ai confini del regno, dove è stato collocato per ovvi motivi di sicurezza antimafiosa. La politica debole si mette nelle mani della magistratura. Nonostante le denunce del Procuratore di Palermo, la risalente prassi, cresciuta al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, di iniettare magistrati delle procure antimafia direttamente negli assessorati regionali e comunali disastrati, si ripete e si moltiplica, dalla Regione siciliana al Comune di Roma: solo il magistrato antimafia è garanzia di legalità. Anche a Gotham city la politica non si fida più della politica e la Magistratura, che una volta si candidava in libere elezioni per occupare spazi tramite la libera competizione elettorale (come sembrano lontani e ingenui i tempi dei Di Pietro, degli Ingroia e dei De Magistris), ora quegli spazi se li apre di fatto, sull’onda delle sue stesse indagini, per saltum. Con scientifica sapienza postmoderna l’indagine “Mafia Capitale” pone così i nuovi confini del Bene e del Male, impone alle amministrazioni locali i garanti della legalità, impone alla politica le riforme del processo e al tempo stesso dimostra di non aver bisogno di nulla e di nessuno per cambiare il mondo, e di poter fare la Storia da sola, ancora una volta, con un nuovo passo, annunziando la trasformazione con un formidabile trailer nel quale il Male si arrende davanti a tutti alzando le mani…

Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare.

Roma, l’ex pm Sabella in giunta: “Difficile capire chi sono gli onesti”. Dopo il via libera del Csm, il sindaco Marino presenta il nuovo assessore alla legalità. L’attacco dell’Unione camere penali: “Prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia”, scrive Giuseppe Pipitone su “L’OraQuotidiano”. “Quando vivevo a Palermo mi occupavo di ricerca di latitanti, la battuta che mi viene è facile: in quel caso sapevo chi erano i mafiosi ma non sapevo dove stavano, qui probabilmente si sanno dove stanno le persone ma non si sa chi essi siano in realtà”. Con una battuta fulminante, Alfonso Sabella ha esordito come nuovo assessore alla Trasparenza e Legalità del comune di Roma. Nella giornata di ieri il Csm ha infatto dato il via libera all’aspettativa chiesta dal magistrato con quattordici voti a favore, tre  astenuti e otto contrari ( i vertici della Cassazione Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani, più molti membri laici). Stamattina quindi l’ex pm è entrato nella nuova giunta varata dal sindaco Ignazio Marino. “Per me è un grande acquisto per Roma. Un acquisto necessario se si pensa che nei cinque anni precedenti la mafia aveva raggiunto posizioni di vertice. Con la nostra amministrazione non ci è riuscita però aveva tentato in diversi modi. Io credo che la presenza di una personalità come Alfonso Sabella scoraggerà anche i tentativi” ha detto il primo cittadino capitolino, che ha presentato la nuova giunta stamattina in Campidoglio . La nomina dell’ex pm della procura di Palermo arriva dopo il clamore suscitato dall’inchiesta Terra di Mezzo, che ha svelato l’esistenza della Mafia Capitale, l’organizzazione criminale con al vertice l’ex estremista nero Massimo Carminati. L’arrivo nella giunta capitolina di Sabella è stato bacchettato dall’Unione delle camere penali che ha bollato la nomina come “pericolosa per la democrazia“. I penalisti denunciano una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Per l’Unione camere penale “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. Nato a Bivona, piccolo comune in provincia di Agrigento nel 1962, fratello di Marzia, anche lei pm a Palermo, Sabella entra in magistratura nel 1989 e non si iscrive mai ad alcuna corrente delle toghe. All’inizio fa il pm a Termini Imerese, poi nel 1993 viene trasferito a Palermo: sono i mesi successivi alle stragi di Capaci e via d’Amelio e a dirigere la procura del capoluogo è appena arrivato Gian Carlo Caselli. Sabella diventa subito uno dei fedelissimi del magistrato piemontese e inizia a condurre le indagini su decine dei pezzi da novanta di Cosa Nostra, che reggevano l’organizzazione criminale dopo l’arresto di Totò Riina. In breve tempo finiscono in manette a decine:da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca, passando da Pietro Aglieri, Cosimo Lo Nigro e Carlo Greco: l’ala militare dei corleonesi è decimata in pochi mesi. Dopo l’esperienza come dirigente dell’ufficio ispettivo del Dap, Sabella viene trasferito prima a Firenze e poi diventa giudicante a Roma.

Pecoraro e l'incontro con Buzzi: "Mi sento pugnalato alle spalle. A Letta dissi: chi mi hai spedito?". Intervista al prefetto: "L'ho ricevuto in segno di rispetto per l'ex sottosegretario. Gli spiegai che non potevano arrivare altri profughi a Castelnuovo", scrive Mauro Favale su “La Repubblica”. "Quando Salvatore Buzzi andò via, dopo l'incontro con me, telefonai a Gianni Letta e gli dissi: "Gianni, ma chi mi hai mandato?". E lui? "E lui mi risposte: "Non lo farò più". Giuseppe Pecoraro ha festeggiato poche settimane fa il sesto anno da prefetto di Roma. Un anniversario che ha anticipato di poco la bufera su mafia capitale che lo vede primo attore in campo: da un lato sono i suoi uffici che stanno analizzando gli atti del Campidoglio e che dovranno relazionare al Viminale sulle infiltrazioni criminali nel Comune di Roma in vista di un eventuale scioglimento. Dall'altro, proprio in questi giorni, Pecoraro è costretto a difendersi per aver incontrato il 18 marzo scorso, nei suoi uffici, proprio Buzzi, il ras delle cooperative, braccio destro di Massimo Carminati, finito in carcere accusato di associazione mafiosa.

Quello stesso giorno di marzo, prefetto, partì dai suoi uffici una lettera, indirizzata al sindaco di Castelnuovo di Porto e al questore, nella quale si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo. E ora è finito sotto accusa per questa coincidenza temporale.

"Trattare così questa vicenda la giudico una carognata, una pugnalata alle spalle".

L'incontro e la lettera, però, ci sono stati?

"Sì, certo. Ma quella lettera non è l'unica di quel giorno. Sono state inviate a tutti i sindaci e a tutti gli enti con posti disponibili con posti disponibili o del consiglio territoriale per l'immigrazione. E tra queste c'è anche la 29 giugno di Buzzi".

Dalle carte della procura emerge che quel pomeriggio lei ha incontrato il capo della 29 giugno dopo l'interessamento dell'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta.

"A marzo Buzzi non sapevo neanche chi fosse. Io l'ho ricevuto sulla base del rispetto che ho per la persona che me l'ha mandato. E devo ammettere che avevo pure rimosso quell'incontro. Mi sono ricordato di lui e di averlo ricevuto solo quando ho letto l'ordinanza".

Ma è prassi che un prefetto riceva il rappresentante di una cooperativa e non anche gli altri?

"Vedere i presidenti delle associazioni è una cosa normale, soprattutto se si tratta di presidenti di cooperative che collaborano con la prefettura. Non sa quante volte ho incontrato monsignor Feroci della Caritas, così come molti altri".

E cosa disse a Buzzi?

"Gli dissi che per Castelnuovo non c'erano possibilità e non potevo cambiare idea. Il mio è stato un no motivato perché lì esisteva già il Cara, il centro per richiedenti asilo, e quel Comune non era in grado di ricevere nuovi immigrati. Tra l'altro, anche il sindaco di Castelnuovo si era sempre lamentato dell'alto numero delle persone nel centro".

E allora come si spiega che Buzzi esce dal suo incontro e, al telefono, racconta che era andato tutto bene? Millantava?

"Questo non lo posso sapere. Forse avrà pensato che avrebbe potuto provare a fare pressioni sul sindaco di Castelnuovo o credeva di poter nuovamente passare per Letta".

Cosa che fece?

"No, Letta l'ho sentito io, subito dopo quell'incontro".

E cosa gli disse?

""Ma chi mi hai mandato?"".

E lui?

""Non lo farò più", mi rispose. E, in effetti, né lui né nessun altro mi ha mai più parlato di Buzzi".

Disse così a Letta perché Buzzi non le fece una buona impressione?

"Sì, non mi aveva convinto particolarmente".

La commissione antimafia potrebbe doverla risentire.

"Ho parlato con la presidente Rosy Bindi, le ho dato la mia massima disponibilità. In ogni caso, loro hanno già la documentazione che dimostra come a quella lettera non fu poi dato alcun seguito".

La storia, dunque, è chiusa?

"Per me sì. Ovviamente gli articoli di giornale usciti in questi giorni verranno valutati dai miei avvocati".

Chi è Giuseppe Pecoraro, il prefetto in guerra che bisticcia con Marino e fa il commissario di se stesso. Lo schizzo di fango da “mafia capitale”, il lungo e difficile rapporto con il Comune di Roma, gli scazzi sulla monnezza e l’assenza di “avveduta precauzione” sciasciana, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Prefetto lo è, Giuseppe Pecoraro, burocrate di lunga carriera ma di non evidente propensione a vestire i panni del classico prefetto: l’uomo uguale fra tanti uomini uguali, rassicurante funzionario al servizio dello stato, ventriloquo della direttiva superiore che, quando è eroe (nei film), lo è alla maniera del “prefetto di ferro” di Pasquale Squitieri con Giuliano Gemma: un uomo che per non adeguarsi ai poteri grigi viene infine promosso (e di fatto rimosso). Il prefetto Pecoraro non soltanto è, di questi tempi, necessariamente diverso dai suoi simili che lavorano nell’ombra discreta delle stanze prefettizie, ché lo si trova un giorno sì e l’altro pure sui giornali per una divergenza di opinioni con il sindaco di Roma Ignazio Marino (sulle nozze gay come sulla cosiddetta mafia capitale) o per quella visita che Salvatore Buzzi, presunto co-boss al fianco di Massimo Carminati, tributò proprio al prefetto, a proposito di un centro accoglienza in quel di Castelnuovo di Porto. C’è poi che il prefetto Pecoraro, prima di tutto per fisiognomica, poco si adatta all’immagine di prefetto alla Elio Petri (quello che in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” si presenta col fazzoletto bianco nel taschino identico a quello degli altri innumerevoli prefetti in fila con abiti indistinguibili). Si dà il caso, infatti, che Pecoraro abbia sembianze e movenze da sceriffo più che da protagonista meticoloso di riti da vecchia provincia – indimenticabile resta il prefetto che non vuole farsi trasferire nonostante la sequela di scocciature in “L’ultima provincia” di Luisa Adorno, libro Sellerio adorato da Leonardo Sciascia, ritratto di prefetto e prefettessa nell’aria immobile di una Toscana-deserto dei tartari, dove il Natale si trasforma in incubo di notabili in visita e teorie di dame relegate nella stanza “a parte”, quella delle donne, a parlare del più e del meno incrociando le piume dei cappelli. “Avveduta precauzione” dei prefetti, la chiamava Sciascia in “Invenzione di una prefettura”, una piccola storia della prefettura di Ragusa, e chissà se Pecoraro, col senno del poi, vorrebbe averla avuta, quella “avveduta precauzione”. Fatto sta che oggi il prefetto dice che sì, Buzzi l’ha ricevuto per rispetto verso l’ex sottosegretario Gianni Letta che gliel’aveva inviato, ma che dopo averlo ricevuto ha prontamente telefonato a Letta per lamentarsene (“chi mi hai spedito?”) e Letta poi se n’è quasi scusato (“non lo farò più”). E dice il prefetto che, dopo la visita di Buzzi, aveva sì inviato una lettera al sindaco di Castelnuovo di Porto in cui si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo, ma che “trattare così questa vicenda”, com’è stata trattata in questi giorni sui giornali, con tanto di titoli su di lui, il prefetto, “è una carognata e una pugnalata alle spalle”, perché quella lettera era stata inviata in automatico e ce n’erano altre dello stesso tenore inviate a Guidonia, a Ciampino, a Rocca Priora, ad Anguillara “e, in copia, alla Questura”. Lungi dal risparmiare dalle luci della ribalta il prefetto, figura tradizionalmente destinata alle pur gloriose penombre della burocrazia, ieri il Corriere della Sera, a firma Fiorenza Sarzanini, raccontava della “gara europea bandita dalla prefettura di Roma” nel 2013 e vinta da una delle coop di Buzzi (la Eriches 29) per gestire il centro accoglienza della discordia (quello di Castelnuovo di Porto) e dell’“esposto del prefetto”, così si leggeva sul Corriere, “contro il giudice Tar ‘nemico’ della coop” di Buzzi. Tuttavia non era cosa inconsueta, per Pecoraro, il ritrovarsi alla ribalta. E’ capitato infatti, pochi giorni fa, che Pecoraro comparisse sul Messaggero, intervistato come parte in causa nella infinita querelle con il sindaco Marino (“se non sapeva il prefetto, che ricevette il capo delle coop, come potevo sapere io”?, aveva detto Marino, e Pecoraro avevo risposto senza salamelecchi prefettizi: “Buzzi era estraneo ai miei uffici; nell’amministrazione Marino, invece, ci sono tre indagati”). E non basta: qualche giorno dopo il prefetto, al giornale RadioRai, aveva parlato della commissione d’accesso agli atti del Comune. Scherzo della sorte vuole, infatti, che Pecoraro sia al tempo stesso l’uomo dell’incontro in prefettura con Buzzi ma anche e soprattutto l’uomo che controlla chi con Buzzi avesse a che fare: dalla prefettura provengono i commissari che devono leggere gli atti del Campidoglio in vista della relazione sul tema “infiltrazioni criminali” al Comune di Roma (in teoria anche a rischio scioglimento). E alla radio il prefetto se ne usciva con la profezia che molto faceva indispettire il sindaco: “… Può venire fuori che ci sia la necessità di uno scioglimento…”, diceva Pecoraro; “immagino che il prefetto sappia molte cose e non le possa dire proprio perché fa il prefetto… ”, diceva Marino. E Matteo Orfini, commissario per il Pd romano, su Twitter scriveva che il prefetto gli pareva intento, ultimamente, a “fare più dichiarazioni e interviste di Matteo Salvini”. “Il ministro Alfano venga in Aula a riferire e valuti l’opportunità di avvicendare il prefetto Pecoraro dopo otto anni di permanenza nella capitale”, dicono intanto, da Sel, i deputati Arturo Scotto e Filiberto Zaratti, mentre il consigliere radicale Riccardo Magi fa notare che “alcuni dei fatti più gravi su cui si indaga”, per esempio per quanto riguarda affidamenti e campi rom, “sono avvenuti in regime commissariale per l’emergenza rom. Non è che il commissariamento mette al riparo dall’illegalità”. Nemmeno nei momenti di massima insofferenza per le processioni locali in cui si dovevano fare passettini accanto a preti e autorità “all’andatura del santo”, e lasciare che la banda “rintronasse il cervello”, il prefetto defilato de “L’ultima provincia” avrebbe potuto immaginare di assurgere al livello di visibilità cui è assurto Pecoraro (e non da oggi). Il prefetto, infatti, è già stato, in tempi di governo Berlusconi (ministro dell’Interno Roberto Maroni), “commissario delegato per il superamento dell’emergenza rom” per la regione Lazio e la città di Roma, e commissario all’emergenza rifiuti in tempi di Comune guidato da Gianni Alemanno e di Regione guidata da Renata Polverini. “Prefetto in guerra”, lo chiama Massimiliano Iervolino nel libro “Roma, la guerra dei rifiuti”, in cui si narra la vicenda della tentata “sostituzione” della discarica di Malagrotta e della ricerca di un sito alternativo (molti vip contestarono il prefetto per via dell’ipotesi Corcolle, nei pressi di Villa Adriana. Si mobilitarono Giorgio Albertazzi, Franca Valeri e Urbano Barberini, quest’ultimo al grido di “è come mettere i rifiuti a Luxor o alle Piramidi”). Alla fine il prefetto si dimise da commissario per l’emergenza rifiuti, senza rinunciare a essere prefetto a modo suo. (Intanto dovrà pronunciarsi, dopo aver ricevuto le “memorie” delle aziende coinvolte, sui primi due commissariamenti di appalti decisi da Raffaele Cantone, presidente dell’Authority anti-corruzione).

Manca un progetto. E Totti è l’alibi della grande schifezza, scrive Sandro Medici su “Il Manifesto”. Marino e la nuova giunta di Roma. Non bastano gli assessori-commissari. E il pm Sabella arriva. Il sindaco Ignazio Marino prova a ripartire. Rinnova la sua giunta e tratteggia quel che d’ora in poi dovrebbe connotare la sua amministrazione: impegno a perdifiato e legalità assoluta. Un nuovo inizio. Con cui si tenterà di riprendere quel faticoso cammino che finora non è apparso particolarmente smagliante, e con cui si proverà a bonificare quel grumo politicomafioso che ha insidiato e a tratti aggredito il Campidoglio. I tre nuovi assessori, più gli altri tre subentrati nei mesi scorsi, hanno ridisegnato sensibilmente l’assetto iniziale: e non sfugge che siano l’esito dei tanti tormenti che hanno attraversato la politica comunale. Al di là delle singole soggettività, tutto questo rimescolamento è la rappresentazione di quanto sia ancora precaria e incerta la prospettiva su cui la città dovrebbe ritrovare fiducia e convinzione. Tra annunci e rassicurazioni, sorrisi e pochi applausi, Roma continua a non avere una strategia di sviluppo, un progetto di rilancio, una visione generale sul suo futuro. È doveroso insistere sulla necessità di superare il trauma politico-criminale che ha investito la politica amministrativa. Anzi, è obbligatorio: c’è da recuperare una credibilità infranta e smarrita. Ma è davvero inevitabile affidarsi a una pletora di commissari, tutori, garanti e supervisori? Forse la politica (almeno a Roma) non è più nelle condizioni di reagire e di responsabilizzarsi. Ma allora, viene da chiedersi, cos’è diventata la politica (almeno a Roma)? L’impressione è che, già esile in partenza, l’amministrazione Marino si sia ulteriormente indebolita: sfiorata dalle pratiche corruttive ereditate dal passato, ma anche per limiti propri. Ed è difficile che l’ingresso di un magistrato in giunta possa migliorare l’impronta politica del Campidoglio. Anzi. Non foss’altro perché il neo-assessore alla legalità, oltre a vantare riconosciuti meriti antimafia, viene ricordato anche per la sua “negligenza” in occasione della terrificante repressione nel 2001, durante il G8 a Genova. L’Associazione Giuristi democratici ricorda che Alfonso Sabella era allora il coordinatore delle attività penitenziarie, comprese quelle nel carcere di Bolzaneto, dove ai molti fermati fu riservato un trattamento ai limiti della tortura. Tanto che in un’ordinanza del Tribunale di Genova viene definito «negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo», poiché «non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». Storie vecchie, certo. Ma comunque dolorose. Soprattutto perché rimandano alla contraddittorietà del profilo politico con cui il sindaco Marino connota la sua amministrazione, non senza imbarazzi nei ranghi della sua maggioranza, che tuttavia non provocano particolari sussulti. Una maggioranza che appare sostanzialmente obbligata a sostenere il suo sindaco: per le note vicende giudiziarie, ma anche perché paventa il pericolo che diversamente possa andar peggio. E così, senza dissensi né contrasti, si approvano politiche economiche antipopolari, si persiste nei processi di privatizzazione, si spengono le esperienze culturali indipendenti e diventa anche possibile approvare delibere inguardabili, come quella che l’altro ieri ha sancito l’utilità pubblica dello stadio della Roma. Per quanto si possa “amare” la squadra giallorossa, autorizzare l’edificazione di un milione di metricubi tra funzioni direzionali, commerciali e d’intrattenimento, sol perché neces­ari a realiz­are un impianto sportivo privato, non è precisamente catalogabile come vantaggio sociale o utilità pubblica. Eppure così è andata. Totti è un alibi perfetto per promuovere questa grande schifezza.

L’ombra di Bolzaneto sul nuovo assessore di Roma, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Gli spettri delle torture subite dai manifestanti contro il G8 a Genova si affacciano sul Campidoglio. E’ arrivato ieri sera l’ok del Csm per l’aspettativa che Alfonso Sabella, giudice presso il tribunale romano, attendeva per poter rispondere positivamente all’offerta di Ignazio Marino, il sindaco di Roma che lo ha voluto come assessore alla Legalità e alla Trasparenza dopo i fatti di Mafia Capitale. La nomina di Sabella viene oggi pesantemente criticata dall’associazione Giuristi Democratici di Roma che rievoca – tramite un comunicato – il ruolo avuto da Sabella durante il G8 di Genova. Il magistrato che a questo punto entrerà nel governo della Capitale della città – si legge nel comunicato dove i giuristi democratici esprimono perplessità riguardo l’idea di nominare Sabella assessore alla legalità- durante i fatti di Bolzaneto era il coordinatore “dell’organizzazione e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria”, e dunque era anche deputato a sovrintendere su ciò che accadeva alla caserma Bixio. Per i fatti del G8 Sabella finì a processo e la sua posizione fu archiviata. Tuttavia, scriveva il Tribunale nell’archiviarlo, «il comportamento del dott. Sabella non fu adeguato alle necessità del momento. Egli fu infatti negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo, imprudente nell’organizzare il servizio (…) imperito nel porre rimedio alle difficoltà manifestatesi»: così i giudici del Tribunale di Genova nella sua ordinanza del 24 gennaio 2007; e ancora: «Alfonso Sabella non adempì con la dovuta scrupolosa diligenza al proprio dovere di controllo e che, pur trovandosi nella speciale posizione di “garante” (…), non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». La posizione di Sabella fu stralciata da quella degli altri imputati e per lui venne chiesto il non luogo a procedere. «A Bolzaneto vide che i detenuti erano tenuti in piedi con la faccia contro il muro, ma non fu testimone diretto delle violenze più gravi, né della loro sistematicità, quindi non avrebbe potuto impedirle», scrivevano i Pubblici Ministeri nel richiedere al Gip l’archiviazione per Sabella. Il giudice, dopo l’ordine di un supplemento di indagini a carico del magistrato, e nonostante l’avvocato di Sabella stesso avesse chiesto il processo, dispose l’archiviazione scrivendo nell’ordinanza le parole sopracitate. Ma la dichiarazione di Sabella che fece indignare all’epoca – e che oggi vengono ricordate dai Giuristi Democratici per sollecitare Ignazio Marino affinchè torni sui suoi passi – fu la sua opinione in merito all’operato degli agenti penitenziari durante le giornate terribili del G8 di Genova: secondo il magistrato Sabella il loro comportamento è stato «esemplare». I Giuristi Democratici di Roma infatti scrivono nel comunicato: «Sebbene l’operato del Dr. Sabella non sia stato ritenuto illecito, lo stesso non è stato ritenuto in grado di svolgere i ruoli organizzativi e di controllo sulla commissione di reati affidatigli, avendo per di più creduto alle giustificazioni di chi fu poi condannato per quei fatti gravissimi». E viene anche ricordata la frase di Sabella, pronunciata nel 2001: «Non ho alcuna intenzione di dimettermi. A Genova l’operato degli agenti penitenziari è stato esemplare»; secondo il magistrato, infatti, non sarebbero stati gli agenti penitenziari a picchiare i manifestanti durante il vertice genovese: «Qualcuno è stato. Ma i fermati sono arrivati alla caserma di Bolzaneto già ricoperti di ecchimosi», aggiungeva Sabella, allora, nell’intervista.

Mafia Capitale, penalisti contro assessore-pm Sabella: “Prassi pericolosa”, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al 'prestito' in Campidoglio. Ad avviso dell’Unione delle camere penali "la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa". Da magistrato ha fatto scattare le manette ai polsi di pezzi da novanta di Cosa Nostra: da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca eppure la nomina di Alfonso Sabella all’assessorato alla Legalità di Roma viene considerata pericolosa dai penalisti. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al prestito in Campidoglio. Secondo l’Unione delle camere penali è una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Ad avviso dell’Unione delle camere penali, “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. L’ex sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo, guidato da Gian Carlo Caselli, sarà quindi il nuovo assessore alla Legalità della giunta di Ignazio Marino. Una figura di garanzia fortemente voluta dal primo cittadino dopo lo scandalo di Mafia Capitale. Sabella fu pm nel 1993, nel day after delle stragi mafiose che spazzano via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, senza mai iscriversi ad alcuna corrente della magistratura. Sabella è stato anche al vertice del Dap, dove aveva imposto una regolamentazione feroce delle spese. Il suo incarico dura appena due anni: nel 2001 a dirigere l’amministrazione penitenziaria arriva Giovanni Tinebra, e i due magistrati entrano subito in contrasto. Il risultato è che dopo pochi mesi Sabella viene allontanato su ordine diretto dell’allora Guardasigilli Roberto Castelli. Oggi il plenum del Csm ha dato l’ok a maggioranza al collocamento fuori ruolo con quattordici  voti a favore, otto contrari e 3 gli astenuti. In particolare hanno votato contro molti consiglieri laici e i vertici della Cassazione, il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani; si sono invece astenuti i togati Ercole Aprile e Maria Rosaria San Giorgio, oltre al consigliere laico Renato Balduzzi. “Ovviamente per me è una notizia molto positiva. Sabella credo abbia una competenza in materia anche amministrativa di appalti e contratti tale da poterci garantire che, ancora più di prima, con la nostra giunta tutto avverrà nella piena legalità e nella trasparenza” ha commentato il sindaco di Roma Ignazio Marino. “Si tratta di un magistrato con una reputazione straordinaria – aggiunge – e che ha lavorato al fianco di Gian Carlo Caselli per molti anni. Ha condotto alcune delle operazioni di contrasto alla mafia più importanti come l’arresto di Brusca”.

Comunque se i politici onesti son questi?

«Pd, rimborsi fasulli per 2,6 milioni» Sotto inchiesta 6 parlamentari laziali. Dopo il clamoroso caso Fiorito (Pdl), anche il centrosinistra colpito dalle indagini sui brogli nel bilanci del Lazio. La Procura di Rieti: ostriche, vecchie multe e olio con i fondi regionali 2010-2012; rimborsi maggiorati su taxi, biglietti ferroviari e aerei, scrivono Alessandro Capponi e Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. Olio extravergine d’oliva soprattutto. Che, nel reatino, non sarà come in Liguria, ma è pur sempre d’origine controllata. Ma anche rimborsi per vecchie multe, cesti natalizi e le immancabili cene che (elettorali e no, anche a base di ostriche) sempre figurano in nota spese. Come ricostruito dai finanzieri del Tributario per la procura di Rieti, le «spese pazze» dei consiglieri regionali del Pd, fra il 2010 e il 2012, varrebbero 2 milioni e 600 mila euro. E se per i consiglieri pidiellini della giunta di Renata Polverini - Franco «Batman» Fiorito, il più rappresentativo - sono già scattate le prime condanne (o assoluzioni), ora potrebbe aprirsi il capitolo processuale che riguarda l’allora opposizione del Partito democratico. Perché gli investigatori coordinati dal procuratore Giuseppe Saieva sono prossimi alla notifica delle conclusione delle indagini a diverse persone. Sotto accusa l’intero gruppo Pd in Regione durante la consiliatura Polverini con accuse che vanno dal peculato, alla truffa aggravata, dal finanziamento illecito al falso. Una volta caduta la giunta Polverini, l’allora candidato del centrosinistra Nicola Zingaretti condusse una battaglia col partito per non far ripresentare in Regione neanche uno dei consiglieri uscenti. Così molti di loro, oggi sotto accusa, sono stati candidati direttamente in Parlamento. Fra gli indagati, infatti, ci sono gli attuali senatori Claudio Moscardelli, Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Francesco Scalia e Daniela Valentini. Sotto inchiesta anche il sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, il cui nome era affiorato all’avvio delle indagini, così come quelli di Enzo Foschi - già nella segreteria del sindaco di Roma, Ignazio Marino - e del tesoriere Mario Perilli. Indagato anche il deputato Marco Di Stefano, già coinvolto in un’altra vicenda giudiziaria: è accusato di corruzione per fatti che risalgono alla giunta Marrazzo, quando da assessore al Demanio avrebbe intascato una tangente milionaria per alloggiare la società «Lazio Service» nei locali dei costruttori romani Pulcini. Un’inchiesta che ha intersecato anche il giallo della scomparsa del suo ex collaboratore Alfredo Guagnelli. Di Stefano e gli altri saranno ascoltati in Procura per rispondere a una serie di contestazioni. Secondo gli investigatori avrebbero chiesto al partito rimborsi maggiorati su spese ordinarie, da quella per il taxi ai biglietti ferroviari e aerei. In nota al partito anche spese ordinarie, pranzi e cene in ristoranti dal menu a base di pesce. Perfettamente bipartisan le ostriche: contestate ai consiglieri Pdl e ora in conto ai rappresentanti del Pd che le avrebbero mangiate vicino al Pantheon. In qualche caso si mascheravano singole elargizioni attraverso la formula delle collaborazioni occasionali che di fatto, per i pm, non sarebbero mai avvenute. Nel mirino degli investigatori anche rimborsi per murales nel quartiere popolare del Quadraro. Sul conto del partito in Regione sarebbero finiti pure il finanziamento di una serie di sagre paesane, di tornei di calcio e, per l’accusa, di attività non riconducibili alla politica.

Ostriche e fagiani, ecco gli sprechi del Pd. Chiusa l’inchiesta dei pm di Rieti sui rimborsi utilizzati per scopi privati Quarantuno gli indagati. Coinvolti 15 ex consiglieri della Regione Lazio, scrivono Augusto Parboni e Martino Villosio su “Il Tempo”. Pesce crudo e ostriche al Pantheon, tanto per andare sul classico. Ma anche guizzi più fantasiosi, come le battute di caccia e i fagiani gustati al ristorante, le sagre di provincia finanziate con i soldi dei rimborsi, lo sfizio di pubblicare la propria autobiografia messo in conto al Gruppo. Il campionario delle prodezze compiute con i soldi pubblici dai consiglieri regionali si aggiorna e impreziosisce di nuovi spunti, e stavolta il «merito» - in base alle accuse della procura di Rieti - è tutto del Gruppo Pd protagonista al consiglio regionale del Lazio nel triennio 2010-2012. Fiorito impazzava, la procura di Roma setacciava gli scontrini del gruppo Pdl alla Pisana, l’opposizione Pd guidata da Esterino Montino fremeva d’indignazione e chiedeva le dimissioni della giunta Polverini. Adesso però i magistrati di Rieti, partiti un anno e mezzo fa dalla denuncia di un blogger locale, hanno chiuso un’indagine corposissima, di cui nei mesi scorsi aveva parlato Il Tempo . E nelle loro carte, c’è l’epicentro di un nuovo devastante terremoto per l’immagine del Partito Democratico non solo a livello locale. L’elenco delle spese contestate ai 15 ex consiglieri regionali Pd indagati, cinque dei quali nel frattempo diventati senatori e due nel frattempo deceduti, è sterminato e imbarazzante. Ci sono i pranzi e le cene offerti ad amici e simpatizzanti, a colpi di otto, dieci e ventimila euro, certo. Ma anche, incredibile eppure vero, le battute di caccia a Fiumicino, dove c’è chi si fa fa mettere in conto perfino i 25 fagiani centrati dalle proprie doppiette e poi serviti in tavola, totale 50 coperti. Il direttore del circolo che ospitò il banchetto racconta alla Guardia di Finanza quella fondamentale riunione di partito: a un certo punto qualcuno si sarebbe alzato, avrebbe fatto un discorsetto elogiativo sul Pd, per poi rimettersi serenamente a mangiare. Col denaro altrui vengono pagate le multe della macchina, i biglietti per i viaggi personali in treno e in aereo, gli omaggi enogastronomici per le festività, gli addobbi per l’albero di Natale, l’olio extrovergine per cucinare a casa, financo la bottiglietta d’acqua da 0,45 centesimi. Vengono retribuiti soggetti incaricati di gestire i profili dei consiglieri sui social nerwork, si assumono familiari e conoscenti come portaborse violando ogni normativa vigente e pagando alcuni di loro senza che abbiano lavorato un solo giorno. C’è chi invece avrebbe sovvenzionato una sagra del tartufo con 5000 euro scrivendo sulla fattura «convegno». Chi è accusato di aver dato 8.000 euro per finanziare i graffiti del museo del Quadraro, a Roma. Una suora di Fara in Sabina chiede un contributo per gli immigrati e lo riceve segnando su un pezzo di carta «prestazione occasionale». Il tentativo di rinascita di Paese Sera, nel 2011, è finanziato con 26 mila euro senza uno straccio di contratto. Alcuni imprenditori emettono inoltre fatture per operazioni inesistenti o fatture gonfiatissime, per poi dividere con il consigliere amico. Mentre il sindaco di Rieti Simone Petrangeli, anche lui indagato, si sarebbe fatto regalare video e manifesti per la campagna elettorale. I 15 ex consiglieri avrebbero distratto con «spese non inerenti i fini istituzionali» 2 milioni e 600 mila euro, la metà dei fondi che la Regione ha versato al gruppo per quei 3 anni. Dopo 200 controlli incrociati e 300 testimoni ascoltati, i 13 rischiano il processo. Cinque sono oggi senatori: Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela Valentini. Spicca poi nel lungo elenco di questa chiusura indagini il nome di Marco Di Stefano, oggi deputato Pd già sulla graticola perché accusato di corruzione e altro dalla procura di Roma nell’inchiesta su Enpam. Avrebbe speso 36 mila euro per pubblicare 25 mila copie della sua autobiografia. L’ex tesoriere del gruppo, il reatino Mario Perilli (fulcro dell’inchiesta) avrebbe invece sovvenzionato la «famosa» sagra del tartufo con 5000 euro. L’ex capo segreteria del sindaco di Roma Marino, Enzo Foschi, i graffiti del Quadraro. Non manca il nome di Esterino Montino, grande fustigatore all’epoca dello scandalo Fiorito dai banchi del gruppo Pd alla Pisana, oggi sindaco di Fiumicino. Più o meno le accuse sono le stesse accuse per tutti, peculato, truffa aggravata, fatture false, illecito finanziamento. Gli indagati in totale sono 41, tra cui 23 collaboratori dei consiglieri Pd, mentre 16 persone sono state segnalate alla procura. Ci sono anche accertamenti in corso su 27 presunti evasori totali. Nell’inchiesta ci sono anche altri esponenti del Pd del Lazio, imprenditori, professionisti, fornitori, collaboratori. E non finisce qui, gli occhi della procura e della Guardia di Finanza di Rieti sono già puntati sulle spese di altri gruppi protagonisti della precedente consiliatura.

IN TEMA DI GIUSTIZIA E DI INFORMAZIONE CHI SBAGLIA PAGA? IL DELITTO DI PERUGIA. AMANDA E RAFFAELE COLPEVOLI DI INNOCENZA.

Delitto Meredith, così la Cassazione: «Mancano prove oltre ogni dubbio». Le motivazioni che hanno portato all’assoluzione di Knox e Sollecito: «Frutto di clamorose defaillance o “amnesie” investigative e di colpevoli omissioni», scrive la Redazione online de “Il Corriere della Sera” il 7 settembre 2015. A carico di Amanda Knox e Raffaele Sollecito - accusati dell’omicidio di Meredith Kercher - manca un «insieme probatorio» contrassegnato «da evidenza oltre il ragionevole dubbio». Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni dell’assoluzione dei due ex fidanzati depositate stamani dalla Quinta sezione penale della Suprema Corte. «Il processo - è scritto nelle motivazioni - ha avuto un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o “amnesie” investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine». È un dato «di indubbia pregnanza» a favore di Knox e Sollecito - «nel senso di escludere la loro partecipazione materiale all’omicidio, pur nell’ipotesi della loro presenza nella casa di via della Pergola» - la «assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili» nella stanza dell’omicidio o sul corpo della vittima. I Supremi giudici - nella sentenza 36080 di 52 pagine - rilevano che sul luogo del delitto e sul corpo di Meredith sono «invece state rinvenute numerose tracce riferibili al Guede», il giovane ivoriano condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione per l’omicidio «in concorso», con il rito abbreviato. Per quanto riguarda il gancetto del reggiseno della vittima, i Supremi giudici rilevano che la «sola traccia biologica» rinvenuta su tale gancetto non offre «certezza alcuna» in ordine alla sua «riferibilità» a Raffaele Sollecito «giacché quella traccia - sottolinea la Cassazione - è insuscettibile di seconda amplificazione, stante la sua esiguità, di talché si tratta di elemento privo di valore indiziario». Ad avviso della Suprema Corte, se non ci fossero state tali defaillance investigative, e se le indagini non avessero risentito di tali «colpevoli omissioni», si sarebbe «con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell’estraneità» di Knox e Sollecito rispetto all’accusa di avere ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher a Perugia il 1 novembre 2007. Nel «percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio» del processo per l’omicidio Kercher c’è un «solo dato di irrefutabile certezza: la colpevolezza di Amanda Knox in ordine alle calunniose accuse nei confronti di Patrick Lumumba». Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni dell’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. La sentenza rileva che la calunnia è stata confermata dalla stessa Knox in un contesto «immune da anomale pressioni psicologiche». Per questo «una eventuale pronuncia della Corte di Giustizia Europea favorevole» al ricorso nel quale la Knox ha denunciato «un poco ortodosso trattamento degli investigatori nei suoi confronti», non potrebbe «in alcun modo scalfire» il definitivo passaggio in giudicato della sentenza di colpevolezza per la calunnia, «neppure in vista di possibile revisione della sentenza, considerato che le calunniose accuse che la stessa imputata rivolse al Lumumba, per effetto delle asserite coercizioni, sono state da lei confermate anche innanzi al pm, in sede di interrogatorio, dunque in un contesto istituzionalmente immune da anomale pressioni psicologiche». Inoltre tali accuse - prosegue la Cassazione - «sono state confermate anche nel memoriale» firmato dalla Knox «in un momento in cui la stessa accusatrice era sola con se stessa e la sua coscienza, in condizioni di oggettiva tranquillità, al riparo da condizionamenti ambientali».

Meredith, la Cassazione. «Tanti errori nelle indagini», scrive Margherita Nanetti su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. L'inchiesta sull'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher è afflitta da "colpevoli omissioni" nelle indagini, condotte con "deprecabile pressapochismo", ed inoltre le prove genetiche – nel processo indiziario imbastito a carico della giovane americana di Seattle Amanda Knox e del suo ex fidanzato pugliese, Raffaele Sollecito - sono state "acquisite in violazione delle regole consacrate dai protocolli internazionali". Nulla di quanto raccolto è in grado, dunque, di provare la colpevolezza "oltre ogni ragionevole dubbio". E’ questo il giudizio severo della Cassazione sull'operato degli inquirenti che si sono occupati del delitto – che rimane un caso irrisolto – avvenuto a Perugia il primo novembre del 2007, nell’abitazione di Via della Pergola dove quattro ragazze, due italiane e due straniere, convivevano quando Metz venne uccisa da più colpi di arma da taglio, soffocata dal suo stesso sangue mentre qualcuno, rimasto senza nome e a piede libero, le tappava la bocca mentre infieriva. Ad avviso della Suprema Corte, non è possibile altra soluzione che assolvere Amanda e Raffaele, come deciso lo scorso 27 marzo, dopo una altalena di verdetti. "Sono molto sollevata e contenta", ha detto a botta calda la Knox. "Emerge chiaramente che sono stato vittima di un clamoroso errore giudiziario", ha dichiarato Sollecito. Vincitrice della partita è senz'altro Giulia Bongiorno, il legale di Raffaele, alla quale la Cassazione riconosce di aver fornito "analisi ben più affidabili, ancorate a dati fattuali incontrovertibili" rispetto alle "approssimazioni" degli inquirenti, ad esempio sull'orario del delitto. E’ probabile – ricostruisce la Cassazione – che Amanda fosse in casa e che abbia sentito il terribile urlo di Metz, per poi essere raggiunta da Raffaele. Ma non si può andare oltre questa ipotesi dato che non c'è nessuna loro impronta genetica sulla scena del crimine. Anche se i loro alibi sono un pò pasticciati, sarebbe inutile un ennesimo processo: le perizie non possono essere ripetute per l’insufficienza del materiale genetico e i pc sequestrati sono andati distrutti per le "improvvide manovre degli inquirenti". L'unico condannato con rito abbreviato per omicidio in concorso con ignoti, resta l’ivoriano Rudy Guede, che sta scontando sedici anni. Tra le tante pecche, la Cassazione segnala che i due oggetti di "maggiore interesse investigativo", un coltello da cucina e il gancetto del reggiseno della vittima, sono stati il primo conservato "in una comune scatola di cartone", di quelle che contengono le agende che si regalano a Natale, mentre l’altro è stato raccolto da terra dopo essere stato lasciato, dai detective, sul pavimento della stanza di Metz per 46 giorni. E il giudice del rinvio – la Corte di Assise di Appello di Firenze - è incorso in "errore" nell’assegnare, invece, "valore indiziario" a elementi raccolti e repertati in tal modo. Questo processo – rilevano gli ermellini – ha avuto "un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o amnesie investigative". Se non ci fossero state, si sarebbe "con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell’estraneità" al delitto di Knox e Sollecito. Nel "percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio" di questa vicenda c'è un "solo dato di irrefutabile certezza": la colpevolezza di Amanda per aver accusato del delitto, calunniosamente, Patrick Lumumba. L’ex proprietario del pub dove Amanda lavorava ha ricordato di aver avuto la vita e la salute rovinata da quella menzogna. "L'inusitato clamore mediatico" e i "riflessi internazionali" del caso non hanno "certamente giovato alla ricerca della verità" perchè hanno provocato una "improvvisa accelerazione" delle indagini "nella spasmodica ricerca" di colpevoli "da consegnare all’opinione pubblica internazionale", osserva infine l'alta Corte mettendo anche l’informazione tra gli imputati di questa debacle investigativa e della giustizia.

I «pasticci»: dai pc bruciati al dna sul coltello, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Sarebbe inutile processare nuovamente Knox e, per il delitto Kercher dato che è "negativa" la risposta sulla "possibilità oggettiva" di condurre ulteriori accertamenti che "possano dipanare i profili di perplessità, offrendo risposte di certezza". Lo sottolinea la Cassazione rilevando che i pc della Knox e della vittima "che forse avrebbero potuto dare notizie utili, sono stati, incredibilmente, bruciati da improvvide manovre degli inquirenti" e le tracce biologiche sono di "esigua entità" per essere rianalizzate. Ad avviso della Cassazione "per discutibile scelta strategica dei genetisti della Polizia Scientifica" si ritenne "di privilegiare l’indagine volta all’individuazione del profilo genetico nelle tracce repertate sul coltello, piuttosto che accertarne la natura biologica, dato che l’esigua quantità dei campioni non consentiva un doppio accertamento". Questa scelta, per la Suprema Corte, è stata una "opzione assai discutibile, in quanto l'individuazione di tracce ematiche, riferibili alla Kercher, avrebbe consegnato al processo un dato di formidabile rilievo probatorio, certificando incontrovertibilmente l’utilizzo dell’arma per la consumazione dell’omicidio". Ad avviso degli Ermellini, invece, "la riscontrata imputabilità delle tracce a profili genetici della Knox si risolve in un dato non univoco ed anzi indifferente, dato che la giovane statunitense conviveva con il Sollecito, dividendosi tra la sua abitazione e quella di via della Pergola", spiega la Cassazione nelle motivazioni dell’assoluzione di Knox e Sollecito.

Omicidio di Perugia, Corte di Cassazione: "Colpevoli omissioni nelle indagini, bruciati pc di Amanda Knox e Mex", scrive “Libero Quotidiano”. Amanda Knox e Raffaele Sollecito lo scorso 27 marzo 2015 sono stati assolti dall'accusa di omicidio di Meredith Kercher perché contro di loro manca un "insieme probatorio" contrassegnato "da evidenza oltre il ragionevole dubbio". Queste le motivazioni dell'assoluzione depositate oggi, lunedì 7 settembre, dalla Corte di Cassazione, che sottolinea: "Il processo ha avuto un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o amnesie investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine". Ma è quando la Suprema Corte entra nel dettaglio delle "colpevoli omissioni" che si scoprono particolari inquietanti. I pc di Amanda e di Meredith, "che forse avrebbero potuto dare notizie utili - recitano le motivazioni -, sono stati, incredibilmente, bruciati da improvvide manovre degli inquirenti". E se tutto si fosse svolto con rigore e puntualità che cosa sarebbe successo? La Corte rimarca le pesanti responsabilità degli inquirenti, affermando che un accurato lavoro di indagine avrebbe "con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell'estraneità" dei due ex-imputati. Nelle 52 pagine della sentenza i Supremi giudici rilevano la "assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili" sia sul corpo della vittima sia nel luogo dell'omicidio, mentre ne sono state trovate numerose "riferibili al Guede", l'ivoriano condannato a 16 anni in via definitiva per l’omicidio "in concorso". Anche la tristemente famosa traccia sul gancetto del reggiseno della vittima non offre "certezza alcuna", poiché, "stante la sua esiguità" è un "elemento privo di valore indiziario".

Errore che rimarrà nella storia, scrive Claudio Sebastiani su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Raffaele Sollecito non ha dubbi che a coinvolgerlo nell’indagine sull'omicidio di Meredith Kercher sia stato "un clamoroso errore giudiziario che rimarrà nella storia". Lo ha detto dopo avere letto le motivazioni con le quali la Cassazione ha definitivamente assolto lui e Amanda Knox dall’accusa di avere ucciso a Perugia la studentessa inglese. Mentre dall’altra parte dell’oceano la sua ex fidanzata ha sottolineato di essere "molto contenta e sollevata". Nonostante le 52 pagine depositate dalla Cassazione siano arrivate via mail a Seattle quando nella città americana era ancora prima mattina, la Knox le ha subito lette tutte. "Grazie..." ha ripetuto ai suoi difensori, gli avvocati Carlo Dalla Vedova e Luciano Ghirga. "Sono contenta – ha aggiunto - perchè in queste motivazioni ci sono tutte le cose che abbiamo sempre sostenuto". Motivazioni che ha subito esaminato anche Sollecito. "Da quello che ho letto – le sue parole – emerge chiaramente e definitivamente che sono stato vittima di un clamoroso errore giudiziario. Le indagini sono state estremamente lacunose e piene di errori. Grazie a tutto ciò ho trascorso quattro anni in carcere più altri quattro di tormento per nulla". Per il periodo passato in cella Sollecito "sicuramente" chiederà di essere risarcito per ingiusta detenzione, come annuncia l’avvocato Luca Maori. Mentre per l’altro difensore, l'avvocato Giulia Bongiorno la Cassazione conferma "una volta di più" che il suo assistito "è stato processato per anni e tenuto in carcere da super-innocente". E lo ha fatto con una motivazione che "prende a bastonate gli errori compiuti nelle indagini". Per Claudio Pratillo Hellmann, presidente della Corte d’assise d’appello di Perugia che aveva assolto i due giovani dopo la condanna in primo grado "i giudici della Cassazione sono stati più cattivi di noi parlando del modo in cui la polizia ha condotto le indagini sul delitto". "L'unico responsabile – ha aggiunto – è Rudy Guede (definitivamente condannato a 16 anni con l’abbreviato – ndr) e se con lui c'erano altre persone non si può verificare perchè le indagini sono state condotte male". "A distanza di anni – ha sottolineato ancora Pratillo Hellmann - confermo che l’unico elemento certo in questa vicenda giudiziaria è rappresentato dalla morte di Meredith". Secondo i Supremi giudici rimane però certa anche la colpevolezza della Knox per "le calunniose accuse nei confronti di Patrick Lumumba". Che ora si chiede: "perchè lo ha fatto?". "Mi ha distrutto la vita – ha aggiunto – in tutti i modi, moralmente ed economicamente. Mi deve risarcire e mi deve chiedere scusa". Di "volontà da parte della giustizia italiana di mettere la parola fine su questa vicenda in ogni modo" ha parlato l'avvocato Francesco Maresca, parte civile nel processo per la famiglia Kercher. Che ha evidenziato "incertezze e dubbi". "Ma le sentenze – ha concluso – si rispettano. E noi rispetteremo questa sentenza tenendoci i nostri dubbi".

"L'Inchiesta Meredith fatta male". Le motivazioni della Cassazione e le dure accuse agli investigatori: "Su Amanda Knox e Raffaele Sollecito prove scarse e contraddittorie", scrive Ang. D. Pie. su “Il Tempo". Il processo contro Amanda Knox e Raffaele Sollecito, accusati di aver ucciso la coinquilina di lei, Meredith Kercher, il primo novembre 2007 a Perugia, ha avuto un iter "obiettivamente ondivago". Nessuna prova, accertamenti incongrui, risultanze investigative approssimative. Inchiesta fatta male insomma. Anzi malissimo. Nessun accento intriso di diplomazia nella motivazioni che ieri mattina ha depositato la Quinta Sezione della Corte di Cassazione, quella stessa Corte che il 27 marzo scorso aveva assolto definitivamente gli ex fidanzatini dall'accusa di essere gli autori del delitto insieme all'ivoriano Rudy Guede, condannato a sedici anni di reclusione. Dopo otto anni di incertezze giudiziarie, epiloghi che si sono susseguiti smentendosi a vicenda, dopo le grasse risate che la stampa estera ha riservato ad un’Italia giuridicamente ritenuta poco autorevole, un finale che è l'equivalente di una frenata a secco. Di più: è una bacchettata a tutti, giudici e investigatori. La Cassazione non palesa incertezze: «Si può escludere la loro partecipazione materiale all’omicidio, pur nell'ipotesi della loro presenza nella casa di via della Pergola, in virtù della assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili» nella stanza dell’omicidio o sul corpo della vittima. Sconfessate le analisi sul gancetto del reggiseno della vittima e sul coltello trovato in casa di Raffaele Sollecito. La Cassazione ha smentito con cinquantadue pagine le accuse di altri cinquanta giudici che avevano invece giudicato colpevoli i due ragazzi. Che l’inchiesta abbia avuto un percorso talvolta obliquo è vero. Troppa attenzione da parte dei media e soprattutto, troppa attenzione da parte degli Stati Uniti che si è mobilitata in favore di Amanda Knox arrivando a scomodare persino Hillary Clinton, all'epoca in piena campagna presidenziale. Inchiesta lacunosa, accertamenti svolti con piglio discutibile. Poca perizia utilizzata per un caso così delicato: un delitto che dispone di un movente poco solido e di una vittima che è morta sgozzata dopo aver ricevuto 47 coltellate. Nel «percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio» del processo per l'omicidio Kercher c’è un «solo dato di irrefutabile certezza: la colpevolezza di Amanda Knox in ordine alle calunniose accuse nei confronti di Patrick Lumumba». Patrick Lumumba era (è) il gestore del bar in cui lavoricchiava la Knox. Lei lo aveva accusato dell’omicidio in maniera trasversale ma efficace, subito dopo la scoperta del corpo di Meredith, sgozzata, nella camera da letto della casa presepiale in cui viveva con altre studentesse fra le quali proprio Amanda Knox. Lumumba ieri ha reiterato i suoi dubbi: «Non riesco proprio a capire per quale motivo Amanda mi abbia accusato. Questa storia mi ha rovinato professionalmente, umanamente, psicologicamente». E c'è da stare certi che i suoi legali stiano preparando una richiesta di risarcimento congrua. Le motivazioni depositate nella giornata di ieri dalla Cassazione puntano il dito contro Rudy Guede, la cui impronta intrisa di sangue fu trovata sotto il corpo della vittima. Restano sparsi qua e là i punti interrogativi e qualche dubbio sul movente ma la storia si chiude senza altra possibilità. «Sono sollevata e contenta» - ha detto la Knox dagli Stati Uniti, parole di felicità avallate dal suo avvocato che ha dichiarato: «In queste motivazioni ci sono tutte le cose che abbiamo sempre sostenuto». Il legale ha anche parlato di "bacchettata" dei giudici e di "biasimo solenne". Una volta tanto, devono aver pensato i rigorosissimi americani, anche in Italia è stato usato, sia pur verbalmente, il pugno di ferro. Raffaele Sollecito conta i danni, anche lui: «Rimarrà alla storia il fatto che io sia stato vittima di un clamoroso errore giudiziario. Quattro anni in prigione e quattro anni di tormenti per niente e tutto a causa di indagini lacunose e piene di errori». La famiglia Kercher vive il suo dolore, immutato, in Inghilterra. Già nel marzo scorso, il ventisette, giorno della sentenza della Corte di Cassazione, i genitori si erano dichiarati distrutti ed avevano palesato un dolore mai guarito. «Noi cerchiamo la verità, solo la verità» dissero. Quella verità è arrivata ieri in maniera definitiva, nonostante l’Italia resti mediaticamente divisa fra innocentisti e colpevolisti.

Meredith, un’inchiesta sbagliata che sconvolge tante vite. Gli errori nell’indagine hanno compromesso la possibilità di arrivare alla verità, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Sono impietosi i giudici della Corte di Cassazione nella scelta dei termini per descrivere le indagini sul delitto di Meredith Kercher e motivare l’assoluzione definitiva di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Perché arrivano a parlare di «amnesie investigative» e di «colpevoli omissioni», ma soprattutto perché chiaramente evidenziano come un’attività seria e accurata avrebbe consentito di raggiungere la verità su quanto accadde la notte del primo novembre 2007 nella villetta di via della Pergola a Perugia. E così rendere giustizia a lei e alla sua famiglia. I genitori e i fratelli di Mez non sapranno mai perché la loro ragazza bella e solare, venuta in Italia per studiare, abbia trovato la morte in una maniera tanto assurda. Quegli «errori gravi» e quelle «scelte discutibili» dei pubblici ministeri e degli investigatori hanno compromesso per sempre il loro diritto a conoscere l’identità dell’assassino e dei suoi eventuali complici. Eppure un appiglio era stato fornito proprio da Amanda, durante la famosa notte trascorsa in questura quando nulla ancora si sapeva dell’omicidio, e lei descrisse le fasi del delitto accusando ingiustamente Patrick Lumumba «in un contesto immune da anomale pressioni psicologiche», mettendolo al posto di Rudy Guede. È bene tenere a mente l’evoluzione di questo processo per comprendere che sbagli, anche apparentemente non gravi, rischiano di compromettere l’esito di un’intera inchiesta. Le moderne tecniche scientifiche possono fornire un supporto formidabile, ma deve appunto trattarsi di un supporto. Credere che tutto possa essere affidato ai risultati di test e analisi è un’illusione che può generare gravissime conseguenze. Bisogna ricordarsi che la ricerca della verità coinvolge tutti i protagonisti: parti lese, imputati, semplici testimoni. E dunque bisogna essere cauti, evitando di travolgere, spesso irreparabilmente, le loro esistenze.

Ciò, nonostante, il 27 marzo 2015, esattamente come il 3 ottobre 2011 fuori dal tribunale dopo la seconda sentenza che li aveva assolti, la città di Perugia si ribella ancora all'assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Un'attesa, per la decisione della Cassazione, che è cresciuta in città di ora in ora. Perché la ferita di quell'omicidio della giovane studentessa inglese è ancora avvertita viva nel capoluogo, e sette lunghi anni non sono riusciti a cicatrizzarla. Così, quando le agenzie e i giornali hanno iniziato a battere e condividere sui social network la notizia che i due ex fidanzati sono stati assolti, immediata è stata la reazione rabbiosa dei perugini: «E' una vergogna» è il commento lapidario e sdegnato, il sentimento più diffuso. «Che schifo». «Siamo un Paese allo sbaraglio».

E di questi scemi ne è pena l’Italia. Poveri italioti allo sbaraglio.

Il delitto Meredith e la Cassazione Amanda: mi sento come Alice fuori dal Paese delle Meraviglie. L’americana in lacrime al telefono con gli avvocati: «È tutto quello che sostenevamo» Lei e Raffaele Sollecito annunciano: pronti a chiedere i danni, scrive Fabrizio Caccia su “Il Corriere della Sera”. «Io e Colin ci siamo scambiati uno sguardo di sollievo, come Alice quando si sveglia fuori dal Paese delle Meraviglie...». È il sollievo di Amanda Knox, nel giorno in cui la Cassazione - quasi otto anni dopo - fa a pezzi l’inchiesta sul delitto di Perugia, il delitto di Mez. Amanda lo scrive sul West Seattle Herald, il giornale della sua città, poche ore dopo l’uscita delle motivazioni della Suprema Corte. Il suo articolo è pubblicato sul sito del giornale in prima pagina, perché questo è il suo giorno ed è lei è la protagonista assoluta. L’avvocato romano Carlo Dalla Vedova le ha già mandato la mail con tutti i dettagli. La ragazza non sta nella pelle, l’incubo è svanito per sempre, allora parla e piange al telefono con lui e con l’altro legale, Luciano Ghirga: «Mi sono fatta quattro anni di carcere, quattro anni precisi, anzi quattro anni meno due giorni e questi di sicuro non me li ridarà indietro più nessuno. Ma è l’unico cruccio. Per il resto oggi sono contenta, contentissima e voglio dire grazie, grazie, grazie a lei avvocato Ghirga come ho già detto grazie all’avvocato Dalla Vedova. Sì, sono felice». E allora si mette a scrivere, Amanda. Collabora col West Seattle Herald ormai da quasi un anno e il suo articolo è pieno di sensazioni. Racconta di un viaggio, sabato scorso, da Seattle a Tacoma in compagnia del suo fidanzato, Colin Sutherland, un giovane musicista (27 anni come Amanda) che suona la chitarra basso in un gruppo rock e lo chiamano per questo Rombo di tuono. Amanda parla del viaggio, ma è come se parlasse del suo processo. Colin ha vissuto vicino a lei tutto il travaglio dell’ultimo periodo, l’ansia terribile, la paura di essere estradata in Italia in caso di condanna definitiva e, invece, a marzo scorso, la liberazione. Assolta. Forse un giorno lei e Colin si sposeranno, anche se l’avvocato Dalla Vedova dice che per ora non ci sono progetti matrimoniali all’orizzonte. Col gatto Picard acciambellato in grembo, Amanda Knox si gode ora ciò che ha scritto la Cassazione. Colpi di maglio sui metodi utilizzati da chi ha fatto le indagini. «Sono molto sollevata, perché in queste motivazioni ci sono tutte le cose che abbiamo sempre sostenuto», dice all’avvocato Dalla Vedova. Naturalmente, ma ci sono 18 mesi di tempo, verrà il giorno in cui gli avvocati di Amanda chiederanno i danni allo Stato per i 4 anni di carcere ingiusto. Anche l’avvocato Giulia Bongiorno, che ha difeso l’altro grande imputato di questa storia, Raffaele Sollecito, dice che la sentenza «prende a bastonate gli errori compiuti nelle indagini» e che Sollecito «è stato processato per anni e tenuto in carcere da super-innocente». La richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione, così, è dietro l’angolo. Lo stesso Sollecito lo fa capire: «Sono stato vittima di un clamoroso errore giudiziario che rimarrà nella storia. Grazie a tutto ciò, ho trascorso 4 anni in carcere più altri 4 di tormento per nulla». Già, ma adesso è davvero finita: «Qui piove a dirotto - scrive Amanda da Seattle - ma io amo la pioggia». 

Raffaele Sollecito dopo le motivazioni della Corte di Cassazione: "Chiederò un risarcimento danni per ingiusta detenzione", scrive “Libero Quotidiano”. "Io vittima di un clamoroso errore giudiziario, che resterà nella storia". Così Raffaele Sollecito, dopo aver letto le motivazioni depositate dalla Corte di Cassazione, che ha assolto lui e Amanda Knox, accusati dell'omicidio di Meredith Kercher, sostenendo che nel l'indagine è stata compromessa da numerose defaillance. Sollecito ha detto di aver trascorso quattro anni in carcere per colpa delle lacune nelle indagini evidenziate nella sentenza della Corte. Anche l'avvocato del ragazzo, Giulia Bongiorno, ha commentato la vicenda, affermando che le motivazioni raddoppiano la soddisfazione per l'assoluzione. Secondo la Bongiorno la sentenza "dipinge il quadro di un clamoroso errore giudiziario", a causa del quale, Sollecito è stato in carcere quattro anni da innocente. La Bongiorno ha annunciato che sarà presentata una richiesta di danni per ingiusta detenzione.

"Una sentenza netta Passerà alla storia". L’intervista a Giulia Bongiorno, l'avvocato che ha difeso Raffaele Sollecito, scrive An. D. Pie su “Il Tempo”. L’avvocato Giulia Bongiorno, che ha difeso Raffaele Sollecito aiutandolo ad attraversare questi otto anni di contraddittorietà processuali con il consueto piglio, è visibilmente soddisfatta. Di più: la sua voce tradisce appena appena una emozione profonda che non ha niente a che fare con l’orgoglio professionale. Aver stravinto, dopo aver vinto, sembra costituire un dettaglio che amplifica ma non rappresenta l’essenza di una gioia che appare tutta personale. Dal momento in cui sono state depositate le motivazioni della sentenza che ha assolto al di là di ogni ragionevole dubbio gli ex fidanzatini accusati dell’omicidio dell’inglese Meredith Kercher, è stata investita da una valanga di richieste di interviste. Dall’Italia e dall’estero.

Una sentenza che è motivata con una serie di "bacchettate" contro tutti, è d’accordo?

«Questa è una sentenza che passerà alla storia per la nettezza delle sue affermazioni. Le risultanze di un processo lasciano ombre, lasciano grigiori: in questo caso la Corte di Cassazione ha utilizzato una clava nei confronti degli investigatori, tale era l’evidente innocenza di Raffaele Sollecito e Amanda Knox».

Avvocato, ha già sentito Raffaele Sollecito? Siete ancora decisi a chiedere un risarcimento allo Stato italiano?

«No, non ho ancora sentito Raffaele Sollecito. Non ne ho avuto il tempo, voi giornalisti mi avete letteralmente subissata di chiamate. Sicuramente chiederemo un risarcimento allo Stato. Non subito, almeno tra due settimane. Sollecito è stato arrestato ed ha subìto una ingiustizia enorme, era innocente e ha passato un inferno. Il carcere, i dubbi della gente, i problemi di varia natura. Anni orribili per lui e per la sua famiglia».

La Giustizia italiana esce a pezzi da questa inchiesta: la stampa estera è stata molto severa fino ad oggi riguardo agli sviluppi del caso...

«Quando l’epilogo è di questo tipo significa che il meccanismo ha funzionato, tuttavia è vero che il tema della qualità delle investigazioni va affrontato e forse giudicato severamente. Niente è stato analizzato come avrebbe dovuto: dall’ora del delitto agli accertamenti scientifici».

Ci si chiede allora perché l’accanimento contro l’americanina dagli occhi di ghiaccio e l’ex fidanzato forse a quei tempi succube della sua amica del cuore spregiudicata e indubbiamente sfrontata. Sono state due vittime, insomma?

«Accusare loro due significava rassicurare Perugia. In giro non c’era un mostro, ma il delitto era la tragica conseguenza di un gioco erotico fra ragazzi. Diciamo che i due ragazzi sono stati messi in mezzo perché erano la soluzione più facile, quella semplice in grado di chiudere il caso velocemente, con buona pace di tutti. Non ha contribuito ad aiutarli l’atteggiamento in aula di Amanda Knox, che ai media sembrava sfilare più che partecipare a un processo, le telecamere indugiavano sulle sue magliette aderenti».

Il sistema giudiziario italiano meriterebbe una riforma?

«Io sono molto critica nei confronti di questo Governo. Renzi non ha fatto proprio niente per la Giustizia, la svolta che si attendeva non c’è stata. Non dico che sia necessario eliminare i gradi di giudizio, questo no, ma sicuramente c’è bisogno di una riforma. C’è inoltre una scarsa attenzione verso l’errore giudiziario, sono necessari nuovi meccanismi per l’effettuazione di indagini più celeri».

Già. Chi lo dice ai voltagabbana dei media giustizialisti che loro fanno schifo? Ora tutti a battere la notizia clamorosa dettata dalla Cassazione. Fino a ieri, invece a stilare gocce di dubbio sull’assoluzione di Amanda e Raffaele.

Con le motivazioni Knox-Sollecito la Cassazione mostra i pugni a chi privo di professionalità lavora nel sistema giustizia e sbaglia anche a causa dei media, scrive Massimo Prati su “Albatros-Volando ControVento”. Sembra fatto apposta e forse... Da poco si è chiuso il secondo processo farsa contro Sabrina Misseri e tra poco inizieranno ufficialmente quelli contro Massimo Bossetti, Veronica Panarello e altri che si proclamano innocenti e finalmente i giudici di Cassazione mostrano i pugni e motivano una sentenza usando la logica del codice penale lasciando da parte le suggestioni e i pregiudizi che sparge chi si sente intoccabile, chi per convincere il popolo della propria tesi, anche assurda, usufruisce degli aiuti mass-mediatici, quelli che ogni volta sfociano nello scoop colpevolista che porta il convincimento popolare a credere che le procure abbiano ragione a prescindere da quanto di più fantasioso e incredibile scrivano su atti che Gip e Gup di riferimento accettano acriticamente e ad occhi chiusi. Finalmente la Cassazione non ha dato la solita carota ai condannati e col bastone della vera Giustizia ha bacchettato gli investigatori e i procuratori che abusano del loro potere e che, indagando male e in maniera superficiale, senza avere nulla di serio in mano (né prove, né veri indizi concordanti, né ricostruzioni valide, né moventi plausibili) dapprima incarcerano e poi portano a processo i loro colpevoli preferiti. Ma non c'è solo questo, perché finalmente la Cassazione ha anche apertamente ammesso che i media hanno un ruolo determinante nella conduzione di indagini che proprio a causa della pressione mediatica, che invoglia a far tutto di fretta, finiscono con l'essere spasmodiche e di conseguenza mal-fatte e approssimative. Ma ancora non basta, perché ha finalmente bacchettato anche chi ha lavorato e ancora lavora nel ramo scientifico, in quella istituzione supportata e venerata sia dalle procure che dagli opinionisti televisivi, in quella istituzione che nel caso in questione (che farà da pietra di paragone per altri casi da trattare) ha mal-repertato e mal-conservato i reperti e non ha usato la giusta professionalità nelle analisi. In ultimo, ma non per ultimo, ha finalmente bacchettato anche i giudici che l'hanno preceduta nei giudizi. Giudici che invece di assolvere per come voleva la legge hanno condannato o rinviato ad altra sede basandosi su pregiudizi personali senza minimamente considerare la logica e il codice penale. Leggendo quanto scritto sulle motivazioni si scopre che la Cassazione punta il dito sugli investigatori e sui procuratori di Perugia a cui doveva essere chiara sin da subito l'assurdità della loro tesi accusatoria, tesi mancante di qualsivoglia appoggio solido. Per quanto attiene l'ultimo movente ipotizzato dalla procura (i dissapori fra le coinquiline acuiti dal fatto che - secondo i procuratori - a Meredith Kercher non stava bene che la Knox avesse fatto entrare Rudy Guede nel loro bagno) la bacchettata è forte e fa rumore, dato che nelle motivazioni si legge che non solo un simile movente è assurdo, ma che è anche poco rispettoso della realtà processuale. Inoltre, la Cassazione si chiede con quale logica i procuratori abbiano potuto pensare che Amanda Knox e Raffaele Sollecito avessero ripulito selettivamente la scena del crimine, cancellando quindi solo le tracce della loro presenza nella stanza di Meredith Kercher, lasciando però in bella vista altre tracce facilmente pulibili all'interno del bagno. Ed anche: come sia stato possibile pensare che i due ragazzi avessero simulato un furto (i vetri della finestra si trovavano all'interno, sotto i vestiti e i mobili) quando fu lo stesso Sollecito al suo ingresso nella casa a far notare alla Polizia Postale l'anomalia della situazione, dato che nulla sembrava essere stato asportato da quella stanza. E assurdo è anche pensare che i cellulari siano stati portati via e poi gettati per non farli squillare anzitempo, visto che bastava spegnerli per ottenere lo stesso risultato. No, la Cassazione stavolta non le ha mandate a dire a nessuno e si è assunta quel ruolo che le spetta di diritto anche citando il lavoro degli analisti. Ha tirato in ballo la dottoressa Patrizia Stefanoni e parlando del gancetto del reggiseno ha riportato la sua dichiarazione a processo. Dichiarazione in cui la dottoressa della Polizia Scientifica affermava di non aver repertato inizialmente il gancetto perché non ritenuto importante in quanto già aveva repertato il reggiseno della vittima. Naturalmente la Cassazione l'ha cassata, visto che i reggiseni vengono chiusi e aperti tramite il gancetto che si mostra dunque essere la parte più importante da analizzare. Nello stesso tempo ha puntato il dito sulla mancata ripetizione delle analisi che per ritenersi affidabili e valide si devono fare almeno due volte, questo pretende la legge e questo ha asserito a processo anche il perito nominato dalla corte (che fra l'altro lavora nella stessa Polizia Scientifica). In pratica, dalle analisi svolte non si è trovata alcuna prova valida da portare a processo e, vista la mancata ripetizione, le risultanze dai giudici non erano da considerare neppure indizi. E qui la Cassazione ha ribadito il concetto che se il materiale da analizzare non è deperibile, anche quando manca la possibilità di rifare le analisi perché il materiale repertato è scarso i risultati ottenuti a processo sono da considerare nulli e privi di valore probatorio o indiziario. Questo pur se le analisi si sono eseguite nel rispetto della legge con la formula dell'accertamento irripetibile. Ma la Cassazione non si è fermata e ha ammonito anche quei giudici che invece di essere imparziali colmano i vuoti investigativi usando una loro personale logica. Per capire meglio pensate alla sentenza del giudice Marina Tommolini, caso Parolisi, che per condannare il caporalmaggiore stravolse le risultanze investigative cambiando a suo piacimento sia il modus operandi che il movente portati dall'accusa. La Cassazione dice che c'è una regola da rispettare, regola che alcuni giudici non rispettano, regola che la Cassazione pone in primo piano scrivendo sulle motivazioni che la ricostruzione prescelta (se quella portata dalla procura), anche se conforme alla logica ordinaria, deve, pur sempre, essere aderente alla realtà processuale e porsi come precipua risultante di un processo di valutazione critica dei dati probatori ritualmente acquisiti. Insomma, il ricorso alla logica e all'intuizione (del giudice) non può in alcun modo supplire a carenze probatorie o ad inefficienze investigative. A fronte di una prova mancante, insufficiente o contraddittoria il giudice deve limitarsi a prenderne atto ed emettere sentenza di proscioglimento, ai sensi dell'art. 530 comma 2 codice procedura penale, seppur se animato da autentico convincimento morale della colpevolezza dell'imputato. In pratica, la Cassazione ha espresso un concetto chiaro che non va interpretato ma messo in atto. Se chi porta avanti le indagini le sbaglia e non è in grado di provare la colpevolezza in tribunale, gli imputati vanno assolti e il giudice è obbligato ad assolverli. Se si vuol risultare professionali si facciano indagini migliori che portino a risultati migliori e alla possibilità di condannare o scagionare a ragion veduta. Quanto sopra è solo una minima parte di ciò che hanno scritto i giudici di Cassazione. Minima parte che però ci fa capire i motivi per cui Amanda Knox e Raffaele Sollecito siano stati assolti e perché abbiano subito per troppi anni il carcere ingiusto. Finalmente sappiamo che anche per la Cassazione la colpa è della malagiustizia italiana e deriva dal lavoro sbagliato svolto da un'insieme di persone poco professionali. E visto che gli stessi giudici di Cassazione hanno puntato il dito sulla pressione dei media che non aiuta le buone indagini, ora tutti dovrebbero capire che gli assembramenti televisivi che si accalcano sui luoghi dei crimini alla ricerca di scoop sono deleteri per gli investigatori, per i procuratori e per le loro indagini. Deleteri perché i pool investigativi sono comunque composti da persone non abituate ai riflettori, persone che trovandosi nella condizione di massima visibilità potrebbero sentirsi obbligate a cercare un colpevole al più presto e a tutti i costi. Quindi nella condizione che più porta a commettere errori e a perseverarli. Insomma, il quadro descritto è desolante e solo chi è mentalmente cieco non vede che troppo spesso siamo costretti ad assistere allo show di una giustizia inutile, poco professionale e soprattutto dannosa, supportata e presentata al pubblico, in pompa magna, dagli zerbini dell'informazione (quelli che per trenta denari si stendono sotto i piedi di chi offre lo scoop) che la osannano quale verità assoluta ancor prima che esistano indagati e processi. E la Cassazione ha scritto qualcosa anche a proposito di questo, affermando che non si possono accettare testimoni che a posteriori, dopo essere stati martellati dai media, accusano gli imputati. Una cosa logica che troppo spesso viene dimenticata (vedi i testimoni contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano che solo dopo mesi e mesi di martellamento mediatico hanno cambiato versione). Ma che importa a quegli zerbini che alleati all'accusa si mostrano in video e con faccia saccente catturano la pubblica opinione, i nuovi testimoni e i nuovi giudici popolari grazie alla carta moschicida del pregiudizio? Carta stesa a più mani da famosi esperti, da opinionisti attaccati alla poltrona o creati per l'occasione e da pennivendoli specializzati in bufale? Persone che senza aver letto e vagliato nulla si accodano al potere costituito e ripetendo a pappagallo quanto si vuole che ripetano restano aggrappati al carro colpevolista fin quando il carro è in auge? Fin quando è in auge perché se cambia il vento, incuranti dei danni già procurati alla mente del popolo, gli stessi colpevolisti per qualche giorno cambiano il modo di esporre le opinioni. Le loro facce restano imperterrite sui video, e chi le schioda, ma si modificano e per l'occasione diventando bronzee. Naturalmente fra loro c'è chi le motivazioni neppure le legge e chi non capendoci nulla si trova spiazzato dal voltafaccia momentaneo dei colleghi, ma da buon camaleonte mediatico si adegua alle nuove parole di circostanza. Naturalmente c'è anche chi finge di non aver fatto nulla in passato e con nonchalance sale momentaneamente sull'altro carro come se mai avesse accusato apertamente qualche indagato... certo che la memoria umana sia troppo scarsa e abbia perso il ricordo delle sue vecchie parole. Per capire prendiamo Enrico Fedocci, l'inviato di Mediaset che nei mesi passati ha puntato sulla forza delle indiscrezioni per convincere il suo pubblico della colpevolezza di Massimo Bossetti. Lui nei mesi successivi all'arresto ha portato sugli schermi i filmati del furgone e le intercettazioni telefoniche fra madre e figlio (robe che a suo dire incastravano il muratore).Eppure, dopo le motivazioni si è auto-smentito e ieri in un servizio andato in onda su Studio Aperto ha ammesso che quanto scritto dai giudici di Cassazione per motivare l'assoluzione della Knox e del Sollecito potrebbe influire sui processi che stanno per iniziare, perché in nessuno di questi ci sono prove certe e indizi decisivi buoni a condannare gli imputati. Ma come? Fino a ieri l'altro Bossetti non aveva scampo perché le prove erano granitiche, ed oggi neppure su di lui ci sono certezze in grado di fargli prendere l'ergastolo? Qual vento hanno lanciato i seri Giudici di Cassazione? Sarà in grado di pulire il cielo? No, non pulirà nulla perché, vento o non vento, state sicuri che il buonismo ipocrita in mancanza di condanne esemplari a quegli editori che permettono ai loro dipendenti di stuprare la legge e gli indagati (parlo di milioni e milioni di euro) non durerà dato che a livello economico essere garantisti in tivù e sui giornali, in termine di vendite non rende. Per guadagnare occorre entrare a piedi uniti nella falla della nave giustizia e continuare a proporre titoloni morbosi in grado di oscurare la parte sana del cervello umano, occorre suonare il flauto magico e obbligare la pubblica opinione a seguirne la melodia. Questo si fa da anni e questo si farà ancora. Perché anche se la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha motivato e bacchettato in maniera seria per cercare di chiudere, almeno in parte, la falla che da troppi decenni sta affondando la Giustizia italiana, poco durerà il rattoppo se al giusto codice penale non si adegueranno tutti gli altri giudici. Ad iniziare dai troppi Gip che invece di seguire la legge da tanto tempo preferiscono le favole e come i topolini di Hamein seguire il suono del flauto del pregiudizio in cui soffia l'accusa...

Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità e mentire spudoratamente? Scrive Massimo Prati su “Albatros Volando Contro Vento”. America - 1880 (milleottocentoottanta) - a una cena di giornalisti all’American Press Association c'è anche John Swinton, un editorialista del New York Sun che invitato a brindare alla stampa indipendente dice: "In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che anche scrivendole non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattrore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Sono passati 135 anni da quel discorso e da noi, in Italia, a dire il vero qualcosa è cambiato. Ora da noi la stampa non si inchina più solo al volere degli uomini ricchi, a chi detiene il potere maggiore di uno stato, ora si inchina anche agli "uomini del potere locale". Vi siete mai chiesti perché ci sono giornalisti sportivi a cui è vietato entrare nella sala stampa del"loro" stadio? Semplicemente perché hanno criticato la squadra di cui scrivono o chi la guida a livello dirigenziale. Vi siete mai chiesti cosa accade quando un giornalista non allineato non può entrare in una sala stampa e non può intervistare i calciatori? Semplice. Leggeremo sempre notizie buoniste di un certo tipo che mai porteranno critiche serie. Ed anche se l'esempio sembra stupido perché si parla di sport, quindi di una informazione minore, in effetti stupido non è perché rapportandolo a qualsiasi altro argomento, dalla politica alla giustizia, fa capire quali siano i rapporti che si vogliono obbligatoriamente far intercorrere fra chi informa e chi, in pratica, comanda. I giornalisti politici, ad esempio, devono seguire una linea editoriale di parte per "partito preso". Per cui occorre, a prescindere, criticare ciò che fa o dice lo schieramento opposto... anche se sinteticamente identico a quanto dice o fa il proprio. Vi siete mai chiesti chi è che sparge il pregiudizio? Per forza di cose chi ci informa, chi sparla additando a colpevole chi una procura vuole colpevole. Magari non ci sono prove. Magari neppure ci sono indizi seri. Ma a forza di insistere su un argomento si crea una convinzione (un meme). E la convinzione fa sembrare prova e indizio anche la più inutile delle banalità Banalità che sparsa ai quattro venti dall'informazione e dagli opinionisti che la cavalcano, verrà metabolizzata dall'opinione pubblica e creduta di una importanza vitale. Ed ecco che così facendo si fa credere ai lettori che la verità è quella scritta sugli atti giudiziari e non sui ricorsi dei difensori. Questo accade, anche se in realtà sugli atti si legge tutt'altra cosa. Ma il fatto che in pochi abbiano accesso ai verbali di interrogatorio agevola chi scrive articoli "mirati" a cui nessuno fa da contraltare. Anche perché, dopo l'iniziale assembramento, è la stampa locale che fornisce la maggior parte delle informazioni a quella nazionale. E dove le prende le informazioni se non in procura? Quale giornalista moderno rischierebbe di diventare "ospite sgradito", ad esempio criticando una linea investigativa o un arresto immotivato, sapendo che le porte di "certi uffici" gli si potrebbero chiudere in faccia? Tutti vogliono lavorare e guadagnare. E chi scrive di cronaca nera da troppi anni si nutre grazie all'accondiscendenza di alcuni. Quella che permette a certi giornaluncoli di nascere e sviluppare grazie a scoop creati ad arte con frasi "ad hoc" estrapolate in maniera unilaterale da un verbale o da una intercettazione secretata. E quasi tutti sono contenti. Contenta è la procura che vede aumentare la sua credibilità, l'editore che vede aumentare i profitti e il giornalista che si ritrova famoso perché catapultato sotto i riflettori per quanto ha scritto e si è usato per più puntate nei talk show dell'orrore. Gli unici scontenti sono gli indagati, i loro familiari e, quando ce ne sono, i loro figli minori che dalla valanga di notizie gettate a pioggia, che inevitabilmente bagneranno anche il loro ambiente sociale, verranno demoliti psicologicamente. A nessuno importa spargere la verità assoluta, quella che deriva solo dalla logica impossibile da alterare. L'informazione da tanto non fa cernite, da tanto non vaglia con critica la "velina" che arriva dagli uffici a cui attinge a piene mani. Chi li informa sa che per i media è facile amalgamare l'opinione pubblica alla linea voluta. Basta sbatterle in faccia la solita domanda: "Perché i procuratori dovrebbero, se non ci sono motivi, accusare una persona a caso?". La risposta potrebbe essere facile, visto che non esiste l'investigatore infallibile e gli errori giudiziari sono ormai una regola che annualmente costa tanti denari pubblici. Ed è logico che se non è l'informazione a ribadire questa ovvietà, si finisce sempre nel solito imbuto. Quindi a credere che quanto dice la difesa è falso, perché le indagini sbattute sui video per anni dicono il contrario e i difensori per luogo comune farebbero di tutto pur di salvare il dietro al loro assistito, mentre quanto afferma l'accusa è più che vero. Anche se la sua ricostruzione appare incredibile e illogica. Così facendo si distrugge la vera informazione, quella parte di giornalisti che racconta solo la verità e critica chi va contro le giuste regole, e si finisce per dover accettare una serie infinita di compromessi. Forse qualcuno ancora non lo sa, ma il compromesso è l'inizio della fine perché chi accetta il primo non potrà rifiutare il secondo e neppure il terzo e il quarto e così via. Facendo così la fine di quei delinquenti che una volta entrati nell'organizzazione malavitosa non hanno più modo di uscirne... se non da morti. Come disse John Swinton? "Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la veritàdi mentire spudoratamentedi corromperedi diffamaredi scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Forse Swinton è stato anche troppo drastico coi suoi colleghi, forse nei giornalisti non c'è quella intenzione convinta di distruggere la verità... ma troppi esperimenti mentali si son fatti nell'ultimo secolo da non sapere che una volta plasmata l'idea altrui nessuno leggerà più usando la logica e nessuno si accorgerà di aver letto o ascoltato, e mentalmente accettato anche per anni, articoli o parole di una stupidità eclatante. Chi di voi sa cos'è il meme? Per restare nell'orbita semplice e non inserirsi in spiegazioni difficili da comprendere, il meme moderno si può paragonare a un tormentone che viene lanciato in grande stile e condiviso da più menti così da unificarle e farle diventare parte integrante di una grande mente che funge e prende il posto della mente individuale. Se parliamo di internet, si può paragonare alla foto del momento che postata su facebook viene condivisa da migliaia di persone. Pare nulla, una cosa poco pericolosa, ma così non è dato che se i media lanciano e danno per vero un meme falso, e qui comprendo anche il campo giustizia, la mente lo elaborerà facendolo proprio come fosse vero. E più se ne lanciano, e più se ne elaborano, e più si corre il rischio di non riuscire a capire che la realtà non è quella che si crede vera. E più si corre il rischio di far crescere una specie di tumore, un virus (da qui la parola "virale" usata quando prende piede la moda del momento grazie a un meme) che impossessandosi del nostro cervello lo porterà a fare ragionamenti mirati che una mente libera troverebbe ridicoli e privi di validità. Ci si può salvare da un virus che pare ormai essersi propagato a dismisura e che con l'avvento di internet ha attecchito e si è espanso grazie anche ai copia-incolla che duplicano all'infinito la notizia del momento? Certo che sì. Basterebbe che i media invadessero l'etere di notizie vere in grado di delegittimare quelle false. Ma in Italia, in questo periodo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Scrivere ciò che si pensa non si può. I giornalisti devono obbedire, oggi come 135 anni fa. In caso contrario qualcuno smetterà di fornire loro informazioni, qualcun altro smetterà di invitarli in certe trasmissioni e l'editore li manderà a scrivere i necrologi. Motivo per cui, per non soccombere ognuno di noi deve cercarsi una cura su misura che possa contribuire anche alla demolizione del virus. Ad esempio, si potrebbe iniziare a spegnere la televisione quando in tivù c'è chi il virus lo spande a piene mani e si potrebbe iniziare a far marcire in edicola quei settimanali che il virus lo mostrano già in copertina. Così facendo gli editori capirebbero che il filone si sta prosciugando, che il pubblico pagante sta guarendo e che tenere in piedi un carrozzone solo per pochi intimi economicamente non conviene. Solo toccando loro le tasche e i portafogli si può sperare di risolvere una situazione altrimenti irrisolvibile. Certo, in questo modo si risolverebbe solo una delle piaghe. Ne rimarrebbero ancora tante da sistemare, ad iniziare dal rapporto che da secoli si è instaurato fra i media e la politica. Ma forse è troppo tardi ormai e quello è, e grazie al meme continuo rimarrà, un male incurabile...

CARCERE. INFERNO SENZA ACQUA.

Carceri, l'inferno è senza acqua. Rubinetti asciutti, scarichi dei bagni rotti. Impossibile lavarsi, persino le mani. La carenza idrica in questi giorni di caldo rovente sta gettando nel caos molti penitenziari italiani e provoca tensioni, rivolte ed emergenze sanitarie. Viaggio nella nuova emergenza dietro le sbarre, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. Niente acqua per farsi una doccia, per lavare il cibo, per cuocersi un piatto di pasta, per dissetarsi. Scarichi del bagno che non funzionano o che buttano fuori liquami scuri e maleodoranti. Rubinetti asciutti da settimane, dai quali è impossibile far scorrere anche quel minimo di acqua che basterebbe a lavarsi le mani come basilare norma igienica o semplicemente a bagnarsi il viso, madido di sudore per l’afa infernale. E poi, ancora: pareti a rischio crollo, intonaci consumati dall’umidità e dalla muffa, lampadari che si staccano, perdite di acqua che rischiano di andare a contatto con fili elettrici scoperti, corridoi allagati, archivi informatici inesistenti e sospette coperture in amianto. Mentre si torna a parlare di allarme suicidi (cinque morti solo nell’ultimo mese) nelle nostre prigioni si sta consumando un’altra emergenza, non meno preoccupante: la carenza idrica che in questi giorni di caldo rovente sta gettando nel caos molti penitenziari italiani e che sta provocando tensioni, rivolte ed emergenze sanitarie. Segnalazioni ed esposti da parte dei sindacati di polizia penitenziaria e dalle associazioni a tutela dei detenuti sono già arrivati alle Procure e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria da parte degli istituti di Santa Maria Capua Vetere, Ariano Irpino, Avellino, Cosenza, Cassino, Palermo. E situazioni analoghe sono state registrate a Milano, Lecce, Torino, Napoli. Le strutture che ospitano i detenuti, infatti, spesso antichissime (alcune risalenti addirittura al Seicento) hanno tubature e condotte usurate dal tempo che non riescono a rifornire di acqua tutti i piani degli edifici e a far fronte a una popolazione carceraria così massiccia. Dall’altro canto, il piano carceri indetto dal governo che prometteva di risolvere l’emergenza edilizia penitenziaria italiana sembra essersi arenato. Lo stato di fatiscenza, insomma, è all’ordine del giorno. Come dimostrano le fotografie scattate dagli addetti ai lavori in numerose carceri della penisola e pubblicate da l’Espresso. “E’ una situazione degradante e umiliante per tutti: detenuti e poliziotti. Che può avere conseguenze tragiche”, tuona il segretario generale del Sappe Donato Capece. Gli episodi più critici nelle ultime settimane si sono verificati in Campania. Con tanto di rivolte fra i detenuti, esasperati dal caldo e dalle precarie condizioni igieniche. Ad Avellino, in particolare, lo scorso 16 luglio i detenuti di quattro celle del reparto alta sicurezza hanno incendiato per protesta stracci imbevuti di olio e bottiglie di plastica. Un agente della penitenziaria è stato ricoverato in ospedale per un principio di intossicazione. E problemi si sono registrati anche ad Ariano Irpino dove – nonostante il penitenziario sia annoverato fra le “carceri d’oro” italiane – non esiste una mappa della rete idrica interna che renda possibile interventi immediati o il tamponamento delle numerosissime perdite. “Per questo motivo – fanno sapere dal Sappe – il provveditore regionale ha incaricato l’ufficio tecnico di redigere un progetto che preveda il rifacimento dell’intera rete idrica del carcere, che deve essere portato a termine nel più breve tempo possibile”. Segnalazioni che sono finite in un dettagliato esposto dritte alla Procura di Benevento, competente per territorio. Tragica anche la situazione nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che potrebbe ospitare al massimo 547 posti. Qui il problema idrico è strutturale e si ripresenta immancabilmente ogni estate, quando il caldo si fa più torrido: la fornitura avviene attraverso un pozzo semi-artesiano, quindi l’acqua viene resa potabile all’interno delle mura del carcere, che non ha l’allaccio alla rete idrica. E così anche semplicemente lavarsi le mani diventa un’impresa. Eppure esisterebbe un protocollo d’intesa siglato nel lontano 2004 tra l’amministrazione penitenziaria e la Regione Campania, rimasto, però, lettera morta: il Comune non ha soldi per finanziare i lavori. In questi giorni la questione è tornata alla ribalta e il garante per i detenuti della Campania, Adriana Tocco, ha visitato il carcere. Quello che è emerso è stato soprattutto un problema di impasse burocratica: l’allaccio alla rete idrica sarebbe stata autorizzata dal DAP che avrebbe stanziato i fondi per la spesa prevista (circa un milione di euro) ma questi fondi non possono essere trasferiti dal Ministero della Giustizia a un ente locale, trattandosi di lavori da svolgere al di fuori dell’area demaniale dell’amministrazione penitenziaria. Insomma, una situazione kafkiana dalla quale non si riesce a uscire. Stesso copione alla casa circondariale di Cosenza, che accoglie 221 detenuti, dove la situazione nei giorni scorsi è diventata talmente intollerabile che il prefetto ha ordinato ai vigili del fuoco di fornire acqua d’emergenza, per uso igienico e sanitario, tramite le proprie autobotti. Le cisterne interne dell’edificio, infatti, dalla capienza di 50mila litri, si erano completamente prosciugate. E così la carenza cronica di acqua porta ad un’unica soluzione: l’acquisto di bottigliette di acqua minerale, che viene usata sia per bere che per lavarsi o per cucinare gli alimenti. Con una conseguenza deleteria per le tasche dei detenuti. L’acqua in bottiglia, acquistata nello spaccio del carcere, ha infatti un costo leggermente più basso rispetto a quella normalmente in commercio, ma rappresenta pur sempre una spesa sensibile per chi è dietro le sbarre. Va detto, però, che qualche carcere virtuoso esiste: come quello di Arghillà, Reggio Calabria, dove i detenuti possono accedere all’acqua potabile da appositi distributori attraverso una scheda ricaricabile, che permette anche di caricare la corrente per poter cucinare all’interno delle celle. A fotografare – nel senso letterale del termine – la situazione di abbandono e desolazione delle nostre prigioni ci ha pensato chi ogni giorno ne varca la soglia per svolgere il proprio lavoro: gli agenti della polizia penitenziaria. E così vediamo come nel carcere potentino di Melfi i muri siano quasi completamente scrostati, dalle pareti si staccano pezzi di intonaco, le infiltrazioni di umidità sono ovunque e le docce non vanno. Anche a Trani, Puglia, la situazione non è rosea: qui i wc che si trovano nelle celle sono fuori uso, gli scarichi non funzionano, tanto che i detenuti devono utilizzare secchi di acqua. Parla invece di “ambienti insalubri, saturi di umidità, invivibili in estate per mancanza di condizionamento e in inverno per inadeguato riscaldamento, condizioni igieniche impressionanti quando non completamente carenti”, di personale “che non rispetta i turni mensili” e che è costretto a convivere “con la presenza di cemento amianto” l’esposto del sindacato Si.p.pe. sull’Ucciardone di Palermo. Calcinacci caduti, muffa, infiltrazioni di acqua piovana alle pareti, muri lesionati a rischio crollo e probabili coperture in amianto si trovano invece nella casa circondariale di Trapani, come ha testimoniato un recente sopralluogo guidato dal segretario regionale della Uilpa penitenziari. Il sovraffollamento invece è all’ordine del giorno al Pagliarelli di Palermo, una struttura penitenziaria titanica che conta più di 1.400 detenuti di cui oltre 400 in regime di alta sicurezza. Mentre sembrano essersi congelati da più di un anno i lavori per il nuovo padiglione del carcere di Agrigento, che doveva portare a 200 nuovi posti. “Qui ormai da tempo abbiamo superato il limite di guardia, e sapere che questa è la città del ministro dell’Interno Angelino Alfano rende tutto ancora più assurdo – tuona il coordinatore regionale della Uilpa penitenziari Sicilia Gioacchino Veneziano – i lavori sono fermi e manca ancora un dirigente in pianta stabile”. “I soldi che sono stati spesi – conclude Veneziano – si potevano almeno utilizzare per il mantenimento della vecchia struttura, evitando così di renderla oggi un autentico colabrodo”. La situazione interna al carcere, in effetti, a guardare le fotografie, è disastrosa: le perdite vengono contenute con i secchi di plastica, la pioggia entra dalle finestre e viene arginata da sacchi neri per l’immondizia, le celle e i corridoi si allagano e l’acqua rischia di andare in contatto con i fili elettrici scoperti, i lampadari sembrano in procinto di staccarsi dal soffitto da un momento all’altro, i documenti negli archivi non hanno supporto informatico ma vengono ammassati in scatoloni di cartone, i metal detector sono difettosi e obsoleti. Topi, celle fatiscenti, docce rotte e degrado dei reparti comuni anche Termini Imerese, il carcere speciale fortemente voluto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Emergenza sanitaria, invece, in Liguria. Che vanta uno dei penitenziari più piccoli e antichi d’Italia: quello di Savona, un ex convento risalente al 1.400 dalla capienza di 38 posti (che però ne arriva a ospitare quasi settanta). Nel corso degli anni solo il primo piano è stato ristrutturato, ricavando docce e finestre. Il secondo piano, che si trova sottoterra, non ha né docce né finestre, ma solo le antiche “bocche di lupo” (poco più che fessure) che non permettono il ricambio di aria, neppure quando la temperatura si fa infernale. Un carcere vetusto e continuamente in balìa di emergenze sanitarie si trova invece a Imperia, praticamente nel centro della città. “Trovandoci vicino al confine – spiega Michele Lorenzo, segretario regionale del Sappe Liguria – qui dentro vengono reclusi molti stranieri senza permesso di soggiorno e anche scafisti che arrivano in condizioni sanitarie preoccupanti. Abbiamo avuto episodi di Tbc, scabbia, e sospetti casi di Ebola che per fortuna poi si sono verificati falsi allarmi”. “E’ inutile che l’amministrazione penitenziaria pensi di risolvere il problema con qualche intervento di manutenzione qua e là per tamponare i danni – prosegue Lorenzo – queste carceri andrebbero abbattute e ricostruite, per adattarsi a quelle che sono le problematiche e le emergenze di oggi”. E il piano carceri che prometteva di costruire penitenziari nuovi di zecca e di rimodernare quelli già presenti, appunto, che fine ha fatto? Nessuno più ne parla e i lavori sembrano essersi interrotti. Anche il sito www.pianocerceri.it che informava in tempo reale i cittadini sullo stato di avanzamento dell’edilizia penitenziaria non risulta più attivo, per il momento. L’ultimo aggiornamento risale al febbraio 2014, più di un anno fa. Prima di finire – nel giugno 2014 – sotto la lente della Corte dei Conti, che ha portato a un’inchiesta sugli appalti che ha bandito le gare per la costruzione dei nuovi padiglioni. “Stiamo ancora aspettando anche che qualcuno nomini il commissario straordinario come aveva promesso il governo”, sottolinea ancora il segretario generale del Sappe Capece. E a chiedersi dove siano finite le buone intenzioni del governo è anche l’Osservatorio Antigone, che nel suo ultimo rapporto 2015 sulla condizione detentiva in Italia lo mette nero su bianco: “Ad oggi l’unica grande novità è data dal prossimo avvio dei lavori del carcere di Bolzano con il project financing. Un esperimento di parziale privatizzazione che va ovviamente attentamente monitorato”. Per il resto “L’Italia risulta essere, dopo la Russia (298 mila dipendenti), il paese europeo con il più numeroso personale carcerario, pari a 45.772 unità nonostante molti Paesi abbiano più detenuti in termini assoluti rispetto all’Italia”. Personale che viene impiegato con mansione di sorveglianza dietro le mura carcerarie in condizioni lavorative disastrose e che condivide con i detenuti un amaro e beffardo destino: vivere da prigionieri in un inferno.

DONNE IN CARCERE. LA DISCRIMINAZIONE DIETRO LE SBARRE.

Donne, detenute e abbandonate: la discriminazione corre dietro le sbarre. Negli istituti di pena italiani la popolazione femminile è nettamente minoritaria rispetto a quella maschile. Il numero esiguo delle recluse, però, diventa spesso causa di svantaggi ed emarginazione. Perché organizzare attività ricreative, culturali o lavorative e garantire i diritti che l'ordinamento penitenziario sancisce solo per loro non conviene, scrive Anna Dichiarante su “L’Espresso”. Quando si è in minoranza, è ovvio, non si è mai in una posizione di forza. Quando la minoranza è composta di donne, poi, le cose possono andare anche peggio. Così, paradossalmente, il fatto (di per sé positivo) che nelle carceri italiane la popolazione femminile sia nettamente minoritaria si trasforma nell'ennesimo motivo di discriminazione. Su un totale di 52.389 detenuti nei nostri istituti penitenziari (dato aggiornato al 31 agosto scorso), le donne sono 2.131. Il quattro per cento circa dell'intera popolazione carceraria, una percentuale che le costringe a subire una serie di limitazioni nel corso della loro vita dietro le sbarre. Del problema si sono resi conto anche gli esperti che, per conto del Ministero della Giustizia, stanno elaborando una serie di proposte in materia di riforma dell'ordinamento penitenziario. A luglio, infatti, il ministro Andrea Orlando ha inaugurato gli Stati generali dell'esecuzione penale, una piattaforma di studio suddivisa in 18 tavoli, ciascuno dei quali incaricato di approfondire un tema specifico tra le numerose problematiche che ruotano intorno al mondo delle carceri. E delle donne detenute si occupa il tavolo tre, coordinato da Tamara Pitch, docente di Filosofia del diritto presso l'Università di Perugia. Il lavoro del gruppo si è rivelato non facile già dall'inizio, perché la suddivisione per temi ha ridotto il suo ambito di azione: in altre parole, la questione femminile è trasversale e, per forza di cose, s'interseca con altri aspetti, come la salute, l'affettività, il disagio psichico, il lavoro, la formazione e così via. Il team della professoressa Pitch, quindi, rischia spesso di sconfinare nella competenza degli altri tavoli e di doversi limitare a prendere in considerazione la sola tutela della maternità in carcere. Tralasciando problemi altrettanto importanti, tra cui, appunto, la possibilità che le donne siano svantaggiate. “Il numero delle detenute, esiguo rispetto a quelli degli uomini, non può diventare un alibi per la concessione di privilegi, ma non deve nemmeno trasformarsi in un motivo per negare le loro specificità o per precludere l'accesso a diritti sacrosanti”, spiega Laura Cesaris, docente di Diritto dell'Esecuzione penale a Pavia e membro del tavolo tre. Innanzitutto, il principio della territorialità della pena, garantito per legge, viene spesso violato: su 198 istituti penitenziari sparsi per le venti regioni italiane, le donne sono dislocate soltanto in una cinquantina, visto che non tutti sono dotati di sezioni femminili. Il che significa una maggiore probabilità di spostamenti e di allontanamento dal luogo in cui la detenuta viveva o in cui restano i suoi familiari. Ma non solo. Le discriminazioni esistono anche per quanto riguarda il cosiddetto trattamento penitenziario, ossia quell'insieme di iniziative e di strumenti che l'ordinamento predispone, affinché l'espiazione della pena corrisponda ai principi costituzionali e tenda alla rieducazione del condannato, oltre che al suo reinserimento in società. Il lavoro, per esempio. Oppure le attività culturali, sportive o scolastiche. Ecco, anche da queste le donne finiscono talvolta per essere escluse per mancanza di organizzazione. O meglio, perché l'organizzazione non conviene: troppo poche le detenute, troppe, in proporzione, le risorse da spendere per attività a loro dedicate. Capita così che in alcuni penitenziari gli uomini abbiano l'opportunità di coltivare la terra e imparare a fare gli agricoltori, mentre le donne no; capita che quelle che vengono chiamate 'aree verdi', cioè spazi all'aperto in cui i detenuti possono incontrare i familiari senza la presenza delle guardie, siano spesso accessibili solo a papà e mariti. Capita persino che le palestre per fare sport siano prevalentemente occupate dalle sezioni maschili. Ma soprattutto succede che i servizi sanitari e la prevenzione di malattie gravi, già carenti a livello generale, siano ancora più inefficienti per la popolazione carceraria femminile perché non adeguati alle necessità fisiologiche delle donne. “Le segnalazioni di discriminazioni ci sono state. Abbiamo fatto ispezioni e abbiamo in programma di farne in altri istituti dove si sospetta avvengano delle violazioni”, continua Cesaris. Che ricorda, poi, come al 31 agosto 2015 nelle carceri italiane vivano ancora 38 bambini. Anche l'aspetto della genitorialità, infatti, resta un problema: “Per evitare che questi bambini siano costretti a essere reclusi insieme alle madri, a causa della mancanza di un domicilio sicuro dove sistemarli, si dovrebbero incrementare gli istituti a custodia attenuata e le case-famiglia protette”. Per rendersi conto della situazione, però, basta sapere che al momento, nel nostro Paese, esistono solamente tre istituti a custodia attenuata e una casa-famiglia. Entro il 15 ottobre prossimo, comunque, gli Stati generali dovranno concludere il loro lavoro, ma già il il 15 settembre presenteranno un primo resoconto: “In quel documento noi del tavolo sulle donne e il carcere esporremo le nostre perplessità e inizieremo a fare proposte - prosegue Cesaris -. Bisogna considerare, tuttavia, che nemmeno il nostro compito è agevole perché le donne subiscono una discriminazione nella discriminazione: persino nel monitoraggio a fini statistici effettuato dal Ministero finiscono per essere un po' dimenticate”. Vale a dire che i dati diffusi dall'amministrazione penitenziaria spesso sono globali e questo rende impossibile distinguere tra uomini e donne. Cosa che succede, per esempio, nella conta degli atti diautolesionismo o dei suicidi: “Estrapolare il dato femminile per il 2014 non è stato semplice - ammette la professoressa -. Alla fine comunque siamo riusciti a registrare un decesso, 57 tentati suicidi e 362 atti di autolesionismo”. Numeri abbastanza impressionanti, se confrontati con il totale delle detenute in Italia. Forse sono sintomo di un disagio ancora più accentuato di quanto non lo sia quello degli uomini.E allora, quali soluzioni? “Noi non possiamo intervenire nel concreto, non abbiamo poteri di azione o di sanzione e non possiamo certo compiere verifiche in ogni singolo istituto - conclude Cesaris -. Quello che si dovrebbe fare, da parte dell'amministrazione penitenziaria e del Ministero, è incrementare le risorse, le strutture e gli strumenti, in modo che siano sufficienti a rispondere ai bisogni di tutti. E poi, in particolare per le donne, si dovrebbero trovare delle vere alternative alla pena del carcere”.

QUANDO IN PRIGIONE CI VANNO I BAMBINI.

Nascere e crescere chiusi dietro le sbarre. In carcere ci sono anche bambini e ragazzi. Sono i figli neonati delle detenute o i minori (spesso stranieri) che non accedono alle misure alternative. E gestirli è sempre più difficile a causa delle ristrettezze economiche. Ecco quanti sono, dove e per quali reati sono stati reclusi, scrive Cristina Da Rold su “L’Espresso”. L'istituto penitenziario per minorenni di Casal del Marmo Un lungo corridoio, stanze con tre letti e tre culle, una piccola cucina, un giardinetto e qualche disegno colorato alle pareti. Ma nessuna candelina, nessun regalo. Ci sono bambini oggi in Italia, per i quali compiere gli anni non è una festa, così come non lo è per le loro madri, che sanno che cosa capiterà al loro nucleo famigliare allo scoccare del terzo anno di vita del proprio bambino. Sono le donne detenute nei carceri femminili italiani, a cui la legge permette di vivere con i propri figli all'interno della struttura fino al compimento dei tre anni. E non è un modo di dire, poiché il giorno stesso del compleanno il bambino viene prelevato dalla struttura dove vive con la madre e affidato ad altre cure, nella migliore delle ipotesi alla famiglia d'origine. Secondo i dati ministeriali, nel 2014 le detenute madri in Italia erano 27, e 28 i bambini con meno di tre anni che vivevano all'interno delle carceri per adulti. Non moltissimi, se si pensa che si è arrivati anche a 78 bambini nel 2000 e a 73 nel 2009. Una vita, quella dei piccoli, modulata sulle dinamiche della detenzione adulta, con le stesse sbarre e gli stessi colori. Eppure una legge che dispone diversamente esiste, ed è la legge 62 dell'aprile 2011, che introduce due alternative alla detenzione per questi bambini. La prima di queste opzioni sono gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri con prole fino a tre/sei anni) che sebbene siano carceri, a livello edilizio sono comunque più simili a una casa normale, anche se la donna vive la propria quotidianità da detenuta. La seconda alternativa al carcere vero e proprio sarebbero invece le famose case famiglia protette, che dovrebbero essere destinate a donne che non hanno la possibilità di ripristinare la normale convivenza con il figlio per mancanza di un domicilio. Il condizionale è d'obbligo, dal momento che a oggi di Icam ce ne sono solo due in tutta la penisola e di case famiglia protette nemmeno l'ombra. “Non c'è da stupirsi – racconta Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell'Associazione Antigone – dato che secondo la normativa le case famiglia non devono comportare oneri per la finanza pubblica e devono essere individuate con l’aiuto degli Enti Locali che come sappiamo al momento hanno ben altre priorità dal punto di vista economico.” La spending review la pagano tutti quanti. I minori in carcere non sono però solo i figli delle detenute, come mostrano i dati recentemente pubblicati dal Ministero della Giustizia e aggiornati al 28 febbraio 2015. Sebbene oggi la detenzione per i minori sia in qualche modo un'extrema ratio e non una prassi – ci raccontano dall'Associazione Antigone – all'interno dei cosiddetti Ipm (Istituti Penali per i Minorenni) sono ospitati oggi circa 300 ragazzi. E la maggior parte è italiana. “Basta fare due conti per capire che sono numeri molto piccoli rispetto al mondo adulto – prosegue la Marietti – dato che gli Ipm attivi al momento in Italia sono solo 15, mentre le carceri per adulti sono circa 200, ma al tempo stesso negli ultimi anni i minori presi in carico dagli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni (Ussm) sono cresciuti non di poco, passando dalle 14.744 unità del 2007 alle 20.268 del 2014.” E 15.992 di questi sono giovani italiani. Inoltre, solo nei primi due mesi del 2015, 181 minori sono entrati in carcere e 252 in comunità, numeri che comprendono anche i cosiddetti “giovani adulti” cioè i ragazzi fino ai 25 anni di età, che con la legge 144 dell'11 agosto 2014 , possono continuare a usufruire dei servizi giudiziari per minori non più fino ai 21 anni, ma fino al compimento del venticinquesimo anno. L'iter per i minori è più lasco rispetto a quello per gli adulti, con maggiori possibilità di evitare la detenzione vera e propria. Se un minore viene arrestato lo si porta in un centro di prima accoglienza, dove attende la convalida del fermo da parte dell'autorità giudiziaria, che deve avvenire entro le 72 ore. Se la convalida arriva, si procede con la valutazione della situazione del minore per capire se inserirlo in una comunità oppure direttamente in un Ipm, nei casi più gravi. “Per i minorenni c'è anche la messa alla prova – spiega la Marietti – che consiste nella decisione del giudice, quando ritiene che vi siano le condizioni, di sospendere addirittura il processo e di tornare a valutare il ragazzo alla fine di un periodo di osservazione. La macchina giudiziaria non viene così proprio messa in moto”. Non per tutti però è così facile. Se è vero infatti che pochi minori finiscono davvero in queste strutture, sembra altrettanto vero che la presenza di un'offerta diversificata in realtà porta a galla importanti disuguaglianze dal punto di vista etnico, e quindi sociale. “Negli anni il sistema minorile di giustizia ha mostrato di reggere meglio di quello per adulti – prosegue la Marietti – ma mano a mano che si entra nel vivo del percorso di giudizio si nota come i giovani stranieri, che sono alla fine l'anello più debole della catena, abbiano meno possibilità di usufruire di misure alternative alla detenzione vera e propria.” Come mostrano i dati del Ministero, se la percentuale di stranieri presi in carico dai Servizi di Giustizia Minorile è circa il 20 per cento del totale, essi costituiscono il 43 per cento dei ragazzi presenti in comunità e il 47,3 per cento dei detenuti presso IPR. In altre parole: i minori stranieri che commettono reato sono molti, molti meno rispetto agli italiani, ma alla fine la percentuale di essi che finisce in carcere è più alta rispetto ai nostri connazionali. “Sono di più perché la gestione pratica è oggettivamente più complessa, è più difficile agganciare i minori stranieri e far fare loro un percorso alternativo” ribadisce anche Guido Mussini, avvocato penalista e docente di Giustizia penale minorile presso la Lumsa di Roma. Viene da chiedersi se ciò dipenda dalla gravità del reato stesso, ma secondo i dati la risposta sembrerebbe negativa. I principali reati compiuti dai giovani stranieri sono quelli contro il patrimonio, cioè furti, rapine e resistenza a pubblico ufficiale. “La presenza di una percentuale maggiore di stranieri man mano che ci si inoltra nel processo giudiziario si deve a molti fattori” spiega Mussini. “Non si tratta dunque della gravità del reato stesso, ma per esempio del fattore recidiva che è statisticamente molto maggiore fra gli stranieri, e dal fatto che essi difficilmente riescono ad accedere a procedure di messa alla prova.” A parità di reato i minori stranieri rischiano di più di finire all'interno di strutture detentive. Anche di recente ci sono stati attacchi alla gestione delle carceri minorili. “In occasione di piccoli episodi di disordini avvenuti in carcere, alcuni sindacati di polizia penitenziaria hanno criticato la gestione aperta dei ragazzi e hanno auspicato metodi più duri e più simili a quelli usati per gli adulti” conclude la Marietti. “Io credo che non dobbiamo mai cedere a questa prospettiva. Un ragazzo, adolescente o poco più, non può mai essere etichettato come un criminale. La detenzione deve essere spinta sempre più verso un’ipotesi residuale e, all’interno di essa, l’interesse del giovane va sempre considerato prioritario”.

Una legge inapplicata fa restare i bimbi in carcere. Mamme e bambini potrebbero stare in Case Famiglia Protette, ma non succede. Raccontano Gioia Passarelli e Gustavo Imbellone su “L’Indro”. «Che nessun bambino varchi più la soglia di un carcere», è il motto dell’Associazione A Roma, Insieme - Leda Colombini. Presente a Roma, da oltre vent’anni, si impegna per tutelare i bambini che vivono in carcere con la propria madre detenuta. Ad oggi, ci sono 55 mamme e 58 bambini nelle carceri italiane - dati forniti da A Roma, Insieme. Solo nel Nido del carcere di Rebibbia, dove l’Associazione opera, il numero è di 18 mamme e 19 bambini. Non sono numeri altissimi, ma non sono neanche numeri. Sono esseri umani. In particolare bimbi da zero a tre anni di vita. “I primi mille giorni, durante i quali il bambino forma la propria personalità, il pensiero cognitivo e sociale, il proprio linguaggio”, afferma Gioia Passarelli, Presidente di A Roma, Insieme. Gioia racconta che “i bambini stanno in carcere perché c’è una legge che consente alla mamme che non hanno una casa in cui scontare una pena alternativa, di tenere i bambini con sé in cella, fino al compimento dei tre anni di età. Pensi che privilegio fantastico: stare in carcere. Lo sforzo della nostra, e di altre associazioni, è quello di rendere meno traumatica possibile l’esperienza del carcere, per questi bimbi. Essere reclusi è drammatico per il loro presente e per il futuro di adulti. A Roma Insieme, d’accordo con la direzione del carcere di Rebibbia e con il personale, svolge tante attività che hanno lo scopo di far scoprire a questi piccoli il mondo. Innanzitutto i bimbi del nido Rebibbia, hanno un posto riservato negli asili comunali. Dalle 8,30 del mattino fino a pomeriggio, stanno insieme ad altri bimbi fuori dal carcere. Poi ci sono i sabati in libertà: ogni sabato i nostri volontari, vanno a prendere con il pulmino i bimbi, che aspettano trepidanti aggrappati alle sbarre. Li portano ovunque. Al mare, in montagna, a far la spesa, in città. Questo per dare loro più stimoli possibili. Hanno un bisogno tremendo di essere stimolati. Perché nel carcere, quello che un bimbo vede, sono sempre le stesse immagini, gli stessi volti, gli stessi rumori. E il bambino, così, non sviluppa nessuna curiosità. Anche il linguaggio è molto povero. Non conosce la realtà e le parole legate ad essa. La prima volta che un bambino fa un’uscita subisce il distacco dalla madre, piange tutto il giorno, si incanta perché è tutto nuovo per lui. Ho sentito dire ad un piccolo, vedendo il mare, «dove sono i rubinetti che fanno uscire quest’acqua». I nostri bimbi, quando vedono le case dei nostri volontari , le chiamano celle. E fanno i complimenti: che bella cella che hai»". Gustavo Imbellone, della stessa Associazione, spiega che al momento attuale esiste una legge, la numero 62 del 2011, che affronta il tema delle madri detenute, che hanno con sé bambini fino a sei anni di età. La legge consente loro, salvo casi di particolare pericolosità sociale, dovuta a gravi reati, di scontare la propria pena al di fuori del carcere, con misure di detenzione alternativa, insieme ai propri bimbi, in luoghi individuati nelle Case Famiglia Protette. Questa legge nasce per superare alcuni limiti e migliorare la legge del 2001 (Legge Finocchiaro), che aveva trovato scarsa applicazione e prevedeva si, misure cautelari alternative, ma non risolveva il problema delle detenute straniere che, non avendo un domicilio, non potevano accedere agli arresti domiciliari. In sostanza, quindi, la nuova legge del 2011, entrata in vigore il 1° gennaio 2014, cerca di risolvere questo problema, permettendo ai bambini, fino a sei anni di età, di restare con la madre, che deve scontare una pena, ma in strutture più idonee e umane: le Case Famiglia Protette. Gioia Passarelli sottolinea, “da anni portiamo avanti la battaglia, assieme ad altre associazioni, affinché vengano istituite per le madri, con bambini fino a tre anni, le Case Famiglia Protette. Dei veri e propri appartamenti, dove la mamma può stare con il bambino, accompagnarlo a scuola, in ospedale se al bimbo capita qualcosa. Naturalmente con tutti i controlli dovuti, perché non dimentichiamo che i cittadini devono essere tutelati e le detenute devono scontare una pena. Questa pena, però, la si deve addolcire un po’ agli occhi del bimbo, che non ha nessuna colpa da espiare. Questa è la nostra battaglia. Creare questi spazi alternativi. A cui, peraltro, fa già riferimento la legge del 2011 e, un decreto attuativo, che stabilisce criteri precisi di applicazione della legge, e parla proprio delle Case Famiglia Protette, come snodo fondamentale per evitare al bambino la reclusione. Fatto sta che, a tutt’oggi, a sette mesi dalla sua entrata in vigore, è rimasta totalmente inapplicata. La legge, peraltro, prevede che i bambini possano stare dentro, con la madre, fino a sei anni. Naturalmente a queste condizioni è assurdo, ma sarebbe accettabile e possibile se si istituissero queste Case".Le Case Famiglia Protette”, continua Imbellone, “sono sempre istituti di custodia, ma qualitativamente diverse dalle istituzioni carcerarie, tant’è che il decreto attuativo, della legge del 2011, emanato dall’allora Ministro di Giustizia, Paola Severino, stabilisce criteri molto avanzati e illuminati, per l’identificazione del modello case Famiglia e per la realizzazione. Modello che ne fa un luogo nettamente diverso dalle I.C.A.M." Le I.C.A.M. sono gli Istituti a Custodia Attenuata per Madri. Sono previste dall’ordinamento penitenziario italiano, per madri detenute, che abbiano con sé figli da zero a tre anni. Qui le mamme possono scontare la propria pena attenuata, in un ambiente meno duro e più accogliente per il bambino. “Ma resta pur sempre un carcere”, chiarisce Imbellone. “Bello quanto vuoi, accogliente quanto vuoi, ma è sempre un istituto carcerario. Chiuso, quindi il bambino è sempre e comunque recluso. Inoltre è sottoposto al regolamento penitenziario. Ora, queste I.C.A.M, per tanti anni non sono state realizzate. La prima è stata costruita a Milano, e fu anche un’esperienza interessante nel 2006-2007. Poi ne è stata costruita un’altra a Venezia, molto vicino al carcere della Giudecca e, pochi giorni fa, ne è stata inaugurata una a Cagliari. Ora, questi istituti sono stati superati dalla legge, che chiarisce come le Case Famiglia Protette siano la soluzione qualitativamente migliore. Queste case non sono sottoposte al regolamento penitenziario, non sono carceri e sarebbero gestite, non più dall’Amministrazione Penitenziaria, ma da privati ed enti locali. Ma, dopo anni di insufficiente realizzazione e dopo il superamento della legge, viene inaugurata una I.C.A.M. in Sardegna, invece di pensare alla realizzazione di una Casa Famiglia."È una questione di soldi”, sostiene Gioia Passarelli, “la verità è che le Case Famiglia Protette, sono sottoposte alla responsabilità degli enti locali, o di privati e si esclude ogni onere a carico del Ministero di Giustizia. Invece le I.C.A.M, sono sotto responsabilità del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, e godono, quindi, dello stanziamento di fondi del Dipartimento. La realizzazione delle Case Famiglia Protette, invece, sarebbe a carico degli enti locali. Sappiamo tutti che gli enti locali non hanno soldi." “Noi, assieme ad altre Associazioni, ci siamo battuti affinché una parte dei fondi destinata alle I.C.A.M. venisse devoluta agli enti locali, per dare loro la possibilità di mettere in atto il cambiamento a tutela dei piccoli. Ad oggi non si è trovata nessuno soluzione”, continua Passarelli. Imbellone ammette che “fa male aver assistito alla sordità di Camera e Senato, nell’inverno scorso, al momento dell’approvazione della legge di stabilità. In quell’occasione furono presentati emendamenti, che prevedevano lo storno di un milione di euro, dal fondo per l’edilizia penitenziaria per le I.C.A.M. , in favore di un fondo per la realizzazione di Case Famiglia Protette, da gestire in accordo tra enti locali e amministrazione penitenziaria. Questi emendamenti furono votati da una minoranza. Il risultato fu un nulla di fatto”. Sulla vicenda è intervenuto anche Luigi Pagano, vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “La questione è che le I.C.A.M. noi dobbiamo crearle. Per tutta una serie detenute madri, con bambini fino a tre anni, che potrebbero trovare lì alloggio, come detenzione attenuata. Abbiamo un piano edilizio, con dei fondi stanziati per questo. La legge 62 del 2011 segue questo circuito: innanzitutto non ha eliminato i nidi. Quindi, le donne madri con bambini fino a tre anni, possono anche rimanere in carcere, se hanno commesso particolari reati gravi o sono recidive. Nelle I.C.A.M possono andarci le detenute che devono scontare un tot di pena, per ottenere la misura alternativa alla detenzione, che potrebbe essere la detenzione domiciliare. Le Case Famiglia Protette sono previste ma, innanzitutto, è il magistrato che decide se una donna può essere assegnata a una Casa Protetta o meno. La legge 62, deve, quindi, considerare le diverse situazioni e i diversi reati che le donne commettono. Di fronte ad una colpa grave, è chiaro che diventa tutto più difficile, anche per il bambino, perché la gravità del reato, in questi casi, prevale. E comunque, essendoci ancora i nidi, è prevista anche la possibilità per le mamme con bambini di restare in carcere. Poi, per quanto riguarda la realizzazione delle Case Famiglia Protette, l’amministrazione penitenziaria può, eventualmente, convenzionarsi con gli enti locali, per la creazione o per usufruire di queste Case, in cui inviare le detenute con i loro bimbi. Magari pagando le utenze, senza aumentare le nostre spese. Ma non sono gestite da noi. La costruzione, l’utilizzo, la gestione sono un problema degli Enti locali. I fondi destinati all’edilizia penitenziaria per le I.C.A.M non possono essere devoluti alle Case Famiglia, perché sono due cose diverse. Noi siamo l’amministrazione penitenziaria, e quei fondi sono riservati a noi, per costruire ICAM. E, per legge, dobbiamo costruirli". Al momento, in Italia sono presenti tre ICAM: a Milano, a Venezia e a Cagliari. Si sta lavorando per aprirne una anche a Firenze e a Napoli. Di Case Famiglia Protette, invece, non ne è stata realizzata, al momento, nessuna.

Bambini, restate in cella, il pulmino costa troppo, scrive Luigi Lori su “Il Garantista”. In questi giorni l’Atac ci ha comunicato a sorpresa che il servizio di navetta per il trasporto dei bambini da 0 a 3 anni “detenuti” con le loro madri nella Sezione Nido della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia di cui ci occupiamo da vent’anni a questa parte con la nostra associazione, sarebbe stato interrotto a partire dal 1 gennaio 2015. La motivazione – dice la presidente Gioia Passarelli – consisterebbe nel taglio dei fondi destinati al servizio sociale di Roma Capitale da parte del Comune, tanto che l’Atac avrebbe messo in vendita le vetture destinate a questo tipo di convenzioni. La conseguenza – immediata di questa decisione che ci sconcerta e anche ci indigna – sarebbe che a partire da sabato 3 gennaio i bambini che vivono in carcere senza alcuna colpa, oltre a quella di essere nati, non potrebbero più usufruire dell’unico giorno da passare “in libertà” fuori dal carcere insieme ai volontari della nostra associazione, che da più di vent’anni li va a prendere con il pullman dell’Atac, messo a disposizione dal Comune di Roma. Oggi è stata presentata dal sindaco Marino la nuova giunta – continua la Passarelli – e la nuova assessora ai servizi sociali, Francesca Danese, presidente del Centro servizi volontariato del Lazio. Dal suo staff abbiamo avuto assicurazione che la Danese si occuperà al più presto dell’incresciosa vicenda, ma noi continueremo a vigilare fino a che il servizio non sarà ripristinato e per questo chiediamo il supporto della stampa e delle altre associazioni di volontariato che si occupano di carcere. E’ di ieri , d’altra parte, il sostegno che ci è giunto dal presidente Napolitano – ricorda la Passarelli – quando si è riferito nel suo discorso al Csm al “mancato e lungimirante impegno di tutte le Istituzioni per dare attuazione alla legge n. 62 del 2001. Una legge firmata da Anna Finocchiaro che prevedeva che i bambini non dovessero più entrare in carcere insieme alle loro madri, attraverso l’istituzione degli istituti a custodia attenuata e le case famiglia protette , per la quale – ha detto Napolitano – «non vi è forse stato un sufficiente investimento strutturale ed una visione integrata di assistenza e sostegno per i figli dei detenuti».

Quando in prigione ci vanno i bambini. Non ci sono dati certi. Ma si calcola che i minori che transitano ogni anno dietro le sbarre siano 100mila. In Europa sono 1 milione e mezzo. Le loro madri, assieme ai detenuti disabili, ai malati cronici e a quelli con disturbi psichiatrici, rappresentano un universo di cui si parla poco e a cui è negato il diritto ad una pena alternativa previsto dalla legge. Eppure sarebbe un bel risparmio per lo Stato che ogni giorno spende 80 euro per detenuto. Una realtà che rischia di peggiorare con i nuovi tagli imposti dalla spending review, scrivono Giuseppe De Bello ed Alice Gussoni su “la Repubblica”.

Per i più deboli la condanna è doppia di Alice Gussoni. Lili ha 33 anni, cinque dei quali passati tra carcere e domiciliari. A pagare per i suoi errori sono stati anche i figli, allontanati subito dalla madre. Tutti tranne il piccolo S., che all'epoca non aveva neanche un anno e l'ha seguita in cella per quasi nove mesi. Qui, probabilmente anche a causa della scarsa igiene, si è ammalato di una grave infezione respiratoria che lo ha costretto quasi sempre a letto, obbligandolo a dosi massicce di cortisone fino alla scarcerazione della mamma. S. è solo uno dei tanti piccoli detenuti, vittime dello stesso sistema che non permette a molti stranieri di usufruire delle misure alternative perché privi di domicilio. Le case famiglia sono la loro unica possibilità, ma in una metropoli come Roma si riducono a 6 unità abitative, per un totale di 36 posti disponibili per l'intera popolazione carceraria del lazio che arriva a 5mila 680 presenze, di cui 2395 stranieri (dati Dipartimento amministrazione penitenziaria al 31 ottobre 2014). Questi posti oltretutto non possono essere assegnati alle madri con minori a carico, le persone con disabilità fisiche, i malati cronici e i detenuti affetti da disabilità mentale. A Milano la situazione è leggermente diversa e a occuparsi della gestione è il privato sociale. Le case sono attrezzate per accogliere tutte le categorie di bisognosi, ma i posti sono sempre meno: dal 2003 a oggi infatti sono scesi da 60 a soli 19 a fronte di 7.697 detenuti, di cui 3.387 stranieri. Nel territorio di Napoli e Salerno invece non sono contemplati  interventi di questi tipo, quindi per i detenuti non esistono case famiglia. Stessa situazione anche in Sicilia mentre in Trentino Alto Adige il servizio è svolto dalle associazioni di volontariato cattoliche, che gestiscono 2 case famiglia per un totale di 23 posti in tutto. In mancanza di un censimento ufficiale i dati, raccolti a campione tramite interviste dirette ai comuni italiani, forniscono il quadro di un'Italia spaccata a metà ma nell'insieme ancora molto lontana dal risolvere i reali problemi del sistema carcerario. Mai come oggi questa istituzione è stata al centro di profonde riflessioni sullo stato del diritto, che al suo interno sembra essere sospeso in virtù di una legge non scritta che non risparmia neppure i più deboli. Emanuele Goddi, operatore della coop Pid, che gestisce la casa famiglia Don Puglisi di Roma, evidenzia come spesso, per mancanza di strutture ricettive adeguate, persino i disabili non riescano a ottenere l'affidamento ai servizi sociali: "Per loro si dovrebbero prevedere dei presidi medici, o comunque personale specializzato presente sul posto 24 ore su 24. Al momento invece chi soffre di handicap più o meno grave è residente in un braccio attrezzato alla bene e meglio, dove le barriere architettoniche sono enormi". In carcere sia chi ha subito un'amputazione sia i detenuti con ridotta capacità motoria sono assistiti dai così detti piantoni, ovvero altri detenuti che in cambio di un piccolo compenso, uno stipendio mensile che si aggira sui 150 euro, si prestano ad aiutare come possono i loro compagni di cella.  Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria non ha reso disponibili dati ufficiali, ma secondo una rilevazione dell'Università di Perugia del 2012 compiuta su 7 regioni a campione, circa il 44% di loro si troverebbe in reparti con evidenti barriere architettoniche. Stessa sorte per i malati cronici, come chi è affetto da HIV (circa il 3,8% dell'intera popolazione carceraria) o da malattie allo stadio terminale: il grave stato di salute è riconosciuto come incompatibile con il regime carcerario (articoli 146 e 147 del Codice penale), ma proprio per lo stesso motivo molti vengono giudicati idonei alla detenzione. Le cure che ricevono in carcere vengono infatti considerate ottimali, quindi, anche se rimane loro poco da vivere, restano dentro. E' una legge spietata, ma il carcere, ammette lo stesso Luigi Pagano, vicedirettore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, è prima di tutto punitivo e poi rieducativo: "L'incompatibilità non è riconosciuta automaticamente, è una dichiarazione di natura giuridica che spetta al magistrato e si basa anche sulla diagnosi che viene fornita dal medico, ma in primo luogo sulla pericolosità del soggetto". Ancora oggi, a quasi due anni dal richiamo della Corte europea per i diritti dell'uomo che ha sanzionato l'Italia per le condizioni inumane e di sovraffollamento in cui vivevano i detenuti (la popolazione carceraria superava del 140% i posti disponibili), quelli che rimangono in cella sono soprattutto loro, i più bisognosi di assistenza medica e di un ambiente salubre. Eppure i dati parlano di un netto miglioramento: la popolazione carceraria è diminuita di circa 12mila unità e l'ultimo censimento, datato 31 ottobre 2014, fotografa una occupazione dei posti in carcere del 109,8%, ovvero 54.207 detenuti quando i posti sarebbero solo 49.397, anche se la disponibilità effettiva, secondo il X rapporto dell'Osservatorio Antigone, sarebbe nettamente inferiore, pari a circa 37mila unità. Dal 2011 a oggi, stando ai numeri forniti dal ministero della Giustizia, i detenuti che hanno ottenuto le misure alternative sono aumentati da 19.139 a oltre 30.000, risolvendo nel breve periodo una crisi strutturale che investiva praticamente tutti gli istituti penitenziari. Ma a sbloccare una situazione drammatica è stato soprattutto il ricorso alla detenzione domiciliare che certamente va bene per chi non deve essere seguito o necessiti di particolari cure mediche. Ottenere di scontare la custodia in casa, cautelare o definitiva che sia, resta infatti la soluzione più semplice rispetto all'assegnazione ai servizi sociali o alle comunità terapeutiche. Anche perché i fondi per queste strutture sono sempre stati pochi e con la spending review sono stati ulteriormente ridotti (Milano è l'unica città italiana ad avere un Centro di Mediazione al Lavoro, mentre a Roma nel 2013 per il lavori di pubblica utilità sono stati spesi 138mila euro, il 20% in meno rispetto ai due anni precedenti, e a Napoli la convenzione è ancora ferma allo stato embrionale). Molto scarsi anche gli investimenti delle Regioni per le case famiglia, nonostante la convenienza economica sotto questo punto di vista sia evidente: solo nel 2013 per ogni detenuto ospitato in queste strutture la spesa media sostenuta dalle casse pubbliche è stata di poco meno di 37 euro al giorno e di 40 euro quella per le comunità terapeutiche, medicine incluse, contro i 123 euro spesi all'interno delle carceri. La considerazione che il carcere sia anche un deterrente per le cattive abitudini, che spesso si associano al contagio di malattie come Aids o epatite C, fornisce la convinzione che tra le celle determinate iniziative sanitarie siano attivate con più efficacia. Ma resta il fatto che i tossicodipendenti sono ancora il 32% dei detenuti (fonte Simspe) e circa il 20% fra quelli che assumono droghe ha iniziato proprio in carcere, come indica una ricerca su base europea svolta dall'Emcdda, l'European monitoring center for drug and drugs addicted. L'affidamento alle comunità terapeutiche rimane l'ultima spiaggia, e solo un detenuto su sei riesce ad ottenere questa misura alternativa, mentre i posti rimangono vuoti a causa della paralisi del sistema, come denunciato dall'associazione Saman. Enzo Saulino, psichiatra e presidente per il Lazio del Forum Nazionale Diritto alla salute in carcere, spiega che "la discrezionalità del giudice impedisce che le nostre valutazioni siano determinanti". "Si ha paura - sottolinea - di sbagliare e di rimettere in libertà un potenziale criminale, perché un errore simile fa molto più scalpore di un detenuto che muore dietro le sbarre". Il vicedirettore del Dap Pagano precisa ulteriormente: "Si devono mettere insieme due concetti, quello di punizione e di rieducazione, che se uno li volesse sviluppare compiutamente rischiano di essere antitetici".  Il trattamento penitenziario in Italia è stato però spesso condannato dai tribunali internazionali per non essere "conforme ad umanità" né rispettoso "della dignità della persona", come promette invece l'articolo 1 dell'Ordinamento penitenziario (L.354/75). Gli stessi ospedali psichiatrici giudiziari, condannati già dalla legge Basaglia del '78, avrebbero dovuto chiudere definitivamente nel 2013, ma di deroga in deroga sono ancora in funzione. Luoghi dove si contano numerosi casi di "ergastoli bianchi": pene che si sono perpetrate oltre il limite previsto perché nessuno poteva - o voleva - assumersi il rischio di rilasciare soggetti potenzialmente pericolosi. Ancora una volta la soluzione potrebbero essere le case famiglia, ma mancano le strutture e i soldi per gestirle. Ivan Battista, coordinatore dell'Ufficio Detenuti del Dipartimento Politiche sociali di Roma, suggerisce di assegnare all'istituzione nuove case famiglia dai beni confiscati alla mafia. Un'idea che nasce anche dalle ultime cifre fornite dal Comune di Roma, secondo cui i beni immobili sottratti alla criminalità sarebbero ben 334 solo nel Lazio, di cui però finora solo uno è stato adibito a questo scopo. Pochi anche i fondi destinati alla costruzione degli Istituti a Custodia attenuata per le madri, i così detti Icam, per i quali le Regioni hanno previsto un impegno medio di 500mila euro. Finora ne sono stati realizzati solo tre in tutta Italia (Milano, Venezia e Senorbi in Sardegna), anche se in proposito le associazioni di volontariato sollevano molti dubbi. Gioia Passarelli, presidente della onlus 'A Roma Insieme', da anni impegnata a favore dei figli delle detenute, spiega perché: "L'idea di partenza era quella di rendere l'ambiente più adatto alla presenza dei minori che accompagnano le madri, ma a parte l'abolizione delle divise per gli agenti e i corridoi colorati, i bambini non potranno comunque essere portati a scuola o passare l'ora d'aria in un parco, e - in caso di emergenza sanitaria urgente - essere accompagnati dalla madre". Gli Icam sono e restano delle carceri a tutti gli effetti che sottostanno all'ordinamento penitenziario. Da gennaio 2014 inoltre l'età dei minori che potranno restare vicini al genitore è stata innalzata dai 3 ai 10 anni, con le tragiche conseguenze che si possono immaginare: "Molti di loro non hanno mai visto com'è fatto un prato - continua Gioia Passerelli - e si spaventano se devono camminarci sopra. I primi anni di vita sono fondamentali per la crescita e loro li passano reclusi negli istituti". Della stessa opinione anche Lia Sacerdote dell'associazione Bambini senza sbarre, firmataria insieme al Garante per l'infanzia e l'adolescenza e il Ministero della Giustizia di un Protocollo d'Intesa a tutela dei diritti dei 100 mila bambini e adolescenti che entrano nelle carceri italiane ogni anno. Loro l'iniziativa della creazione di uno "Spazio Giallo" a San Vittore, dove, grazie al lavoro di psicologi ed educatori si cerca di rendere comprensibile l'esperienza del carcere ai piccoli visitatori. La mancanza di strutture ricettive è un problema che tocca molti. Sempre secondo le stime fornite dall'Osservatorio Antigone, il 6,4% dei detenuti ha una condanna di scarsa rilevanza penale (inferiore a un anno), quindi assolutamente compatibile con le misure alternative, mentre la percentuale sale a 9,4% se si considerano solo gli stranieri, e addirittura arriva al 26,8% quando si considerano le donne. Il 100% dei detenuti invece ha diritto a uno spazio vitale minimo fissato sopra i 3 mq, sotto i quali viene riconosciuto lo stato di inumanità della detenzione (sentenza Torreggiani 8 gennaio 2013).

Senza cure né assistenza, ecco i casi più gravi di Alice Gussoni.

Romolo, 70 anni, rinchiuso in Opg dal 1976 fino al 2006. Nel gergo dei detenuti gli ergastoli bianchi equivalgono a un fine pena mai, senza possibilità di appello o sconti. La condanna di Romolo è stata questa. Rinchiuso in un Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) nel '76 perché dormiva in macchina, è entrato in istituto con una pena irrisoria. Sottoposto a una perizia psichiatrica annuale, la sua scarcerazione è stata rimandata di anno in anno. Nessun giudice o revisore si è mai voluto prendere la responsabilità di certificare l'avvenuta guarigione, perché questa decisione avrebbe potuto portare problemi. Problemi che sono rimasti rinchiusi insieme a Romolo per 30 anni, uscito con l'indulto del 2006, senza più alcun riferimento parentale o sociale, senza più alcuna possibilità di rifarsi una vita. Di casi simili gli ospedali psichiatrici ne sono pieni.

Claudio B., 46 anni, recluso a Regina Coeli in attesa di cure mediche urgenti. Uno dei motivi per cui viene riconosciuta l'incompatibilità con il regime carcerario (articolo 47 comm.2 ) è l'esigenza di un trattamento che non sia possibile ricevere nell'ambiente carcerario, per favorire il recupero, totale o parziale, dello stato di salute. Il 21 aprile 2014 Claudio B., detenuto a Rebibbia Nuovo Complesso, è vittima di un banale incidente. Inciampa, cade malamente, i suoi arti inferiori rimangono paralizzati. Una dinamica che ha dell'incredibile, ma il trauma subito non è irreversibile, potrebbe tornare a camminare, se solo facesse fisioterapia. Dopo due mesi finalmente ottiene il trasferimento al Centro clinico del Regina Coeli, ma anche questa struttura non è attrezzata per affrontare il suo caso. Claudio rimane qui per altri tre mesi, fino al 20 settembre, quando viene nuovamente trasferito, questa volta a Velletri. Ma ancora una volta le cure indispensabili per non perdere l'uso delle gambe non possono iniziare: i medici si dichiarano non all'altezza e così viene rimandato al Regina Coeli, dove ancora oggi è in attesa di ricevere l'assistenza adeguata.

Giacomo, 6 anni, 5 dei quali passati in carcere con sua madre. La legge 62 del 2011, entrata in vigore dal 1° gennaio 2014, prevede l'innalzamento dell'età dei bambini che possono restare con i genitori detenuti dai 3 ai 6 anni, purché la pena venga scontata in un Istituto a custodia attenuata madri, anche detti Icam. Giacomo di anni ne ha 6, e tutte le sere da quando ha 1 anno ha sentito il rumore dei cancelli che si chiudevano prima di andare a dormire. Di Icam a Firenze non ne esistono e lui ha vissuto da recluso insieme alla madre nel reparto femminile del carcere di Sollicciano, dove non c'è neanche il nido e gli orari di apertura e chiusura delle celle sono gli stessi per adulti e bambini. Giacomo è cresciuto in simbiosi con la madre. Ora che finalmente è uscito è stato affidato ai servizi sociali, ma è troppo grande per affrontare una nuova vita senza il trauma.

Lili, 33 anni, ha scontato 9 mesi nella sezione nido insieme al suo piccolo. Quando uno dei due genitori si trova in carcere ha diritto a ricevere la visita dei familiari più stretti una volta a settimana. Lili ha tre figli e per 9 mesi è stata rinchiusa a Rebibbia nella sezione Nido, insieme al piccolo S., che all'epoca aveva solo 7 mesi. Ammalatosi quasi subito di una grave forma allergica, S. ha subito una dura terapia a base di cortisone e antibiotici, durata per l'intera permanenza in Istituto. Durante tutto questo periodo Lili non è mai riuscita a incontrare gli altri due figli di 2 e 5 anni affidati allo zio. Finalmente riesce a ottenere i domiciliari e porta i figli a trovare il padre, anche lui rinchiuso a Rebibbia Nuovo Complesso. Per quasi cinque anni il giovedì diventa il giorno rituale per riunire la famiglia nell'area verde del carcere. Da due mesi a questa parte però gli agenti di custodia negano al piccolo S. il diritto a entrare per la visita settimanale. Il cognome risulta infatti diverso, anche se se ne sono accorti solo ora. Il riconoscimento da parte del padre non è stato possibile, perché arrestato prima che il piccolo nascesse. Ironia della sorte, lui che è stato ospite del nido nello stesso istituto dove si trova recluso il padre, ora è diventato un estraneo e può entrare solo una volta al mese.

Gli ergastoli bianchi degli Opg di Giuseppe Del Bello. Il disastrato panorama della psichiatria campana, e in particolare di Napoli, paradigma del disagio territoriale, oggi, rischia di diventare ancor più drammatico a causa dell'emergenza Opg, gli ospedali psichiatrici da chiudere entro il 31 marzo 2015. E i pazienti, da smistare altrove. Dove? Questo, nonostante le istituzioni parlino di ambiziosi progetti, non è stato ancora deciso. O, almeno, programmato. In tutta la regione di "ristretti" ce ne sono circa 270 e gli Opg sono due. Il primo, a Napoli, è il vecchio Sant'Eframo (chiuso nel 2008 perché fatiscente e degradato, con un'ala quasi interamente crollata) e poi inglobato nel carcere di Secondigliano, dove occupa un reparto ad hoc per 110 pazienti. Di questi, 72 sono stati avviati al Ptri (Progetto terapeutico riabilitativo individuale) nell'ottica della dimissione entro il 31 marzo. Per loro si prospetta un trasferimento in strutture Asl o riabilitative convenzionate, cioè private che lavorano per conto della Regione. Con tanti saluti al risparmio e a un'assistenza dignitosa. Ad accogliere i 38 rimanenti, invece, dovrebbero essere le uniche due Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) esistenti in Campania, a Calvi Risorta (Caserta) e a San Nicola Baronìa (Avellino). Mini-lager sotto mentite spoglie. Rinnovamento-beffa lo definiscono i medici. Nell'altro Opg, il Saporito di Aversa in provincia di Caserta, i reclusi sono circa 160, ma tranne tre o quattro (il "mostro di Posillipo" che faceva a pezzi le donne dopo averle violentate è stato rinchiuso qui per vari anni) nessuno è ritenuto pericoloso e, quindi, destinato a un regime detentivo in senso stretto. Ma le Rems, come osserva il presidente dell'Associazione "Sergio Piro" (recentemente scomparso e continuatore in Campania della scuola psichiatrica basagliana) Francesco Blasi, non andrebbero "prese in considerazione perché lo schema-carcere è lo stesso degli Opg". Quindi centri di reclusione, e non di recupero. Ergastolo "bianco". E Fedele Maurano, direttore del Dipartimento di salute mentale della Asl Napoli 1 è dello stesso avviso: "Sono contrario alle Rems e ne ho già parlato con il manager Ernesto Esposito. Anche lui è d'accordo". Servirebbe quindi una sistemazione alternativa che però ancora non si conosce nei dettagli, nonostante Esposito rassicuri sulla possibilità di sistemare i pazienti di sua competenza in centri di accoglienza tipo case famiglie. D'altronde, le condizioni in cui versa la salute mentale a Napoli non promette nulla di buono per il futuro. "In Italia si contano 600mila soggetti tra schizofrenici e bipolari", rivela Blasi, "in Campania siamo a quota 60mila. Qui a Napoli, già per questi pazienti, l'assistenza è carente". In città, si contano dieci servizi di salute mentale, in cui lavorano in media, dieci medici. In tutto, un centinaio di specialisti. Insufficienti. Ma sono gli errori di chi lo ha preceduto che adesso Esposito tenta di correggere. Come quello di eliminare i turni di assistenza notturna e festiva, ritenuti "spesa inutile, da sopprimere" e da sostituire, col 118. L'attuale manager è corso ai ripari, creando i "poli notturni" a cui afferiscono i cento medici da allertare in caso di necessità. Ovviamente, senza nessuna garanzia di continuità assistenziale: il contrario di quanto recita la legge emanata dalla stessa Regione, la 183 scritta da Piro, che sanciva il diritto all'assistenza 24 ore su 24. "Ci vorrebbero dei centri-crisi dotati di infermieri, medici reperibili, e uno o due posti letto", dice Blasi, "dove trattenere un paziente per un giorno massimo due, ma senza il ricovero". Frequenti gli episodi di malasanità. A Capri, l'ultimo allarme risale a maggio quando il dirigente del servizio avverte che sull'isola "almeno 7-8 sono le potenziali vittime di mancata assistenza". Un degrado graduale che vede i comuni di Capri e Anacapri serviti da un solo medico: una volta ogni 15 giorni, a rotazione. E le urgenze? Anche di giorno, si risolvono chiamando il 118 e l'ospedale Capilupi, sprovvisto di psichiatri e di posti-letto dedicati. Oltre a Blasi e Maurano, ci sono anche altri soggetti pronti ad alzare la voce. Per esempio, il Comitato di Lotta che la settimana scorsa ha presidiato il reparto di ricovero afferente all'ospedale San Gennaro (vedi video). "Bisogna rompere il muro di silenzio", dice la madre di un ex paziente, "Qui dentro, a maggio è morto un giovane. Tutti sanno che venivano (il personale è stato quasi totalmente sostituito dopo la tragedia, ndr) utilizzate manette, corde e farmaci che annullano la personalità". Per il comitato di Lotta, parla Enrico de Notaris, psichiatra allievo di Sergio Piro: "Combattiamo il concetto di follia come malattia organica. E anche contro la repressione che ne scaturisce. Il repartino di degenza e l'unità Salute mentale, secondo lo spirito della 180 di Franco Basaglia non erano solo strutture ambulatoriali, ma anche di raccordo col quartiere. Oggi questi luoghi sono solo dispensatori di farmaci dove non si combatte il disagio, ma si annullano le persone somministrandogli dosi inappropriate. Praticamente, una camicia di forza "'chimica'". Il Comitato (psichiatri, psicologi, familiari, specializzandi, disoccupati e volontari), opera su più fronti. Per esempio, con la creazione di una farmacia sociale: si raccolgono i medicinali inutilizzati per metterli a disposizione di chi si presenta munito di prescrizione. Poi ci sono le attività: dal gruppo di espressione (scrittura, liberi movimenti del corpo, disegni, foto e produzione video): "linguaggi creativi per imparare che il disagio può esprimersi anche in altri modi e non necessariamente attraverso il sintomo". L'ultima iniziativa, ricorda de Notaris, è stata l'istituzione dell'Osservatorio della salute mentale: "C'era anche la delibera del Comune, ma l'assessora alla sanità voleva utilizzarla per inserire personale suo, e questo avrebbe svuotato di significato il progetto. Da allora tutto è rimasto solo sulla carta". Con questi presupposti, la Campania si prepara a voltare pagina. Si accinge a riscrivere una storia che rischia di essere stata già letta troppe volte.

QUANDO IN ESILIO CI VANNO I BAMBINI.

«Venti bambini scomparsi per un’ingiustizia di Stato». Lorena Morselli racconta la sua odissea durata 16 anni. Poi l’assoluzione «Mai più visti i miei figli ma non sono gli unici “rapiti” in quell’errore giudiziario» di Alberto Setti su “La Gazzetta di Modena”. «Ci sono venti bambini della Bassa modenese scomparsi nel nulla, “rapiti” a causa di un grossolano errore di Stato. Venti bambini che le loro famiglie non hanno più visto. Neppure il genitore di Massa che venne assolto fin da subito, senza tutto il calvario che abbiamo passato noi. Ecco, il mio pensiero oggi va a quei bambini, compresi i nostri figli. Bambini che, dopo tanto tempo, hanno quasi trent’anni...». A Salernes, nella Francia del Sud dove vive da quasi vent’anni con il quinto figlio Stefano, Lorena Morselli si sfoga così. Dopo l’assoluzione del 4 dicembre in Cassazione a Roma, ha preparato il suo Natale andando e venendo dalla sua Italia, dalla sua Massa Finalese. Viaggi per incontrare i parenti che le sono rimasti, gli avvocati, o anche solo per partecipare alle trasmissioni televisive che ora, dopo tanto tempo, ne raccontano l’incredibile, drammatica vicenda. Quella di una madre accusata prima di non essersi accorta che i primi quattro figli venivano rapiti dai parenti nella notte, nel palazzone dove vivevano, in pieno centro a Massa, per essere condotti nei cimiteri, a partecipare dei più incredibili abusi pedofilo-satanisti. Poi, a fronte delle rimostranze per quelle accuse strampalate, imputata di avere assistito inerme e collaborativa al marito che abusava sistematicamente di quei figli. Fantasie senza prove, cancellate dopo 16 anni da una giustizia talmente lenta e credulona da essere comunque ingiustizia. «Ora vivo e agirò perchè quello che è accaduto a me non accada mai più ad altri», dice con convinzione Lorena. Consapevole che purtroppo non sarà così, perchè esperienze identiche ne erano accadute prima nel mondo civile e anche dopo, in Italia. Esperienze che finiscono per rivelarsi un favore di Stato enorme ai pedofili, quelli veri. L’unica, inevitabile, azione possibile non sarà il pur necessario ristoro mediatico di questi giorni, ma una controffensiva nel campo stesso - quello giudiziario - che le ha sconvolto la vita, strappandole anche il marito Delfino, deceduto di crepacuore un anno fa proprio a Salernes dove si era recato a trovare moglie e figlio. Delfino, come molti alri in questa storiaccia, è stato vinto dal dolore di una battaglia interminabile, prima di saperla vinta. Così i legali di Lorena stanno preparando una azione di risarcimento. Imbarazzante per la giustizia, un’azione temuta e tenuta lontana con certi giri di parole che si colgono nelle prime sentenze che hanno fatto crollare il muro di quella vicenda incredibile. Non tutto il muro, va detto, perchè nel frattempo, nella maturazione di una consapevolezza, c’è chi una condanna - tanto indiziaria quanto definitiva - non è riuscito a schivarla. «Alla questione del risarcimento stanno lavorando gli avvocati, in questa fase preferisco non se ne parli. Ogni volta che abbiamo lottato per la verità qualcuno si è prodigato per impedirlo, screditandoci», dice Lorena, chiudendo il discorso sul maxi risarcimento. Perchè lei, la maestra dell’asilo parrocchiale, 55 anni oggi, su certe cose vorrebbe anche mettere la pietra della rassegnazione: «Qui in Francia, dove sono stata accolta benissimo e con sincerità, me la cavo facendo le pulizie. Non ho mai pensato di tornare in Italia ad insegnare, o di farlo qui. Il trauma è stato tale che pensare di accudire i bambini di altri genitori, sapendo come è facile trovarsi in un inferno, ti toglie ogni forza». Anche quella di tornare in Italia: «Per ora la mia vita è qui, a Salernes. Lo faccio per Stefano. Per salvarlo dai Servizi Sociali sono fuggita, e lui è cresciuto qui. Gli amici, la sua vita sono qui. E io mi adeguo, perchè la gente mi ha accolto con rispetto e dignità. Un domani, vedremo, ma dovrà essere lui a decidere...». A Massa Lorena tornerà anche il 28 dicembre: «Siamo stati invitati dal parroco, don J. Jacques, alla Messa di ringraziamento che sarà celebrata domenica alle 10.30. Spero ci sarà anche don Ettore, che ci è stato sempre vicino. A Finale associazioni di genitori hanno chiesto di indicare il modo per aiutarmi», aggiunge Lorena ringraziando. A Massa ci sarà anche per salutare sua mamma Lina, che ha 81 anni e in questa vicenda si è vista sconvolgere la vita: il marito morto Enzo di dolore, la nuora morta in carcere, il genero Delfino morto a Salernes dopo uno dei suoi tanti viaggi verso la Francia... Poi la tragedia dei nipoti scomparsi. «Dei sette nipoti che ha - chiosa Lorena - l’unico rimasto è Stefano. Mia madre, che non è mai stata indagata, gli altri sei non li ha mai potuti rivedere. I regali che gli faceva recapitare venivano rispediti indietro... C’è voluta e ci vuole solo la sua immensa fede, per resistere a tutto questo». Il pensiero va così a quel 12 novembre del 1998, più di sedici anni fa. L’ultima volta che Lorena e Delfino hanno visto i loro bimbi da genitori. «Alle 5.30 del mattino ci siamo trovati la polizia in casa. C’era l’ispettore Pagano che ci leggeva stralci dell’ordinanza del tribunale, senza che capissimo nulla. Ci ritrovammo in Commissariato a Mirandola, io ero nell’anticamera con i miei bambini, Delfino era salito con la psicologa Mambrini. Nella stanza con noi c’era anche la Donati, la giovane psicologa da cui è partito tutto questo... Facevano di tutto per provocarci, per accusarmi di essere una madre insensibile in quanto non volevo separarmi dai bambini. Li guardavo, quei bambini. Ero sconvolta, capivo che non li avrei mai più rivisti. Loro piangevano, sconvolti, così vinta da quelle provocazioni salii anch’io le scale. Mi trovai davanti Delfino che piangeva e Burgoni dell’Ausl che mi leggeva il decreto del tribunale, nel quale ci accusavano di non averli accuditi, consentendo che venissero prelevati di notte e portati nei cimiteri. Avevano creduto ai racconti della mia nipotina, allontanata a sua volta dalla famiglia, a sua volta sconvolta e confusa come sarebbero stati poi tutti i bambini di questa vicenda. Chiesi per l’ultima volta di vedere i miei figli, ma mi fu negato. Il resto lo sapete». Ma da madre Lorena si preoccupa ancora. «È stato un dramma anche per loro e per quello che sono stati indotti a dire e pensare. Oggi il più piccolo ha vent’anni, la più grande 27. So che non hanno di certo avuto una vita facile, so che qualcuno sta trovando un lavoro, ma che risultano ancora studenti, ciò che consente agli affidatari di ricevere gli indennizzi. Vorrei far loro sapere che la mamma è qui, innocente e che li pensa sempre. Come il loro fratello Stefano, che aspetta di conoscerli e di riconciliarsi».

Pedofilia, trappola infernale. Il “detective” Giovanardi e l’orrore giudiziario che uccise don Giorgio, scrive Cristina Giudici su "Il Foglio". Quando il 9 giugno scorso la Corte d’appello di Bologna ha assolto Lorena e Delfino Covezzi dall’accusa di pedofilia nei confronti dei loro figli (dai quali sono stati separati dodici anni fa), il parroco di Massa Finalese, don Ettore Rovatti è andato a celebrare messa come ogni mattina. E durante l’omelia ha pianto. Ha pianto per quei quattro bambini sottratti ai loro genitori all’alba del 12 novembre del 1998, (all’inizio solo per omessa vigilanza). Ha pianto per quella coppia di coniugi di Massa Finalese, in provincia di Modena, trascinati nella polvere, dentro una storia troppo grande per loro, troppo grande per chiunque, e non potranno riavere indietro la vita che avrebbero voluto e potuto vivere. E davanti ai suoi parrocchiani ha pianto, soprattutto, per un’altra delle vittime innocenti di questo ennesimo caso di errore giudiziario legato a un caso presunto di pedofilia: don Giorgio Govoni, il sacerdote accusato di essere stato, alla fine degli anni 90, il regista di un macabro set pedo-pornografico messo in scena nelle campagne della bassa modenese. Don Giorgio è morto di crepacuore il 29 maggio 2000, il giorno dopo che i pubblici ministeri di Modena avevano chiesto di condannarlo a quattordici anni di carcere. Lo scorso 9 giugno, davanti alla sentenza di Bologna, il sottosegretario alle Politiche per la famiglia, Carlo Giovanardi, che ha seguito per dodici anni il travaglio esistenziale e giudiziario della coppia di Massa Finalese, ora riabilitata perché “il fatto non sussiste”, si è sentito come un Achille furioso dopo la morte di Patroclo. E’ furioso, mentre ripercorre le tappe di questi dodici anni, il suo è un concitato monologo, l’elenco di tutti gli episodi più grotteschi di un caso di falso abuso sessuale: fra tutti quelli raccontati fino a ora, forse il più aberrante. A colloquio con il Foglio, riassume la sua indignazione in un feroce j’accuse all’apparato giudiziario “che ritiene gli errori giudiziari fisiologici, senza far pagare a nessuno le responsabilità della propria cecità, vittima talvolta, quando si tratta di pedofilia, di una maniacale ricerca di una verità che danneggia l’individuazione dei pedofili veri”, precisa. Per chi non sa, o ha dimenticato, ecco il riassunto di questa vicenda giudiziaria. Nell’aprile del 1997 un bambino sottratto ai genitori, che don Giorgio Govoni aiutava economicamente perché vivevano di espedienti, racconta di aver subito un abuso. Seguono altre denunce, alla fine saranno due le famiglie coinvolte e sei le persone rinviate a giudizio. Due mesi dopo, una madre a cui hanno tolto il figlio si getta dalla finestra. Il primo bimbo, primo anello di una catena di accuse che si trasforma in una psicosi collettiva, parla di messe nere, orge sataniche nei cimiteri. Racconta di altri bambini sottratti a scuola di giorno con la complicità delle maestre, rapiti di notte nelle loro case con la complicità dei genitori. Bambini che vengono sodomizzati, decapitati, appesi a dei ganci, gettati nel fiume Panaro. Dove però non viene mai trovato nessun cadavere. Sempre nel 1998, una bambina coinvolge i suoi quattro cuginetti, figli della coppia Covezzi, che vengono prelevati dalla polizia all’alba. Il 19 maggio 2000, don Giorgio Govoni, il presunto “regista” della cricca pedofila muore d’infarto (verrà pienamente assolto l’anno dopo, post mortem) e le campane della chiesa di San Biagio suonano il suo lutto. Giovanardi rilegge la sua prima interpellanza parlamentare all’allora ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto, dell’11 marzo del 1999. Giovanardi era vicepresidente della Camera e chiese al Guardasigilli di interessarsi al caso di una coppia alla quale la polizia, all’alba del 12 novembre 1998, aveva tolto i loro quattro figli per omessa vigilanza: sarebbero stati portati nei cimiteri per essere sodomizzati. “Il ministro mi promise di occuparsene e di darmi una risposta entro una settimana”, ricorda Giovanardi, “ma un giorno prima della scadenza, Valeria, una delle figlie dei Covezzi, già allontanata dai suoi genitori, dopo un colloquio con l’assistente sociale, torna a casa dalla famiglia affidataria. In lacrime. Affermando che suo padre l’aveva violentata. I genitori ricevettero un avviso di garanzia per abusi sessuali e non è stato più possibile intervenire”. Chi è la coppia che Giovanardi ha cercato di aiutare? “Lui operaio, lavorava nella ceramica, lei maestra d’asilo e insegnante di religione in parrocchia. Poi è rimasta incinta e si è rifugiata in Francia per impedire al Tribunale dei minori di toglierle anche il suo ultimo figlio. Per anni mi ha scritto lettere piene di angoscia, speranza, dolore e fede”, spiega ancora Giovanardi. E allora, quando la procura di Modena si lancia in una fuga in avanti e la macchina giudiziaria si trasforma in un carro armato, Giovanardi, avvia la sua puntigliosa contro-inchiesta. Ha visitato i luoghi nei quali si sarebbero svolte le violenze, ha rifatto i percorsi che sarebbero stati seguiti da pedofili e bambini, dalla scuola ai boschetti, dalla casa ai cimiteri. Ha cronometrato i tempi, incrociando le informazioni, e da novello detective ha capito immediatamente che “credere all’impianto dell’accusa della procura di Modena era come credere a un omicidio avvenuto sulla Luna. Ho cercato di aprire un dialogo con magistrati e assistenti sociali per capire cosa stava accadendo, dove si era inceppato il meccanismo giudiziario – dice – ma non ci sono mai riuscito”. Non conosciamo fino in fondo la metodologia utilizzata durante gli interrogatori-colloqui con i bambini, ma alcune conversazioni sono trapelate dalle relazioni dei periti. Durante l’interrogatorio a una bambina che riguardava don Giorgio Govoni le viene chiesto: “Piccola, chi era quell’uomo? Un dottore?”. Riposta: “Sì”. “Ma poteva essere anche un sindaco?”. Risposta: “Sì”. “O anche un prete?”. Risposta: “Sì”. “Poteva chiamarsi Giorgio?”. Ecco perché oggi gli ex parrocchiani di don Giorgio Govoni lo vorrebbero beatificare, per una ragione che c’entra poco forse con i miracoli, ma molto con la contemporaneità della malagiustizia. E infatti sulla sua lapide, a san Biagio, c’è questa epigrafe: “Vittima innocente della calunnia e della faziosità umana, ha aiutato i bisognosi, non si può negare che egli, accusato di un crimine non commesso, sia stato vinto dal dolore”. Incalza Giovanardi: “Ciò che più mi sconvolge e indigna è che i Covezzi non vedono i loro figli da dodici anni: hanno dovuto aspettare otto anni per una sentenza di assoluzione. Otto anni! Si rende conto? Ne parliamo dagli anni 90, e mentre rileggo la mia interpellanza del 1999 ancora non ci posso credere. Non abbiamo ancora fatto un solo passo in avanti per accorciare i tempi processuali. Non abbiamo fatto un solo passo in avanti per introdurre criteri di professionalità, trasparenza e competenza nei processi che riguardano temi delicati come gli abusi sessuali e che invece spesso vengono lasciati nelle mani di psicologi e assistenti sociali trasformati in detective. Angoscia, rabbia e speranza. Ecco la gamma dei miei sentimenti davanti a questa tardiva assoluzione. Si deve intervenire per evitare di rovinare le famiglie, per impedire ai tribunali dei minori di tenere i genitori lontani dai figli dopo l’assoluzione dei genitori. Io sono un acerrimo nemico dei pedofili, ma quelli veri”. Il copione è noto: perizie contrastanti, tronconi d’inchiesta che si dividono e si moltiplicano, sentenze di condanna che poi vengono ribaltate, smontate, quando arrivano in altre procure, o ai gradi successivi di giudizio. “E succederà così anche per il caso della scuola Olga Rovere di Rignano Flaminio di cui mi sono interessato”, conclude Giovanardi. “Anche lì ci sono stati vizi d’indagine e l’impianto dell’accusa è stato smontato dal Tribunale della libertà e dalla Corte di cassazione. E finirà, ne sono certo, nell’elenco dei falsi abusi. A Rignano davanti a dichiarazioni contrastanti con le ipotesi accusatorie, sono state esercitate pressioni sui bambini. A Modena erano assistenti sociali e psicologi a indirizzare i magistrati verso un film dell’orrore non supportato da prove. Nel frattempo delle persone sono morte e una famiglia si è disgregata per sempre. Non si può e non si deve confondere la lotta sacrosanta alla pedofilia con la caccia alle streghe”.

BREGA MASSONE: CONDANNATO IN TV.

Libro in difesa di Brega Massone appoggiato dall’ordine dei medici. Presentazione in concomitanza con il processo d’Appello. Il chirurgo pavese è stato condannato a 15 anni di galera. La moglie «Vicenda kafkiana. Lui è convinto che la verità verrà a galla», scrive Manuela Marziani su “Il Giorno”. L'unica certezza al momento è una condanna a 15 anni e 6 mesi. È la pena inflitta in primo grado a Pier Paolo Brega Massone, ex primario della Clinica Santa Rita. Secondo i giudici, il chirurgo toracico accusato di avere inutilmente operato una novantina di pazienti per ricavarne un profitto personale, è colpevole di falso, truffa e lesioni dolose aggravate. Il caso era scoppiato nel giugno 2008, quando la Santa Rita era stata ribattezzata “clinica degli orrori” e il medico pavese dipinto come un mostro. «E se il mostro fosse innocente?», si domandano ora due giornaliste, Giovanna Baer e Giovanna Cracco, che hanno scritto una controinchiesta sul processo in libreria in concomitanza con l’avvio del processo d’Appello previsto per domani. «Un’attenta lettura delle carte del processo solleva molti interrogativi — sostengono le giornaliste —. Le consulenze mediche dell’accusa presentano lacune, eppure sono quelle della difesa a essere ritenute “inattendibili”. E il tribunale non ha disposto una perizia super partes». Domani alle 21 nel collegio Santa Caterina, su iniziativa del presidente dell’Ordine dei medici di Pavia Giovanni Belloni, il libro sarà presentato per la prima volta dalle autrici, e dell’avvocato del chirurgo Luigi Fornari. Tra il pubblico ci sarà la moglie del chirurgo, Barbara Magnani, che si divide tra il suo lavoro in ufficio, il ruolo di mamma e quello di moglie che due volte alla settimana va a colloquio con il marito a San Vittore. «È una vicenda kafkiana — dice lei — perché alcuni pazienti di mio marito che si erano presentati con indicazioni chirurgiche poste da altri. Inoltre, per alcuni interventi è stato condannato nel penale e assolto nel civile». Altro sull’aspetto giudiziario Barbara non racconta. Parla di sé e del marito come di una «coppia normale, che si era conosciuta all’università e sposata 14 anni fa per andare a vivere nella casa lasciata dai genitori di lei e trascorrere le vacanze nella casa acquistata dai genitori di lui». «La chirurgia era la sua passione di mio marito — ripete — e i migliori chirurghi sono dalla sua parte, come alcuni pazienti, mentre non biasimo gli altri che hanno ricevuto l’invito a costituirsi parte civile nel processo e hanno accettato di farlo». Oggi Barbara Magnani vive con il suo stipendio da dipendente pubblico «ma nella disgrazia ho trovato tanti aiuti. I miei genitori mi aiutano, mentre avvocati e consulenti hanno letto la documentazione e accettato di difendere mio marito senza presentarmi ancora una parcella che non potrei pagare. Intanto lui in carcere lavora alla sua difesa con forte convinzione: prima o poi la verità verrà a galla».

Quelle condanne di Fabrizio Corona e Brega Massone, scrive Ornella Viviani, su “Il Corriere della Sera”. Caro Beppe, Fabrizio Corona, lo sappiamo, si è beccato una condanna superiore a quelle di molti assassini, mafiosi o terroristi. Forse parte di questa severità può essere stata causata dall’atteggiamento sprezzante e scanzonato da lui tenuto in aula in tutti i processi, gli spezzoni più significativi dei quali abbiamo potuto vedere nella trasmissione “Un giorno in pretura”. Qualcosa di analogo dev’essere accaduto al chirurgo Pier Paolo Brega Massone, condannato all’ergastolo con l’accusa di aver operato inutilmente dei pazienti (azione, evidentemente, commessa solo da lui nella storia delle cliniche private…). Sempre grazie alla meritoria trasmissione Rai (rivedibile a http://alturl.com/b8pxb ), nonché alla recente docufiction colpevolista “L’infiltrato”, abbiamo appreso che le magistrate inquirenti avevano ascoltato Brega Massone mentre nelle intercettazioni le definiva “criceti rompicoglioni”, e abbiamo visto che, in aula, egli ribatteva, alle loro domande invero assai naif dal punto di vista medico (del tipo “Perché non faceva l’ago aspirato, se i falsi positivi sono solo il dieci percento?”), con l’alterigia e il tono canzonatorio che a volte possiamo essere indotti ad assumere se un interlocutore mostra totale incompetenza del nostro lavoro ma pretende di farci la predica (io sono ingegnere, non medico, ma conosco la situazione). Gli stessi periti del Pubblico Ministero, del resto, non erano chirurghi e non avevano consultato le lastre degli accertamenti diagnostici: si limitavano a leggere gli scarabocchi delle cartelle cliniche. Inoltre, essi proclamavano diagnosi bianco-o-nero come non ne sentiamo mai in medicina quando si è di fronte a un tumore o a una malattia complessa: le loro opinioni erano piane, semplici e lineari, come se tutto fosse chiaro e ovvio. E Brega Massone rideva loro in faccia in tribunale. Il mio consiglio a chi, colpevole o no, dovesse trovarsi preso nella macchina della giustizia? Remissività, umiltà e sottomissione…

Brega Massone: gogna mediatica di Rai 3, scrive Barbara Alessandrini su “L’Opinione”. Ancora una volta giustizia mediatica, un nuovo un tassello all’incivile ma radicata e ben collaudata pratica di celebrare i processi in tv e far strame dei più elementari e civili diritti del cittadino sanciti dalla nostra Carta Costituzionale: Rai 3 ha programmato per la prima serata di sabato 13 dicembre una docu-fiction sul caso di Pierpaolo Brega Massone, il chirurgo milanese, ex primario della Clinica Santa Rita, convenzionata con sistema sanitario nazionale, accusato di quattro omicidi volontari (per cui è stato condannato in primo grado all’ergastolo) e di 45 casi di lesioni gravi e truffa (per cui è stato condannato a 15 anni e mezzo), ora agli arresti cautelari ed in attesa di sentenza di secondo grado rispetto alla prima sentenza di condanna all'ergastolo. Che Brega Massone sia o meno colpevole sarà l’ultimo grado di giudizio a decretarlo, ma una cosa è certa ed è la responsabile mancanza di alcuna remora o esitazione del sistema mediatico, in questo caso specifico di Rai 3, a sacrificare sull’altare dell’audience il rispetto per un individuo i processi a cui carico sono ancora da concludere. E’ ormai la regola, da qualche decennio a questa parte, la vocazione del sistema informativo ad azzerare sotto i riflettori della gogna mediatica il principio della presunzione di innocenza. E quello che andrà in onda sabato prossimo è l’ennesimo, vergognoso siparietto pronto per aprirsi alla claque del pubblico a casa e tristemente destinato ad aggiungersi a quella cultura intrisa di show ed esibizione che Guy Debord definiva “La societè du spettacle”. L’imputato sarà processato e condannato, una volta di più, non in un'aula di tribunale in nome della legge ma su una rete televisiva del servizio pubblico in nome dell’audience. Ora, non è certo questa la sede adatta per entrare nel merito di un processo, quello che si è celebrato e deve ancora terminare nell’aula del tribunale vero, che comunque presenta evidenti incongruenze e solleva legittimi interrogativi. A cominciare dal mistero per cui, nel corso dei tre procedimenti civili intentati da tre pazienti che non si erano costituiti parte civile nei processi penali optando per la richiesta di risarcimento danni per aver subito operazioni ritenute inutili, il consulente d’ufficio nominato dal giudice civile ha affermato la assoluta correttezza dell’operato del chirurgo con conseguente rigetto delle richieste di risarcimento. E addirittura in uno di questi casi, sempre in base al parere del consulente d’ufficio (che è sempre esterno, indipendente e diverso nei vari processi) nel processo civile è stata stabilita l’assoluta correttezza del chirurgo, mentre nel processo penale gli è stato dato l’ergastolo. E poi perché i giudici penali, nonostante le ripetute richieste difensive, non hanno voluto acquisire agli atti le consulenze d’ufficio disposte nei processi civili terminati tutti in modo favorevole all’imputato, limitandosi ai pareri del consulente che fa capo alla Procura? Ecco cosa può aggiungere in questo quadro una ulteriore gogna televisiva? “Gravi danni - spiega l’avvocato Vincenzo Vitale, uno dei difensori di Brega Massone - potrebbero anche derivarne ai familiari e soprattutto alla figlia dodicenne poiché dagli spezzoni già mandati in onda, appare chiaro che la fiction dipingerà nuovamente il chirurgo come un mostro assetato di denaro ed incurante dei pazienti a lui affidati”. Ma il rischio più grande non riguarda l’influenza negativa fatalmente indotta sui telespettatori. Ad essere condizionati negativamente dalla ‘narrazione televisiva’ di una docu-fiction mandata in onda con processi ancora da celebrare potrebbero essere coloro che, oggi spettatori, domani saranno chiamati a fare da giudici popolari nel processo d’appello, che si terrà nel 2015 a carico di Brega Massone. Tanto più che le autorità carcerarie negarono al chirurgo il permesso di rispondere ad un’intervista da trasmettere alla fine del docu-film. Come dire che nel processo mediatico l’accusato deve rassegnarsi a subire la demonizzazione senza possibilità di difesa. Gli avvocati della Rai, in risposta alla notifica del ricorso già presentato dai legali di Brega Massone che chiedevano di bloccare la trasmissione poiché le responsabilità penali del medico ancora non sono state accertate con sentenze definitive, ad ottobre avevano assicurato che la docu-fiction non sarebbe stata mandata in onda il prossimo 31 ottobre. Cosa ha spinto la Rai a tornare sui suoi passi dopo due mesi? Già che siamo in epoca di controlli e controlli mancati ricordiamo che l’Agcom nel 2008 ha deliberato un ‘Atto sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive’ incardinata proprio sulla “tendenza di alcuni programmi televisivi a trasmettere in forma spettacolare vere e proprie vicende giudiziarie in corso... per cui si crea un foro mediatico alternativo in cui il linguaggio televisivo si sostituisce a quello ben diverso del procedimento giurisdizionale…tanto che la tutela della dignità umana e il diritto al giusto processo garantiti dalla nostra Costituzione e dai principi comunitari vengono piegati e la gogna mediatica può diventare essa stessa una condanna preventiva inappellabile e indelebile”. Al momento i difensori di Brega Massone hanno inviato una diffida formale in forma legale al direttore di Rai 3, Andrea Vianello, al direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi, al presidente Rai Anna Maria Tarantola, alla società che produce il docu-fiction e AverMedia Company e per conoscenza al ministro della Giustizia, al capo dello Stato e al Garante dei detenuti della Regione Lombardia. In attesa che il sistema mediatico-giudiziario, con le sue regole, le uniche, a quanto sembra, da rispettare, diano un’ulteriore prova di voler garantire un’illusoria e strabica esigenza di trasparenza ed imparzialità che spesso si riduce ad una messinscena destinata a consentire alle procure di calcare il palco su cui esercitare e veder riconosciuto il loro primato. Questa, però, è la strada maestra per ampliare il solco tra cittadini e le garanzie costituzionali tra cui la presunzione di innocenza e per piegarsi alle forzature sia della giustizia penale sia dell’informazione, che ad essa, con prassi ormai sperimentata, fa da grancassa mediatica.

Brega Massone condannato in Tv. Nonostante le diffide Raitre trasmetterà il film prima che i giudici abbiano emesso una sentenza definitiva, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Magari, signora Brega, è una fiction garantista...«Non credo proprio, mi è bastato vedere il promo in televisione. Per loro, mio marito è il mostro, punto e basta».Barbara Magnani è la moglie di Pierpaolo Brega Massone, il chirurgo della clinica Santa Rita, condannato all'ergastolo per la morte di quattro pazienti. Una vicenda già di per sè delicata e controversa, dove si sono intrecciate indignazione popolare, un po' di scandalismo giornalistico, perizie mediche e questioni di diritto: e in cui ora fa irruzione un altro elemento di scontro. Sabato prossimo, alle 21, su Raitre verrà trasmessa una docufiction - ovvero una ricostruzione tra il reale e il recitato - del «caso Santa Rita». Al centro, ovviamente, lui: il dottor Brega Massone. Il «mostro». Peccato che per ora contro il chirurgo non ci sia una condanna definitiva. Non sono arrivati a conclusione né il processo per le lesioni ad ottanta pazienti, per cui è stato condannato in appello a quindici anni; né tantomeno quello per omicidio volontario, per i quattro pazienti morti dopo l'intervento. Ed è inevitabile chiedersi se sia corretto dare per vero e assodato ciò che i giudici devono ancora vagliare; e se la docufiction non rischi di influenzare i giudici e soprattutto i giurati che sulle colpe di Brega Massone devono ancora esprimersi. Durante la lavorazione, i produttori del programma avevano chiesto al medico un'intervista da inserire nella «scaletta», Brega aveva accettato, ma la direzione delle carceri aveva bloccato tutto. Così la fiction è andata avanti senza di lui. Il programma doveva andare in onda già in ottobre, ma i legali del chirurgo avevano presentato un ricorso alla magistratura e la Rai aveva fatto retromarcia. Invece martedì scorso, alle undici di sera, mentre guardava la tv uno dei legali di Brega si è visto sfilare il «promo» che annunciava per sabato sera la messa in onda. Ieri dallo staff legale è partita una diffida all'indirizzo della Rai, ma finora è rimasta senza risposta. Salvo nuove retromarce, sabato «Operazione clinica degli errori» verrà trasmesso all'interno del programma di Rai 3 «L'Infiltrato». La richiesta dei legali era che, fermo restando il diritto di cronaca e persino le esigenze della fiction, «Operazione clinica degli errori» andasse in onda solo dopo la conclusione della vicenda processuale nata dall'inchiesta della procura milanese su quanto accadeva alla «Santa Rita». Ma si tratta di una conclusione tutt'altro che prossima. Il troncone che vede Brega accusato di lesioni volontarie ai danni dei pazienti era approdato in Cassazione, ma qui il presidente della sezione e uno dei giudici hanno deciso di astenersi, e l'udienza è stata rinviata a data da destinarsi; mentre per le quattro accuse di omicidio volontario il processo d'appello è già stato assegnato a una sezione della Corte d'assise, presieduta dal giudice Sergio Silocchi, ma ancora non si sa quando potrà iniziare. Ed è soprattutto in questo processo che gli esiti sono aperti, perché è la prima volta che l'imputazione di omicidio volontario viene contestata in un processo per colpa medica. I giudici di primo grado hanno condiviso la linea della Procura: gli interventi erano inutili e Brega aveva messo in conto che i pazienti potessero morire, e questo lo rende un assassino. Ma la partita non è ancora finita, e fin dove si siano spinte le colpe del chirurgo la giustizia non l'ha ancora detto.

Brega Massone: gli errori nella fiction. I legali del chirurgo criticano la ricostruzione del processo. È un documento di parte ma interessante: racconta quanto sia fragile il diritto alla difesa, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. La lettera è datata 18 dicembre ed indirizzata ad Andrea Vianello, direttore di Rai3, ma anche a una serie di altri destinatari: dal Presidente della Repubblica al ministro della Giustizia, dal direttore della Rai al presidente della Commissione parlamentare di vigilanza. A scriverla sono Luigi Fornari e Vincenzo Vitale, i due legali di Pierpaolo Brega Massone, il chirurgo milanese che il 9 aprile scorso è stato condannato in appello all'ergastolo per la morte di alcuni pazienti e che ora aspetta il giudizio di Cassazione. Nella lettera, dal loro punto di vista, gli avvocati contestano una serie di presunti errori della fiction su Brega Massone, andata in onda con notevole successo di audience lo scorso 13 dicembre nella trasmissione L'infiltrato. Ma cercano soprattutto di sollecitare una riflessione sulle «gravi conseguenze che la trasmissione avrebbe ed ha comportato rispetto ai diritti processuali del nostro assistito, sottoposto a un massacro mediatico senza precedenti sin dal 2008, quando,  arrestato, venne subito condannato da stampa e televisioni all’insegna dello slogan “clinica degli orrori”. Il documento, che inevitabilmente è espressione di parte, è peraltro interessante per comprendere le ragioni di chi si consideri vittima di quella che viene definita la gogna mediatico-giudiziaria. Per questo ve lo proponiamo quasi integralmente:

Egregio dottor Vianello, Spett. Rai3, Preme osservare che – come Rai3 sapeva e sa – a oggi, alla fine del 2014, il dott. Brega Massone non è stato giudicato in via definitiva e si trova tuttora in stato di custodia cautelare. Non ci soffermiamo, in questa missiva, sulle conseguenze devastanti che una trasmissione del genere, che ha toccato - in maniera gratuita e inessenziale rispetto ai fini del ‘racconto’ - anche aspetti della vita familiare, può avere avuto sulla serenità e sulla tenuta psichica della figlia dodicenne del dott. Brega Massone. Sul piano più strettamente legale, non può esservi dubbio che l’avere presentato - SENZA NESSUN CONTRADDITTORIO - una trasmissione chiaramente orientata alla colpevolezza degli imputati anche riguardo alle gravissime accuse di omicidio, avrà un'enorme influenza sulle persone che saranno chiamate a giudicare come giudici popolari il dott. Brega Massone e i suoi coimputati nel processo d'appello che si svolgerà prossimamente a Milano. La stessa cosa è avvenuta, certamente, quando poche settimane prima dell’inizio del processo di primo grado vennero trasmesse tre puntate di "Un giorno in pretura" (trasmissione di solito esemplare nel presentare, seppur in sintesi, prospettive processuali contrapposte) in cui vennero presentati esclusivamente stralci delle deposizioni dei pazienti e dei consulenti della Procura, senza nessuno spazio per testi e consulenti della difesa del dott. Brega Massone e dei coimputati. Eppure, a giornalisti professionisti dovrebbe essere noto che l'influenza dei 'media' sul convincimento dei giudici (non solo popolari) è studiata da tempo dai criminologi di tutto il mondo e non è un'invenzione della difesa del dott. Brega Massone; così come Vi è sicuramente noto che esiste in Italia un principio costituzionale, prezioso per tutti noi (nessuno escluso), di presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. Per darVi un'idea di cosa sia stata nel processo Santa Rita l'influenza dei media, ci limitiamo a menzionare un episodio: in una delle prime udienze del dibattimento in Corte d'Assise il presidente della Corte, dovendo decidere sull'ascolto in aula delle 'famose' conversazioni telefoniche del dott. Brega Massone, ebbe a dire che la questione non aveva senso, posto che quelle telefonate erano da tempo note a tutti i membri della Corte, per essere state più volte trasmesse da televisione, riportate sui giornali, circolate in rete ecc.ecc (la trascrizione è a Vs. disposizione). Risentirle in aula sarebbe stata - disse con schiettezza il presidente - "una presa in giro". Nessuna "autorizzazione" di un Tribunale civile a trasmettere una fiction, quand'anche esistesse, potrebbe 'coprire' una così evidente alterazione delle normali dinamiche processuali: il mancato ascolto in aula di conversazioni telefoniche per sopravvenuta inutilità, causata da martellamento mediatico!  Ora, quegli stessi frammenti di conversazioni, estrapolati da colloqui lunghissimi e spesso complessi, saranno entrati (o, una volta recuperati in rete, entreranno), grazie all’”Infiltrato”, nelle orecchie e nella mente dei sei giurati popolari che costituiranno la Corte d’Assise d’Appello. Ed anche degli stessi giudici togati. Nello stesso tempo, nella docufiction del 13.12 non è stata spesa mezza parola sul fatto - che avrebbe davvero meritato l’interesse di un servizio pubblico, come tale imparziale ed equilibrato - che i casi contestati al dott. Brega Massone, nei tre processi penali di merito che sono stati fin qui celebrati, non sono mai stati sottoposti alla valutazione di periti super partes, scelti non dal Pubblico Ministero ma dal Tribunale o dalla Corte d'Appello. Di fatto, le sentenze di condanna si sono basate esclusivamente sui pareri dei consulenti tecnici della Procura di Milano (gli unici che hanno avuto un ruolo nella docufiction), nonostante che a favore del nostro assistito si siano espressi, a titolo gratuito come si usa fare fra colleghi, esperti di chiarissima fama: un nome per tutti, quello del prof. Massimo Martelli, per decenni primario dell'Ospedale Forlanini di Roma, autore di migliaia di interventi di chirurgia toracica (e medico di grande umanità, da tutti riconosciuta). Quello che viene normalmente disposto anche per i più banali danni da incidenti stradali - una consulenza super partes, resa da periti scelti dal giudice - è stata più volte negata al dott. Brega Massone e agli altri imputati del processo, poi condannati a pene molto pesanti per imputazioni di estrema gravità. Di tutto questo nella docufiction non c’è traccia, anche se sarebbe stato facile (e doveroso per un giornalismo indipendente) utilizzarne almeno qualche minuto per far sentire voci diverse da quelle dei consulenti dell’accusa. Ci sono, invece, oltre a parecchi errori, grossolane omissioni, che dimostrano l’ottica acritica ed unilaterale dell’intera operazione. Errori e omissioni quanto mai dannosi per il nostro assistito, posto che quanto ‘sentenziato’ dalla docufiction televisiva rischia di essere recepito, più o meno consciamente, come “verità” dai membri (non togati) della Corte che pronuncerà la sentenza d’appello nel secondo processo. Se la docufiction fosse stata realizzata con lo scrupolo professionale dovuto, e quindi tenendo conto (oltre che dei dati auditel) anche degli interessi degli imputati (presunti innocenti), non sarebbe sfuggito il rilievo processuale essenziale degli argomenti che seguono (al pari di altri che qui non citiamo) e sarebbero state evitate approssimazioni non tollerabili:

-la dott.ssa Galasso, le cui telefonate ‘accusatorie’ occupano una buona parte della trasmissione, in dibattimento ha riconosciuto che il loro contenuto era esagerato e risentiva di dicerie all’interno dell’ospedale che erano dettate da invidia professionale. In aula, sotto giuramento, la Galasso ha espresso il proprio rammarico al dott. Brega Massone per le espressioni usate;

-di una presunta “denuncia per plagio” (con riferimento alla redazione di pubblicazioni scientifiche del dott. Brega Massone) non è mai esistito alcun riscontro processuale;

 -allo stesso modo, non vi è mai stata traccia processuale, sotto forma di denuncia, indagini, processi, di “manomissioni” e “falsi”, presentati al solito come dati di realtà, che il nostro assistito avrebbe perpetrato nella cartella clinica del sig. Schiavo. E la questione è di grande delicatezza, visto che si tratta di uno dei casi su cui è stata costruita un’imputazione di omicidio volontario;

-la sig.ra Zito, che nel corso di un’intervista inserita nella docufiction, ha stigmatizzato il comportamento del dott. Brega Massone che, a suo dire, la avrebbe sottoposta a interventi inutili, durante la causa civile da lei intentata per il risarcimento del danno è stata sottoposta ad una CTU (consulenza tecnica d’ufficio, in sostanza a una perizia svolta da medici scelti dal giudice, quindi disinteressati e imparziali) che ha attestato la correttezza di tutti e tre gli interventi svolti dal dott. Brega Massone, anche e soprattutto sotto il profilo delle indicazioni chirurgiche;

Lo stesso è avvenuto rispetto all’unica altra paziente (la sig.ra Maria De Pol) che, pur essendo “persona offesa” nel processo penale, ha scelto di agire per il risarcimento dei danni in una separata causa civile: anche in quel caso, consulenti d’ufficio indipendenti e ovviamente diversi da quelli utilizzati dai giudici penali per motivare le condanne, hanno attestato l’assoluta correttezza – anche e soprattutto sul tema delle indicazioni chirurgiche – dell’operato del dott. Brega Massone e della sua equipe.

Ma – ripetiamo – gli esempi potrebbero moltiplicarsi: l’inesistente mutilazione del seno subita da una ragazza diciottenne; la disinvolta accusa di “eliminazione delle prove”, formulata dall’Infiltrato senza alcun rispetto per risultanze dibattimentali di segno opposto; l’omissione, nella estemporanea consulenza telefonica del dott. Legnani al notaio Pipitone, della circostanza, riferita dallo stesso Legnani durante la conversazione, che egli non aveva ancora preso visione di lastre e tac. ...) Tutte queste cose, che dovrebbero fare rabbrividire o almeno preoccupare tutti noi, l'opinione pubblica non le ha mai sapute e continua a non saperle: evidentemente non interessano a Rai3, che ha preferito cavalcare - dopo sei anni e mezzo, il sabato sera in prima serata – le suggestioni del "mostro" e della "clinica degli orrori", che meglio si prestano ad assecondare gli appetiti di un pubblico desideroso solo di un comodo quanto odioso capro espiatorio. Temi noiosi e demodé come i principi costituzionali e la tutela che, in un sistema civile, spetta a qualsiasi persona (nessuna esclusa) sottoposta a processo penale, per il “servizio pubblico” possono aspettare...Nel riservarci di intraprendere tutte le iniziative tese alla tutela dei diritti – anche costituzionali – del dott. Brega Massone, porgiamo distinti saluti. Milano, 18 dicembre 2014 Avv. prof. Luigi Fornari   Avv. prof. Vincenzo.

Gli avvocati di Brega Massone scrivono a Rai3 «Avete creato il mostro, ci batteremo in ogni sede», scrivono Luigi Fornari e Vincenzo Vitale su  “Il Garantista”. Egregio dottor Vianello, spettabile Rai3, in risposta alla vostra missiva del 12.12, nel confermare i contenuti della diffida e della mail inviatevi dagli scriventi facciamo presente che il ricorso (ex art. 700 cpc) cui fate riferimento fu proposto per sospendere la trasmissione de L’infiltrato che, da notizie telefoniche forniteci da Rai3, era programmata per il 31.10. All’udienza del 27.10, la Rai nel costituirsi fece presente che la trasmissione non era in programmazione per il 31. Ovvio che il provvedimento emesso dal Tribunale non venne impugnato, posto che il dott. Brega Massone non aveva alcun interesse a farlo (il 31.10 la trasmissione non c’è stata, né risultava programmata in un’altra data) e posto che gli argomenti contenuti nella motivazione – parzialmente da voi estrapolati nella missiva del 12.12 – avevano, con tutta evidenza, un valore meramente teorico e generale. Di certo, gli argomenti di cui sopra non valevano ad autorizzare, a ”legittimare” la trasmissione del 13.12, su cui non si è mai formato alcun contraddittorio col dott. Brega Massone: la questione non è stata infatti dedotta in alcun ricorso difensivo per assenza dei tempi necessari per instaurare un ricorso in tempi utili. Nessuna ”temerarietà” nelle iniziative della difesa del dott. Brega Massone, quindi, ma solo il tentativo dei suoi legali di sollecitare una vostra doverosa riflessione sulle gravi conseguenze che la trasmissione del 13.12 avrebbe ed ha comportato rispetto ai diritti processuali del nostro assistito, sottoposto a un massacro mediatico senza precedenti sin dal 2008, quando, appena arrestato, venne subito condannato da stampa e televisioni – in modo acritico e in virtù di informazioni parziali ed unilaterali, recepite dalle autorità inquirenti – all’insegna dello slogan “clinica degli orrori”. Preme osservare che – come Rai3 sapeva e sa – ad oggi, alla fine del 2014, il dott. Brega Massone non è stato giudicato in via definitiva e si trova tuttora in stato di custodia cautelare. Non ci soffermiamo, in questa missiva, sulle conseguenze devastanti che una trasmissione del genere, che ha toccato – in maniera gratuita e inessenziale rispetto ai fini del “racconto” – anche aspetti della vita familiare, può avere avuto sulla serenità e sulla tenuta psichica della figlia dodicenne del dott. Brega Massone. Sul piano più strettamente legale, non può esservi dubbio che l’avere presentato – senza nessun contradditorio – una trasmissione chiaramente orientata alla colpevolezza degli imputati anche riguardo alle gravissime accuse di omicidio, avrà un’enorme influenza sulle persone che saranno chiamate a giudicare come giudici popolari il dott. Brega Massone e i suoi coimputati nel processo d’appello che si svolgerà prossimamente a Milano. La stessa cosa è avvenuta, certamente, quando poche settimane prima dell’inizio del processo di primo grado vennero trasmesse tre puntate di Un giorno in pretura (trasmissione di solito esemplare nel presentare, seppur in sintesi, prospettive processuali contrapposte) in cui vennero presentati esclusivamente stralci delle deposizioni dei pazienti e dei consulenti della Procura, senza nessuno spazio per testi e consulenti della difesa del dott. Brega Massone e dei coimputati. Eppure, a giornalisti professionisti dovrebbe essere noto che l’influenza dei “media” sul convincimento dei giudici (non solo popolari) è studiata da tempo dai criminologi di tutto il mondo e non è un’invenzione della difesa del dott. Brega Massone; così come vi è sicuramente noto che esiste in Italia un principio costituzionale, prezioso per tutti noi (nessuno escluso), di presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. Per darvi un’idea di cosa sia stata nel processo Santa Rita l’influenza dei media, ci limitiamo a menzionare un episodio: in una delle prime udienze del dibattimento in Corte d’Assise il presidente della Corte, dovendo decidere sull’ascolto in aula delle “famose” conversazioni telefoniche del dott. Brega Massone, ebbe a dire che la questione non aveva senso, posto che quelle telefonate erano da tempo note a tutti i membri della Corte, per essere state più volte trasmesse da televisione, riportate sui giornali, circolate in rete ecc.ecc (la trascrizione è a vostra disposizione). Risentirle in aula sarebbe stata – disse con schiettezza il presidente – «una presa in giro». Nessuna ”autorizzazione” di un Tribunale civile a trasmettere una fiction, quand’anche esistesse, potrebbe “coprire” una così evidente alterazione delle normali dinamiche processuali: il mancato ascolto in aula di conversazioni conversazioni telefoniche per sopravvenuta inutilità, causata da martellamento mediatico! Ora, quegli stessi frammenti di conversazioni, estrapolati da colloqui lunghissimi e spesso complessi, saranno entrati (o, una volta recuperati in rete, entreranno), grazie all Infiltrato, nelle orecchie e nella mente dei sei giurati popolari che costituiranno la Corte d’Assise d’Appello. Ed anche degli stessi giudici togati. Nello stesso tempo, nella docufiction del 13.12 non è stata spesa mezza parola sul fatto – che avrebbe davvero meritato l’interesse di un servizio pubblico, come tale imparziale ed equilibrato – che i casi contestati al dott. Brega Massone, nei tre processi penali di merito che sono stati fin qui celebrati, non sono mai stati sottoposti alla valutazione di periti super partes, scelti non dal Pubblico Ministero ma dal Tribunale o dalla Corte d’Appello. Di fatto, le sentenze di condanna si sono basate esclusivamente sui pareri dei consulenti tecnici della Procura di Milano (gli unici che hanno avuto un ruolo nella docufiction), nonostante che a favore del nostro assistito si siano espressi, a titolo gratuito come si usa fare fra colleghi, esperti di chiarissima fama: un nome per tutti, quello del prof. Massimo Martelli, per decenni primario dell’Ospedale Forlanini di Roma, autore di migliaia di interventi di chirurgia toracica (e medico di grande umanità, da tutti riconosciuta). Quello che viene normalmente disposto anche per i più banali danni da incidenti stradali – una consulenza super partes, resa da periti scelti dal giudice – è stata più volte negata al dott. Brega Massone e agli altri imputati del processo, poi condannati a pene molto pesanti per imputazioni di estrema gravità. Di tutto questo nella docufiction non c’è traccia, anche se sarebbe stato facile (e doveroso per un giornalismo indipendente) utilizzarne almeno qualche minuto per far sentire voci diverse da quelle dei consulenti dell’accusa. Ci sono, invece, oltre a parecchi errori, grossolane omissioni, che dimostrano l’ottica acritica ed unilaterale dell’intera operazione. Errori e omissioni quanto mai dannosi per il nostro assistito, posto che quanto “sentenziato” dalla docufiction televisiva rischia di essere recepito, più o meno consciamente, come “verità” dai membri (non togati) della Corte che pronuncerà la sentenza d’appello nel secondo processo. Se la docufiction fosse stata realizzata con lo scrupolo professionale dovuto, e quindi tenendo conto (oltre che dei dati auditel) anche degli interessi degli imputati (presunti innocenti), non sarebbe sfuggito il rilievo processuale essenziale degli argomenti che seguono (al pari di altri che qui non citiamo) e sarebbero state evitate approssimazioni non tollerabili: – la dott.ssa Galasso, le cui telefonate “accusatorie” occupano una buona parte della trasmissione, in dibattimento ha riconosciuto che il loro contenuto era esagerato e risentiva di dicerie all’interno dell’ospedale che erano dettate da invidia professionale. In aula, sotto giuramento, la Galasso ha espresso il proprio rammarico al dott. Brega Massone per le espressioni usate; – di una presunta “denuncia per plagio” (con riferimento alla redazione di pubblicazioni scientifiche del dott. Brega Massone) non è mai esistito alcun riscontro processuale;- allo stesso modo, non vi è mai stata traccia processuale, sotto forma di denuncia, indagini, processi, di “manomissioni” e “falsi”, presentati al solito come dati di realtà, che il nostro assistito avrebbe perpetrato nella cartella clinica del sig. Schiavo. E la questione è di grande delicatezza, visto che si tratta di uno dei casi su cui è stata costruita un’imputazione di omicidio volontario; – la sig.ra Zito, che nel corso di un’intervista inserita nella docufiction, ha stigmatizzato il comportamento del dott. Brega Massone che, a suo dire, la avrebbe sottoposta a interventi inutili, durante la causa civile da lei intentata per il risarcimento del danno è stata sottoposta ad una Ctu (consulenza tecnica d’ufficio, in sostanza a una perizia svolta da medici scelti dal giudice, quindi disinteressati e imparziali) che ha attestato la correttezza di tutti e tre gli interventi svolti dal dott. Brega Massone, anche e soprattutto sotto il profilo delle indicazioni chirurgiche. Lo stesso è avvenuto rispetto all’unica altra paziente (la sig.ra Maria De Pol) che, pur essendo “persona offesa” nel processo penale, ha scelto di agire per il risarcimento dei danni in una separata causa civile: anche in quel caso, consulenti d’ufficio indipendenti e ovviamente diversi da quelli utilizzati dai giudici penali per motivare le condanne, hanno attestato l’assoluta correttezza anche e soprattutto sul tema delle indicazioni chirurgiche – dell’operato del dott. Brega Massone e della sua equipe. Ma – ripetiamo – gli esempi potrebbero moltiplicarsi: l’inesistente mutilazione del seno subita da una ragazza diciottenne; la disinvolta accusa di “eliminazione delle prove”, formulata dall’Infiltrato senza alcun rispetto per risultanze dibattimentali di segno opposto; l’omissione, nella estemporanea consulenza telefonica del dott. Legnani al notaio Pipitone, della circostanza, riferita dallo stesso Legnani durante la conversazione, che egli non aveva ancora preso visione di lastre e tac. Ma non le hanno viste, del resto, neppure i consulenti del Pm. il cui parere è stato utilizzato, senza disporre perizie, per infliggere pene elevatissime agli imputati. Tutte queste cose, che dovrebbero fare rabbrividire o almeno preoccupare tutti noi, l’opinione pubblica non le ha mai sapute e continua a non saperle dopo due ore di pseudodocumentario: evidentemente non interessano a Rai3, che ha preferito cavalcare – dopo sei anni e mezzo, il sabato sera in prima serata – le suggestioni del ”mostro” e della ”clinica degli orrori”, che meglio si prestano ad assecondare gli appetiti di un pubblico desideroso solo di un comodo quanto odioso capro espiatorio. Temi noiosi e demodé come i principi costituzionali e la tutela che, in un sistema civile, spetta a qualsiasi persona (nessuna esclusa) sottoposta a processo penale, per il “servizio pubblico” possono aspettare… Nel riservarci di intraprendere tutte le iniziative tese alla tutela dei diritti – anche costituzionali – del dott. Brega Massone, porgiamo distinti saluti.

Brega Massone: come si difende l'imputato più odiato d'Italia. Dalla sua cella, per la prima volta, parla Pier Paolo Brega Massone, il chirurgo milanese condannato in primo grado per 4 omicidi volontari e per avere effettuato interventi inutili per incassare le parcelle, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Anche i mostri hanno diritto alla difesa. E Panorama dà spazio alle ragioni di Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario della clinica Santa Rita di Milano al centro di una vicenda giudiziaria senza precedenti in Italia. Era un luminare della chirurgia toracica, oggi è per tutti un uomo accusato e in parte già condannato di avere effettuato su pazienti anziani e malati terminali, "con una serialità impressionante", operazioni chirurgiche del tutto inutili e dannose al solo scopo di ottenere il profitto dei rimborsi del Servizio sanitario nazionale. Brega Massone, in primo grado, ha avuto inflitto un ergastolo con tre anni di isolamento diurno per l’omicidio volontario di quattro pazienti e per lesioni in una quarantina di casi. Questa condanna si somma a quella a 15 anni e mezzo per concorso in 79 casi di lesioni, truffa e falso, ancora in attesa di verdetto in Cassazione. C’è poi la pena non scritta, tutta italiana, che lo tiene in carcere da 6 anni (salvo due pause di 9 mesi complessivi) in regime di carcerazione preventiva. Perché non c’è alcuna condanna definitiva. È la moglie Barbara Magnani che, su richiesta di Panorama, dà voce al marito "per spezzare" dice "il circuito perverso del processo mediatico che non gli lascia scampo". Così, a colloquio con la consorte, il detenuto risponde alle domande poste da Panorama, offrendo al lettore la "sua parte di verità".

Dottor Brega Massone, lei è probabilmente l’imputato più odiato d’Italia: come convive con questa idea?

«È un macigno pesantissimo, costruito dalla procura e ingigantito dai media. L’accusa in realtà non si fonda su prove reali o su una perizia super partes, ma unicamente su parole stralciate dalle telefonate. Convivo con questo macigno perché non mi riconosco nel "Mostro" e continuerò a non riconoscermi tale fintantoché a definirmi così saranno solo i consulenti pagati della procura. In molti casi costoro hanno omesso che i pazienti mi erano stati inviati con un’indicazione chirurgica definita da altri medici; non hanno visionato direttamente le radiografie; non hanno visitato i pazienti. I miei consulenti sono professionisti validi, lavorano gratuitamente e solo per convinzione, e sostengono la bontà del mio operato».

Insomma, la sua condanna sarebbe soltanto una questione di consulenze?

«Lo è innanzitutto. È normale che io sia stato condannato all’ergastolo senza aver ottenuto una perizia super partes? Se i giudici sono così convinti della mia colpevolezza, perché non sentono anche consulenti diversi da quelli della procura? In sede civile alcuni medici hanno condotto perizie che mi scagionano, sebbene per quegli stessi casi io sia stato condannato in sede penale da un tribunale che non ha accolto quei risultati».

Una sentenza di primo grado le attribuisce senza dubbi l’omicidio volontario di 4 pazienti.

«Il Tribunale di Milano ha creduto alle accuse sulla base di perizie condotte da un medico di base senza alcuna esperienza in chirurgia toracica. Ma in entrambi i processi hanno sempre respinto la mia richiesta di una perizia super partes. Gli atti medici sono stati valutati dai magistrati: domani i medici giudicheranno forse gli atti dei giudici? In udienza il giudice ha affermato che "la medicina non è una scienza". Con quale sicumera mi è stato dato l’ergastolo?»

Salvo una breve pausa, lei è in carcere dal 9 giugno 2008. Le pesa?

«Mi hanno condannato il giorno stesso dell’arresto, per me non esiste la presunzione d’innocenza. È stata messa in atto una strategia mediatica studiata a tavolino. La mia carcerazione è stata voluta per impedirmi la difesa».

È così difficile difendersi dal carcere?

«È impossibile: le celle sono di 8 metri quadrati per 3 o 4 persone. Non c’è lo spazio per computer o cartelle, non si può interloquire facilmente con consulenti e legali. Il carcere ti tortura psicologicamente e fisicamente. Mia madre è morta mentre ero in cella, anche se i termini per la custodia cautelare erano scaduti da 4 mesi. La Cassazione ha dichiarato illegittimo l’atto con cui la Procura generale e la Corte d’appello di Milano l’avevano disposta. Ma mia madre non tornera».

Crede che nel suo caso le esigenze cautelari abbiano assunto una dimensione spropositata?

«Per tenermi dentro mi hanno contestato il rischio di reiterazione del reato, sebbene mai nessun direttore sanitario mi avrebbe riammesso in una sala operatoria. Hanno addotto il pericolo di fuga, ma io ho sempre presenziato a tutte le udienze e non ho approfittato dei periodi di libertà. Fuggire per me sarebbe un’ammissione di colpa. Ho una figlia e una moglie alle quali voglio dimostrare la mia integrità morale. Non mi sono mai stati concessi neppure i domiciliari».

Nelle intercettazioni alcuni colleghi le chiedono conto di operazioni a loro parere inutili: è uno scenario che fa orrore. A lei fa orrore?

«I giornali hanno riportato soltanto stralci tagliati ad arte dalla procura. Mi hanno attribuito tante falsità. Le percentuali dei miei interventi su casi rivelatisi poi benigni rientrano nella media di tutte le casistiche operatorie: dal 10 al 40 per cento. Nel mio caso sono finiti sotto accusa strumentalmente tutti i pazienti appartenenti al 10 per cento di benignità; tutti gli altri, un migliaio, sono stati tralasciati. Un esempio: ho operato 50 pazienti con distrofia bollosa e due mi vengono contestati; ho operato un centinaio di versamenti pleurici e circa 20 mi vengono contestati. Nessuno ha voluto ascoltare telefonate e testimonianze che avrebbero offuscato l’immagine del "Mostro"».

Lei è in pace con se stesso?

«Nella mia carriera avrò commesso certamente errori, come succede a chi lavora, ma ho sempre agito in scienza e coscienza per il bene dei pazienti».

Secondo i pm, lei non avrebbe mai avuto un ripensamento e le mancherebbe "il senso dell’umana pietà".

«La requisitoria dei pm è stata teatrale, a sicuro effetto mediatico. Io chiedo ancora perché i giudici non abbiano voluto concedermi una perizia super partes. I miei consulenti sostengono l’esatto opposto di quelli dei pm. Se il giudice è terzo, perché non ha un dubbio? La letteratura scientifica è a mio favore, ma i giudici non hanno voluto considerare neanche quella. Il senso dell’umana pietà, in termini scientifici, vuol dire "palliazione": evitare inutili sofferenze e assicurare una morte dignitosa a chi è già destinato».

La accusano anche di un’avidità senza limiti. Come risponde a questo?

«Forse il pm non aveva fatto i conteggi esatti prima di avanzare le accuse per dolo economico. La mia équipe di chirurgia toracica aveva come compenso il 9 per cento lordo di ogni Drg (il sistema di calcolo della spesa attribuito a ogni diverso tipo di operazione, ndr), mentre il 91 per cento era trattenuto dalla clinica nella figura del suo amministratore unico che ha patteggiato 4 anni e 4 mesi. Il pm mi ha definito "megalomane", ma non c’è psichiatra che certifichi la mia megalomania. Il pm sostiene che, "checché ne dica il mio commercialista" io avrei incassato 300 mila euro sulla base del fatto che la clinica aveva avuto 3 milioni».

Perché, non è così?

«Il 9 per cento è pari a 270 mila lordi, da dividere fra i 3 componenti dell’équipe. Al netto delle tasse, l’importo percepito da noi 3 era di 151 mila euro. Poniamo pure che io in qualità di primario ne prendessi il 65 per cento: la mia retribuzione sarebbe stata di 98 mila euro».

Quindi?

«Quindi, secondo l’accusa, per guadagnare 1.000 euro in più al mese io avrei deliberatamente rischiato quanto mi è successo. Non è un caso che nelle fasi finali del processo lo stesso pm abbia precisato di non aver quantificato il lucro sostenendo che io avrei effettuato gli interventi più "per megalomania" che per trarne profitto».

Può essere che lei abbia commesso qualche errore?

«Posso aver sbagliato. Ma ho sempre agito in buona fede, certamente non per i motivi che vengono addotti. Per una bassa percentuale della mia casistica operatoria sono stato sottoposto a una gogna mediatica senza precedenti. Ho sempre cercato di fare il mio lavoro con la massima dedizione, alcuni me lo hanno riconosciuto in tribunale. Altri hanno avuto reazioni diverse, li comprendo perché chiunque resta turbato quando un tribunale formula accuse così pesanti. I pazienti non c’entrano. Quando finalmente un giudice "illuminato" mi concederà la perizia super partes, potrò dimostrare loro che non hanno sbagliato a riporre in me la fiducia e la vita».

Una donna ha raccontato in lacrime ai cronisti di essersi dovuta rivolgere a diversi specialisti per ricostruire il seno dopo i suoi interventi...

«La procura e i giudici hanno nascosto la verità ai giornali. Nei confronti della signora in questione non provo rancore, ma profonda tristezza per il modo in cui ha distorto la verità. La signora mi ha chiesto i danni, e com’è prassi nel procedimento civile ho ottenuto la perizia super partes affidata a 2 professori. Entrambi, dopo aver esaminato la documentazione e il seno della signora, mi hanno scagionato per tutti e tre gli interventi per i quali invece sono stato condannato in sede penale».

C’è un ragazzo affetto da tubercolosi che lei avrebbe operato per un tumore al polmone. Ma il tumore non c’era.

«Non esistono pazienti con tubercolosi diagnosticata che il chirurgo operi per un "sospetto tumore". Esistevano invece pazienti con noduli polmonari sospetti o indeterminati, che al termine dello studio preoperatorio meritavano un accertamento istologico sicuro. È quanto accaduto in questo caso. Quei pazienti seguirono il percorso perché nessun esame precedente risultò positivo per la tubercolosi. Solo il prelievo istologico da me effettuato consentì la diagnosi certa di tubercolosi, che fu regolarmente denunciata e trattata. Non si può partire dalla fine della terapia per trovare colpe».

Come trascorre il tempo in carcere?

«Ho passato giornate a cercare di ricordare, di ricostruire le cartelle cliniche. Solo nel 2013 l’amministrazione penitenziaria mi ha concesso l’uso di un computer. Il carcere è uno spreco di risorse umane gettate in una cella e dimenticate, nell’assoluta mancanza di rispetto per la persona e a danno dell’utilità pubblica».

Che cosa le manca di più, in cella?

«La mia famiglia. Non mi è mai stato permesso, nemmeno in regime di custodia cautelare, di usufruire del regime domiciliare, mentre i miei due colleghi, Fabio Presicci e Marco Pansera, hanno goduto di libertà assoluta. Non ho potuto beneficiare nemmeno dei permessi che la legge prevede per un detenuto recidivo. Non mi è stato concesso di veder crescere mia figlia: aveva 5 anni quando sono stato arrestato, ora ne ha 11. Ho perso tutto di lei».

Lei denuncia accanimento nei suoi confronti. Ma come se lo spiega?

«La storia della "Clinica degli orrori" ha scatenato un boom mediatico e io sono finito nel tritacarne senza possibilità di replica. I giornali cercavano solo notizie contro di me. Una mia paziente, per pubblicare uno scritto in mia difesa, ha dovuto pagare lo spazio su un giornale».

Ha mai pensato di farla finita?

«No. Non posso arrendermi, per me stesso e per la mia famiglia. Devo continuare a lottare, nella speranza che prima o poi arrivi un giudice a far luce su un caso divenuto molto delicato non solo per me ma per l’intera classe medica».

IMPRENDITORIA CRIMINOGENA. SEQUESTRI ED AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. A CHI CONVIENE?

Quando i magistrati amministrano la giustizia ed anche l'economia.

Nel corso di un procedimento penale, il Giudice per le indagini preliminari, su richiesta del Pubblico ministero che conduce le indagini, può disporre, a titolo cautelare, il sequestro preventivo ai sensi dell'art. 321 e segg. Cod.proc. pen., di patrimoni, aziende, titoli, conti correnti, beni mobili ed immobili di cui è consentita anche la confisca. In tale ipotesi, al fine di assicurare la custodia, la conservazione e l'amministrazione dei beni in sequestro, il Giudice che ha disposto il sequestro, nelle more dello svolgimento delle occorrenti indagini e dell'istruzione del processo, allorquando sia sequestrata una o più aziende cui assicurare la continuità del ciclo produttivo ed i livelli occupazionali, procede alla nomina di un Amministratore di riconosciute esperienza e professionalità, ai sensi dell'art. 12 sexies, I, III e IV comma bis, DL 306/1992 convertito con modificazioni in legge 356/92. Tale disposizione normativa che regola i poteri e le facoltà concessi all'Amministratore Giudiziario è definita “norma di collegamento” atteso che essa richiama il disposto normativo di cui agli artt. 1 e segg. della legge fondamentale (Rognoni-La Torre) 575/65 e successive modificazione e integrazioni; in particolare delle disposizione che interessano la gestione e la destinazione dei beni sequestrati o confiscati. L'Amministratore Giudiziario opera in stretto rapporto con il Giudice, definito Giudice Delegato alla misura applicata, il quale autorizza, tra gli altri, di volta in volta ed a seguito delle relazioni/Istanze scritte dall'Amministratore Giudiziario, il compimento degli atti di straordinaria amministrazione. L'Amministratore Giudiziario, nello svolgimento del suo incarico, è altresì obbligato al deposito di relazioni e di rendiconti periodici relativi all'attività svolta e, all'atto della definizione del procedimento, alla redazione del rendiconto finale nonché – in ragione degli esiti del detto procedimento - alla restituzione dei beni all'avente diritto o, nell'ipotesi in cui venga disposta la confisca, alla consegna all'Erario ed in tale ipotesi egli può assumere l'incarico di Amministratore Finanziario.

Credo di spiegarmi l’idolatria verso i magistrati dei comunisti e dei penta stellati para comunisti (perché chi è comunista, è cattivo ed invidioso dentro). Loro pensano, non avendo niente da perdere in termini di proprietà, che i “padroni” sono tali sol perché rubano. Se poi questi padroni ladri sono del sud Italia, ecco presentati al mondo i mafiosi. Da ciò deriva per i sinistroidi la voglia di dire “quello che è tuo, è mio, quello che è mio, è mio”. Per gli effetti ai comunisti serve un potere che sia al di sopra di quello economico-finanziario. Pensano di avere dalla loro parte i magistrati che li vendicano punendo i padroni. Per questo li assecondano in tutti i loro voleri. In questo modo i comunisti vedono nemici ovunque, ove non vi sia condivisione delle loro vedute. Non pensano, i fessi, che facendo così alimentano le ingiustizie sociali. Uno, perché in carcere ci sono solo indigenti, spesso innocenti. Due, perché in Italia il vero potere lo detengono i magistrati. Tre, dove vi è povertà, vi è ignoranza, quindi non si è liberi di conoscere per scegliere. In questo caso non si parla di democrazia, ma di magistocrazia. Inoltre, né i magistrati, né i comunisti vengono da Marte. Ergo, nel marcio italico si è tutti uguali. E' necessario non guardare fuori, ma guardarsi dentro. E non alimentare leggende metropolitane in simbiosi con i propri simili. Basta aprire al mondo il proprio cervello.

Da sempre auspico la realizzazione di una figura super partes che tuteli verità e giustizia. Un difensore civico giudiziario che abbia il potere del magistrato, ma che non sia uno di loro, corporativamente influenzabile. Uno che abbia il potere di aprire quel fascicolo e scoprire cosa c'è dentro. Altrimenti quel fascicolo rimasto chiuso cristallizza una verità mistificatrice.

La verità raccontata da un’altra prospettiva contro i maestrini dell’informazione, spesso di sinistra ed ammanicati con i magistrati. Ed i leghisti ci sguazzano nella verità artefatta.

E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it,  Lulu.com, CreateSapce.com e Google Libri.

“La mafia è stata corrotta dalla finanza. Prima aveva una sua morale, chiamiamola così”. Beppe Grillo a Palermo il 26 ottobre 2014 per lo “Sfiducia day” contro il governatore della Sicilia Rosario Crocetta ha parlato così davanti al Parlamento regionale, scrive "Il Fatto Quotidiano". “Tra un uomo d’affari e un mafioso non c’è quasi nessuna differenza”, ha detto Grillo. “Il primo sa che è fuori legge, l’altro si assolve perché è dentro il sistema”. E ancora: “Se il Giappone mette la prostituzione e la droga nel Pil, allora io voglio che la mafia si quoti in borsa”. Parole provocatorie duramente criticate da più parti. Il primo è stato lo stesso Crocetta: “E’ uno xenofobo, omofobo e filomafioso che cerca i voti di Cosa nostra e che vuole consegnare la Sicilia ai vecchi gruppi di potere”. Ma a condannare la presa di posizione anche Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo Borsellino (“Stia più attento con le parole”) e Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni Falcone (“Insulto a tutte le vittime). Nel dibattito sono intervenuti anche il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi: (“Parole prive di fondamento e di cultura del fenomeno”) e il procuratore facente funzione di Palermo Leonardo Agueci (“Mafia e moralità sono un ossimoro”). “Che cos’è la mafia?”, ha detto Grillo dal palco di Palermo. “E l’onestà? E’ un tic nervoso. A me non fa paura la disonestà commerciale ed economica. Non mi scandalizza più di tanto chi ruba. Mi fa paura chi è disonesto intellettualmente. E’ la disonestà culturale di questo Paese che è in ginocchio. Io dico queste cose da 20 anni”. Il leader del Movimento 5 stelle ha attaccato poi politica e finanza: “La mafia è stata corrotta dalla finanza. Non metteva bombe nei musei o uccideva i bambini nell’acido. La mafia aveva una sua morale, chiamiamola "una sua morale". Ora non c’è più niente. E’ stata corrotta da dentro dalla finanza, dai soldi, dalle multinazionali, dagli affari. Cos’è oggi un’associazione a delinquere? Da chi è formata? Ve lo dico io: da un uomo d’affari. E tra un uomo d’affari e un mafioso non c’è quasi nessuna differenza. L’unica differenza è che il mafioso sa che è fuori legge, mentre l’imprenditore si assolve perché è dentro il sistema che gli permette quelle cose lì”. La colpa secondo Grillo è di chi si crede assolto perché è dentro il sistema: “Chi c’è dietro? Un uomo d’affari, un politico, un banchiere, un commercialista, un notaio, un poliziotto e un magistrato. A volte non c’è nemmeno un delinquente dentro l’associazione a delinquere. Quando sei dentro non te ne accorgi più, sei dentro un sistema. In Parlamento si ritengono galantuomini quelli che non rubano. Ce ne sono. Ma sono dentro un sistema che accettano ed è peggio quel galantuomo lì di quello che ruba”. E qui una nuova provocazione: “La mafia bisognerebbe quotarla in borsa come hanno fatto in Giappone. Visto che loro nel Pil ci mettono droga e prostituzione, io voglio che la mafia si quoti in borsa. E vuoi vedere che se investi guadagni anche? Vedrete i titoli di domani dei giornali: "Grillo a favore della mafia. Bisogna investire sulla mafia”. Il fenomeno mafioso secondo Grillo è cambiato nel tempo: “Il concetto di mafia è cambiato molto. Qui in Sicilia è rimasto poco: qualche pizzo, qualche sparatoria. Ma adesso la grande mafia è a fare i grandi lavori con i soldi dati dall’Unione europea destinati al mezzogiorno invece vengono usati da imprese e lavoro solo nel settentrione e nel centro Italia. Il leader M5s è tornato poi ad attaccare Giorgio Napolitano: “Avremmo vinto se non avessimo avuto questo presidente della Repubblica. Adesso hanno impedito a Riina e Bagarella di andarci vicino. Ma per proteggerli, perché dopo il 41 bis trovarsi un Napolitano bis…”.Non sono mancati gli attacchi politici alle parole di Grillo, dal presidente dell’Udc, Giampiero D’Alia fino al vicepresidente del Pd, Claudio Martini. “Le sue”, ha commentato D’Alia, “sono dichiarazioni deliranti che si commentano da sole. Ma non è che per caso sta chiedendo con modo antico i voti a Cosa Nostra?”. Duro anche Martini: “Basta offendere le istituzioni, Grillo vaneggia”. I 5 stelle invece, ribadiscono che il discorso del leader è stato manipolato: “Ancora una volta”, dice il capogruppo al Senato Alberto Airola, “la disinformazione di regime manipola un intervento di Beppe Grillo, storpiando il senso delle sue parole sulla mafia e sulla lotta alla mafia. Ancora una volta una pletora di ipocriti, politici e cortigiani, si straccia le vesti e simula indignazione. Dov’erano i professionisti dell’indignazione, così scandalizzati da una frase di Beppe Grillo che non hanno nemmeno capito, quando si abbassavano le pene per il reato di voto di scambio?”.

Dura le reazione del governatore Rosario Crocetta: “La mafia non ha mai avuto una condotta morale. Cosa nostra ha sterminato bambini anche nel passato e la novità degli intrecci con gli affari è solo una stupidità storica di chi non conosce la mafia. Invece di parlare della mafia Grillo torni a fare i suoi show. Non si avventuri su questo terreno. Quando uno parla della mafia con la disinvoltura con cui lo fa Grillo, dicendo che bisogna quotarla in borsa, questi affari se li vada a fare a Genova”. Sulle dichiarazioni del leader del Movimento 5 stelle si è espressa anche Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo Borsellino ed ex europarlamentare: “Beppe Grillo dovrebbe stare un po’ più attento con le parole, sapendo che fa opinione e che le sue parole hanno un peso specifico nell’opinione pubblica. Gli chiedo di documentarsi meglio prima di sparare giudizi come battute da un palco. Non mi piace essere classificata come categoria io non sono solo sorella di una vittima di mafia ma una cittadina, una palermitana che ha vissuto quei terribili anni delle stragi. La sua battuta è dovuta all’ignoranza, nel senso di ignorare, alcuni fatti accaduti nella nostra terra”.  Un’opinione condivisa anche da Maria Falcone, sorella del giudice assassinato da Cosa Nostra nella strage di Capaci: “E’ un insulto a tutte le vittime di Cosa Nostra. Il signor Grillo mostra di non conoscere il significato della parola mafia. Tratta con leggerezza un argomento che ha creato tanto dolore e tanti morti, dimentica il sacrificio di Giovanni Falcone e delle altre vittime di Cosa nostra”.

A criticare Grillo anche il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi: “Chi afferma che la mafia ‘aveva una sua morale’ non ha mai capito cosa è la mafia. Cosa nostra ha sempre ammazzato vittime innocenti. Ricordo a Grillo che tra le vittime dei boss ci sono stati, tanti anni fa, anche sindacalisti. Uno su tutti, Placido Rizzotto. Sono affermazioni prive di ogni fondamento e di cultura del fenomeno….”. Così anche il procuratore facente funzione di Palermo Leonardo Agueci: “Le parole mafia e moralità sono un ossimoro, sono due concetti in radicale contrasto che non possono essere accostate. Su questo c’è davvero poco da aggiungere… Rimane il discorso che vale per tutti i politici cioè, che a combattere la mafia a parole e ad applicare patenti di mafiosità e antimafiosità sono tutti bravi, poi vanno messi alla prova. E vale pure per il M5S”.

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta».

Come nell’affaire Formigoni?

«Sì. Fa parte dello stesso gioco».

E' finita come doveva finire, visto che in appello perfino il procuratore Santamaria aveva chiesto l'assoluzione. Il tribunale, però, aveva deciso di arrivare a giudizio, condannando gli stilisti Stefano Dolce e Domenico Gabbana a un anno e sei mesi di reclusione per evasione fiscale. Condanna che oggi la Cassazione ha cancellato in via definitiva per che gli imputati "non hanno commesso il fatto". Insieme ai due stilisti è stato assolto anche il commercialista Luciano Patelli, scrive “Libero Quotidiano”. L'accusa di omessa dichiarazione dei redditi riguardava la società Gado, all'epoca dei fatti con sede in Lussemburgo, per gli anni 2004 e 2005. Secondo la tesi accusatoria della procura di Milano, la Gado sarebbe stata un caso di esterovestizione, basata in Lussemburgo solo per pagare meno tasse ma di fatto amministrata in Italia. La società era stata creata per la gestione dei marchi, tra cui Dolce&Gabbana, D&G Dolce e Gabbana, ceduti alla Gado dai due creatori di moda. La contestazione nei confronti della società - e degli imputati - era di non aver pagato tasse per un imponibile di 200 milioni di euro. In primo grado Dolce e Gabbana erano stati condannati a un anno e otto mesi ciascuno, con riduzione come detto di due mesi in appello. oggi l'assoluzione dopo oltre due anni di processo. Nel luglio 2013 il Comune di Milano aveva negato l'uso di uno spazio pubblico ai due stilisti perchè "evasori".

Prosciolti con la formula perché il fatto non sussiste Vito Gamberale, ex amministratore delegato di F2i; Mauro Maia, partner in F2i; e Vinod Sahai, il procuratore speciale di Srei Infrastructure Finance Ltd Behari, scrive “Il Corriere della Sera” il 24 ottobre 2014. Lo ha deciso il gup Anna Maria Zamagni davanti al quale si è tenuta l’udienza preliminare del procedimento per turbativa d’asta relativo alla vendita da parte del Comune nel dicembre 2011 del 29,75% della Sea a F2i. «La giustizia si è avverata in Italia, abbiamo sofferto per due anni e mezzo». Così l’ex ad di F2I, Vito Gamberale, ha commentato la sua assoluzione. «L’Italia non può tenere in piedi un giudizio di questo genere per due anni - ha spiegato - e oggi è venuto fuori che non c’era nulla, il vuoto torricelliano, e oggi rendiamo grazie alla giustizia italiana». Poi ha sferrato un attacco a Pisapia:«Il sindaco di Milano è un pover’uomo, con che faccia si è presentato come parte lesa... Milano merita altro».

L’origine dell’indagine. L’inchiesta sulla vendita della azioni Sea per cui si è tenuta l’udienza preliminare a Milano a carico del presidente del fondo F2i, Vito Gamberale e di altre due persone nasce dalla trasmissione, nell’ottobre del 2011 da parte della Procura di Firenze a Milano di un’intercettazione di tre mesi prima nella quale Gamberale parlava con il manager di F2i Mauro Maia (anche lui imputato nell’udienza preliminare). Pochi giorni dopo, Bruti mise quell’intercettazione in un fascicolo che assegnò al dipartimento reati economici guidato da Francesco Greco, che il 2 novembre lo affidò a un pm del suo pool, Eugenio Fusco. Il 6 dicembre 2011, Fusco segnalò a Bruti la necessità di trasmettere il fascicolo al dipartimento di Robledo, perché si poteva ipotizzare una turbativa d’asta. Bruti Liberati tre giorni dopo avvertì Robledo che gli avrebbe girato il fascicolo, ma alla fine gli assegnò l’indagine solo il 16 marzo 2012 e, dunque, con un ritardo di almeno tre mesi.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

Venerdì 24 ottobre 2014 si tiene a Taranto la conferenza prefettizia tra il Prefetto, Umberto Guidato, il dirigente dell’Ufficio ordine e Sicurezza Pubblica, sostituito dal capo di Gabinetto, Michele Lastella e le associazioni antimafia operanti sul territorio della provincia di Taranto. In quell’occasione è intervenuto il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, oltre che scrittore e sociologo storico, che da venti anni studia il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSapce.com e Google Libri.

Il dr Antonio Giangrande ebbe ad affermare che nuovi fenomeni si affacciavano nel mondo dell’illegalità: l’usura di Stato con Equitalia, l’usura bancaria e, per la crisi imperante, l’usura pretestuosa, ossia la denuncia di usura per non pagare i fornitori. E comunque la mafia segue il denaro, ed al sud denaro ne è rimasto ben poco.

Il prefetto ed il suo vice, in qualità di rappresentanti burocratici del sistema statale prontamente hanno contestato l’esistenza dell’illegalità para statale e para bancaria, mettendo in dubbio l’esistenza di indagini giudiziarie che hanno svelato il fenomeno.

Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi.    Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

A conferma di ciò mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano  i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali  con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis  ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova  per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati  della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

Chiarificatrice è l’'inchiesta di Salvo Vitale del 31 marzo 2014 su “Antimafia 2000”.  Beni confiscati, così non funziona. E’ una storia che parte da lontano, cioè dal 1982, quando, quattro mesi dopo l’uccisione di Pio La Torre, venne approvata la legge Rognoni-La Torre, (in sigla RTL) che consentiva il sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Aggredire i mafiosi nei loro patrimoni era l’obiettivo del nuovo strumento. Dopo  14 anni, a seguito della raccolta di un milione di firme, organizzata dall’associazione Libera, veniva approvata la legge 109/96 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati, una sorta di restituzione ai cittadini di ciò che era stato loro sottratto con la violenza e l’illegalità. Ultimo atto, nel 2011, l’approvazione della cosiddetta legge Alfano che dava o tentava di dare una sistemazione definitiva a tutte le norme sull’argomento e creava l’Agenzia Nazionale ai beni confiscati alla mafia, con sede a Reggio Calabria, che avrebbe dovuto occuparsi gestione dei beni attraverso l’iter dal sequestro alla confisca. Pur riconoscendo che esistono ancora grossi limiti, la legge è ritenuta una delle più avanzate al mondo ed è stata presa a modello per la recente approvazione della normativa europea. Quello dei beni giudiziari è un vero affare, se si tiene conto che il numero dei  beni confiscati è, ad oggi, di 12.946, cifra in continua evoluzione, di cui 1.708 aziende e che di questi, circa il 42,60%  pari a  5.515 è in Sicilia, particolarmente in provincia di Palermo (1870). Si tratta di un patrimonio da alcuni approssimativamente stimato in due miliardi di euro, ma La Repubblica (22 marzo 2012) parla di 22 miliardi di euro, il Giornale di Sicilia (6 febbraio 2014) di 30 miliardi, di cui l’80% nelle mani delle banche. Di queste aziende solo 35 sono in attivo e solo il 2% genera fatturati. E’ un immenso patrimonio comprendente supermercati, ristoranti, trattorie, residence, villaggi turistici, distributori di benzina, fabbriche, impianti minerari, fattorie, serre, allevamenti di polli, agriturismi, cantine, discoteche, gelaterie, società immobiliari, centri sportivi, pescherecci, stabilimenti balneari e anche castelli. Quasi tutti falliti. Molte le difficoltà di carattere finanziario, con i lavoratori da mettere in regola e il pagamento dei contributi arretrati ai dipendenti che i boss facevano lavorare a nero, Sopravvive solo qualche azienda, alle cui spalle c’è una grande struttura, come Libera, che può tornare a fatturare, ma, dice Franco La Torre, figlio di Pio, “finché si tratteranno le aziende di proprietà delle mafie come aziende normali, il meccanismo messo in moto dallo Stato non funzionerà mai”. Un fallimento totale di cui nessuno si dichiara responsabile.

Limiti. Quali sono i limiti? Innanzitutto i tempi molto lunghi che passano dal sequestro alla confisca. Poiché all’atto del sequestro il bene è “congelato”, in genere si  fa ricorso, da parte del tribunale competente, alla nomina di un amministratore giudiziario. E’ questo il primo punto debole: nella maggior parte dei casi si tratta di persone del tutto incompetenti, senza alcuna capacità manageriale, di titolari di studi commercialistici o di studi legali di cui spesso le Procure si servono per alcune indagini, e che sono in buoni rapporti con il magistrato incaricato di fare le nomine. L’incompetenza di queste persone ha portato al fallimento del 90% delle aziende sotto sequestro, alla rovina economica di parecchie famiglie che nelle aziende trovavano lavoro e alla crisi dell’indotto  che gira attorno all’azienda, anche perché, e questo è un altro limite, le aziende sotto sequestro possono  e devono riscuotere crediti, ma non possono saldare debiti se non al momento della sentenza che ne sancisca la definitiva sistemazione. La conclusione a cui si arriva facilmente e a cui arrivano le parti danneggiate è che con la mafia si lavorava, con l’antimafia c’è la rovina economica, ed il messaggio è devastante nei confronti di chi dovrebbe rappresentare lo Stato. La valutazione economica del bene confiscato è fatta da un apposito perito, nominato sempre dal tribunale, al quale spetta un compenso apri all’1% del valore del bene da valutare. Spetta al titolare o al proprietario del bene l’onere della prova sulla provenienza del bene, ovvero l’obbligo di dovere dimostrare che il bene è stato costruito, realizzato, gestito senza violazione della legge. Al giudice spetta invece dimostrare i reati di cui è accusata la persona penalmente sotto inchiesta.  In tal senso si dà alla magistratura un notevole potere e, molto spesso succede di trovare beni confiscati, senza che i proprietari abbiano  ancora riportato particolari condanne penali per associazione mafiosa, oppure altri beni sotto sequestro dopo che i loro titolari sono stati assolti, anche in via definitiva. Per non parlare di debiti e mutui accesi con le banche, che lo stato non si premura di rimborsare e che quindi finiscono co il lasciare il bene nelle mani delle banche stesse. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli stessi amministratori giudiziari: per fare un esempio banale, Andrea Modìca da Moach, uno dei più grossi esperti in queste partite di giro a suo favore, degne di scatole cinesi, liquidatore della Comest dei fratelli Cavallotti, ha messo in vendita un camion con gru per 600 euro, girandolo alla ditta D’Arrigo di Borgetto, di cui è ugualmente amministratore, e quando i proprietari hanno denunciato l’imbroglio al giudice  per le misure di prevenzione, la cosa è stata sistemata facendo passare il tutto per una sorta di noleggio.

L’audizione di Caruso. Nell’audizione alla Commissione Antimafia, fatta il 18 gennaio 2012, il  prefetto Caruso, al quale è stata affidata la gestione dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia che ha sede a Reggio Calabria, dice: “Altre criticità riguardano la gestione degli amministratori giudiziari, per come si è svolta fino ad ora…., l’amministratore giudiziario tende, almeno fino ad ora, a una gestione conservativa del bene. Dal momento del sequestro  fino alla confisca definitiva – parliamo di diversi anni, anche dieci – l’azienda è decotta. Siccome compito dell’Agenzia è avere una gestione non solo conservativa, ma anche produttiva dell’azienda, abbiamo una difficoltà di gestione e una difficoltà relativa a professionalità e managerialità che, dal momento del sequestro, posso individuare e affiancare all’amministratore giudiziario designato dal giudice. In tal modo, quando dal sequestro si passerà alla confisca di primo grado, sarà possibile ottenere reddito da quella azienda….. Facendo una battuta, io ho detto che, fino ad ora, i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente. Ometto di dire quanto succede in terre di mafia quando l’azienda viene sequestrata, con clienti che revocano le commesse e con i costi di gestione che aumentano in maniera esponenziale. Ricollocare l’azienda in un circuito legale, infatti, significa spendere tanti soldi, perchè il mafioso sicuramente effettuava pagamenti in nero e, per avere servizi o commesse, usava metodi oltremodo sbrigativi, sicuramente non legali, e aveva la possibilità di fare cose che in una economia legale difficilmente si possono fare. Siamo in attesa dell’attuazione dell’albo degli amministratori giudiziari, nella speranza di avere finalmente persone qualificate professionalmente alle quali poter rivolgersi e di avere delle gestioni non più conservative ma produttive dell’azienda”.

Il decreto del 6 settembre 2011 n.159 ha, anzi aveva previsto l’istituzione di un albo pubblico degli amministratori, con l’individuazione delle competenze gestionali, l’indicazione del numero delle nomine assegnate e delle competenze in denaro incassate, ma questa norma, per quattro anni è stata accantonata, perché toglie di mano al giudice che dispone delle nomine, il notevole potere di agire a proprio arbitrio e consente che certi passaggi oggi secretati, restino solo a conoscenza o siano a disposizione del Presidente dell’Ufficio che dispone le misure di prevenzione  e del suo diretto superiore, il Presidente del tribunale, e non  diventino di pubblico dominio. Qualche corso di formazione per amministratori giudiziari è stato organizzato dall’Afag  a Milano, e un master a Palermo nel 2013, da parte del DEMS, ma tutto è sfumato nel nulla. Solo il 24.1.2014 è stato finalmente scritto il regolamento per la formazione dell’albo, il quale avrebbe dovuto  diventare diventare operativo dopo l’8 febbraio, ma ancora non se ne sa nulla, addirittura qualcuno dell’Antimafia Nazionale lo ha ritenuto inopportuno: questo regolamento se nasce, nasce monco, nel senso che non prevede alcuna norma sulle retribuzioni degli amministratori e non prevede l’indicazione degli incarichi affidati, i quali, per strane ragioni di privacy, rimangono secretati e nelle mani dei magistrati. Si sa che il numero degli amministratori giudiziari nominati dal tribunale è di circa 150, molti dei quali titolari di più incarichi, grazie a chi ne dispone la nomina. Proprio il prefetto Caruso qualche giorno fa ha messo il dito sulla piaga, disponendo la revoca di alcuni “amministratori” intoccabili: "Alcuni hanno ritenuto di poter disporre dei beni confiscati come "privati" su cui costruire i loro vitalizi. Non è normale che i tre quarti del patrimonio confiscati alla criminalità organizzata siano nelle mani di poche persone che li gestiscono spesso con discutibile efficienza e senza rispettare le disposizioni di legge. La rotazione nelle amministrazioni giudiziarie è prevista dalla legge così come la destinazione dei beni dovrebbe avvenire entro 90 giorni o al massimo 180 mentre ci sono patrimoni miliardari, come l'Immobiliare Strasburgo già del costruttore Vincenzo Piazza, con circa 500 beni da gestire, da 15 anni nelle mani dello stesso professionista che, per altro, prendeva al tempo stesso una parcella d'oro (7 milioni di euro) come amministratore giudiziario e 150 mila euro come presidente del consiglio di amministrazione. Vi pare normale che il controllore e il controllato siano la stessa persona?". Tutto ciò ha provocato le rimostranze del re degli amministratori Gaetano Seminara Cappellano, titolare di uno studio con 35 dipendenti,  detto “mister 56 incarichi”, amministratore di 31 aziende, tra cui proprio la Immobiliare di Via Strasburgo, della quale gli è stata revocata la delega. Il nuovo incarico è stato affidato al prof. universitario Andrea Gemma, del quale si è subito diffusa la falsa notizia che lavora nello studio della moglie di Alfano. Nuovi amministratori sono stati nominati al posto di Andrea Dara (Villa Santa Teresa Bagheria, un impero con 350 dipendenti e un fatturato annuo di 50 milioni di euro) e Luigi Turchio, amministratore dei beni di Pietro Lo Sicco: l’incarico per la liquidazione è stato affidato a all'avvocato Mario Bellavista che (come ha lui stesso obiettato) in un passato lontano è stato difensore di fiducia  di Lo Sicco per qualcosa in cui la mafia non c’entrava: per questo motivo, qualche giorno dopo Bellavista si è dimesso. Non devono essere piaciute al PD le dichiarazioni del prefetto Caruso il quale, tramite Rosy Bindi e su sollecitazione di qualche parlamentare siciliano, è stato convocato urgentemente per un’audizione alla Commissione Antimafia, con l’accusa, già frettolosamente evidenziata da Sonia Alfano, di mettere in cattiva luce l’operato dei magistrati che si occupano di Antimafia. Anche L’ANM, la potente associazione dei magistrati, si è schierata contro Caruso sostenendo che, invece di rilasciare dichiarazioni sull’operato dei magistrati delle misure di prevenzione,  avrebbe dovuto rivolgersi ai magistrati stessi, i quali così avrebbero potuto e dovuto giudicare se stessi. In tempi del genere, potrebbe sembrare che parlare del cattivo operato di alcuni magistrati, sia come fare un favore a Berlusconi che sui magistrati ha sempre detto peste e corna. Questo “fare muro” attorno ai magistrati palermitani, anche quelli che hanno gestito i loro uffici e i loro compiti come una personale bottega, con scelte e preferenze opinabili, finisce con l’avallare la cattiva gestione del settore, coperto, come si vede, da protezioni che stanno molto in alto. Qualche illuminato politico ha dichiarato addirittura che “parlare male dei magistrati significa fare un favore alla mafia”.   Caruso si è difeso sostenendo di non avere a disposizione né uomini, né mezzi, né strumenti legali per affrontare con successo l’intero argomento dei beni confiscati: ma tira voce che, se non si dà una regolata, potrebbe anche perdere il posto: “ In tal senso la Commissione Antimafia è stata  a Palermo il 17, 18. 19 febbraio, per godere di qualche giornata di sole e lasciare le cose come stanno rimuovendo quel rompiscatole di Caruso. Ciò che emerge, ha detto la Bindi, è che l’Agenzia ai beni confiscati dovrà subire alcuni interventi”. E, per quanto si può supporre, non si tratterà di interventi migliorativi, ma punitivi. Interessante una lettera che l’avv. Bellavista ha inviato a Rosy Bindi, nella quale sostiene  che “concentrando l’attenzione sulla mia posizione si sia tentato di sviare la Sua attenzione dall’opera meritoria del Prefetto Caruso che sta scoperchiando pentole mai aperte….  Mi meraviglia come Lei, invece di insistere sul nome Bellavista, non abbia chiesto quale magistrato ha autorizzato alcuni Amministratori a ricoprire 60 o 70 incarichi. Quale magistrato abbia autorizzato pagamenti di parcelle per milioni di euro. (Le faccio presente che una legge della Regione Siciliana, limita i compensi per gli amministratori pubblici a 30000 euro lordi per i presidenti dei cda.), se vi siano familiari di magistrati o di amministratori che hanno ricoperto o ricoprono cariche o incarichi all’interno delle amministrazioni giudiziarie. Se qualche amministratore giudiziario si trovi in conflitto di interessi attuale e non di 14 anni fa. Il Prefetto Caruso  la mafia ha combattuto sulla strada e non da una comoda poltrona a migliaia di chilometri di distanza. Onorevole Presidente, credo che molto più del Dott. Caruso, sia certa magistratura a delegittimare se stessa, quando per difendere le proprie posizioni alza un muro e persiste in comportamenti che rischiano di apparire illegittimi. Sono certo che la Sua intelligenza non cadrà nella trappola del depistaggio già usata durante i tempi bui della prima Repubblica della quale Lei è stata una Autorevole Protagonista”. Nessun dubbio su colui cui fa riferimento Bellavista.
In appoggio all’operato di Caruso si è schierata la CGIL, ma anche il sindacato di polizia Siulp, mentre Equitalia, che dovrebbe essere depositaria di un fondo di due miliardi provenienti dai beni di proprietà dei mafiosi, mostra qualche difficoltà a documentare e a restituire quello di cui dovrebbe essere in possesso. Da parte sua il prefetto Caruso ha detto: “Io lavoro da 40 anni con i giudici e nessuno mi può accusare di delegittimarli. Ho solo detto quello che non va nel sistema”.

Proposte. Da quando nel 2011 è stato approvato il Codice Antimafia, diverse sono state le proposte di modifica, in particolare per la parte che riguarda la gestione patrimoniale. Ultima in ordine di tempo, ma sicuramente la più complessa e strutturata, viene da una  Commissione , istituita nel 2013 dal governo Letta, per studiare il problema dell'aggressione ai patrimoni della criminalità organizzata e presieduta dal Segretario Generale della Presidenza del Consiglio Garofoli, che già si era occupato del tema della corruzione. Nel gennaio 2014 la Commissione, con la partecipazione, fra gli altri, dei magistrati Gratteri, Cantone e Rosi, presenta una relazione di 183 pagine in cui si evidenziano le principali criticità in tema di gestione dei beni e si propongono possibili soluzioni e innovazioni legislative, dall'ampliamento del ruolo e della dotazione di uomini e mezzi dell'Agenzia, all'affiancamento di figure manageriali per la gestione delle aziende, dall'anticipo della verifica dei crediti alla regolamentazione degli amministratori giudiziari. Particolare attenzione nella relazione Garofoli trovano le proposte della CGIL, che si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare, ribattezzata "Io riattivo il lavoro", sostenuta a loro volta da Libera, ARCI e Avviso Pubblico. Al centro delle modifiche portate avanti dal sindacato ci sono proprio le aziende ed in particolare la tutela dei lavoratori e dei livelli di occupazione. "Due i punti di forza imprescindibili" dice Luciano Silvestri, responsabile Sviluppo e Legalità CGIL "il primo è la creazione dei tavoli di coordinamento presso le prefetture, che dovrebbero coinvolgere parti sociali, istituzioni e società civile nel monitoraggio e nella gestione delle aziende fin dalla fase del sequestro; il secondo è il fondo di rotazione, da finanziare con i soldi (tanti) del Fondo Unico Giustizia e con cui finanziare la fase di "legalizzazione" delle aziende poste in amministrazione statale. Dopo aver raccolto migliaia di firme, la proposta del sindacato è giunta in Commissione Giustizia alla Camera con relatore Davide Mattiello, deputato PD con un lungo trascorso di militanza antimafia. Chissà se e come i due percorsi riusciranno ad incontrarsi!. Il governo, tra i suoi tanti annunci di principio,  ha comunicato che trasformerà in decreti legge molti dei suggerimenti della Commissione Garofoli e che lo farà in tempi brevi. Nel dibattito si inserisce anche Confindustria, in particolare la sezione siciliana, che sta mettendo mano ad alcune autonome proposte, stranamente assonanti con quelle dell'on. Lumia. Per ora nulla è troppo chiaro perché, dicono i responsabili: "Ci stiamo lavorando", ma da uno studio elaborato nel 2012 dall'Università di Palermo e da alcune dichiarazioni più recenti dei rappresentanti degli imprenditori, oltre che di alcuni magistrati applicati alle misure di prevenzione di Palermo e Caltanissetta, a loro notoriamente vicini, si deduce che le aree di principale interesse saranno tre: l'inserimento di figure manageriali all'interno delle procure, la riduzione del ruolo dell'Agenzia per i beni confiscati alla sola fase della confisca definitiva e la verifica dei crediti: c'è chi spinge per anticiparla ad inizio sequestro e chi invece vorrebbe procrastinarla addirittura alla confisca definitiva, complicando ulteriormente la vita a chi onestamente vanta crediti nei confronti di aziende sotto sequestro e che in conseguenza di amplissimi buchi creati da queste fatture non pagate rischia il fallimento. A prima vista sembra si tratti del tentativo, degli industriali siciliani, di mettere le mani su quel che resta dell’economia siciliana per operare l’ennesima rapina: non si vuole dire no al tribunale nel privarlo della nomina del suo amministratore e si istituisce un’altra figura con un altro stipendio: nessuna attenzione e nessuna garanzia è prevista per i posti di lavoro dell’azienda. Fra l’altro, da quando Ivan Lo Bello, già presidente di Confindustria Sicilia ha proposto l’espulsione degli imprenditori che pagano il pizzo, tutti gli industriali siciliani fanno professione di antimafia e trovano magari qualcuno da denunciare come estorsore, tanto per farsi una verginità e lavorare, oltre che col consenso di Cosa Nostra, anche con la protezione dello stato. Non è detto  che l’asino uscito dalla porta non rientri dalla finestra, nel senso che non si trovino all’interno delle Associazioni o degli enti destinatari quelle presenze mafiose di cui ci si voleva liberare. Un problema centrale è comunque quello di garantire il posto di lavoro e tutelare i dipendenti che, quasi sempre, si ritrovano nella rovina economica. Alla Commissione Antimafia la redazione di Telejato, dopo avere sentito diverse associazioni antimafia, ha avanzato le seguenti proposte:

-Consentire l’immediato pagamento dei creditori dell’azienda sin dal momento della confisca, per evitare di causare il fallimento di aziende fornitrici legate all’indotto su cui l’azienda confiscata opera;

- Legare il momento della confisca a quello dell’iter giudiziario, nel senso che non  si può procedere alla confisca di un bene se non è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa;

- Non consentire più di un incarico agli amministratori giudiziari;

- Svincolare l’arbitrio della nomina dalle competenze nelle mani di un solo magistrato e allargarne la facoltà a tutti i magistrati del pool antimafia;

- Individuare e colpire l’eventuale responsabilità penale dell’amministratore giudiziario obbligandolo a presentare annualmente i bilanci, revocandogli l’incarico nel caso di gestione passiva non motivata adeguatamente e obbligandolo a risarcire i danni nel caso di amministrazione fraudolenta;

- Risarcimento, da parte dello stato, dei danni provocati da cattiva amministrazione giudiziaria, nel caso di totale proscioglimento delle accuse e non reiterazione del provvedimento di confisca, come si è recentemente verificato;

- immediata esecuzione, che non vada oltre un mese,  del provvedimento giudiziario di conferma o dissequestro della confisca. I casi scandalosi di rinvii, spesso di vari mesi, se non di anni, causati da  ritardi, da momentanei malesseri e  da altre scuse prodotte dal magistrato incaricato delle misure di prevenzione non possono essere giustificabili, anche perché l’azienda sotto confisca corre il rischio di perdere il suo giro di affari o di essere messa in liquidazione da amministratori giudiziari che girano attrezzature e macchinari, svenduti a prezzi irrisori ad altre aziende sotto il loro controllo;

-Possibilità di revoca, su eventuale richiesta motivata, dell’incarico di amministratore giudiziario da parte di un magistrato inquirente diverso da quello che ne ha fatto la nomina e che è solitamente il giudice addetto alle misure di prevenzione.

Come si può notare, la richiesta più importante è quella di  distribuire l’immenso potere di cui dispone il singolo magistrato addetto alle misure di prevenzione, nell’amministrazione di un impero di 40 miliardi di euro, utilizzando le competenze anche di altri magistrati, al fine di non strozzare ulteriormente, sino ad arrivare al collasso, la debole economia siciliana, nella quale, il settore dei beni confiscati, salvo pochissimi casi, ha accumulato fallimenti, gestioni poco trasparenti e disperazione da parte di lavoratori trovatisi sul lastrico.  L’affidamento della gestione dei beni  ai rampolli di una Confindustria apparentemente verniciata di antimafia, non è la soluzione del problema, ma sarebbe necessario, come già in qualche altra regione, organizzare  corsi di formazione fatti da gente qualificata e che non siano occasione, come al solito, di distribuire il finanziamento del corso ai soliti “amici” e rilasciare l’attestato a tutti, senza accertare l’acquisizione di competenze.

La “Latticini Provenzano”. Si tratta di un caseificio con  sede a Giardinello, un paese di circa mille abitanti, recentemente assurto alle cronache per la cattura di Sandro e Salvatore Lo Piccolo. Ali inizi del 2000 , grazie ai fondi europei previsti dai Patti territoriali, l’azienda venne ristrutturata e adeguata  alle norme, diventando un moderno caseificio dove lavoravano una trentina di famiglie, assieme a un indotto di pastori e vaccari che fornivano il latte. Il rimborso di questi fondi avviene  dopo che il proprietario li ha anticipati ed è in grado di documentare i lavori eseguiti. La lentezza di questi rimborsi crea notevoli difficoltà economiche al titolare del caseificio, il quale si rivolge a Giuseppe Grigoli, un imprenditore di Castelvetrano, non ancora indagato, ma già conosciuto come il re dei supermercati Despar, e che si scoprirà come prestanome di Matteo Messina Denaro.  Grigoli chiede un aumento  del capitale, chiede di assumere il controllo del 51% dell’azienda per accedere a un megamutuo del Monte dei Paschi di Siena, mutuo che viene bloccato quando Grigoli è arrestato, nel 2006. In questo momento l’azienda conta su 52 dipendenti, di cui 13 vengono licenziati. In un ultimo disperato tentativo Provenzano offre la sua quota allo stato, detentore della parte confiscata,  per ottenere il prestito, ma ci perde anche quella.  Il caseificio, che, in questa vicenda con la mafia c’entrava solo di striscio, come poi confermato dagli sviluppi giudiziari,  viene confiscato e affidato a un curatore giudiziario di nome Ribolla, il quale, nella sua somma incompetenza, nel 2012 lo porta al fallimento con una situazione debitoria di 28 milioni di euro.  E’ un chiaro esempio di come un’industria di eccellenza può essere condotta sul lastrico e di come i restanti 39 operai, che, pur di mandare avanti l’azienda, sino al gennaio 2012 hanno lavorato senza  stipendio, rimangono disoccupati. Con Grigoli contava 52 dipendenti. Nel 2006, con il sequestro, 13 dipendenti vengono licenziati. La chiusura, lo scorso maggio, lascia fuori i restanti 39.  Al momento della chiusura la sua esposizione debitoria era di 28 milioni di euro.   

Il porto di Palermo. La vicenda riguarda 350 lavoratori facenti parte della “Newport”, società che gestisce i lavori portuali. Nel 2010 la DIA inoltra un’informativa al prefetto di Palermo, nella quale sostiene che tra questi lavoratori ci sono quattro mafiosi e 20 parenti di mafiosi, in gran parte facenti parte del clan di Buccafusca, capomafia di Porta Nuova. Si dispone il sequestro preventivo e viene nominato come amministratore giudiziario il titolare dello studio legale “Seminara-Cappellano”, il quale dispone la sospensione cautelare per 24 lavoratori, i quali, sino al giugno 2013, data in cui interviene la dott.ssa Saguto, cioè la responsabile della nomina di Seminara,  sono pagati senza far niente. La vicenda è molto più ingarbugliata di quanto non appaia, in quanto gli operai sono titolari di una quota societaria, ma il dissequestro sarà possibile quando potranno dimostrare di essere esenti da infiltrazioni mafiose. Cioè non si sa quando. Presidente dell’Autorità portuale è stato un uomo dell’on. Lumia, tal Nino Bevilacqua, che attualmente è stato sostituito da un uomo di Schifani, tal Cannatella.

La MEDI-TOUR. E’ un caso più complesso. Si tratta di una cava di pietrisco, in territorio di Montelepre, già di proprietà di Giacomo Impastato, detto “u Sinnacheddu”, fratello di Luigi, il padre di Peppino Impastato. Da lui è passata al figlio Luigi, ucciso a Cinisi il 23 settembre 1981, nel corso della guerra tra i seguaci di Badalamenti e i Corleonesi. La gestione effettiva della cava è stata portata avanti dall’altro figlio Andrea, al quale il 22 febbraio 2008 vengono confiscati beni per 150 milioni di euro riconducibili a Bernardo Provenzano e a Salvatore Lo Piccolo, dei quali Andrea è un prestanome, grazie agli intrallazzi del suo compaesano Pino Lipari, vero ministro dei lavori pubblici di Provenzano, la cui moglie Marianna Impastato ha qualche vincolo di parentela con Andrea. Il provvedimento prevede,  innumerevoli immobili e appezzamenti di terreno da Carini a San Vito Lo Capo, il Mercatone Uno di Carini, anche il sequestro di cinque aziende, tutte del mondo dell’edilizia, la più grossa delle quali è la Medi.tour, che si occupa della gestione della cava di Montelepre. Amministratore giudiziario di tutto viene nominato uno dei pupilli della dott.ssa Saguto, la regina della sezione “misure di prevenzione”, un commercialista di nome Benanti, titolare di uno studio a Palermo e, per quel che se ne sa, in ottimi rapporti con un altro curatore giudiziario molto a cuore alla Procura di Trapani, un certo Sanfilippo. Benanti ha avuto occasione di dimostrare di avere buone conoscenze quando, ottenuta l’amministrazione dei beni di un altro costruttore, Francesco Sbeglia, di Palermo, nel 2010, al Centro Excelsior (Hotel Astoria) mandò, a un incontro con alcuni imprenditori che volevano collaborare alla gestione dei beni, lo stesso Sbeglia. In tal caso, grazie alla protesta dei tre imprenditori, gli venne revocato l’incarico, ma solo quello, in quanto non gli venne meno la fiducia della dott.ssa Saguto. Pare che gli siano affidati una ventina di incarichi, si dice che abbia dilapidato  una cifra altissima degli introiti del supermercato Mercatone, ma il suo nome non è venuto fuori nemmeno nelle polemiche seguite alle dichiarazioni del prefetto Caruso. Torniamo alla Medi.tour.  Andrea Impastato , del quale si vocifera, senza conferme, di una diretta collaborazione con la giustizia,tant’è che nell’ultimo recente processo gli è stata dimezzata la pena,  ha quattro figli, due dei quali, Luigi e Giacomo,  dipendenti della cava. Nel 2011, su decisione del tribunale vengono licenziati, ma i due fratelli non si perdono d’animo e creano una nuova società, la Icocem, con sede a Carini, riconquistando, a poco a poco, buona parte del mercato che si riforniva nella loro ex cava. Riescono anche a “rifarsi” una verginità denunciando al magistrato diversi tentativi di richiesta del pizzo e iniziando una fitta collaborazione. Da parte sua Benanti, che si presenta una volta ogni tanto alla cava di cui è amministratore, con il macchinone e in dolce compagnia, in una sua relazione accusa gli Impastato, diventati suoi diretti concorrenti,  di  associazione mafiosa.  Con strana sollecitudine il tribunale  dispone  il sequestro della Icocem, la dott.ssa Saguto ne affida l’amministrazione, indovinate un po’, al solito Benanti, il quale mette in liquidazione la società che è chiamato ad amministrare e che  si trova a soli cento metri dalla cava. Nel frattempo vengono licenziati i 20 operai che lavorano nella cava, e alcuni sono assunti “ a tempo”, secondo le richieste di materiale: qualcuno di essi è disposto a dichiarare che Benanti avrebbe disposto l’interramento di rifiuti tossici all’interno della cava, facendo poi riempire il tutto con terra e piantumare con stelle di natale: al giardiniere sarebbero stati pagati 18.000 euro. Gli Impastato presentano ricorso, con una loro relazione, nella quale è dimostrata la tracciabilità e la regolarità di tutte le operazioni che hanno condotto alla creazione della loro società, ma l’udienza, che avrebbe dovuto svolgersi ad  ottobre, per indisposizione, di chi, indovinate un po’, della dott.ssa Saguto, è rinviata al 6 febbraio 2013, dopodichè c’è stato un ulteriore rinvio a maggio Quello che più stupisce è la presenza, all’interno della cava, di Benny Valenza, pluripregiudicato e mafioso di Borgetto, da sempre occupatosi di forniture di calcestruzzo, con un pizzo da 2 euro a metro quadrato, da distribuire agli altri mafiosi della zona: gli sono stati sequestrati alcuni beni, è stato condannato per aver fornito cemento depotenziato per la costruzione del porto di Balestrate e per altri reati affini, ma, tornato a piede libero, ha ripreso la sua abituale attività: da qualche tempo agisce come dipendente di un’impresa di legname, allargatasi ultimamente nel campo dell’edilizia, della quale è titolare un certo Simone Cucinella: la ditta il 24.1 ha preso misteriosamente fuoco.  L’intraprendente Valenza  ha installato, naturalmente attraverso meccanismi apparentemente legali, un deposito di materiali da costruzione in un posto collocato tra la cava e il deposito adesso chiuso degli Impastato: non si sa se la collaborazione con Benanti, all’interno della cava, si estenda anche a questa nuova struttura.

La COMEST e l’affare del metano. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune  aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. C’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione. Decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad aggiudicarsi numerosi appalti e concessioni per  metanizzare molti comuni,con il sistema del project financing, ovvero offrono ai comuni la costruzione degli impianti di metano, con fondi propri ,con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi lasciare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni stessi.  Sul mercato c’è già  l’Azienda Gas spa, nata per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale , decide di potenziare la società, e chiede i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica.  Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, alla presenza, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità  che apre le porte alla Gas spa e al terzetto  Ciancimino-Lapis-Brancato, perchè con questo patto di legalità vengono assegnati ai mafiosi  direttamente gli appalti  senza alcuna celebrazione di gara: unico ostacolo la Comest che già ha ottenuto numerose concessioni in numerosi comuni Siciliani,  e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco. Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agira,  è scritto: “Cavallotti due milioni”. Ci vuol poco a incriminare i Cavallotti, che, come tanti, pagavano il pizzo, con l’accusa di associazione mafiosa e di turbativa d’asta, e a  disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto e scarcerato “perché i fatti non sussistono”. Dopo di che nel 2002 la Corte d’Appello  ribalta la sentenza con una condanna e, dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa: di conseguenza i fratelli non sono ritenuti vicini ad esponenti mafiosi di alcun tipo. Qualche mese dopo, nei confronti dei tre fratelli scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristofaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione , motivando, dopo un attenta lettura della documentazione processuale che i tre fratelli  sono stati vittime della mafia, e adducendo, a conferma dell’assoluzione perchè il fatto non sussiste nel procedimento penale, anche le numerose denunce degli attentanti subiti nei cantieri e ai mezzi, nel corso dell’ attività imprenditoriale:  ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario, da parte del Tribunale di Palermo, un  Andrea Modìca de Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TO-SA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. Si tratta di un personaggio legato ad altri fratelli, uno dei quali titolare a Palermo, di uno studio di commercialista, un altro magistrato a Roma e un altro alto dirigente del ministero di Giustizia. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni. L’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati  quasi tre anni, anzi, nel  dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dai figli, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un avvocato, un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, i figli titolari, la cui sola colpa è di essere figli di persone che sono state  indagate, condannate e poi prosciolti dall’accusa di  associazione mafiosa. Gli ultimi sequestri riguardano  un complesso di aziende edili, e pure una parafarmacia già chiusa dal 2013: l’accusa è quella della riconducibilità delle aziende ai fratelli Cavallotti, come al solito, accusati di essere vicini ai mafiosi Benedetto Spera e Bernardo Provenzano, malgrado la definitiva assoluzione dalle accuse e la scomparsa, da tempo, dalla scena,  dei mafiosi citati. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per “ ritardo di notifica”. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti.  Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati e che lascia ampio spazio al sospetto che le confische, in attesa della sentenza d’appello della  Cassazione, diverranno definitive e tutto sarà cancellato con un colpo di penna.

E il caso di aggiungere a questa storia alcuni particolari:

Nel 1998 al  gruppo Cavallotti sono confiscate le aziende

- Comest  spa  (valore 50 milioni),

- Icotel  spa (valore 10 milioni), Imet srl (valore 10 milioni),

- Cei srl  (valore 2 milioni),

- Coip srl (valore 10 milioni:

nel 2012 di tutto ciò rimane solo un valore di 20 milioni per la Comest, mentre è o diventa  zero il valore delle altre aziende, anche di quelle ad esse collegate, come la Calcestruzzi Santa Rita, che aveva un valore di partenza di 5 miloni di euro e i gruppi Edil Forestale e D’Arrigo, che, per alcuni aspetti, sono soci in affari con il Modìca.
Il Modìca già nel 2009 è stato denunciato per truffa alla Guardia di Finanza di Palermo, ma della denuncia non s’è saputo più nulla. Intorno a lui e a suo fratello ruotano:

- la Advisor Services  For Bisness  srl, che agisce in stretto contatto con la Mac Consulting srl, di cui è legale rappresentante tal Fabio Uccello,

- la Lamb & Souce Real Estate srl, la Integre Sicilia, azienda oggi in liquidazione,  di cui sono soci la Advisor Service, Kodaleva Sonia, , moglie di Emanuele Migliore, socio di Modìca e Di Fiore Giuseppe, avvocato di fiducia di Modica.

- la CS immobiliare srl., del fratello Marco,

- la Immobiliare Il Borghetto srl.,

- la Gam Immobiliare, che fa da tramite per complesse partite di giro,con le aziende confiscate dei D’Arrigo di Borgetto e della Edil Forestale,

- la Servizi e Progetti srl, il cui legale rappresentante è Roberta Ponte, moglie di Andrea Modica,

- la Cogetec srl, azienda costituita per gestire i subappalti del gruppo Cavallotti, di cui risulta amministratore unico un certo Vincenzo Parisi.

Strettamente collegate alla Comest e alle aziende del Modìca  le vicende della TOSA costruzioni srl, azienda confiscata che acquista per due milioni di euro il ramo aziendale della Comest, mediante un rilevamento virtuale di debiti creati tramite fatture e parcelle: la Tosa vende i suoi debiti o i suoi presunti crediti alla Italgas per 22 milioni di euro ottenendo 5 posti di lavoro per compiacenti  amici del Modìca pronti a prestarsi alle sue manovre speculative. Dalla TOSA, sotto forma di anticipo escono i fondi per alcuni lavori, anche personali, effettuati a Baida, a Cinisi, a Marsala. Oggi la TOSA è stata restituita al demanio dello stato come una scatola vuota, senza una lira e senza che nessuno abbia pagato per la sua  dissoluzione. Di tutto l’impero della Comest è invece rimasto un giro di 700 mila euro di utile grazie alla gestione del metano nei comuni di Monreale, Altavilla Milicia, Santa Cristina Gela e Piana degli Albanesi. Nel 2012 il prefetto Caruso ha revocato a Modìca gli incarichi.

La AEDILIA VENUSTA. (ovvero, come l’Acqua santa può diventare acqua diabolica).  A Palermo, in via Comandante Simone Gulì n.43 presso la borgata Acquasanta si trova, anzi c’era una villa palermitana del 1700, ma dove si potevano notare  visibili tracce di una sua preesistenza  risalente  al 1.500, o addirittura al medioevo: qualche storico ha parlato addirittura  di reperti di origine etrusca. La villa si affacciava sul porticciolo e aveva tutte le finestre con vista sul mare. L’originaria proprietà fu della nobile famiglia dei Gravina, di origine normanna. Gli esponenti del  ramo siciliano dei Gravina, che presero il nome da quello di un feudo pugliese da cui provenivano, parteciparono alla prima crociata, ebbero diritto di essere seppelliti nel pantheon reale, furono Grandi di Spagna, possedevano 9 principati, 5 ducati, 7 marchesati, 3 contee ed oltre 24 baronie. Dentro  l’attuale edificio scorreva una sorgente di acqua minerale, sulfurea e purgativa, contenente sali alcalini, quali solfato di calcio e magnesio, e cloruro di calcio, sodio e magnesio, considerata miracolosa per i suoi benefici. Di lì il nome di “Acqua santa” dato a tutta la borgata . Attualmente l’acqua è stata incanalata in condutture che sfociano a mare. Da una ricerca pubblicata da Claudio Perna e curata dall’Associazione culturale “I Luoghi della Sorgente” apprendiamo che “la sorgente acquifera era situata in una grotta, un piccolo ambiente ipogeico, che un tempo fu santuario pagano, poi piccola cappella conosciuta come Palermo a S. Margherita di fora, dedicata a Santa Margherita, protettrice dai mostri marini, e infine intitolata alla Madonna della Grazie, come attesta il Mongitore che riferisce di un affresco raffigurante la Vergine, risalente al tempo dei Saraceni e rinvenuto nel 1022. Nel 1774 la grotta e i terreni furono concessi al Barone Mariano Lanterna, che acquistò dai benedettini del Monastero di S. Martino delle Scale il terreno circostante la grotta dell’Acquasanta e vi costruì una  tipica casina settecentesca di modeste dimensioni con un semplice impianto su due elevazioni: alcune sale interne mantengono gradevoli decorazioni a fresco tardo-settecentesche. Apprendiamo dalla stessa fonte che nel 1871 i fratelli sacerdoti Pandolfo acquistarono la villa e  fecero uno stabilimento per bagni e cure idroterapiche, che sfruttava le proprietà terapeutiche della sorgente di acqua minerale poco distante per la cura di malattie metaboliche. Nello  stabilimento  si potevano fare dei bagni  alla temperatura naturale dell’acqua di 18°-19° , ma grazie al processo di riscaldamento  anche i bagni caldi, a 25°-36°, e caldissimi fino a 42°. Successivamente i due sacerdoti decisero di commercializzare l’acqua che poteva anche essere bevuta, con 50 cent alla bottiglia. C’era anche la possibilità di fare delle docce che esercitavano la loro azione meccanica su un punto preciso del corpo con getti  d’acqua ascendenti, dal basso verso l’alto, discendenti, dal basso verso l’alto, e laterali in orizzontale. Lo stabilimento aveva in un edificio camerini da bagno distinti in familiari e singolari e nell’altro la macchina a vapore per il riscaldamento dell’acqua, le sale da soggiorno e da pranzo e gli ambienti di servizio. Tale istituto, accresciutosi nel 1892, fu attivo però per poche decine di anni. La struttura dei Bagni Minerali situati nella grotta e nei locali di Villa Lanterna era costituita da due edifici su tre piani collegati da una terrazza, tuttora è ancora visibile l’iscrizione “Fratelli Sacerdoti Pandolfo”, sormontata da un timpano con acroterio. Gli ambienti interni rispettavano l’originaria suddivisione e sul fianco sinistro del prospetto si trovava l’ingresso al mare preceduto da due piloncini, trasformato in abitazione. Le analisi dell’acqua hanno riscontrato proprietà analoghe a quelle della fonte Tamerici di Montecatini Terme. La fonte aveva una portata di 15 litri al secondo e consentiva di effettuare mille bagni al giorno, con continuo ricambio delle acque. Nel 1993 venne effettuato un sopralluogo dai vigili urbani e dalla sovrintendenza e si accertò che la sorgente era ancora utilizzabile e avrebbe potuto essere ripristinata, ma non se ne fece niente: la preziosa acqua, attraverso cunicoli sotterranei, oggi finisce a mare. Tutto questo complesso,  comprende le Terme, anch’esse adibite ad appartamenti, la grotta adiacente all’ex chiesetta, un piano terra di 70 mq, in vendita a 100 mila euro, un piazzale e altre tre più recenti costruzioni adibite ad abitazioni o uffici, di circa 250 mq. L’immobile, suddiviso in cinque unità è stato venduto a tre architetti e a una signora romana. Uno degli  architetti è Vincenzo Rizzacasa, già preside di un istituto d’arte di Santo Stefano di Camastra, che nel 2005 ha deciso di dar vita a un’impresa di costruzioni, la “Aedilia Venusta”, intestata al figlio Gianlorenzo, specializzata in ristrutturazioni, munita di certificato antimafia  e iscritta ad Addio Pizzo, fino a quando non si scopre che al suo interno lavoravano i mafiosi Francesco e Salvatore Sbeglia, legati al campo delle costruzioni e già oggetto di misure di prevenzione, di sequestri e di procedimenti giudiziari. Secondo i giudici gli Sbeglia sarebbero stati soci occulti di Rizzacasa e, attraverso la sua ditta, sarebbero tornati in attività, con metodi e sistemi di illecita concorrenza. Rizzacasa è legato al vicepresidente della Confindustria  Ettore Artioli, titolare di un’azienda, la Venti, che ha commissionato a Rizzacasa la ristrutturazione della Manifattura Tabacchi di Palermo. Nei progetti della Aedilia Venustas c’era anche la trasformazione dell’area della villa del Barone Lanterna in un residence di lusso con 15 appartamenti e due studi professionali, il tutto con regolare concessione, rilasciata nel 2009  e con tanto di visto da parte della Sovrintendenza ai Beni Culturali, che, per contro, avrebbe dovuto tutelare la conservazione di monumenti storici di questo tipo, cosa che in Sicilia scatta solo in certe circostanze.  Scattano le misure di prevenzione per Rizzacasa, al quale vengono sequestrati le imprese edili Aedilia Venustas, l’Immobiliare Sant’Anna, Verde Badia, un insieme di 33 immobili in via badia, una decina di appartamenti, la villa Barone Lanterna, sei magazzini e sette automezzi. Artioli si autosospende dalla Confindustria, ma continua la sua carriera manageriale, al punto che nel 2012 viene nominato, dal sindaco Leoluca Orlando, presidente dell’Amat. Per Rizzacasa, espulso da Confindustria,  inizia un iter giudiziario, una condanna in primo grado per favoreggiamento semplice, cioè senza l’aggravante dell’associazione mafiosa . In appello Rizzacasa è assolto e l’assoluzione è confermata, in via definitiva, nel febbraio 2014, in Cassazione. Assolti anche  i suoi consociati Lena e Salvatore Sbeglia. Rizzacasa ha rinunciato alla prescrizione per avere una sentenza di piena assoluzione. Per una di quelle anomalie tipiche della legge italiana e in particolare, di quella sui beni sequestrati alla mafia, il patrimonio immobiliare di Rizzacasa, per decisione del giudice delle misure di prevenzione, per il quale è sufficiente il “libero convincimento” che l’assoluzione non basta, rimane congelato sotto sequestro, malgrado l’ordine di dissequestro dell’azione penale. Ma siamo arrivati al punto: dopo le denunce del prefetto Caruso, è ormai noto che il giudice delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo  ha un rapporto privilegiato con lo studio legale di Cappellano Seminara, al quale ha già affidato una cinquantina di beni confiscati alla mafia. Cappellano, diventato amministratore giudiziario della Aedilia Venustas,  continua l’attività di smembramento della villa del barone Lanterna con la costruzione degli appartamenti in progetto: per risarcirsi del suo  “estenuante” lavoro, da lui stesso stimato in circa 800 mila euro, si impadronisce di due appartamenti: probabilmente ne disporrà la vendita per incassare il compenso. Da una visura notarile storica si rileva che “gli immobili citati vengono venduti a 250 euro al mq. per quanto riguarda la villa antica e le terme, quelli più moderni a 200 euro mq.” Se è vera questa notizia ci vuol poco a dedurre che, fissando un prezzo così basso, Cappellano Seminara può mettere le mani su tutto il complesso edilizio e impadronirsene. Da una nota della Camera di Commercio si deduce che “il fatturato di Aedilia Venustas s.r.l. stimato, nel 2011, tra i 300 e i 600 mila euro, durante il 2011 è diminuito, nello stesso anno,  del -1263% rispetto al 2009 e che il risultato netto ottenuto durante il 2011, dopo gli oneri finanziari, le tasse e gli ammortamenti è diminuito del -609,64% rispetto al 2009”. Il tutto grazie all’oculata amministrazione di Cappellano Seminara e a chi lo ha messo in quel posto.

La 6GDO e l’impero Despar. Quella di Giuseppe Grigoli sembra una storia comune, iniziata con l’apertura, negli anni 80 di una piccola attività di vendita di detersivi all’ingrosso e poi diventata, tra  gli anni ’80 e ’90  una grande  realtà economica, in grado di fatturare 600 milioni di euro l’anno, attraverso l’apertura di una serie di centri commerciali, da Trapani ad Agrigento, a Palermo, con il marchio Despar, in grado di gestire il 10% di tutto il fatturato Despar. La realtà più grossa è “Belicittà”, ovvero il più grande centro commerciale del trapanese, a Castelvetrano. Grigoli crea il gruppo 6GDO , una ditta che distrisce prodotti alimentari a vari supermercati. Si è detto e si è scritto che dietro questo impero finanziario ci sono i soldi  di Matteo Messina Denaro, ovvero c’è il riciclaggio di milioni di euro di oscura o illecita provenienza: si è anche parlato, ma senza particolari riscontri processuali, di  una gestione spesso intimidatoria nell’imporre, con sistemi mafiosi, particolari condizioni ai fornitori di merce. Il nome di Grigoli viene trovato nelle lettere di Matteo Messina Denaro nel covo di Bernardo Provenzano, l'11 aprile 2006.  Grigoli voleva aprire un Despar a Ribera, un paese sotto l’ala protettiva del boss locale Capizzi che, addirittura, gli aveva chiesto il pizzo: pare che Capizzi, in un primo tempo fosse stato assunto nel supermercato, ma che avesse contratto con Grigoli un debito di 297,28  mila euro, che si rifiutava di pagare. Così Messina Denaro si era, per iscritto, rivolto a Bernardo Provenzano chiedendogli di intervenire a favore del “suo paesano". Provenzano si era rivolto al boss di Agrigento Giuseppe Falsone che avrebbe dovuto mettere pace tra i due. E’ caratteristico il tono dei pizzini di Messina Denaro: "Capizzi prima restituisca i soldi che si è preso e dopo gli amici di Ag mi dicono cosa vogliono dal mio paesano ed io sono disponibile a sistemare il tutto. E' ormai una questione di principio. Io ho fatto della correttezza la mia filosofia di vita".  E, nell’ultima lettera, : "Solo se Cpz comincia a pagare  il mio paesano paga 10 mila euro per ogni sito che ha ad Ag per ogni anno. In questo caso, dato che paga, non darà posti di lavoro. La mia seconda proposta: se il mio paesano non paga niente per come vuole il 28 (è il codice di Falsone - ndr) per rispetto a me, ed io lo ringrazio e gli sono grato per ciò e dica al 28 che io non dimenticherò mai questa gentilezza, allora se il mio paesano non paga, darà due posti come impiegati per ogni sito, impiegherà 2 persone che interessano ad Ag". Nel 2006 Grigoli è arrestato, processato e  condannato a 12 anni di carcere per associazione mafiosa: al processo vengono fuori  i nomi di capi mafia, a parte quello dell’imputato latitante Messina Denaro, di suo padre, «don Ciccio», di Bernardo Provenzano, di Filippo Guattadauro, il cognato del capo mafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro,  i nomi di politici, come quello dell’ex presidente della Regione Totò Cuffaro, che chiede a Grigoli di vendere nei suoi supermercati alcuni vini prodotti da suoi “amici”,  o quello dell’ex deputato regionale  cuffariano, Francesco Regina, andato da Grigoli a chiedere voti. A Grigoli si rivolge persino, per la vendita di ricotta il boss Vito Mazzara, l’uomo che avrebbe ucciso Mauro Rostagno e che attualmente sconta l’ergastolo. La confisca riguarda 12 società cominciando dalla capofila, il Gruppo 6GDO, punto di eccellenza un maxi centro commerciale, il Belicittà di Castelvetrano, e poi ancora 220 fabbricati tra palazzine e ville, 133 appezzamenti di terreni, uliveti e vigneti per un totale di 60 ettari. Tutte aree di campagna ricadenti in quell’area del Belice, da Zangara a contrada Seggio, dove i boss mafiosi siciliani a cominciare da Totò Riina, per continuare con Bernardo Provenzano e i Messina Denaro, avevano fatto incetta di terreni con l’idea che in quei luoghi doveva sorgere negli anni ’90 la “Castelvetrano 2”, un maxi complesso immobiliare che avrebbe dovuto ricalcare la più famosa “Milano 2” di marca berlusconiana. Il tutto viene affidato a un amministratore giudiziario, Nicola Ribolla. I suoi sette anni di amministrazione sono serviti a smantellare interamente un impero economico e a ridurre sul lastrico, senza lavoro, le 500 famiglie che vivevano all’interno delle attività confiscate. Al processo Ribolla ha tentato di giustificare il suo operato dicendo che “molti supermercati associati hanno chiesto di disdire il contratto con noi, i fornitori non ci hanno fatto più credito, e anche le banche ci hanno chiuso i rubinetti”. Sono in corso ancora trattative, stimolate anche in un incontri tra i lavoratori, ai quali è stata già mandata la lettera di licenziamento e  Sonia Alfano, in interventi  del sindaco di Castelvetrano  Felice Errante e della CGIL: il circuito comprende 43 supermercati Despar, più i 40 affiliati del gruppo 6GDO in provincia di Trapani : Despar, Eurospar, Superstore, Interspar ad Agrigento e Trapani.  Hanno già chiuso i supermercati più grossi di Marsala e Trapani, altri lo stanno facendo, poiché  non vengono più riforniti di merci, gli scaffali sono semivuoti. Addirittura, nel 2010 alla Prefettura di Trapani si era firmato un “protocollo di legalità” per salvare la “Special Fruit” una delle tante aziende del circuito di Grigoli e affidarne l’attività alla Coop, ma non se n’è fatto niente. La Special Fruit è stata messa in liquidazione, malgrado Ribolla ne avesse disposto un aumento di capitale stornandovi i soldi della 6GDO La chiusura delle banche ha prodotto la mancanza di liquidità per pagare fornitori e dipendenti, ma ha anche sospeso diversi crediti da riscuotere. Recentemente a Ribolla, forse in considerazione della sua scarsa capacità imprenditoriale, è stato aggiunto, come consulente, l’avvocato Antonio Gemma, vicino ad Angelino Alfano, ma la cosa non è servita a niente. L’amara conclusione di chi si trova sul lastrico è che quando c’era Grigoli tutto funzionava perfettamente,  l’azienda aveva un attivo di 600 milioni che sono scomparsi nel nulla con l’amministrazione giudiziaria: Insomma, ci troviamo davanti al volto nuovo di Cosa Nostra, così come si è potuto vedere anche col sequestro di un miliardo e 300 mila euro fatto al “re del vento” Vito Nicastri, di Alcamo, nel quale l’imprenditoria diventa l’elemento centrale per l’accumulazione del capitale, oltre le vecchie, ma sempre presenti pratiche del pizzo, e gli uomini d’onore, anche senza bisogno di esplicite affiliazioni, sono imprenditori e professionisti. Rispetto all’intraprendenza di costoro lo stato, avvolto nelle sue pastoie o rappresentato da gente incapace rischia di arrivare, quando arriva, con molto ritardo,  si trova davanti al proprio fallimento senza che si imputi tutto ai metodi di un’economia illegale: spesso, come nel caso dei lavoratori della 6DIGI , tutti messi in regola,  tutto funziona, almeno apparentemente, nel rispetto della legalità e all’interno di un circuito efficiente e produttivo.

Una parte di questa inchiesta è stata pubblicata sul numero di marzo 2014 de “I Siciliani giovani”. Ringrazio per la collaborazione, nella realizzazione dell’inchiesta, la redazione di Telejato, ovvero Pino Maniaci e Christian Nasi.

In questo mio trattato mi preme parlare anche dell’affaire “Banca Marche”. Una domanda sorge spontanea: a quando la parola fine? Il caso dell'imprenditore Ciro Di Pietro e della sua famiglia. Mi interesso perchè, dopo anni dal suo arresto, ancora non si è addivenuti ad una condanna definitiva, tale da renderlo colpevole. Intanto il suo patrimonio è amministrato dalla magistratura. E per la stampa è e rimane solo un mascalzone.....con la sua famiglia, tra cui il figlio Amedeo, avvocato.

Ho cercato di trovare sul web notizie attinenti il caso e la persona. Nulla. Solo notizie conformi, come se uscissero dalla medesima velina. Non una versione diversa. Tutto rilasciato dalle conferenze stampa dell'accusa. Dare voce alla difesa, sia mai!

“Catch me” (Prendimi, dal titolo del noto film che vede Di Caprio nei panni di un truffatore): è questo il nome dell’operazione scelto dal sostituto procuratore Manuela Comodi per descrivere l’attività delle 7 persone che ruotavano intorno a Ciro Di Pietro, imprenditore napoletano dal forte “carisma”, scrivono Sara Minciaroni e Alessia Chiriatti su “Tuttoggi” del 9 novembre 2012. Secondo la ricostruzione fornita oggi in conferenza stampa dal capo della mobile Marco Chiacchiera, Di Pietro si sarebbe rivelato un affabulatore talmente abile da raggirare persino le banche. Ad insospettire gli inquirenti proprio la facilità con cui diversi istituti bancari permettevano l’accesso al credito all’imprenditore, senza che questi fosse di fatto munito di solide garanzie: un fiume di soldi pari a 20 milioni di euro, basato su false garanzie e, cosa ancor peggiore, mai restituito. 8 dunque gli arresti  eseguiti a Perugia, Napoli e Avellino. In queste città e a Belluno la squadra mobile del capoluogo umbro ha effettuato anche numerose perquisizioni sequestrando molti documenti al vaglio degli investigatori. Perquisita anche una sede di “Italiani nel mondo”, la Fondazione creata dal senatore De Gregorio, il parlamentare del pdl al centro di numerose inchieste per truffa, riciclaggio, favoreggiamento della camorra, corruzione e false fatturazioni. Con Di Pietro, detenuto nel carcere di Napoli, sono stati raggiunti dai provvedimento di custodia i suoi figli Amedeo (avvocato) e Anna,  il fedele commercialista  Nunzio Capri (descritto dagli inquirenti come il “braccio operativo”, essendo l’autore della falsificazione dei bilanci nonché il titolare di quasi tutte le società fittizie coinvolte nell’inchiesta), il faccendiere di Umbertide Salvo Tempobuono e l’architetto Leonardo Orsini Federici, che secondo l’accusa avrebbe fornito i Sal (stati avanzamento lavori) con cui richiedere alle banche i finanziamenti. Due i funzionari di altrettante banche finiti ai domiciliari: si tratta del trevano Carlo Mugnoz, direttore della filiale perugina di Banche Marche e dell’avellinese Giuseppe Parnoffi, ex vice direttore regionale di Bcc Napoli, licenziato lo scorso anno dalla Banca dopo le prime perquisizioni disposte dalla magistratura. A loro è attribuita la complicità nell’emissione del credito. Ciro Di Pietro non si è fermato a questi due istituti bancari: nel tempo ha preso contatti anche con banche estere, tentativi puntualmente falliti. E’ andata meglio con l’umbra Banca Popolare di Spoleto che, stando alla ricostruzione, ha anticipato al partenopeo 150mila euro a fronte di fatture rivelatesi poi false. L’istituto di piazza Pianciani sarebbe stato interessato solo da questa operazione che, al momento, non ravviserebbe responsabilità penali in capo a chi trattò la pratica. Di certo anche PopSpoleto è rimasta vittima del millantatore in abiti eleganti che avrebbe vantato una amicizia con l’allora n. 1 Giovannino Antonini, oggi presidente della holding Scs. Peggio, molto peggio è andata invece a Medioleasing e Unicredit, interessate rispettivamente da una esposizione per 5,1 e 1,5 milioni di euro. Le accuse per la cricca sono pesantissime: si va dalla associazione per delinquere ai delitti contro il patrimonio e l’amministrazione finanziaria, truffa a danno di istituti bancari, falso, appropriazione indebita, false comunicazioni sociali, false fatturazioni, danno all’erario (per 3 milioni di euro). Inutile dire che sull’inchiesta aleggia il sospetto del riciclaggio. Sotto la lente di ingrandimento sono finite alcune operazioni immobiliari e ristrutturazioni che Di Pietro realizzava (quando non faceva finta di realizzare) in Umbria. Ecco quelle finite nel mirino: l’hotel Il Perugino a Ellera (nel 2009 fu la sede del Perugia Calcio di Leonardo Covarelli), le operazioni Ghinea, Villa Montemalbe (destinata a sede della Fondazione Italiani nel Mondo), Borgo San Giovanni, San Martino in Colle, Belvedere di Ripa e hotel Auronzo. Ristrutturazioni, compravendite  e costruzioni: il tutto per 20 milioni di euro arrivati nelle casse delle società di cui facevano parte Di Pietro & Co e di cui adesso si cerca di ricostruire tutti i passaggi. Stando all’inchiesta Il Perugino veniva usato come bene a garanzia per ottenere finanziamenti quattro volte superiori al reale valore dell’immobile. Le indagini hanno preso l’avvio dal commissariamento della Seas di Umbertide (l’azienda edile impegnata nella manutenzione stradale finita nell’inchiesta “Appaltopoli”), società che Ciro di Pietro tenta di scalare molto probabilmente grazie alle buone conoscenze che Tempobuono ha su Umbertide. L’obiettivo di Di Pietro era quello di farsi nominare d.g. di Seas, condizione necessaria affinche due suoi “amici” (non ancora identificati) finanziassero l’acquisto di quote societarie. L’inchiesta è destinata ad andare avanti e accertare eventuali connivenze fra l’imprenditore e la criminalità organizzata campana. Per la prima volta la polizia ha messo in atto il provvedimento di sequestro per equivalente: una volta stimata la truffa, l’autorità giudiziaria ha cercato tra i beni in possesso degli indagati per far fronte almeno al danno subito dallo Stato. Sotto i sigilli sono così finiti 2 appartamenti di proprietà degli indagati e quote societarie per un valore di 3 milioni di euro. Ai 20 milioni di euro, inclusi i 3 mln di evasione fiscale, la “cricca” Di Pietro è arrivata mettendo insieme tutta una serie di operazioni che hanno visto particolarmente colpita la Banca delle Marche, dove appunto ci sarebbe stata la complicità di Mugnoz, Medioleasing e Unicredit. Nel dettaglio: Banca Marche 10,3 milioni di € (3,5 mln per ristrutturare Borgo Baglioni a Collestrada; 1,5 mln per l’acquisto e la ristrutturazione di una villa a Montemalbe; 2,7 mln per l’acquisto di alcuni immobili a Corciano, 2,6 mln per un immobile a Ripa); Medioleasing Spa 5,1 mln per la ristrutturazione de Il Perugino. Banca Unicredit ha anticipato fatture per 1,5 mln di euro, così come il BCC Napoli (250mila), Bps (150mila) e Banca Popolare Ancona (50mila). Una curiosità: Banca delle Marche ha finanziato anche l’acquisto di un elicottero per 200mila euro, che Di Pietro non ha mai acquistato. Al vaglio degli inquirenti ci sarebbero anche i rapporti intercorsi tra Di Pietro e ambienti politici campani, umbri e romani. Le intercettazioni telefoniche avrebbero messo in luce diversi nomi eccellenti. Solo il prosieguo dell’inchiesta consentirà di comprendere eventuali altre collusioni. Per il resto se Di Pietro sperava di farla franca ha trovato sulla sua strada il pm Manuela Comodi. “Cath me, if you can” era il titolo del film interpretato da Di Caprio: la procura di Perugia c’è riuscita.

In Italia per diventare professionista bisogna abilitarsi. Attenzione, non dimostrare di essere capace, ma mostrare di essere uguale agli altri. Devi essere omologato e non rompere il cazzo alla categoria ed al sistema di potere. E così è. Queste le notizie apparse sul web.

“Truffa delle case. Centinaia di Perugini raggirati. L’Operazione Catch me ha portato all’arresto di otto persone ed alla scoperta di un’appropriazione indebita di 20 milioni di euro”, scriveva Umberto Maiorca su “Il Giornale dell’Umbria” del 10 novembre 2012.

“Perugia, un inganno da 17 milioni. E Di Pietro vuole tornare libero, scriveva Egle Priolo su “Il Messaggero” del 20 novembre 2012.

Poi c'è anche la diatriba sulle comparsate in tv. Hotel Auronzo: «Colpo alla malavita». I carabinieri di Belluno spiegano la loro tranche di inchiesta sul caso Di Pietro. Ma è “gelo” con la procura. Non è finita l’indagine attorno all’hotel Auronzo, del quale sono state sequestrate le quote di proprietà: altri indagati sono nell’aria, benchè non venga precisato il numero da parte dei carabinieri di Belluno, scrive Cristina Contento l’11 novembre 2012 su “Il Corriere delle Alpi”. Otto arresti su ordine di custodia del gip di Perugia, ma anche una serie di indagati sui quali si stanno ancora effettuando accertamenti. Intrecci con la politica tutti da scoperchiare: non è indagato il senatore Sergio De Gregorio, ospite affezionato dell’hotel Auronzo, che partecipò anche all’inaugurazione del 31 gennaio 2010. Non è finita l’indagine attorno all’hotel Auronzo, del quale sono state sequestrate le quote di proprietà: altri indagati sono nell’aria, benchè non venga precisato il numero da parte dei carabinieri di Belluno. Ieri la conferenza stampa dell’Arma che avoca alla Compagnia di Belluno una prima tranche di inchiesta: quella relativa al patrimonio, condotta da nucleo investigativo e nucleo informativo del reparto. Tranche poi confluita nel fascicolo perugino già aperto. Il comandante provinciale Ettore Boccassini e il colonnello Brighi, comandante del reparto operativo, hanno spiegato il filone di inchiesta seguito dal Reparto carabinieri Belluno, culminato con il «Fascicolo portato da me personalmente con i ragazzi del reparto, alla procura di Perugia, dopo che il procuratore Labozzetta decise di trasmettere nel capoluogo umbro anche la parte di indagini seguita con il pubblico ministero Simone Marcon». Procura che, però, prende le distanze dalla conferenza stampa dei carabinieri: «Non è stata autorizzata dalla procura». Sembra calato il “gelo” tra organi inquirenti e istituzionali in merito alla vicenda, alla luce di queste parole: «Il contributo dei carabinieri è stato marginale rispetto alla complessità dell’indagine e all’attività svolta dalla Mobile di Perugia» spiegano ancora dalla procura di Belluno. «Motivo per cui non è stata affidato loro alcun tipo di misura di prevenzione o sequestro». Tant’è, i carabinieri ieri hanno spiegato la loro parte di indagine, che ha riguardato soprattutto la questione patrimoniale e l’accertamento dei sospetti, grazie anche alla “perizia” che hanno chiesto direttamente alla Banca d’Italia per i movimenti sospetti e i continui finanziamenti che venivano chiesti da Di Pietro. A Perugia già da tempo Ciro Di Pietro era “seguito” dalla locale squadra mobile, visto che il 55enne napoletano era stato accusato di analoghi reati qualche anno prima. In loco, prima di arrivare in provincia. Anche la squadra mobile bellunese, guidata dal vice questore Mauro Carisdeo, stava facendo accertamenti e indagini dopo le segnalazioni. Obiettivo dei carabinieri, come spiega il colonnello Brighi, «era l’aggressione del patrimonio da parte della criminalità: come avvenuto per Calatafimi e per altri reati. Qui abbiamo un soggetto pregiudicato arrivato nel 2009, estraneo alla provincia e al giro di affari locale, che acquisisce un albergo per 2,5 milioni di euro e ne presenta un ampliamento per 12 milioni». Doveva fare apart-hotel, Ciro Di Pietro, finito in carcere col figlio Amedeo di 32 anni, Nunzio Caprio di 49 anni e Sauro Tempobuono. Arresti domiciliari, invece, per Carlo Mugnoz di 61 anni, Leonardo Orsini Federici di 49 anni, Anna Di Pietro di 28 anni e Giuseppe Parnoffi di 44 anni, campani e umbri. Appartamenti e albergo, come va di moda, in Francia. Ma il Comune di Auronzo nicchia sull’investimento immobiliare, tanto è vero che, quando all’assessore Dorigo viene incendiata l’auto, si pensa a un avvertimento: «Ma così non è», spiegano i due colonnelli Boccassini e Brighi. «Quell’episodio non c’entra, c’è un altro indagato». «Ciro Di Pietro ha ottenuto il mutuo di 2,9 milioni, oltre la fidejussione dei due figli»: somme importanti e continui ricorsi al credito presso le banche, con un anomalo sistema di “anticipo fatture” e “l’ipotetica connivenza del personale bancario”, scrivono i carabinieri. Fatture che per i carabinieri sono false: il mutuo ha un piano di ammortamento di 15 anni per 60 rate trimestrali di cui saranno pagati solo 63 mila euro», continuano. Poi il balletto per ritardare i pagamenti, le fatture intestate a società di Perugia e la Banca d’Italia che segnala le operazioni sospette. La società fittizia di comodo è intestata a due prestanome, secondo i carabinieri, altri quattro nel tempo vedranno intestata la proprietà dell’hotel Auronzo. I carabinieri si accorgono di qualcosa che non va, perchè il reddito dichiarato dai quattro non permette un simile investimento. Avallano l’ipotesi investigativa i sospetti trasferimenti di denaro tra diversi conti correnti di società e persone che fanno capo alla famiglia di Di Pietro. Un Di Pietro che, quando «fu sentito da noi, si avvalse della facoltà di non rispondere». Malavita che tentava di organizzarsi in provincia. Ma non è finita qui.

Hotel Auronzo, sequestrata la società, continua Ma. Co. su “Il Corriere della Alpi”. In carcere con altri sette il proprietario Ciro Di Pietro. Pesanti accuse di associazione a delinquere, truffa, false fatture. Bufera sull’albergo Auronzo. L’imprenditore Ciro Di Pietro, napoletano con interessi in molte parti d’Italia tra cui Perugia e Auronzo, è finito in manette con pesanti accuse insieme con altri sette imprenditori, funzionari di istituti di credito, un architetto e un commercialista (quattro sono in carcere, quattro ai domiciliari). L’elenco delle accuse è lungo: a vario titolo le persone arrestate sono accusate di associazione a delinquere finalizzata alle truffe, alle frodi fiscali, appropriazione indebita, falso e false fatturazioni. Ciro Di Pietro, attraverso la società Hotel Auronzo srl, dal 2009 è proprietario dell’omonimo albergo, il più bello di Auronzo, sede del ritiro della Lazio da cinque anni. Ma i suoi ospiti, nei 140 anni di vita, sono stati grandi personaggi della politica, dello Stato, della cultura, della vita sociale italiana. L’indagine che ha portato in carcere a Perugia Di Pietro, è partita da Belluno ed è stata condotta per un anno dal Nucleo investigativo e dal Nucleo operativo del Comando provinciale dei carabinieri. Sono stati fatti molti accertamenti bancari e in questo hanno avuto un ruolo importante funzionari della Banca d’Italia. All’intera operazione, complessa e lunga, ha partecipato anche il Comando dei carabinieri di Cortina. L’indagine è partita alla fine del 2010, neanche un anno da quando Di Pietro è arrivato ad Auronzo, ed è stata coordinata dalla procura della repubblica di Belluno che ha trasferito poi il procedimento alla procura di Perugia che ieri ha dato il via ai provvedimenti. Oltre agli arresti sono stati sequestrati degli immobili in giro per l’Italia e dei conti correnti. Le vittime dell’intera operazione sono le banche, ai danni delle quali sono state emesse le false fatture che servivano per avere poi dei finanziamenti. Per quanto riguarda l’albergo Auronzo, non è stato posto sotto sequestro, ma è stato sequestrato il capitale sociale, di 100.000 euro. Di Pietro aveva speso una barca di soldi per acquistare e ristrutturare l’albergo Auronzo. Personaggio singolare, napoletano verace, aveva incantato molti auronzani con i suoi grandiosi progetti. Senza problemi aveva annunciato a più riprese il valore complessivo del suo investimento in valle d’Ansiei: 12 milioni di euro, disse, che dovevano servire in un paio di anni per dotare l’albergo di nuove suites, di appartamenti, della piscina. L’albergo a quattro stelle di Auronzo, unico in paese, rappresentava un ottimo biglietto da visita per i turisti che in questi anni (grazie alla presenza della Lazio ma non solo) hanno affollato il paese sulle rive del lago. L’arresto del titolare, il sequestro del capitale sociale, la chiusura dell’albergo sono una vera e propria botta, al termine tra l’altro di una stagione turistica estiva. tra le migliori degli ultimi anni e a poche settimane dalla partenza di quella invernale.

E Di Pietro vuole tornare libero, scriveva Egle Priolo su “Il Messaggero” del 20 novembre 2012. Truffe e frodi, restano in carcere gli imprenditori Ciro e Amedeo Di Pietro, il 28 novembre prossimo verranno interrogati dal pm Manuela Comodi, scrive di F.M. su “Umbria 24” del 22 novembre 2012. Restano in carcere l’imprenditore napoletano Ciro Di Pietro e il figlio Amedeo, arrestati dalla squadra mobile di Perugia nell’ambito di un’indagine che ha portato a gala l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata alle truffe. Revocati invece gli arresti domiciliari per la figlia Anna. E’ quanto ha deciso il tribunale del riesame di Perugia dopo l’udienza di martedì mattina in cui Di Pietro, tramite i suoi legali, ha chiesto i tornare libero. Alla richiesta era arrivata l’opposizione del pubblico ministero titolare dell’indagine Manuela Comodi, che il 28 novembre prossimo, interrogherà Ciro e Amedeo Di Pietro nel carcere di Poggioreale. I due indagati principali secondo l’accusa avrebbero intascato 20 milioni di euro truffando istituti bancari chiedendo prestiti per operazioni immobiliari inesistenti. La misura cautelare era già stata revocata nei giorni scorsi per  i direttori di banca Carlo Mugnoz  e Giuseppe Parnoffi  e l’architetto perugino Leonardo Orsini Federici. Resta da definire la posizione del commercialista napoletano Nunzio Caprio.

Crac banca Marche: Tutte le denunce a scoppio ritardato, scrivono invece Sandra Amurri e Giorgio Meletti su "Il Fatto Quotidiano del 13 novembre 2013. Massimo Bianconi, direttore generale di Banca Marche dal 2004 al 2012, “figli di” ne ha assunti parecchi. Fabio Capanna è figlio di Agostino, generale dei Carabinieri e poi vicepresidente della Protezione civile regionale; Francesca Luzi è figlia di Vincenzo, procuratore capo di Ancona prima e di Camerino poi; Marco D’Aprile è figlio di Mario Vincenzo D’Aprile, presidente del Tribunale di Ancona; Serena Orrei è figlia di Paolo, ex prefetto di Ancona; Luca Di Matteo è figlio di Antonio, ex direttore della Cassa di Risparmio di Teramo (Tercas) oggi commissariata. Dettagli, nella storia di una banca messa in ginocchio dai crediti facili alle aziende amiche (mentre chiudeva i rubinetti alle piccole imprese). Servono però alla trepidazione con cui le Marche che contano, dal presidente della Regione Gian Mario Spacca al decano degli imprenditori Francesco Merloni, si sono occupate della banca oggi commissariata.

RAINER MASERA è stato a suo modo vittima di tanta sollecitudine. Il banchiere di lungo corso è stato chiamato lo scorso aprile a Jesi come salvatore della patria. Il presidente Lauro Costa e il vicepresidente Michele Ambrosini si erano appena dimessi. I grandi azionisti, le fondazioni bancarie di Pesaro, Jesi e Macerata, vedevano che le perdite stavano ormai mangiando il capitale. Già a febbraio il presidente della fondazione di Macerata, Franco Gazzani, il primo a denunciare lo sconquasso, aveva scritto in una email riservata a un consigliere della banca: “Quello che ti posso dire, ma lo dico a te che sei persona intelligente, è che siamo a un passo dal commissariamento”. Le fondazioni di Pesaro e Jesi chiedono a Masera di assumere la presidenza della banca. L’ex numero uno dell’Imi ed ex ministro del Bilancio prende tempo. È a quel punto che Francesco Merloni, 87 anni, ex ministro dei Lavori pubblici, lo porta dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Negli austeri saloni di palazzo Koch, Merloni parla di una cordata di imprenditori pronta a investire subito 200 milioni di euro. Si mormorano i nomi di Adolfo Guzzini, Gennaro Pieralisi, dello stesso Merloni e anche di Diego Della Valle. Masera si lascia convincere, ma ben presto scoprirà che le condizioni della banca sono peggiori di quanto pensava e che gli imprenditori marchigiani, nonostante l’appello accorato di Spacca, non cacciano un euro. A fine agosto, subìta l’onta del commissariamento, Masera si dimette, confidando agli amici tutta l’amarezza di chi si è sentito tradito. Nel frattempo ispettori della Banca d’Italia, ispettori interni mobilitati dal direttore generale Luciano Goffi, che dall’estate 2012 ha preso il posto di Bianconi, e magistrati di Ancona passano al setaccio le carte della banca. È Goffi a mandare i primi due esposti alla Procura della Repubblica di Ancona, il 28 febbraio e l’8 marzo 2013. Quando il direttore tira una linea emerge che i crediti “deteriorati” ammontano a 4,7 miliardi, un quarto dell’erogato totale della banca. Basta scorrere qualche storia esemplare per capire come si è potuti arrivare a tale scempio.

CIRO DI PIETRO, costruttore napoletano, viene arrestato a Perugia il 9 novembre 2012 assieme ad altre persone, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata principalmente alla truffa ai danni di Banca Marche. Di Pietro avrebbe ottenuto crediti per 19,8 milioni di euro con l’aiuto di perizie addomesticate sugli immobili. Con lui viene arrestato il direttore della filiale di Perugia di Banca Marche, Carlo Mugnoz. Quattro giorni dopo Goffi cancella dall’albo interno dei periti estimatori l’ingegnere anconetano Giuseppe Lucarini, a cui è addebitata una perizia di favore su immobili della Cellulis, società di Di Pietro. Ma arrivano due colpi di scena. Mugnoz viene quasi subito rimesso in libertà dopo aver convinto il gip di Perugia della sua tesi difensiva: Di Pietro parlava direttamente con il direttore generale Bianconi. Intanto Lucarini scrive una accorata lettera a Goffi, in cui fa capire che i periti subivano pressioni dal vertice della Banca per aggiustare le valutazioni. Scrive Lucarini: “L’imprenditore di Cellulis è un bandito? E mica l’ho scelto io; Banca Marche sapeva già che era stato inserito nelle indagini per riciclaggio già prima di fare le indagini in questione”.

CANIO MAZZARO, imprenditore potentino di 54 anni, ha chiesto il primo finanziamento a Banca Marche il 26 agosto 2004: 2 milioni di euro per la Pierrel Farmaceutici, che allora controllava. La linea di credito è stata deliberata nel giro di 24 ore dal direttore generale Bianconi. Oggi il gruppo Mazzaro è esposto con l’istituto di Jesi per 19,4 milioni, di cui 18,8 già in sofferenza. Scrivono gli ispettori interni: “La motivazione delle richieste dell’appoggio di Banca Marche è stata quasi esclusivamente di natura finanziaria (aumenti di capitale e/o acquisizione di quote di maggioranza) ma in effetti le linee di credito sono state utilizzate per sopperire alla mancanza di liquidità delle società del gruppo”. Mazzaro, di fatto uscito dalla Pierrel, oggi controlla Bioera, società quotata nata dalle ceneri del gruppo Burani. Lui è amministratore delegato, la sua ex compagna e madre di suo figlio, Daniela Garnero Santanchè, è presidente. Ma fino all’anno scorso, Mazzaro era presidente e amministratore delegato era Luca Bianconi, figlio di Massimo. Scrivono gli ispettori della banca con qualche ironia: “Per quanto emerso dall’analisi delle singole proposte di fido e dalla documentazione acquisita, è plausibile che l’ex direttore generale Massimo Bianconi e l’ing. Canio Mazzaro si conoscessero”. Gli ispettori si sono occupati anche dell’immobiliare Bologna Uno, che fa capo all’imprenditore Stefano Mattioli. L’esposizione di 25 milioni circa presenta alcune criticità, tra le quali colpisce il fatto che azionista della società, con il 10 per cento, è l’Immobiliare Uffreducci, “riconducibile all’ingegner Fabio Tombari”. Tombari altri non è che il presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, azionista di Banca Marche.

PIETRO LANARI è uno dei maggiori costruttori marchigiani. La sua esposizione con Banca Marche è di 236 milioni e, secondo gli ispettori Bankitalia, è uno dei clienti messi peggio, insieme ai gruppi Casale, Ciccolella, Minardi- Polo Holding e Foresi, in quanto “i tentativi di ristrutturazione non hanno dato esiti positivi”. Ma il costruttore non ci sta. Sostiene di aver ottenuto il finanziamento per importanti operazioni immobiliari nella regione, in particolare nelle aree turistiche di Numana, Senigallia e Potenza Picena, ma che “poco dopo l’inizio dei lavori la dirigenza di Banca delle Marche è stata sostituita e la nuova ha ritenuto di revocare ogni linea di credito ritenendo che i valori degli immobili fossero prossimi allo zero”. Lanari va oltre e avverte: “Non intendo essere mescolato con sporchi giochi di potere, vicende e vendette personali”.

VITTORIO CASALE, indebitato oggi per circa 60 milioni con Banca Marche, racconta di aver conosciuto Bianconi attraverso il comune amico Leonardo Ceoldo. Un giorno, racconta l’immo – biliarista, Bianconi lo invita nella sede di Banca Marche a Jesi, dove viene ricevuto dal presidente del collegio sindacale, Piero Valentini, e dal vicedirettore generale, Stefano Vallesi, che gli chiedono di salvare l’imprenditore calzaturiero marchigiano Giovanni Marocchi (esposto con la banca per 26 milioni) rilevando le sue quote nel resort Capo Caccia di Alghero. Bianconi chiede a Casale anche di nominare nel collegio sindacale una delle sue società Ludovico Valentini, figlio di Piero, il presidente del collegio sindacale di Banca Marche che gli aveva chiesto il “favore”. Poco dopo, nel 2011, Casale viene arrestato per la bancarotta della sua società Operae, e mentre è agli arresti fallisce anche Marocchi, cosicché l’espo – sizione dell’immobiliarista sale dai 20 milioni iniziali a 40, dopo aver assorbito quella di Marocchi. Appena uscito dal carcere viene nuovamente arrestato per la vicenda dell’albergo Capo Caccia, con l’accusa di essere il regista della bancarotta di Marocchi. “Bianconi, Valentini e Vallesi mi hanno fatto un bel pacco. Nessuno di loro si è più fatto sentire”, protesta oggi Casale, che si di ce pronto a dimostrare le sue accuse in tribunale, mentre l’esposizione di Banca Marche è lievitata a 60 milioni. Possibile che Bianconi abbia fatto tutto da solo? La storia di questo brillante banchiere che arriva a Jesi nel 2004 per dare slancio a una piccola banca regionale, è intessuta di amicizie importanti, in un ambiente politico-affaristico ad alto coefficiente massonico. Casale racconta di avergli chiesto chi lo avesse sponsorizzato, e di aver ottenuto in risposta un significativo elenco di grossi nomi del potere finanziario regionale e nazionale. Certo è che, mentre dà impulso agli affari della Banca Marche, Bianconi non trascura quelli di famiglia. Nel 2006 sua moglie, Anna Rita Mattia, sale agli onori della cronaca per l’acquisto in leasing di un immobile a Treviso che il giorno didopo viene affittato per 12 anni a Banca Popolare di Bari. Passa un anno e l’Espress o rivela la commistione di interessi con Danilo Coppola e Stefano Ricucci, quest’ultimo finanziato abbondantemente da Bianconi quando era in Bna, poi in Banca Agricola Mantovana e in Cariverona. Le oligarchie locali plaudono alla sua intraprendenza e non battono ciglio di fronte a stipendi d’oro e benefit da nababbo: accresce la clientela tra i costruttori, proprio mentre esplode la bolla immobiliare, promuove due aumenti di capitale, vende gli immobili della banca al Fondo Conero prendendoli in affitto con canoni pari al 7,5 per cento del valore. Nel giro di quattro anni affluiscono nel patrimonio della banca circa 600 milioni di euro. Ma i crediti in sofferenza stanno crescendo molto più rapidamente. BIANCONI fa una fine degna della sua forza passata. Per accompagnarlo alla porta la Banca d’Italia ha dovuto attendere la più classica delle bucce di banana. Durante un’ispezione alla Tercas gli uomini di Visco scoprono che il 7 maggio 2009 Bianconi manda un funzionario a cambiare un assegno circolare di Banca Marche da 160 mila euro con 32 assegni di 5 mila euro cadauno, poi versati sul conto personale del direttore generale. Questo tentativo di sfuggire alla tracciabilità viene giudicato da Bankitalia non coerente “con la deontologia professionale che deve connotare l’operato dell’alta dirigenza di una banca”. Così il 12 giugno 2012 il capo della vigilanza Luigi Signorini chiede a Banca Marche il siluramento di Bianconi. Il presidente Lauro Costa risponde che Bianconi faceva sempre così, perché amava una certa qual “riservatezza relativamente a una parte degli emolumenti percepiti”. Dopo Bianconi (coperto d’oro) anche Costa è stato accompagnato all’uscita. Adesso tocca alla magistratura capire com’è che ci sono voluti tanti anni per accorgersi dello scempio.

Ma chi è Ciro Di Pietro? Che sia vittima di un complotto?

«Poche parole e tanti fatti». Si legge su Forza Pergo. Si è presentato così, Sergio Briganti, nuovo presidente del Pergocrema (a sinistra nella foto mentre stringe la mano a Manolo Bucci, che gli ha ceduto la società gialloblù). E in effetti, di parole, nella conferenza stampa, ne ha fatte poche, nel senso che ha aggiunto poche informazioni a quelle già circolate in via non ufficiale nei giorni scorsi. «Insieme a me ci sono altri quattro soci — ha affermato il 42enne di Terracina, titolare di una società che si occupa di marketing — I loro nomi? Non sono importanti». Uno di questi è Ciro Di Pietro, imprenditore alberghiero, titolare dell’hotel di Auronzo dove va in ritiro la Lazio e dove andrà il Pergocrema. Presente in sala stampa, Di Pietro non ha però parlato. Anticipando quelle che sarebbero state domande inevitabili, Briganti ha poi precisato i ruoli di Claudio Lotito, presidente della Lazio, e di Ermanno Pieroni, ex presidente dell’Ancona, i cui nomi erano stati affiancati nei giorni scorsi al Pergocrema. «Con Lotito esiste un rapporto di lavoro, di amicizia e di rispetto; è una persona che sa fare calcio tenendo i conti a posto. Con Pieroni ho lavorato due anni ad Ancona e a Taranto; è un uomo capace, conosce bene i giocatori e ce ne proporrà, così come ce ne propongono tanti altri operatori di mercato». Presentato dall’addetto stampa Barbara Locatelli, Briganti, che dopo la conferenza ha salutato i tifosi e incontrato le istituzioni, ha poi illustrato il suo progetto. «La nostra è stata una trattativa limpida e trasparente. Abbiamo trovato una correttezza nella gestione che in altre società non avevamo visto. Abbiamo trattato altri club, scoprendo una marea di debiti. Il Pergocrema è pulito e questo ci permetterà di investire. Con il mio gruppo, che è solido, ho deciso di intraprendere questa avventura in una città dove si può lavorare senza pressioni, per proseguire il lavoro iniziato da Manolo Bucci. La nostra sarà un’azienda che fa calcio, sul modello della Lazio. Entro domani presenteremo tutto l’organigramma. Non avremo un direttore generale, perchè siamo tutta gente di calcio. Io sarò a Crema cinque giorni alla settimana e mi avvarrò della collaborazione delle persone cremasche che già hanno collaborato con Bucci. Allestiremo una squadra all’altezza della situazione. Non vendiamo fumo e non siamo qui per perdere tempo». (4 agosto 2011)

Nominato il curatore fallimentare. Ciro Di Pietro, l'imprenditore campano: "C'erano i soldi per fare tutto". E promette battaglia, scrive Francesco Galante su “Inviato Speciale”. Il Pergo e i suoi quasi 80 anni di storia sembrano agli sgoccioli. E' di oggi la notizia che il tribunale ha nominato ufficialmente Claudio Boschiroli quale curatore fallimentare della società. Ma Ciro Di Pietro, il capo della cordata campana che vorrebbe salvare il Pergocrema, è pronto a giocare il jolly opponendosi al pronunciamento. A comunicarlo è stato lo stesso imprenditore che, raggiunto telefonicamente, si è limitato a poche lapidarie parole: “Personalmente non ho ancora ricevuto nessuna comunicazione in tal senso. Ma se questa è la decisione del tribunale di Crema, noi presenteremo opposizione”. “Nelle prossime ore prenderemo contatti con i nostri legali” prosegue Di Pietro, “affiancandoli con docenti universitari che già in passato hanno dato il loro appoggio a società di calcio invischiate in procedure fallimentari, e vedremo il da farsi”. Tra questi anche Sergio La Rotonda, indicato come presidente del Pergocrema. La strategia però sembra delineata: “Dimestreremo al tribunale che non esiste uno stato di insolvenza del Pergocrema, ma solo una momentanea illiquidità. Possiamo dimostrare di avere 350mila euro di titoli certi. E in totale, tra contratti di sponsor che non hanno onorato i loro impegni con la società, più la valorizzazione dei giocatori attualmente in rosa, arriveremmo a circa un milione di euro”. In sostanza, secondo Di Pietro, c'era il denaro per pagare gli stipendi arretrati e presentare la fideiussione per iscriversi alla Lega Pro. Ora però il tempo stringe, perché entro il 25 giugno almeno le pendenze con i tesserati andranno saldate. “Salvatore Cappelleri, Il presidente del tribunale è stato una persona eccezionale” aggiunge Di Pietro, “è la scorsa settimana ci ha consentito di accelerare un percorso che altrimenti sarebbe durato mesi. Sono certo che un paio di giorni ancora basteranno per risolvere la situazione e dimostrare che il Pergo è una società che può andare avanti. Se così non fosse, sarebbe la prima società a fallire con i soldi”.

Eppure la situazione è alle soglie del drammatico. In città danno i gialloblu per spacciati.

“Eppure non abbiamo trovato nessun cremasco disponibile ad affiancarci in questi giorni. Briganti invece di soldi ne ha messi, e anche tanti”.

Di chi è la colpa?

“Se dovesse andare male, il curatore fallimentare andrebbe a risalire fino a due anni indietro la situazione attuale. Quindi oltre Briganti, anche Bucci e Bergamelli saranno chiamati a spiegare cosa è successo. E lo stesso dicasi per gli sponsor che non hanno rispettato i contratti: dovranno spiegare perché”.

Di Pietro giura battaglia, e assicura: “Giovedì avremo in mano le carte per dimostrare che il Pergo non può e non deve fallire”.

Fallimento del Pergo, Di Pietro non molla: “Chi l’ha voluto?” , scrive “Crema Oggi”. “Il Tribunale si è riservato di decidere sull’istanza di fallimento”: queste le prime parole dell’avvocato Oreste De Donno appena uscito dall’aula dove si è tenuta l’udienza, per decidere sulle sorti future del sodalizio gialloblù. A questo punto, il destino sembra segnato e nei prossimi giorni si saprà, se è calato il sipario sul calcio professionistico a Crema. Ciro Di Pietro, accompagnato da Ernesto Rimonti, arrivano in Tribunale poco dopo le 11, per prendere parte all’udienza avente ad oggetto l’istanza di fallimento, presentata nelle scorse settimane,da due creditori del club gialloblù. Udienza prevista per le 11,30, ma durata pochi minuti, con l’avvocato Oreste De Donno, che all’uscita dice: “Il Tribunale si è riservato di decidere sul fallimento”. Fine dei giochi? Forse, ma l’imprenditore napoletano, Ciro Di Pietro che rappresenta il gruppo, che dovrebbe esprimere Ernesto Rimonti come nuove presidente del Pergocrema, non ci sta: “Non abbiamo nessuna intenzione di mollare. Si sta facendo fallire una società che vanta dei crediti. Nessuno si è fatto avanti”. L’imprenditore napoletano punta il dito sugli Istituti di Credito: “Con 350mila euro certi da incassare, non ci hanno voluto fare gli assegni circolari per 35 mila euro”, che sarebbero serviti per far fronte a parte delle richieste dei due creditori, che hanno presentato l’istanza di fallimento. Ma Di Pietro parla anche delle fatture, che devono saldare gli sponsor e non solo: “Briganti ha fatto più casino della grandine, ma a Crema non si è trovato nessuno che ha remato a favore del Pergo. Parecchie persone volevano sguazzare dentro, dalle banche agli sponsor. Bastava che un solo sponsor avesse pagato normalmente – aggiunge Di Pietro – e si poteva evitare il fallimento”. Quindi un pensiero rivolto ai due creditori: “Maosi e Nonsoloverde, che hanno attivato il procedimento, non prenderanno una lira, perché sono chirografari”. E poi, lascia il Tribunale con un interrogativo: “Di chi è la volontà di far fallire la squadra?”.

Caso Pergocrema, Macalli verso il deferimento? Il vicepresidente della Figc e n.1 storico della Lega Pro, Mario Macalli, rischia il deferimento in margine al caso Pergocrema. Il procuratore federale, Palazzi, ha chiuso l'indagine e passato le carte alla Superprocura del Coni come prevedono le nuove norme di giustizia sportiva volute dal Coni: ora Macalli potrà presentare le sue controdeduzioni, ed essere anche interrogato. La prossima settimana Palazzi deciderà se archiviare o deferire (più che probabile). Il caso Pergocrema si trascina ormai da molto tempo: questa estate la procura della Repubblica di Firenze aveva chiesto il suo rinvio a giudizio. Macalli secondo i magistrati avrebbe "provveduto a registrare a proprio nome i marchi Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932". In questo caso, il n.1 dell'ex Serie C, come stato scritto su Repubblica la scorsa estate da Marco Mensurati e Matteo Pinci, "intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando un danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi che se disponibili avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento". Macalli aveva sempre assicurato la sua totale estraneità ai fatti. "Chiarirò tutto". Pare sia arrivato il momento. Possibile inoltre il deferimento di Belloli, presidente del Comitato regionale lombardo e fra i candidati alla successione di Tavecchio alla presidenza della Lega Nazionale Dilettanti. Oltre a lui, resterebbero in corsa solo Tisci e Mambelli, mentre avrebbero fatto un passo indietro Repace e Dalpin. Mercoledì prossimo riunione con Tavecchio. Si vota l'11 novembre. Per finire, chiusa l'inchiesta di Palazzi anche su Claudio Lotito: interrogati quattro giornalisti, acquisito il video. Ora le carte sono in possesso di Lotito, che deve difendersi, e del generale Enrico Cataldi, superprocuratore Coni: presto Palazzi dovrebbe fare il deferimento per le parole volgari su Marotta.

La Commissione Disciplinare ha deliberato il 6 marzo 2013 in merito al fallimento dell’Us Pergocrema 1932 ed ha inibito gli ex presidenti Sergio Briganti per 40 mesi e Manolo Bucci per 12, l’ex amministratore delegato Fabrizio Talone per 6 mesi, l’ex vice presidente Michela Bondi per 3 e gli ex consiglieri del Cda Estevan Centofanti per 3, Luca Coculo e Gianluca Bucci entrambi per 6 mesi, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla base delle indagini effettuate dalla Procura Federale, la Disciplinare ha deciso di infliggere sanzioni ai personaggi di cui sopra accusandoli «di aver determinato (i due presidenti) e di aver contribuito (gli altri dirigenti) con il proprio comportamento la cattiva gestione della società, con particolare riferimento alle responsabilità del dissesto economico-patrimoniale».

A sbiadire ancor di più l’immagine di Briganti, però, ci pensa Striscia la Notizia. L’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti, è stato protagonista di un servizio in una delle ultime puntate di Striscia la Notizia, il tg satirico in onda su Canale 5, intitolato “Minacce, spintoni, schiaffi”, scrive “La Provincia di Crema”. Jimmy Ghione è stato avvicinato da una giovane donna che ha segnalato come, nel vicolo del pieno centro di Roma dove si trova il bar di Briganti, le auto non riescano a transitare in quanto la strada è occupata da un lato da sedie e tavolini del locale e dall’altro da motorini. In quel vicolo, il transito è consentito soltanto agli automezzi di servizio, ai taxi, ai motocicli e alle auto munite del contrassegno per i disabili. E proprio un disabile stava sull’auto guidata dalla donna, che si è trovata la strada bloccata. A quel punto, la signora ha chiesto a Briganti di spostare i tavolini, ma la risposta è stata «un vulcano, una cosa irripetibile», ha commentato la donna.

C’è da chiedersi: quanto importante sia il Briganti per Striscia, tanto da indurli ad occuparsi di lui e non delle malefatte commesse dai magistrati e dall’elite del calcio?

Macalli a inizio ottobre 2014 è stato anche deferito per violazione dell’art. 1 dalla Procura Figc (dopo un esposto di Massimo Londrosi, d.s. del Pavia) per aver registrato a suo nome nel 2011 quattro marchi riconducibili al club fallito, e per aver ceduto - dopo aver negato il bonifico che ha fatto fallire il club - quello «Us Pergolettese 1932» alla As Pizzighettone, che nel 2012-13 ha fatto la Seconda divisione con quella denominazione. Macalli patteggerà, scrive “Zona Juve”. Anche su internet non si trova conferma.

Mario Macalli, da 15 anni presidente della Lega Pro di calcio, sarebbe indagato per appropriazione indebita, in merito alla sua acquisizione del marchio del Pergocrema, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla scomparsa della società gialloblu (club dichiarato fallito dal tribunale cittadino il 20 giugno 2012), indagano le procure di Roma e Firenze che hanno ricevuto una denuncia da parte dell’ex presidente dei gialloblu Sergio Briganti, nei giorni scorsi inibito per 40 mesi dalla Federcalcio proprio per il fallimento del Pergo. E’ possibile che le due inchieste vengano riunificate. Macalli è stato vice presidente per alcuni anni della società gialloblu, vive a Ripalta Cremasca ed ha il suo studio in città. La storia dell’acquisizione del marchio venne scoperta e resa pubblica da un gruppo di tifosi che avrebbero voluto rilevare la società, percorrendo la strada dell’azionariato popolare. Con quattro registrazioni di marchi, Macalli ha reso impossibile il loro proposito.

Un altro terremoto scuote le malandate istituzioni del calcio italiano. La procura di Firenze, nel giorno della stesura dei gironi, ha chiesto il rinvio a giudizio per Mario Macalli, presidente della Lega Pro. L'accusa: abuso d'ufficio, scrive “La Provincia di Crema”. Oggetto dell'inchiesta penale condotta dal sostituto procuratore di Firenze, Luigi Bocciolini è la vicenda del fallimento del Pergocrema nell'estate 2012, nata dalla denuncia di Sergio Briganti, oggi difeso dagli avvocati Giulia De Cupis e Domenico Naso, e allora presidente del club lombardo. I dettagli dell'accusa per il manager sono pesantissimi: "In presenza di un interesse proprio, intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi, e che se disponibili avrebbero consentito alla società  sportiva di evitare il fallimento".

“Abuso d’ufficio”. E’ questa l’accusa, formulata dal procuratore della repubblica di Firenze, Luigi Bocciolini, che nei giorni scorsi ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio Mario Macalli, presidente della Lega Pro, scrive “Crema On Line”. L’oggetto dell’inchiesta, iniziata nel marzo 2013 riguarda la vicenda del fallimento del Pergocrema, avvenuta nel giugno 2012. L’indagine è partita dalla denuncia dell’ex presidente gialloblu Sergio Briganti. Dai verbali in possesso della polizia giudiziaria fiorentina nell’aprile 2012 l’avvocato Francesco Bonanni, responsabile dell’ufficio legale della Lega Pro, era incaricato di effettuare i conteggi relativi alla ripartizione della quota della suddivisione dei diritti televisivi della legge Melandri. La somma destinata al Pergocrema, allora iscritta al campionato di Prima Divisione Lega Pro, era pari a 312.118,54 euro lordi, al netto 245.488, 80 euro. In quel periodo la società cremasca gravava in una pesante situazione debitoria nei confronti di tecnici, atleti e fornitori. Il 3 maggio 2012 è stata presentata un'istanza da Francesco Macrì, legale dell’Assocalciatori, in rappresentanza di dieci tesserati del Pergocrema che vantavano 170 mila euro di debiti nei confronti del club gialloblu. Il tribunale di Crema ha autorizzato il sequestro cautelativo della somma in giacenza, comunicandolo alla Lega Pro. Il sequestro è stato attivato il giorno successivo. Il dato certo, secondo la ricostruzione degli inquirenti, è che il 27 aprile 2012 la Lega era pronta a versare la quota: Bonanni ha escluso di aver dato l'ordine a Guido Amico di Meane, al commercialista della Lega Pro, di bloccare il versamento alla società cremasca. L'unico che avrebbe dato disposizione di non effettuare il relativo bonifico agli uffici preposti sarebbe stato Macalli.

Eppure, nonostante l’impegno della Procura, il Gup di Firenze Fabio Frangini ha assolto Mario Macalli, presidente della Lega Pro, dall’accusa di abuso d’ufficio riguardo al caso del fallimento del Pergocrema. Secondo l'accusa Maccalli non avrebbe autorizzato il versamento alla società della quota dei diritti tv relativa alla stagione 2011-2012.  Non luogo a procedere, scrive “La Provincia di Crema”. Il presidente di Lega Pro e vicepresidente della Federcalcio, Mario Macalli, è stato prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio, nell’ambito della vicenda che portò nel giugno del 2012 al fallimento dell’Us Pergocrema 1932. La decisione è stata presa martedì mattina 21 ottobre dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Firenze, che non ha quindi accolto la richiesta di rinvio a giudizio depositata dal pubblico ministero Luigi Bocciolini il 30 luglio scorso. Il reato ipotizzato per Macalli era quello previsto e punito dall’articolo 323 del codice penale (l’abuso d’ufficio, appunto). Secondo il pubblico ministero, nella sua qualità di presidente della Lega Pro Macalli aveva intenzionalmente arrecato un ingiusto danno patrimoniale al Pergocrema, dando agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione a bloccare, senza giustificazione, il bonifico alla società di 256.488,80 euro alla stessa spettante quale quota per i diritti televisivi. A seguito di ciò, il 28 maggio 2012, due creditori chirografari depositarono istanza di fallimento del Pergocrema, presso il tribunale di Crema, fallimento che veniva dichiarato il 19 giugno. In sostanza, l’accusa puntava a dimostrare che, la società gialloblù fallì perchè non fu in grado di saldare il debito contratto di 113.000 euro con il ristorante Maosi e l’impresa di giardinaggio Non Solo Verde. Il fallimento sarebbe stato evitato se la Lega Pro avesse eseguito a fine aprile sul contro del Pergocrema, come venne fatto per tutti gli altri club, il bonifico dei contributi spettanti alla società stessa. Ma il Gup — come detto —non ha sposato la tesi. Al termine degli accertamenti, il Gup lo ha prosciolto con formula piena perché "il fatto non sussiste". I difensori del ragioniere cremasco, l’avvocato Nino D’Avirro di Firenze e Salvatore Catalano di Milano hanno evidenziato, tra l’altro, che Macalli non svolge la funzione di pubblico ufficiale e pertanto non si configura il reato di abuso d’ufficio, scrive “Crema On Line”. Quindi l’inghippo c’era, ma non è stato commesso da un pubblico ufficiale? E qui, da quanto dato sapere, il motivo del non luogo a procedere. Come mai questa svista dei pubblici ministeri? «Aspettiamo le motivazioni — ha affermato a caldo l’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti — e poi ricorreremo. La cosa non finisce qui».

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

CONDANNA DEFINITIVA REVOCATA? NON E' PIU' UN TABU'.

Se la legge è incostituzionale sentenza definitiva sempre revocabile. La Cassazione a sezioni unite contro la malagiustizia, scrive Dimitri Buffa su “Italia-24news”. Se la legge è dichiarata incostituzionale, e quindi sommamente ingiusta (come è capitato in toto alla Fini-Giovanardi sulle droghe), le sentenze definitive sono sempre soggette alla revoca. Una sentenza rivoluzionaria delle sezioni unite della Cassazione, controfirmata anche dal primo presidente Giorgio Santacroce, rappresenta un punto fermo per quella magistratura che opera bene e che ripara le ingiustizie della mala politica e  della mala giustizia. La notizia oggi  stava in prima pagina sul “Corriere della sera” (“Le condanne definitive non sono più un tabù”) e anche del “Sole 24 ore” (“Le sentenze non sono più intoccabili”), e dà la linea sul futuro delle giustizia italiana. Delineando anche una strada che aiuterà le riforme del governo Renzi. La legge in questione da cui è stato tratto questo nuovo principio giuridico universale è proprio la Fini Giovanardi che ha prodotto un disastro di condanne molto alte anche per possessori di quantità non modiche di droghe leggere assimilati nelle condanne ai pusher di droghe pesanti. In genere tutte le pene verranno ricalcolate su istanza dei difensori degli imputati adesso che questo tabù è infranto. Il giudicato d’ora in poi non sarà per sempre. Ma la cosa ha un valore anche per future leggi penali. O anche per quelle passate già dichiarate incostituzionali come la quasi totalità dei decreti sicurezza voluti da Maroni nel 2009 quando era ministro dell’interno, per non parlare di chi si è visto negare benefici grazie alla legge Cirielli anche essa falcidiata dalla Consulta. In pratica la Cassazione  ieri ha messo uno stop grande come un macigno a questa legislazione di emergenza fatta da politici demagoghi, populisti e forcaioli che sfruttano l’emotività popolare e le reazioni di fronte a delitti efferati cercando di fare approvare norme vendicative dal parlamento come è accaduto per tutta l’epoca del secondo e del terzo governo Berlusconi. Ma anche negli anni ’90 sotto la spinta della finta rivoluzione di “mani pulite”. Adesso il legislatore dovrà pensarci due volte prima di fare una legge penale che poi può venire dichiarata incostituzionale. E l’avvertimento va a chi vuole mettere norme come l’auto riciclaggio, l’omicidio stradale, depistaggio e i vari concorsi esterni in associazione mafiosa o il voto di scambio. Se una di queste norme dovesse in seguito venire giudicata incostituzionale sarebbero guai: infatti anche chi fosse stato condannato definitivamente potrebbe chiedere la revoca della sentenza o il ricalcolo della pena con la norma in vigore. O venire addirittura scarcerato. Una sentenza quindi che diventa una lezione di civiltà per i giustizialisti che si annidano in parlamento e nel partito delle procure: da oggi non ci sarà più solo il caso a decidere le sorti di chi incappa in pessime leggi o nella malagiustizia. Da oggi la Cassazione stabilisce un principio che difenderà tutti i cittadini da chi abusa delle norme per scopi inconfessabili di controllo sociale o peggio.

Una condanna definitiva? Può essere rivista. La Cassazione: va annullata d’ufficio se la pena è inflitta con una norma dichiarata incostituzionale, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Se un condannato sta scontando una pena definitiva inflitta in base a una norma successivamente dichiarata incostituzionale, la condanna dev’essere annullata o rivista; e se non ci sono altre ragioni per restare dentro il detenuto deve uscire di galera. Non serve nemmeno che sia lui a chiederlo: tocca al pubblico ministero procedere d’ufficio. Sulla base di questa decisione, presa dalla Sezioni unite della Corte di cassazione il 29 maggio scorso, centinaia di reclusi - forse migliaia, di certo una quota consistente dei quasi cinquemila totali - hanno già lasciato le prigioni negli ultimi quattro mesi. Ma ora che le motivazioni della sentenza ne spiegano meglio ragioni e conseguenze, è prevedibile che per altri ancora si apriranno le celle. Perché il massimo organo giurisdizionale chiarisce che l’ambito del verdetto non si ferma al singolo caso di nullità per il quale era stato proposto il ricorso; da quella vicenda (un problema di prevalenza della recidiva sulle attenuanti), si estende all’altra causa di incostituzionalità della legge antidroga Fini-Giovanardi sancita a inizio 2014, all’aggravante della clandestinità abolita nel 2010 e a ogni altra decisione passata e futura della Consulta che abrogasse una legge per la quale un condannato è detenuto. Per i giuristi era quasi un tabù: la cosiddetta «intangibilità del giudicato», irriformabile anche di fronte a una violazione della Costituzione. Già qualche sentenza lo aveva intaccato, e adesso le Sezioni unite lo hanno definitivamente abbattuto. Mentre una legge abrogata o riformata dal Parlamento conserva i suoi effetti pregressi, e quindi sulla base delle modifiche non si possono rivedere le sentenze definitive, «La norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall’ordinamento proprio perché affetta da una invalidità originaria». Ne consegue una «proiezione “retroattiva” sugli effetti ancora in corso», a causa della «definitiva uscita dall’ordinamento di una norma geneticamente nata morta, inidonea a fondare atti giuridicamente validi». Conseguenza finale e inevitabile: «Tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall’universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui ciò sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perché già compiuti e del tutto consumati». Gli «obblighi di disapplicazione» di una legge abrogata dalla Consulta riguardano tutti i giudici, anche quelli che controllano l’esecuzione della pena. E «non deve meravigliare» che il caso si sia posto solo di recente poiché - notano le Sezioni unite, con un implicita bacchettata al Parlamento - «è agevole costatare che i casi di dichiarata incostituzionalità di norme attinenti al solo trattamento punitivo sono diventati sempre più frequenti negli ultimi anni, in cui il legislatore ha approvato una serie di irragionevoli previsioni sanzionatorie su cui è dovuto intervenire il Giudice delle leggi». Troppe restrizioni per alcune categorie di reati o di condannati, insomma, non hanno resistito al vaglio della Corte costituzionale e adesso devono cessare di avere conseguenze. Con il prevedibile risultato di far diminuire ancora la popolazione carceraria (già passata da 58.800 detenuti a poco più di 54.000 fra maggio a settembre). Anche perché se prima serviva un buon avvocato che proponesse l’istanza, d’ora in avanti alla rideterminazioni della pena - e alle eventuali liberazioni - dovrà procedere il pubblico ministero «nell’ambito delle sue funzioni istituzionali di vigilanza sulla osservanza delle leggi».

Quanto detto sta ad evidenziare che la linea sottile dell'imponderabile leggerezza della sorte travalica la colpa dall'innocenza, quando meno te lo aspetti. Che ne tengano conto chi sparla a proposito delle pene e delle colpe da parte di chi sta a giudicare, ingiudicato, gli altri. 

L’ASINARA, PIANOSA ED IL FATTORE “M”.

Il Carcere dell’Asinara. Il carcere di Fornelli è stato la prima struttura carceraria costruita sull'isola. Altre ne sono state successivamente aperte ed alcune furono adibite a colonie penali agricole. Questo carcere è stato utilizzato durante gli Anni di piombo per la reclusione di membri delle Brigate Rosse. In quell'occasione furono attrezzate le celle di massima sicurezza. In seguito ad un tentativo di insurrezione, avvenuto il 2 ottobre del 1979, la sorveglianza a Fornelli fu notevolmente rafforzata. All'Asinara soggiornarono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che trascorsero un breve periodo sull'isola per motivi di sicurezza personale (i due giudici dovettero pagare allo Stato le spese tenute da loro stessi sull'isola per il loro soggiorno nella foresteria nuova di Cala d'Oliva). Molti detenuti mafiosi sottoposti al regime del carcere duro (secondo l'articolo 41-bis della legge del 26 luglio 1975, n. 354) sono stati reclusi in questo carcere nel periodo compreso tra il 2 settembre del 1992 sino al 1995. Tra i reclusi vi fu anche Totò Riina. A cavallo degli anni ottanta e novanta vi è stato recluso anche il capo della nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo. Per la fruizione dell'ora d'aria, nel carcere di Fornelli e nel bunker di Cala d'Oliva (dov'erano incarcerati Riina, Cutolo e Leoluca Bagarella) furono ricavati dei piccoli cortili per far sì che i detenuti non avessero contatti diretti tra loro. Il carcere dell'Asinara può considerarsi una sorta di seconda Alcatraz, in quanto anche qui solo un detenuto riuscì a fuggire (il primo settembre 1986) nei suoi 112 anni (contro 29 di Alcatraz) di attività: si tratta di Matteo Boe, bandito sequestratore sardo, il suo complice, Salvatore Duras, fu catturato mentre Boe riuscì a fuggire a bordo di un gommone. Questo fece dell'Asinara il carcere con il minor numero di evasioni al mondo. Il 5 novembre 2009 il Guardasigilli, Angelino Alfano, ha ipotizzato la riapertura del carcere dell'Asinara e di quello di Pianosa, penitenziari nei quali sono stati storicamente detenuti i boss mafiosi in regime di carcere duro.

Il carcere di Pianosa. Nel 1856 viene istituita dal Granducato di Toscana la colonia penale agricola di Pianosa e furono inviati sull'isola i condannati destinati ad occuparsi dei lavori nei campi. Il carcere rimase in attività durante l'epoca fascista e vi fu detenuto dal 1931 al 1935 anche il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini, incarcerato per motivi politici. Nel 1968 venne trasformato in penitenziario di massima sicurezza e la rimanente popolazione dell'isola venne evacuata. Nella struttura voluta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa vennero confinati inizialmente appartenenti a organizzazioni terroristiche e in seguito pericolosi esponenti delle mafie. Tra gli altri, vi vennero rinchiusi personaggi come Francis Turatello, Pasquale Barra e Renato Curcio. L'attività però venne a diminuire. Il 5 novembre 2009, l'allora ministro della giustizia del Berlusconi IV, Angelino Alfano, annunciò l'intenzione di riattivare pienamente il supercarcere, ma il giorno successivo, l'allora ministro dell'ambiente Stefania Prestigiacomo annunciò che, contrariamente alle dichiarazioni del collega, il carcere non sarebbe stato riaperto. Le attività dell'istituto sono cessate definitivamente nel 2011. Da quella data è terminato il divieto assoluto di sbarco che da un lato aveva impedito il turismo sull'isola, ma nel contempo aveva garantito il mantenersi intatto delle bellezze naturali. Rimane però una limitazione per i visitatori, che non possono superare il numero di 250 al giorno utilizzando il traghetto che effettua corse quotidiane partendo alle 10.00 da Marina di Campo sull'isola d'Elba e ritornandovi con partenza da Pianosa alle 17.00. Sull'isola possono trascorrere la notte alcuni turisti, poiché è stato ricavato un albergo di dieci camere dalla residenza del direttore della Colonia Penale realizzata nel XIX secolo. L'albergo è gestito da una cooperativa di volontari e da detenuti in regime di semilibertà del carcere di Porto Azzurro.

Perché chiusero Pianosa e l'Asinara? L'opposizione a grazia ed indulto accumuna delle forze politiche e culturali disparate. I detenuti andrebbero fatti lavorare obbligatoriamente, scrive Giorgio Ponziano su “Italia Oggi”. Quelli che dicono no all'indulto e all'amnistia. Sotto le bandiere di Matteo Renzi ma anche lontani dal sindaco di Firenze tanto che il fronte anti è assai variegato e va dai radicalchic di Micromega alla destra di Fratelli d'Italia, passando attraverso 5stelle e Lega. Il botto ovviamente l'ha fatto Renzi e subito i suoi aficionados si sono adeguati, come il sindaco di Bologna, Virginio Merola, uno dei tanti convertitosi al renzianesimo dopo una lunga professione bersaniana. «L'indulto e l'amnistia, come misure emergenziali - dice - non possono risolvere il problema delle nostre carceri, dove ai detenuti devono essere garantite misure detentive dignitose. Abbiamo il difetto di ricorrere sempre a questa logica dell'emergenza per cui non è la prima volta che si parla di amnistia e indulto, nel frattempo non è stata nè potenziata la situazione delle carceri nè migliorato il trattamento dei detenuti. Ogni 3-4 anni ridursi al fatto che l'unica possibilità è quella dell'amnistia e dell'indulto non è un bel vedere per il nostro Paese». Così i renziani, allineati. Ma da Napoli è un prete anticamorra a prendere posizione, nonostante Papa Francesco abbia più volte chiesto un atto di clemenza per i detenuti. «Non mi sento - dice don Aniello Manganiello, in prima fila nel cercare di dare ai giovani un futuro non camorristico - di sostenere la richiesta del presidente della Repubblica». Insieme al leader degli ecorottamatori Verdi, Francesco Emilio Borrelli, ha addirittura fondato un comitato contro l'indulto e l'amnistia. «Dall'indulto di Mastella», dice il sacerdote, «sono passati pochi anni e i penitenziari sono di nuovo strapieni dimostrando il totale fallimento di questo modus operandi. La verità è che bisognerebbe cambiare il regime carcerario obbligando i detenuti a lavorare per la collettività che hanno danneggiato. Ad esempio molti di quelli campani potrebbero partecipare alla bonifica della Terra dei Fuochi che in parte è stata avvelenata anche per colpa loro. Oppure potrebbero pulire le strade o servire alle mense dei poveri svolgendo dei servizi sociali. Come è successo dopo ogni indulto e amnistia oltre all'aumento di atti criminali si otterrà una sempre maggiore demotivazione delle forze dell'ordine a cui, evidentemente, i vertici istituzionali non stanno pensando adeguatamente. Senza contare il pessimo esempio per le vittime di atti delinquenziali e per l'intero Paese, col messaggio distorto che il crimine conviene e chi delinque alla fine la fa sempre franca». Una certa sorpresa è il no espresso dai radicalchic di Micromega, in dissenso con Sel, coi partiti della sinistra radicale e con la coppia Pannella-Bonino, tradizionali e principali interlocutori della rivista, sulla quale Andrea Camilleri, Roberta de Monticelli, Paolo Flores d'Arcais, Barbara Spinelli firmano un manifesto in cui sottolineano che «la condizione di vita nelle carceri è incivile e indegna di un Paese democratico». Però poi avvertono: «L'indulto e l'amnistia non risolvono il problema, come già dimostrato da precedenti anche recenti. Per fare uscire migliaia di detenuti basterebbe abrogare la legge Bossi-Fini e la legge Fini-Giovanardi». «L'indulto e l'amnistia che il presidente Napolitano chiede in toni ultimativi al Parlamento», continua l'appello sponsorizzato da Micromega, «non risolverebbe nessun problema strutturale e avrebbe come unici effetti più rilevanti quelli di fornire un salvacondotto tombale a Berlusconi, di delegittimare il lavoro della magistratura di contrasto al crimine, di umiliare le vittime e i loro parenti». Sul fronte della magistratura ad alzare la voce è Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria: «La cosa grave è che si mette nella testa della gente l'idea che alla fine tutto si aggiusta, che non esiste la certezza della pena, che in primo grado, in appello o addirittura dopo la sentenza definitiva qualcosa succede, perchè uno sconto ci sarà sempre per tutti. In Italia nel 2012 c'erano 112,6 detenuti per ogni 100 mila abitanti. La media europea è 127,7. Quindi noi siamo sotto la media: questo ci dice che il problema non è che sono troppi i detenuti, bensì che sono poche le carceri». Ma il procuratore affonda il suo j'accuse: «Cosa hanno fatto i politici per risolvere il problema delle carceri dopo l'ultimo indulto del 2006? Perché sono state chiuse le carceri di Pianosa e dell'Asinara dove potevano stare i detenuti del 41 bis? Perché in questi anni non sono stati fatti accordi bilaterali con Paesi come la Romania e la Tunisia per trasferire nella galere patrie i detenuti stranieri, che in Italia sono ben 20mila? Perché non lo fa domani mattina il ministro della Giustizia?». Infine Gratteri fa due esempi di malagestione del problema: in provincia di Cagliari c'è un carcere quasi finito, costruito appositamente per i 41-bis, mai utilizzato per mancanza di personale mentre in provincia di Nuoro un'intera sezione dedicata ai 41-bis è vuota. Gli fa eco, da Brescia, il sindacato della polizia di Stato, Ugl: «Tralasciando l'aspetto puramente politico della vicenda», è scritto in un documento ufficiale, «rimangono indelebili le sicure lacerazioni all'ormai devastato tessuto sociale e giuridico cui già si assistette nei precedenti indulti e amnistie che furono elargite con tanta benevolenza dai nostri parlamentari qualche anno fa. In realtà, con l'indulto del luglio 2006, uscirono circa 25mila condannati ma un anno dopo le carceri erano strapiene perché circa un terzo degli indultati sono tornati in carcere. Ancora una volta, un atto di umanità ai delinquenti si tradurrà in un peso sociale che dovrà essere assorbito e pagato dai già martoriati cittadini». Pure il Coisp, altro sindacato di polizia, fa sentire la sua voce di dissenso: «Già nel 2006», afferma Giuseppe Raimondi, del direttivo Coisp, «allorquando fu adottato il medesimo provvedimento di indulto, i fatti diedero ragione a chi come noi non era d'accordo, difatti dopo lo «svuotamento delle carceri» ci fu il successivo «riempimento delle stesse», ove in tantissimi casi, trovarono nuovamente alloggio le stesse persone che ne avevano beneficiato e che avevano commesso nuovi reati. Non possiamo permettere che il lavoro certosino fatto dagli uomini e le donne della polizia di Stato e delle altre forze di polizia vada al vento, troppo spesso si vedono in circolazione personaggi che con non poca fatica erano stati tratti in arresto». Nel cocktail politico troviamo (oltre a Matteo Renzi) Lega e 5stelle a fare da battistrada. Matteo Salvini, vicesegretario della Lega sostiene che «in un Paese civile, se le carceri sono sovraffollate, ne costruisci altre, non depenalizzi e apri le porte». Aggiunge Lorenzo Fontana, capodelegazione Leganord al parlamento europeo: «Qui si sta invertendo la logica dello Stato di diritto. Qualsiasi provvedimento di clemenza è inutile, come dimostra l'indulto del 2006, anch'esso firmato da Napolitano. Facciamo un indulto ogni tot anni per poi trovarci da punto a capo?». Non usa termini molto difformi Beppe Grillo, che dopo avere scomunicato i suoi parlamentari che si erano espressi a favore, se la prende col presidente della Repubblica: «Le lacrime napulitane versate per coloro che sono detenuti - ha scritto il leader 5 Stelle sul suo blog - sono sospette da parte di chi è parte fondante di questa classe politica. E il sospetto che l'appello avvenga per salvare Berlusconi e una miriade di colletti bianchi è lecito». Al coro si unisce Fratelli d'Italia. Secondo Barbara Benedetelli, responsabile dell'area tutela vittime della violenza di Fdi: «In Itali vi sono decine di carceri finite e inutilizzate, costate non poco ai contribuenti, e altre semivuote. In più ci sono caserme abbandonate che possono essere adibite a carcere senza spendere denaro per costruirle. Poi il 40 % dei detenuti sono stranieri: vadano a scontare la pena nel Paese d'origine, si riprendano gli accordi bilaterali in questo senso, avviati nel 2010 da Alfano. Guai a sbiadire il principio della certezza della pena». Sulla certezza della pena è intransigente anche una voce fuori dalle diatribe politiche, quella di Rosanna Zecchi, vedova di Primo, assassinato dalla banda della Uno bianca perché prendeva il numero di targa dell'auto in fuga dopo una rapina, coordinatrice dell'associazione che raggruppa i parenti delle vittime della banda che vent'anni fa insanguinò l'Emilia-Romagna e le Marche: «Ci sentiamo delle sentinelle - dice - vigiliamo affinchè le condanne processuali non vengano disattese nell'esecuzione della pena. Se arrivassero sconti sarebbe uno schiaffo inaccettabile dopo tutto quello che abbiamo sofferto».

In nome dell’emergenza stravolte le regole del processo, scrive Salvatore Scuto su “Il Garantista”. C’è un silenzio assordante che caratterizza il pur acceso e vociante dibattito sulla Giustizia di questo Paese. Del processo del doppio binario, infatti, non si discute e riflette da troppo tempo. Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che i processi di criminalità organizzata rappresentano un problema di rilievo nazionale per le questioni di principio e di civiltà giuridica che quotidianamente sollevano attesa la compressione delle garanzie difensive che li caratterizza. La storia del processo del doppio binario prende le mosse da un’emergenza drammatica quale fu quella delle stragi palermitane del 1992 e, da allora, è stata attraversata da mille nuove emergenze che ne hanno segnato il corso ed allargato il suo stesso perimetro. Non è un caso che tale sistema processuale speciale riguarda ormai tipologie di reato non direttamente connesse al fenomeno della criminalità organizzata mentre sono assai recenti gli appelli di un’alta carica istituzionale a che quel sistema sia esteso anche ai reati contro la pubblica amministrazione. Ha ragione Marc Augé quando ci ricorda che viviamo avviluppati in una sorta di matassa delle paure, dalla quale si dipanano mille rivoli di insicurezza. Un serbatoio inesauribile per redditizie opportunità mediatiche e propagandistiche, dal quale la politica continua ad attingere a piene mani e senza tanti scrupoli. Del resto i ripetuti manifesti programmatici imperniati sulla fermezza, la repressione e la tolleranza zero costituiscono un ottimo strumento di procacciamento di consensi e costituiscono l’anima della retorica della sicurezza. Sull’altare dei numerosi totem securitari i fenomeni distorsivi, che ne sono diretta conseguenza, hanno investito la tipologia del processo del doppio binario, oggetto di ripetute scorribande, l’ultima delle quali oggetto di uno degli interventi del Governo annunciati e decisi il 29 agosto di quest’anno ma non ancora pubblicati. Ma se l’emergenza criminalità organizzata è stato senz’altro il primo motore di tale fenomeno processuale, alcuni recenti dati statistici costituiscono il presupposto per un migliore approfondimento del fenomeno. Nel 2012 in Italia sono stati commessi 526 omicidi dolosi, con una percentuale pari ad 1 omicidio ogni 100.000 abitanti a fronte di un indice medio europeo che è pari ad 1.9, ovvero quasi il doppio. Se disaggreghiamo tale dato complessivo avremo che: 159 sono omicidi che vedono come vittime la donna; 175 sono omicidi consumati all’interno delle mura domestiche, 84 sono omicidi di matrice mafiosa ( mafia, ’ndrangheta, sacra corona unita). Nonostante tale inversione di tendenza rispetto al passato, che continua a caratterizzare anche i dati del 2013 e che dovrebbe consigliare di far rientrare il processo penale nei ranghi delle regole ordinarie, tutte quelle compressioni delle garanzie e dei diritti di difesa introdotte in ragione di un’emergenza che non c’è più continuano tuttavia a mortificare il processo del doppio binario, ponendo un vera e propria questione di civiltà giuridica. Il legislatore, infatti, continua a creare sottosistemi processuali a prerogative difensive affievolite in ragione della sicurezza, con una marcata tendenza – governata dall’emergenza di turno – ad espandere tali caratteristiche a settori della repressione penale un tempo immuni. Se ne ricava un’immagine di un doppio binario in via di espansione, composto da un coacervo di norme processuali che derogano pesantemente ai principi generali ed incidono restrittivamente sui diritti della difesa, finendo per condizionare in negativo l’accertamento dei fatti, le dinamiche della prova e le stesse regole di giudizio nei processi di criminalità. Prova ne siano, tra le tante, la deroga al principio di immutabilità del giudice, la circolazione delle prove con serie limitazioni del diritto di difesa, in particolare rispetto al diritto di interrogare l’accusatore nel corso del giudizio in chiaro contrasto con i principi stabiliti dalla Carta costituzionale e dalla Cedu. In questo contesto deve registrarsi con preoccupazione come la legge sui collaboratori di giustizia (legge n.45 del 2001) sia stata progressivamente svuotata per mano giurisprudenziale. Il rispetto del termine di 180 giorni per rendere le dichiarazioni e la conseguente sanzione di inutilizzabilità non costituiscono più un ostacolo per l’utilizzazione delle dichiarazioni effettuate fuori da quel termine almeno nella fase delle indagini preliminari, ai fini dell’emissione di misure cautelari personali e reali, nell’udienza preliminare e nel giudizio abbreviato. Si è così verificata la sostanziale vanificazione dell’intento di evitare le dichiarazioni a rate con il concreto rischio che il sapere del collaboratore si adegui alle attese degli inquirenti. Non rari i casi, in questo contesto, in cui il collaboratore esce dal servizio di protezione e ritratta, salvo poi tornare a rendere dichiarazioni accusatorie in sede processuale. Tali tematiche reclamano di essere riportare al centro del dibattito e della riflessione sulla Giustizia, senza alcuna demagogia ma con la determinazione che deriva dalla convinzione che il processo penale non può essere uno strumento di lotta ai vari fenomeni emergenziali né un metodo per cambiare la società. Il processo, al contrario, ha la funzione di proteggere i diritti dal potere e più sarà giusto più condivise ed efficaci saranno le conseguenze che derivano dall’ accertamento della responsabilità penale.

Quelli che siedono al tavolo con le carte truccate, scrive Francesco Petrelli su “Il Garantista”. Francesco Petrelli è il segretario dell’Unione Camere penali. Chi di voi ricorda la vecchia favola di Esopo della volpe che invitata a pranzo dalla cicogna, tutta contenta dell’invito, si vide servire le pietanze in un’anfora dal lungo collo adatta al sottile becco della cicogna ma nella quale la volpe non riuscì neppure a infilare il muso? Fuor di metafora, e andando alla morale della favola, a chi conviene sedere al tavolo delle riforme senza sapere chi sono gli interlocutori, chi è che davvero prepara le riforme ed in base a quali principi? Prima di sederci al tavolo delle riforme del processo penale si dovrebbe far chiarezza su alcune questioni fondamentali e (premesso che a quel tavolo ci piacerebbe sedere al più presto), vorremmo ad esempio capire chi ha interesse ad indebolire il Ministro Orlando che ci è sembrato sino ad ora un paziente tessitore che sa quanto difficile sia il dialogo con le componenti della giustizia, ma che sa anche come in questo momento sia necessario che la politica riaffermi il suo ruolo di “tecnica regia” capace di costruire nuovi rapporti e nuovi equilibri. Chi siede al tavolo della riforma della giustizia deve essere certo che le riforme in discussione siano il frutto di una solida visione del processo, incardinata sui valori condivisi dell’art. 111, della terzietà del giudice, del valore epistemologico del contraddittorio, del processo inteso come accertamento delle responsabilità personali e non come strumento di lotta ai fenomeni criminali, come strumento di garanzia del cittadino davanti all’autorità dello Stato. Ma la condizione perché i temi cruciali della giustizia siano affrontati e risolti e perché il sedersi al tavolo della giustizia sia utile per tutti, dipende proprio dalla trasparenza e dalla lealtà dei convenuti. Chi discute di riforme della giustizia deve essere garante della congruenza delle diverse iniziative di riforma e soprattutto della loro compatibilità con quell’insieme di valori condivisi ed imprescindibili. Non si può coltivare, come auspicato dall’avvocatura penale, il rafforzamento della tutela della funzione difensiva attraverso la riforma dell’art. 103, e coltivare a un tempo una complessiva “amministrativizzazione” del processo penale; prospettare la limitazione dei ricorsi dei pubblici ministeri in caso di doppia conforme (sentenze di primo e secondo grado uguali) e contraddittoriamente ipotizzare la soppressione o la limitazione dell’appello; da un lato affermare il valore del contraddittorio e dall’altro progettare la estensione dell’uso della videoconferenza e del “doppio binario”; da una parte ipotizzare l’interruzione dei termini di prescrizione in primo grado e dall’altra lasciare inalterata la discrezionalità assoluta del pubblico ministero nella iscrizione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale. La necessità di coerenza e di compatibilità della riforma con i valori costituzionali è un’esigenza del sistema che non può essere subordinata a spinte ideologiche o corporative. Ed è per questa ragione che quando sederemo al tavolo delle riforme, vorremmo confrontarci con i valori del “giusto processo”, con i principi del codice penale minimo, della ragionevole durata come garanzia dell’imputato, e non con l’ennesimo incubo partorito dall’ “inconscio inquisitorio” di una magistratura a corto di consenso popolare. A volte il sedere o non sedere a tavola dipende anche dalle stoviglie con le quali la tavola è stata apparecchiata.

Una storia semplice” cioè di cattiva giustizia, scrive Maurizio Bolognetti su “Il Garantista”. Le carceri «consistente e allarmate nucleo di nuova shoah», così Marco Pannella ebbe a definire le nostre patrie galere nel corso di un congresso di Radicali Italiani. Le carceri luogo di tortura senza torturatori, perché ad essere torturata è l’intera comunità penitenziaria, abbandonata da uno Stato incapace di rispettare la sua propria legalità. Nel corso della sua attività parlamentare, Rita Bernardini ha fotografato le condizioni di degrado del pianeta carcere in dettagliati e articolati atti di sindacato ispettivo. Una lunga teoria di interrogazioni che meriterebbe di essere letta, conosciuta e divulgata. Alcuni di questi atti sono il fedele resoconto delle visite che con regolarità abbiamo dedicato alla Casa circondariale di Potenza. Ed è proprio dalle due ultime ispezioni effettuate nel carcere di via Appia che prende corpo la storia che mi accingo a raccontare. L’interrogazione 4-14401 del 10 gennaio 2012 descrive la realtà di una struttura con numerose criticità, del resto denunciate dagli stessi sindacati di polizia penitenziaria. Leggiamo, infatti, nel corpo del documento che «al momento della visita – effettuata il 28 dicembre 2011 – erano presenti 170 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 110 posti essendo chiusa perché a rischio crollo la sezione penale». Non solo, nel testo si parla anche della cronica carenza di agenti di polizia penitenziaria, di una insufficiente assistenza psicologica e infermieristica e di carenze anche per ciò che concerne la presenza di educatori. Nell’atto di sindacato ispettivo si riferisce del coro unanime di lamentele per «il cattivo funzionamento della magistratura di sorveglianza» e si chiede, tra l’altro, al ministero «in che modo e in quali tempi, intenda intervenire per rimuovere lo stato di degrado di alcuni luoghi del penitenziario, degrado dovuto essenzialmente allo scarso budget previsto per la manutenzione ordinaria e straordinaria». Non mancano, e non potrebbe essere diversamente, domande sull’operato della magistratura di sorveglianza e una domanda che verrebbe da definire retorica nella quale la deputata radicale chiede «quali iniziative urgenti intenda adottare» il ministero per ricondurre «le condizioni di detenzione vigenti all’interno dell’istituto penitenziario di Potenza alla piena conformità al dettato costituzionale e normativo». Trascorrono 5 mesi e nel maggio del 2012 Bernardini mi comunica che finalmente il ministero ha risposto. Leggo la risposta e penso che per le disastrate carceri di questo Paese non ci sono soldi anche quando cadono letteralmente a pezzi. Testualmente il ministero afferma che «a causa della riduzione degli stanziamenti sui capitoli di spesa per l’edilizia penitenziaria non è stato possibile eseguire gli interventi di manutenzione relativi alla sistemazione della sala colloqui, del muro di cinta, dei reparti detentivi, al ripristino dell’integrità della copertura del fabbricato, degli impianti termici» e – udite, udite – dell’impianto antincendio!!! Insomma, con tanto di timbro governativo arriva la conferma della totale illegalità della struttura, che si sposa con l’illegalità certificata da tempo dalla Cedu e dalle denunce radicali sulle condizioni di detenzione. Inevitabilmente ripenso alle parole forti pronunciate nel luglio del 2011 dai direttori penitenziari del Si.Di.Pe, che esprimendosi a sostegno dell’iniziativa radicale volta ad ottenere un provvedimento di Amnistia, che è innanzitutto di Amnistia per la Repubblica, scrivevano: «Non ci pongono in condizione di svolgere il nostro lavoro con dignità, nell’effettivo rispetto delle leggi solennemente enunciate e quotidianamente violentate». Decido che nella risposta del ministero c’è materiale da sottoporre all’attenzione della Procura della Repubblica. E così, nel giugno del 2012, prendo carta e penna e invio un esposto-denuncia all’attenzione della dott.ssa Laura Triassi, procuratore capo in quel di Potenza. Alla denuncia allego la risposta data dal ministero all’interrogazione 4-14401, non mancando di sottolineare le notizie di reato che emergono dalla stessa. Un esposto in linea con quell’atto di significazione e diffida che Marco Pannela e Giuseppe Rossodivita hanno indirizzato il 18 settembre 2003 a tutti i procuratori della Repubblica, ai direttori delle case circondariali, a tutti i magistrati di Sorveglianza. Domenica 19 agosto 2012, ore 12.10. Dopo aver tenuto una conferenza stampa all’ingresso della casa circondariale di Potenza,  varchiamo il cancello ed entriamo nuovamente nel carcere. Ci viene co musicato che la capienza regolamentare dell’istituto è stata portata da 170 a 202 posti e la cosiddetta capienza tollerabile da 230 a 260. Sorrido per non piangere di fronte ad un evidente gioco da treccartari. Ci guardiamo attorno e nel complesso la struttura è migliorata rispetto all’ultima visita, ma di tutta evidenza permangono situazioni di illegalità sottoposte all’attenzione della Procura della Repubblica di Potenza. Nel corso della lunga visita, come sempre cella per cella, incontriamo O. G., un detenuto che ci racconta la sua storia e il suo disagio e che ci dice «tra 110 esco». Ecco, appuntatevi queste iniziali: O. G. Luglio 2014, i deputati radicali sono stati opportunamente fatti fuori dal Parlamento e alla porta della mia abitazione bussa l’ufficiale giudiziario. Dalla busta che mi viene consegnata, che non è quella di un gioco a premi, spunta un decreto di citazione. Leggo con non poca sorpresa che sono stato convocato dalla procura della Repubblica di Catanzaro in qualità di teste, per essere ascoltato in un procedimento penale contro tale O. G., accusato di violazione dell’art. 612 del codice penale. Tradotto: minacce. La situazione assume subito delle connotazioni kafkiane. Inizio ad interrogarmi e proprio non riesco a capire chi possa essere O. G. e dopo due notti insonni mi dico che non ho assistito a nessun episodio di minacce. La cosa che più mi inquieta, soprattutto pensando a come funziona la macchina della giustizia in Italia, è il fatto che nemmeno riesco a capire la convocazione da parte della procura di Catanzaro. Perché Catanzaro? Trascorrono tre mesi e finalmente, qualche giorno fa, ho capito, ho saputo, ho ricostruito a ritroso. O. G. era il detenuto che con Bernardini ho incontrato nel corso della visita del 19 agosto del 2012, o per meglio dire uno tra le centinaia di detenuti che ho incontrato nell’agosto 2012. Era quello disperato, che ci ha raccontato lo strazio di vivere lontano dalla famiglia e dai suoi 4 figli. Ho capito di essere stato convocato dalla procura di Catanzaro in qualità di collaboratore dell’onorevole Rita Bernardini. Con me, nella stessa veste, è stata convocata anche mia moglie. Che strano paese l’Italia! Un paese dove l’obbligatorietà dell’azione penale è un oggetto misterioso, un totem di fronte al quale alcuni si genuflettono e che noi radicali vorremmo abolire, scontrandoci regolarmente con chi ritiene che sia un tabù il solo parlarne, ammesso e non concesso che in questo paese si possa seriamente discutere di riforme della giustizia. Sì, proprio strano: per O. G. è immediatamente scattata l’obbligatorietà dell’azione penale, mentre della denuncia inviata alla procura di Potenza nel giugno 2012, ad oggi non ho notizia alcuna. Leonardo Sciascia in uno dei suoi racconti più riusciti, “Una storia semplice”, cita una frase di Durrenmatt, il suo scrittore preferito. E’ una frase che leggo spesso e che a conclusione di questa lunga esposizione voglio condividere con chi leggerà questo articolo: «Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia». Chissà, forse anche questa è una “Storia semplice” o forse è semplicemente una storia che racconta di un paese dove la legge, il diritto, i diritti, la Costituzione non hanno più corso e dove la Costituzione materiale ha sostituito da tempo la Costituzione reale.

Asinara, così Gratteri lo vuole riaprire, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. La proposta di Nicola Gratteri di riaprire il carcere dell’Asinara continua a far discutere, soprattutto nel momento di visibile difficoltà del ministro della giustizia Orlando. La “Commissione Gratteri”, istituita per volontà del premier Renzi, ha acquisito lo status di Struttura Generale della Presidenza del Consiglio e lo stesso Gratteri, si dice determinato a portare avanti il progetto e farlo approvare entro l’anno. In Sardegna, la vicenda ha sollevato un vero e proprio polverone. Per Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione sarda Socialismo Diritti Riforme: «Suscita viva preoccupazione la riapertura del carcere dell’Asinara per ospitare i detenuti in regime di 41bis proposta dal Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri incaricato dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, insieme agli altri Magistrati Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, di formulare un progetto di riforma del sistema penitenziario. Un nuovo programma assurdo che paradossalmente rischia di acquisire fondatezza proprio per il problema dei detenuti mafiosi destinati alla Sardegna». Inoltre, sottolinea Caligaris, «la volontà di far prevalere la forza sulla ragionevolezza e il buon senso rischia di travolgere e annullare un percorso di emancipazione in cui l’isola dell’Asinara è inserita da tempo. Sarebbe infatti inqualificabile se lo Stato, dopo aver ceduto alla regione l’area demaniale, destinasse i detenuti in regime di massima sicurezza a un’isola-parco di straordinaria bellezza paesaggistica e naturalistica e dove il turismo sta assumendo finalmente un ruolo importante». Secondo la presidente la Sardegna appare sempre più destinata a subire scelte dall’alto: «Speriamo che stavolta si tratti solo di un esercizio letterario senza conseguenze, anche se è meglio vigilare». Dagli anni settanta al 1998, anno della sua effettiva chiusura, il carcere dell’Asinara è stato un istituto di massima sicurezza, nel quale sono stati rinchiusi criminali affiliati alle organizzazioni politiche di estrema destra e estrema sinistra che in quegli anni agivano sul territorio italiano. Ma è stato anche luogo di detenzione per anarchici, come Passante e politici come Sandro Pertini. Prima di diventare un carcere di massima sicurezza, l’Asinara è stata una colonia penale e poi un penitenziario. Ma è durante gli anni 70 che il super carcere dell’Asinara acquista finalità ben diverse. A segnare la svolta anche il cambio di direzione che affida la guida dell’istituto a Luigi Cardullo, il quale lo dirigerà per otto anni con il pugno di ferro, guadagnandosi subito la fama di duro. Gli stessi agenti di custodia dell’Asinara l’avevano soprannominato “il viceré” e così Cardullo conquistò ben presto la fama di direttore carcerario più odiato d’Italia. Il suo comportamento attira l’attenzione dei giornali, ad esempio quando fa sparare, da alcuni agenti contro un turista svizzero che aveva oltrepassato il limite di 500 metri dalla costa imposto dalla capitaneria. Oppure quando nel 1976, il processo a carico di un detenuto del carcere di Alghero, che lo accusava di comportamento illegale, si trasforma in un processo ai metodi spicci del “viceré” Cardullo. In quell’occasione la difesa non solo riesce a far assolvere l’imputato dalle scuse di calunnie, ma riesce a concentrare l’attenzione dei media su quanto avveniva tra le mura del carcere. La realtà che emerge è quella di un sistema di reclusione dove regnano i pestaggi sui detenuti, oltre alle sevizie psicologiche. La censura della posta e l’isolamento appaiono come metodi normalmente utilizzati. Alle condizioni di vita sull’isola iniziarono a interessarsi diversi esponenti della politica italiana. L’onorevole dell’allora partito Comunista Vincenzo Balzamo, in un’interrogazione al Ministro di Grazia e Giustizia, chiese se i diritti umani dei detenuti, anche quelli accusati dei reati più gravi, rispettassero le norme costituzionali e i nuovi regolamenti carcerari. Richiesta avanzata nel tentativo per cercare di smentire la voce secondo cui alcuni detenuti, come Renato Curcio e Sante Notarnicola, erano trattati da “sepolti vivi”. L’anno dopo, cinque carcerati, tutti appartenenti all’estrema sinistra, guidarono una manifestazione pacifica contro l’installazione dei vetri divisori, cristalli spessi un dito che rendevano ancora più difficili i colloqui. La protesta venne repressa con pestaggi e violenze, e il giudice di sorveglianza, recatosi all’Asinara, ordinò l’immediato ricovero del detenuto anarchico Carlo Horst Fantazzini, il famoso ”ladro gentiluomo”, perché in gravi condizioni. Testimonianze del genere si moltiplicarono negli anni successivi. Il 31 marzo del 1981, sempre al super carcere dell’Asinara, avvenne uno delle più brutali violenze della storia carceraria. In una dichiarazione resa pubblica dai familiari, tenuti lontani dall’isola per 15 giorni, si informava che 70 detenuti della sezione speciale erano stati rinchiusi in isolamento dopo essere stati denudati e bastonati e i loro effetti personali distrutti. Ancora nel 1992, quando sull’onda della nuova emergenza antimafia il braccio di massima sicurezza accolse detenuti accusati di appartenere alla criminalità organizzata, i racconti non si discostavano da quanto accaduto negli anni precedenti. C’è il detenuto Pasquale De Feo , ergastolano ostativo, che racconta  quel periodo: «Nel luglio del 1992 all’Asinara avevano instaurato, nella sezione Fornelli, il regime di tortura del 41bis e il trattamento era disumano, soffrivamo la fame, la sete, il freddo non essendoci riscaldamenti, non avevamo niente, la sopravvivenza occupava tutta la mia quotidianità. In certi momenti ci guardavamo e ci dicevamo che un giorno, quando lo racconteremo, non ci crederanno. Ricordo di aver letto in un libro che gli ebrei nei campi di concentramento avevano gli stessi nostri timori, di non essere creduti. Anni dopo, gli stessi detenuti non ci credevano quando lo raccontavano. In America su simili aberrazioni avrebbero fatto tanti film, come hanno fatto su Alcatraz, in Italia, nessun film, perché l’omertà istituzionale è più granitica di quella della criminalità». Se ne occupò anche Amnesty International nel 1993 che, raccogliendo varie testimonianze, pubblicò un dossier dove si denunciavano le torture che avvenivano nel supercarcere. La chiusura del super carcere dell’a Asinara, definito la ”Guantanamo” sarda, e l’istituzione del Parco naturale (voluta e finanziata fortemente dall’Europa) diviene finalmente realtà il 27 dicembre 1997 tramite il Governo Prodi. Chiusura che a distanza di anni, grazie soprattutto al processo sulla presunta ”trattativa mafia- stato, viene percepita come un patto oscuro tra le Istituzioni e la criminalità organizzata: quando si prova a rendere umane le carceri, chiudere quelle che non rispettano i diritti dell’uomo o mettere in discussione il 41 Bis , subito rispunta il fantasma della “trattativa”. Una spada di Damocle davvero insostenibile.

Lettera alla madre pubblicata da “Fondazione Pertini”. Il presidente Sandro Pertini scrive alla madre da Pianosa. "Mamma, con quale animo hai potuto fare questo? Non ho più pace da quando mi hanno comunicato, che tu hai presentato domanda di grazia per me. Se tu potessi immaginare tutto il male che mi hai fatto ti pentiresti amaramente di aver scritto una simile domanda. Debbo frenare lo sdegno del mio animo, perché sei mia madre e questo non debba mai dimenticarlo. Dimmi mamma, perché hai voluto offendere la mia fede? Lo sai bene, che è tutto per me, questa mia fede, che ho sempre amato tanto. Tutto me stesso ho offerto ad essa e per essa con anima lieto ho accettato la condanna e serenamente ho sempre sopportate la prigione. E’ l’unica cosa di veramente grande e puro, che io porti in me e tu, proprio tu, hai voluto offenderla così? Perché mamma, perché? Qui nella mia cella di nascosto, ho pianto lacrime di amarezza e di vergogna – quale smarrimento ti ha sorpreso, perché tu abbia potuto compiere un simile atto di debolezza? È mi sento umiliato al pensiero che tu, sia pure per un solo istante, abbia potuto supporre che io potessi abiurare la mia fede politica pur di riacquistare la libertà. Tu che mi hai sempre compreso, che tanto andavi orgogliosa di me, hai potuto pensare questo? Ma, dunque, ti sei improvvisamente cosi allontanata da me, da non intendere più l’amore, che io sento per la mia idea? Come si può pensare, che io, pur di tornare libero, sarei pronto a rinnegare la mia fede? E privo della mia fede, cosa può importarmene della libertà? La libertà, questo bene prezioso tanto caro agli uomini, diventa un sudicio straccio da gettar via, acquistato al prezzo di questo tradimento, che si è osato proporre a me. Nulla può giustificare questo tuo imperdonabile atto. Lo so, più di te sono colpevoli coloro che ti hanno consigliata di compierlo. Vi sono stati spinti dall’amicizia che per me sentono e dalla pietà che provano per le mie condizioni di salute? Ma pietà ed amicizia diventano sentimenti falsi e disprezzabili, quando fanno compiere simili azioni. Mi si lasci in pace, con la mia condanna, che è il mio orgoglio e con la mia fede, che è tutta la mia vita. Non ho chiesto mai pietà a nessuno e non ne voglio. Ma mi sono lagnato di essere in carcere e perché, dunque, propormi un cosi vergognoso mercato? E tu povera mamma ti sei lasciata persuadere, perché troppo ti tormenta il pensiero, che io non ti trovi più al mio ritorno. Ma dimmi, mamma, come potresti abbracciare tuo figlio, se a te tornasse macchiato di un così basso tradimento? Come potrei vivere vicino, dopo aver venduto la mia fede, che tu hai sempre tanto ammirata? No mamma, meglio che tu continui a pensarlo qui, in carcere, ma puro d’ogni macchia, questo tuo figliuolo, che vederlo vicino colpevole, però, d’una vergognosa viltà. Che male ho fatto per meritarmi questa offesa? Forse ho peccato di orgoglio, quando andavo superbo di te, che con fiera rassegnazione sopportavi il dolore di sapermi in carcere. E ne parlavo con orgoglio ai miei compagni. E adesso non posso più pensarti, come sempre ti ho pensata: qualche cosa hai distrutto in me, mamma, e per sempre. È bene che tu conosca la dichiarazione da me scritta all’invito se mi associavo alla domanda da te presentata. Eccola: “ La comunicazione, che mia madre ha presentato domanda di grazia in mio favore, mi umilia profondamente. Non mi associo, quindi, ad una simile domanda, perché sento che macchierei la mia fede politica, che più d’ogni altra cosa, della mia stessa vita, mi preme”. Per questo mio reciso rifiuto la tua domanda sarà respinta. Ed adesso non mi rimane che chiudermi in questo amore, che porto alla mia fede e vivere di esso. Lo sento più forte di me, dopo questo tuo atto. E mi auguro di soffrire pene maggiori di quelle sofferte fino ad aggi, di fare altri sacrifici, per scontare io questo male che tu hai fatto. Solo così riparata sarà l’offesa, che è stata recata alla mia fede ed il mio spirito ritroverà finalmente la sua pace. Ti bacio tuo Sandro. P.S. Non ti preoccupare della mia salute, se starai molto priva di mie lettere." Pianosa, 23 febbraio 1933.

In memoria di Pianosa… di Rosario Indelicato. Questo testo venne scritto alcuni anni fa. Da una delle persone che furono detenute nel supercarcere di Pianosa. Una delle due supercarceri.. quella di Pianosa e quella dell’Asinara.. che fecero furore all’inizio degli anni 90 e che adesso qualcuno vorrebbe riaprire, dopo che, nel 1997, furono chiuse. E che adesso qualcuno vorrebbe riaprire. Quel qualcuno forse non sa, o non vuole sapere, cosa furono Pianosa e l’Asinara. Ci eravamo già occupati di questa questione. Questo di Rosario Indelicato è uno dei testi più emblematici in tal senso.

In memoria di Pianosa (di Rosario Indelicato). "Grazie. Buonasera. Io sono stato arrestato nel 1992 a maggio. Mi trovavo nel carcere de l’Ucciardone, nella seconda sezione. Successero le stragi. Dopo l’ultima, ero ristretto nella seconda sezione con altri detenuti. Non avevo addirittura neanche l’associazione di stampo mafioso. La notte dopo la strage ci vengono a prendere alle tre di notte: “dobbiamo fare la perquisizione”, allora dico: “Mi devo preparare, devo prendere qualcosa?”. “No, no, vada nel cortile che dopo la perquisizione risalite tutti”. “Va bene”. Scendo addirittura con un paio di jeans e una camicia e mi buttano lì nel canile, perché così chiamano le celle di isolamento. Dopo tre ore cominciano ad arrivare carabinieri, polizia, finanza. “Ma cosa sta succedendo?”, penso. Ci caricano sopra ai blindati, ci portano all’aeroporto di Punta Raisi e da lì a Pisa. A Pisa con gli elicotteri militari. Ricordo un particolare, terrorizzato com’ero dalla visione del carcere che non avevo ancora fatto, un capitano dei carabinieri contava i detenuti ammanettati sull’elicottero con la pistola, così…: uno, due, tre, quattro, per comunicare agli altri quanti eravamo sull’elicottero. Arrivati a Pianosa, c’era qualcuno di noi più vecchio che già immaginava cosa potesse succedere. Io, invece, ero ignaro. Sinceramente non avevo la cultura del carcere pesante. Comunque  ci portarono nelle celle, diciamo nella Grippa. Passò un giorno e l’indomani cominciò l’inferno. Di tutto: legnate, manganellate, acqua tirata, sputi, spinte, fatti cadere a terra. C’era di tutto e di più. Ricordo che si cercava di normalizzare la situazione facendo fare delle denunce ai propri famigliari. Ricordo che venne addirittura la Maiolo, venne Taradash, vennero altri politici ma durante il giorno della loro visita era tutto normale perché le guardie, dietro di loro, ci imponevano di stare zitti per cui nessuno, per timore, diceva cosa ci facevano. La cosa durò per mesi. Io lì ce ne feci cinque anni un mese e venti giorni proprio contati. Io ho brutti ricordi, brutti ricordi e dico solo che la violenza è generatrice di violenza e se ad una persona tu levi la libertà, le levi tutto e non c’è più bisogno di usare violenza su quella persona che magari si vuole riscattare, ma ancor di più quando la persona viene infangata nell’onorabilità come è nel caso di molti siciliani, di molte persone. Lasciamo stare queste cose che poi ne sono uscito a testa alta da tutti i processi. Il discorso invece è un altro. Lo Stato che si è prestato a queste direttive che trovo vergognose. Mi devono spiegare perché su di me si è fatto un crimine perché per questo crimine non sta pagando nessuno, anche se ho denunciato gli artefici di questi abusi. Volevo rispondere al Dottor Palma della commissione europea che in Italia pur avendoli condannati, non hanno espiato un giorno di pena e si ritrovano attualmente a lavorare all’interno del carcere, per cui, dico io, non cambia niente. In Spagna e in Italia le cose non cambiano, tanto è vero che poi non c’è stato più luogo a procedere. Per quattro denti mi hanno portato dal dentista e questo dentista, seduto là, fece. “togliete le manette al detenuto”. “No, no, operi così”. “Guardi che deve anche sciacquarsi”. “No, no, operi così e basta, stia zitto”. E allora si misero in sette otto di loro, chi con le pinze chi con lo scalpello, con gli arnesi diciamo per tirare il dente perché questo medico ha avuto paura e questo è nella mia denuncia. Questo medico ebbe paura e allora diete luogo a sistemare il dente, ma comunque non capì quello che stava facendo, tanto è vero che ha  rovinato quello buono e lasciato quello cattivo. Alla fine mi ha detto: “Fra 15 giorni ci vediamo e completiamo il lavoro”, ma vidi che era più terrorizzato di me. Quindi venni messo sul blindato (andavamo fuori dalla sezione Agrippa, ci portavano in un carcere dove c’erano gli ergastolani che però andavano a lavorare fuori), messo sul blindato e venni massacrato. Questo il 22 dicembre 1992. Ero stato portato lì il 20 di luglio. Figuratevi quello che avevo passato. Mi portarono in cella, massacrato. Passarono 3 giorni, arrivò Natale e mi portano patate bollite con la pasta condita con la margarina fredda, tutte cose appiccicate. Presi le paste e le buttai –tant’è vero che i primi mesi persi 16 chili- buttai la pasta, non volli mangiare andai a letto. Dopo, il 27 mi vennero a prendere. Ogni volta non volevamo uscire dalla cella per non prendere legnate. Sistematicamente tutte le volte c’era la perquisizione corporale, dovevamo fare piegamenti perché dovevano vedere se eventualmente si nascondesse qualcosa nelle parti intime. Dovevamo aprire la bocca, ci infilavano le dita nelle orecchie, tutto quello che potevano… Ma sicuramente dovevano esserci le istruzioni, le direttive di qualche psicologo o psichiatra, perché non erano persone intelligenti quelle che si adoperavano a fare queste cose, per cui le direttive dovevano esserci dall’alto. Il 27 dicembre, come dicevo, mi portarono dal comandante e il comandante guardò i miei mandati di cattura, già ne avevo tre, e disse: “Guardi che lei ha una brutta posizione”. Io, sempre con la testa bassa, con le guardie dietro, davanti, risposi: “Guardi che la cosa non mi tocca se lei pensa così, perché lei sui di me non può dare nessun giudizio, questo lasciamolo decidere ad un tribunale e vedrà che la mia onorabilità verrà pulita nuovamente, non infangata come in questo momento”. Il Direttore: “Ma lei vuole andare a casa?”. “No, no, io a casa non ci voglio andare, io le chiedo solamente di finirla con questa vessazioni, queste legnate, queste torture, queste cose. Guardi che io a casa ci andrò a tempo debito2. Lui non fece nessun cenno e disse: “Può andare”. Quando mi girai e già stavo uscendo dalla porta seguito dagli… diciamo aguzzini, non li voglio neanche chiamare guardie per non infangare chi veramente fa questo lavoro con rispetto verso l’umanità, il Direttore mi disse: “Sa Indelicato se ha ricevuto minacce a casa…?”. Risposi: “Son 13 mesi che non faccio colloqui. Sa perché non faccio colloqui? Perché mia moglie, ogni volta che viene qua, viene vessata più di me, perché deve passare le perquisizioni corporali, deve fare i piegamenti, deve fare tutto. Mia moglie che non c’entra niente, i miei figli che non c’entrano niente con queste torture. E allora io, siccome sono stato scelto come agnello sacrificale, preferisco subirle io, per cui qua colloqui non ne faccio. Quindi lei sa meglio di me se io, visto che c’è la censura, posso ricevere informazioni in merito a quello che mi sta dicendo. Se così è e hanno fatto questo abuso…”. Perché, che cosa fece questo direttore? Mi chiese se avevo ricevuto minacce a casa, tipo incendi, cose varie. Ma io ovviamente non lo potevo sapere. Me ne sono andato. Però questo pallino, questa idea mi rimase in testa. Quella era una mossa psicologica, perché loro ti smontavano, volevano creare il pentito. Questa è la realtà. E questo hanno fatto, perché ci sono state persone che si sono pentite e persone che si sono pure uccise. E persone che, forse la dico grossa, le hanno costrette o le hanno proprio uccise loro, perché uno non può tacere su quello che vedeva. Per cui andai in cella e cominciò tutta ‘sta trafila. Era il 27 dicembre e non ricevevo neanche la posta, mi avevano bloccato tutto. Feci il telegramma perché volevo che venisse l’avvocato. E il telegramma non partiva. La risposta non arrivò, perché il telegramma non partiva. Comunque sto due mesi malissimo, proprio non ci stavo più con la testa. Poi ci fu un detenuto della mia sezione che andò al colloquio e lo pregai di chiedere che il suo avvocato si mettesse in contatto con il mio per vedere se poteva venire e darmi delucidazioni in merito a quello che mi avevano detto. E venne. Mi disse: “No guardi, tutto a posto, tranquillo”. Dissi: “Va beh, ho capito”. Si trattava di un altro tipo di tortura. Ma al pomeriggio mi portarono tutta la posta che era un bel po’ di lettere, di telegrammi, di auguri di amici, fratelli e così via. Le altre torture erano: uscivo dalla cella, si doveva correre per circa… il primo braccio – io mi trovavo alla nona -, il primo braccio era 15 metri, c’erano altri 15 metri per arrivare al cancello dell’aria e lì, sistematicamente, si mettevano 20 di loro, o 15, o 30, dipende da chi voleva partecipare al gioco. Allora ci facevano levare le scarpe, ce le facevano buttare a terra, ci facevano la perquisizione, poi andavamo a prendere le scarpe e qualcuno dava una pedata. Andavamo a prendere le scarpe e chi ci metteva la manganellata, chi la pedata, chi la spinta, chi ci sputava, chi ci buttava l’acqua; si scivolava nella curva ed erano botte nuovamente. In una di queste tante  giornate passate così, ci fu una guardia che mi disse “Lei quando esce all’aria, quando esce dalla cella non deve correre. “Guardi, io non lo capisco se corro, se ho corso, perché non ho più cognizione di causa di capire quello che faccio”. “No, lei non deve correre. Prego si accomodi”. Apre il cancello, quello di dietro mi mette una pedata nella schiena, cado all’interno dell’aria, lui chiude il cancello e mi incastra il ginocchio destro che poi mi sono operato una volta finito lì, diciamo la pena, la situazione. Comunque, questa fu una delle tante. Un’altra fu che nella perquisizione ci fu uno che fece un atto eroico e io non so come ringraziarlo. Prese lo scroto e lo tirò talmente forte che mi staccò una vena all’interno. Caddi a terra e lì ci fu un altro pestaggio. Mi alzai ma non poteva fare più niente: ero una noce dentro un sacco, non potevo parlare, perché il fatto che avessi il processo a Marsala mi comportava che loro mi trasferivano e dalla relazione volevano che arrivasse il chiaro di tutto, che io non parlavo con nessuno, che non facevo nessuna denuncia, sennò erano problemi seri. Ritornai lì e comunque persisteva sempre questo stato di cose: trovai vetro nella pasta, trovai detersivo nella pasta, trovai un preservativo nella pasta, presi sputi in faccia nella notte quando mi venivano a svegliare. Andavo allo spioncino a chiedere che volessero e, nel momento in cui mi affacciavo, mi dicevano: “Come si saluta’”. Dicevo: “Buona notte…”. “Come si saluta’”. Dicevo: “Buona notte…” e seguiva lo sputo: “Buona notte signore”. Allora dicevo: “Buona notte signore”. Andavo a letto e non spegnevano più la luce per cui le zanzare facevano festa. Poi un giorno ebbi delle coliche renali, mi presero, avevo bisogno del medico, mi ci portarono, e mi prescrisse che dovevo bere tre litri d’acqua al giorno. E loro cos’hanno fatto? Mi hanno preso, mi hanno portato nelle celle d’isolamento, mi hanno dato un litro d’acqua al giorno. Mi piegavo per il dolore perché non resistevo a stare in piedi e non appena mi abbassavo veniva qualcuno di loro e mi diceva: “Alzati, devi stare in piedi se no… non c’è neanche gioia a vederti abbassato che ti attutisti il dolore”. Nel mentre lui andava via, mi riabbassavo perché questo stiramento mi faceva stare un tantino meglio. Queste sono state alcune delle migliaia e migliaia e migliaia di situazioni che mi sono capitate nella detenzione a Pianosa. Ricordo che una volta dovevo andare al colloquio, allora loro mi vennero a prendere all’aria e mi hanno detto: “Lei deve andare al colloquio”.”Io qua sono, pronto”. Non ci avevo niente. Non ci avevano fatto prendere niente a Palermo. Dicono: “Vada in cella, che poi la veniamo a prendere”. Va bene, vado in cella, esco dalla cella, mi metto le mani al muro che mi dovevano fare la perquisizione, perché questa perquisizione prima era fatta manualmente e poi ti dovevano passare al metal detector. Passo questa perquisizione e uno mi fa: “Ma lei, quando esce dalla cella – ci eravamo visti un minuto prima- come dice? Non saluta?”. “Ho detto buongiorno poco fa quando sono uscito, poi mi siete venuti a prendere, vi ho salutato, sono entrato in cella e vi ho risalutato, sono qua, vi ho detto buongiorno”. “No, no, no. Come si dice?”. A me il “buongiorno signore” non mi usciva, non ce la facevo. Quel “buongiorno signore” non mi usciva e io, sistematicamente prendevo le legnate. “Vi ho detto buongiorno” ripetei, sempre con le mani al muro e allora, da sotto le bracci che tenevo alzate, mi arrivò un pugno qui, nell’occhio. Io ho fatto il pugile da professionista e lo so quello che significa prendere le botte, ma quante ne ho prese lì… manco in vent’anni di pugilato ho preso tutti i pugni che ho preso lì. Va bene. Mi si gonfia l’occhio. Vengono a maniche nude con le unghie sporche, perché quelle erano sporche, perché molti erano anche sardi, napoletani . Mi prendono… Non sono un razzista però queste persone mi ricordo essere più umane. Mi prendono uno per un braccio e uno per l’altro, stringono forte e mi entrano le unghie nelle carni, comincia a sanguinare il braccio, mi portano nella saletta, mi fanno rispogliare, mi rivesto e mi ripresento al grande pubblico che erano mio fratello e mia moglie. La situazione è stata disastrosa, io non riuscivo manco a contenere la rabbia, avevo paura di qualche reazione scomposta di mio fratello, anche se solo uno sguardo potesse nuocere a loro, allora dissi: “State calmi, non è successo niente, state tranquilli che piano piano ci rimettiamo”. In questo modo loro facevano capire ai famigliari… C’era qualche famigliare che diceva: “Ma se tu hai qualcosa da raccontare, la racconti e te ne esci”. Cioè cercavano di fare pressione sui famigliari affinché a loro volta la facessero a noi. Comunque ho fatto colloqui di due minuti: ti portavano là e poi: “Signora si deve preparare perché il mare si sta mettendo brutto, deve partire”. “Ma guardi che sono arrivata ora…”. “Signora non insista, prego si accomodi . Due volte me l’hanno fatta questa discussione. Un minuto… Ogni volta mi costava tre milioni fare venire per un colloquio, uno al mese. Io, una cosa mi ricordo, ecco perché la voglio porre all’attenzione: non sono tutti così i sardi, però ce n’era uno in particolare che… Gianluca Valletta. Abbiamo fatto n processo e non l’hanno manco condannato, cioè l’hanno condannato ma non ha neanche scontato la pena. Questo ogni volta che arrivava con il carrello nella sezione diceva: “Forza porci, da che si mangia, dai che si mangia. Affacciatevi tutti, porci”. Andavo per prendere il pane e “Levati di mezzo”. “Ma il pane me lo devi dare”. “Togliti”. Mi toglievo e me lo buttava a terra, e dovevo raccogliere il pane… Un’altra cosa che mi ricordo e me la ricordo perché… crdetemi ne sono passati di anni  però sono cose che non riesco a cancellare. Il fatto era che lavavi la cella, il giorno, la mattina, tutto bello e sistemato perché  per un detenuto occupare il tempo, lavare qualcosa, lavare qualche indumento, lavare la cella, fare le pulizie significa non oziare, occupare il tempo e non pensare a come ti va a finire, a quanti anni hai da scontare… Lavai la cella la mattina, rientrai dall’ora d’aria che erano le 11.00, presero un prodotto, non so cosa, lo buttarono dentro, gli occhi mi bruciavano e mi fecero: “Era sporca, comincia a ripulire la cella”. Ma questo capitava…Dentro le docce, dentro le docce era che s’entrava come mandrie, come i tori quando passano attraverso… (anche perché ci chiamavano così), attraverso il valico. Avevamo il tempo di bagnarci, insaponarci e loro chiudevano l’acqua: “Fuori, avanti un altro… avanti un altro”. Gente anziana che soffriva di queste cose. Chi scivolava. Insomma, sono tante le cose… Non riesco a delineare tutto e a raccontare, ma c’è da parlare pure molto di quanta cattiveria c’è all’interno. Si sono fatti dei crimini che non hanno una giustificazione. Credetemi, io da incensurato non dovevo essere portato lì a Pianosa: che c’entro io a Pianosa e che c’entra quello che ha la pena definitiva? Se il carcere deve essere rieducativo non c’entra nulla la repressione. Ma con chi la fanno la repressione? Con quelli che sono dentro e che non si possono nemmeno difendere? Io ho avuto come avvocato in Cassazione l’onorevole Alfredo Biondi che venne qui a Piombino per presentare l’appello in Cassazione e disse a mia moglie: “Signora guardi che suo marito lì non ci può stare, suo marito è un semplice indagato e lì non ci può stare, vedrà che le cose cambieranno”. Per undici volte ho avuto rinnovato il 41 bis, il dottor Margara, ogni volta che me lo rinnovavano e io mi appellavo, il tempo di arrivare le carte a lui e mi facevano la traduzione qui nel carcere di Sollicciano, e arrivava nuovamente la carta che me lo rinnovavano. Ma come? Io non ero mai stato in carcere, non avevo mai avuto sequestri di beni, non ero stato nemmeno sottoposto a vigilanza. Il guardasigilli… Io avevo passato tutte queste cose mentre ero un semplice incensurato, perché alla fine si evince che “il soggetto non collabora”. Ma che devo dire, che volete sapere di me che io non so? Vi rendete conto di come viene amministrata la giustizia? Alla fine la giustizia viene amministrata da gente che non ne è degna? Vi ringrazio. (…..) Ricordo che feci un colloquio e volli vedere mia figlia dopo 16 mesi, una bambina di appena 6 anni. Allora mia moglie la preparò e la portò. Io avevo il processo a Termini Imerese. Ero arrivato a Termini Imerese da qualche giorno in traduzione da Pianosa, smagrito. Feci subito la domandina e feci un telegramma chiedendo a mia moglie di portare la bambina che la volevo vedere. Il giorno del colloquio andai nella saletta per due posti, e c’era anche Pippo Calò. Entrai e vidi che c’erano mia moglie e mia madre. Chiesi dove fosse mia figlia. Mia moglie disse: “E’ qui sotto, nascosta”. C’era il muretto  e poi tutto il vetro fino al soffitto; allora mia figlia salta su per farmi uno scherzo, mi vede e si aggrappa a mia moglie e comincia a piangere: “Portami via, questo non è papà, non è il mio papà”, a gridare, a piangere. Ho detto loro di andarsene per non rovinare il colloquio all’altra persona che era nella saletta e che aspettava come me questo momento. Perché si perdeva tantissimo tempo prima dei colloqui e nelle traduzioni. Nelle traduzioni pensi che arrivi là, poi ti rimandano su, poi ti dicono che lo faranno da un’altra parte, poi rimandano il processo. I soldi li bruciavano così nelle traduzioni, io non capisco il perché. Dovevo stare un giorno lì, una settimana, per poi ridiscendermi un’altra volta a Palermo. Cose assurde, non di meno era questa la situazione che si veniva a creare anche con i famigliari. (Questo secondo me è da togliere, perché qui non si tratta di un appendice su tutte le tematiche carcerarie, come il problema delle traduzioni, ecc.) Mia figlia la lasciai a 3 anni e la trovai più grande e non ho più intrattenuto un rapporto con lei perché la bambina nella sua crescita avrebbe avuto bisogno di un padre, di una sicurezza che le è venuta a mancare. Ormai è sposata e abbiamo un altro tipo di rapporto, ma quella mancanza le è pesata e grazie alle istituzioni che me l’hanno vietata, che mi hanno vietato di vederla, di toccarla, di abbracciarla, ho perso la sua infanzia, non ho potuto crescerla, volerle bene, esserle vicino quando era bambina. .(…) Il piatto veniva lavato con il Cif, quello con il quale si pulisce il bagno. Con il Cif in polvere noi ci lavavamo i piatti dove mettevamo la pasta."

Le carceri, però, son piene di gente come questi…

Accusato di aver rubato 10 euro:si fa 5 mesi, ma è innocente, scrive Antonio Alizzi su “Il Garantista”. L’ennesimo errore giudiziario, devastante. L’ennesima dimostrazione tangibile delle contraddizioni quotidiane che segnano il corso di una giustizia troppo spesso… ingiusta. La storia di Ioan Lacatus, rumeno domiciliato a Cosenza, in Calabria, può essere assunta a modello delle anomalie giuridiche – e non solo – dell’ordinamento giudiziario italiano. La sintesi, prima di tutto: l’uomo si fa 5 mesi di galera per un presunto furto ai danni di un disabile di una banconota da 10 euro. (proprio così: 10 euro, 5 mesi). E lo Stato si accorge soltanto anni dopo di avere commesso una clamorosa svista. Ed è costretto a correre ai ripari, disponendo un risarcimento per ingiusta detenzione del valore di 33mila euro circa. Ecco come sono andati i fatti. Lacatus, nato il 12 luglio del 1964 a Reteag, cittadina della Romania, viene arrestato il 4 febbraio del 2009 con l’accusa di aver commesso in concorso una rapina. Un reato che secondo la Procura cosentina, il cui titolare delle indagini all’epoca dei fatti era il pm Giuseppe Visconti, commise, istigando i due figli minori S. L. e A. B. e un tale V. F. S., cioè persone non imputabili, a “derubare” la parte offesa che in un secondo momento, a seguito degli accertamenti svolti e dalle informazioni assunte dai carabinieri di Cosenza si scoprì affetto da problemi «di natura neuro-psichica sin dalla nascita, tant’è vero – scrisse l’avvocato del foro di Cosenza, Michelangelo Russo, difensore di Lacatus, nell’istanza di riparazione per ingiusta detenzione – che risulta invalido al 100%». Insomma, Ioan fu sfortunato ad essere ritenuto compartecipe dell’azione criminale, che inizialmente comportò ben 144 giorni (cinque mesi e quattro giorni) di custodia cautelare, privandolo della libertà personale. Ma prima i giudici del Tribunale di Cosenza, l’8 luglio 2009, sentenza di primo grado, e poi la Corte d’Appello di Catanzaro (prima sezione penale), il 23 maggio 2012, lo scagionarono per «non aver commesso il fatto». Che i magistrati (ad eccezione della Procura generale che a suo tempo invocò l’assoluzione) avessero sbagliato a valutare il caso in questione, il legale Russo cercò di farlo capire attraverso le dichiarazioni di tre testi, L. L., A. D. T., e G. M. T., che furono «ignorate» dal Tribunale del Riesame. «L’autorità giudiziaria procedente non ha ritenuto di revocare, o quantomeno sostituire, la misura cautelare in carcere in presenza di elementi prognostici positivi quale il decorso del tempo, la disponibilità di una abitazione, il legame con il territorio italiano e la presenza della famiglia in Italia». In poche parole, avrebbe potuto affrontare il processo a piede libero senza far spendere ulteriore denaro allo Stato e soprattutto senza subire la tortura del carcere. Secondo l’avvocato Russo c’erano i presupposti per un risarcimento per danni materiali e morali, e così nel 2013 chiese alla Corte di Appello di Catanzaro di pronunciarsi sull’istanza di ingiusta detenzione, «determinando il quantum a titolo di risarcimento, da liquidarsi, giusto criterio aritmetico di calcolo in materia, in misura non inferiore a 36.316,28 euro o, in quell’altra misura che, anche in via equitativa, verrà ritenuta di Giustizia». E giustizia alla fine è arrivata, quando il presidente del Collegio Alessandro Bravin, chiamato a discutere del ricorso presentato in favore di Ioan Lacatus, decise di accogliere la domanda, riconoscendo al romeno il diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione sofferta, determinando l’ammontare della somma, quantificata in base al coefficiente pari a 235.87 euro al giorno che, moltiplicati per i 144 giorni passati dietro le sbarre, fanno 33.965,28 euro. «Un’ingiustizia sostanziale rispetto ad una accusa rivelatasi successivamente infondata», rilevò il presidente della prima sezione penale, richiamando nel provvedimento adottato anche due sentenze della Corte Suprema di Cassazione: quella del 10 agosto 2005, a firma del giudice Bruzzano, e quella dell’11 luglio 2007, a firma del giudice Bevilacqua. Dunque si applicò il principio del quantum debeatur secondo cui «la riparazione deve essere determinata, essenzialmente, considerato la durata, le caratteristiche della privazione della libertà personale e le conseguenze personali e familiari derivanti da tale privazione», espresso dalla Cassazione in una sentenza del 13 gennaio 1995.

Nulla di più illegale della carcerazione preventiva di Bossetti, scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Massimo Bossetti, indagato per l’omicidio di Yara Gambirasio, ha la sfortuna di vivere in Italia. Se abitasse in Inghilterra, o in Germania o in Francia o in Spagna piuttosto che in Portogallo o Belgio o nei paesi nordici, non sarebbe in carcere. Solo in Russia e in Turchia infatti ci sono detenuti in attesa di giudizio in numero maggiore che in Italia. In tutta l’Europa democratica non si sta in carcere ad attendere in processo. Nemmeno in Sudafrica, come ha dimostrato il processo a Pistorius. In Italia sì, perché in Italia esiste la tortura attraverso il carcere, benché questo procedimento non sia previsto dal codice. Andrebbe sempre ricordato che quando si parla di custodia cautelare dovrebbero valere quei principi elementari di civiltà giuridica tante volte ricordati sia dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale che dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Pure in Italia la politica del pendolo continua a farla da padrona, in tema di carcere preventivo. Nel 1995, pur in un momento di grande confusione politica dopo la caduta del primo governo Berlusconi, un Parlamento ancora a maggioranza di centrodestra attuò la più importante riforma della custodia cautelare. Una riforma cui lavorò una commissione giustizia ad ampia presenza di garantisti (di destra e di sinistra ) e che stabilì, in deroga ai principi restrittivi della legge del 1991, che il carcere prima del processo debba essere solo l’ultima spiaggia, da utilizzare quando ogni altra misura sia inapplicabile. Il secondo principio fissato da quella riforma fu il fatto che i rischi di fuga o reiterazione del reato o inquinamento delle prove dovessero essere “concreti”, non teorici e non dovuti al fatto che l’indagato non ammettesse gli addebiti. La misura adottata dovrebbe essere inoltre ridotta al minimo indispensabile. Anche pochi giorni, quindi. Il contrario di quel che succede ogni giorno, invece. Ora, un magistrato rigoroso e consapevole del fatto che la custodia cautelare non deve mai essere una sorta di anticipazione della pena, non avrebbe mai tenuto Massimo Bossetti in carcere per 130 giorni. Dobbiamo ricordare, per essere almeno noi rigorosi, che il pendolo legislativo aveva oscillato nella sua versione peggiore nel 2009, quando era stata introdotta nell’ordinamento giudiziario una norma che equiparava i reati a sfondo sessuale a quelli di criminalità organizzata, imponendo quindi l’ inversione dell’onere della prova. Il codice rendeva obbligatoria la custodia cautelare in carcere, “salvo che” si dimostrasse l’inesistenza di esigenze cautelari.  E soprattutto vietava il ricorso agli arresti domiciliari. Se questa norma fosse ancora in vigore, per Massimo Bossetti sarebbe stato alquanto difficile uscire presto dal carcere. E oggi il tribunale del riesame avrebbe le mani libere per confermare la detenzione. Ma una sentenza della Corte Costituzionale del 2010 ha demolito quella legge, ritenendo inapplicabili ai reati sessuali i criteri usati nei confronti degli indagati per reati di mafia. Rispetto ai quali l’inversione dell’onere della prova e il carcere preventivo obbligatorio sarebbero giustificati dal timore che, una volta in libertà, il presunto mafioso possa riallacciare i rapporti con i complici. Una teoria comunque discutibile, perché stiamo sempre parlando di persone innocenti secondo la Costituzione. Fatto sta che oggi Massimo Bossetti deve uscire dalla prigione. Come libero o come detenuto al domicilio. Lo diciamo non solo con l’ottimismo della volontà, ma perché è giusto che sia così. Finora i magistrati hanno applicato la legge del 2009, sarebbe ora che il tribunale si ricordasse anche della sentenza della Corte costituzionale del 2010.

Malagiustizia, quanto ci costi!, scrive Deborah Cianfanelli su “Il Garantista”. Ieri una delegazione di Radicali composta da Pannella, Rita Bernardini, Laura Arconti e io, si è recata presso la Corte dei Conti del Lazio per depositare un esposto volto a richiedere un’indagine in merito al danno erariale causato dall’ormai ultradecennale malfunzionamento della giustizia in Italia. Abbiamo inteso renderci ancora una volta strumento di attivazione delle istituzioni, nel tentativo di portare a conoscenza di tutti gli italiani il grave costo che incombe su ognuno di loro a causa della disastrosa situazione del sistema giustizia e carceri, più volte condannato dalla Corte Europea. n questo modo noi Radicali abbiamo voluto celebrare l’anniversario del messaggio alle Camere del presidente della Repubblica nel quale veniva ricordato il principio stabilito dalla Corte Costituzionale, che fa obbligo per i poteri dello Stato, ciascuno nel rigoroso rispetto delle proprie attribuzioni, di adoperarsi affinché gli effetti normativi lesivi della Convenzione cessino. Siamo stati ricevuti personalmente dal procuratore Angelo Raffaele De Dominicis. Nel corso del lungo e cordiale colloquio abbiamo illustrato il contenuto dell’esposto redatto da me in qualità di avvocato. In tale documento si evidenzia in modo particolareggiato come lo stato di assoluta illegalità del sistema giustizia italiano abbia ormai delle enormi ripercussioni sull’economia nazionale, andando ad incidere fortemente sul debito pubblico. Sul fronte civile l’articolo 6 della convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce il diritto di ognuno ad ottenere giustizia in termini ragionevoli. Dalla cronica irragionevole durata dei processi in Italia consegue il diritto, per chi li ha subiti, a chiedere ed ottenere un congruo risarcimento ai sensi della Legge Pinto. Tale rimedio meramente risarcitorio doveva essere temporaneo, in attesa di riforme strutturali in grado di rendere i processi più veloci e quindi conformi alla convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nei tredici anni di vigenza della legge Pinto non si è avuta però alcuna riforma in grado di evitare il reiterarsi della violazione e lo Stato italiano si rende altresì moroso rispetto a detti risarcimenti. Sul bilancio del ministero della Giustizia gravano quindi pesantemente i costi dei risarcimenti che hanno avuto nel corso degli anni un andamento crescente. Già nel 2007 la commissione tecnica per la Finanza Pubblica (Ctfp) rilevava che tale contenzioso era una delle voci di spesa più significative (ed una delle cause principali di indebitamento) del ministero della Giustizia: era costato negli ultimi cinque anni circa 41,5 milioni di euro, di cui 17,9 nel solo 2006. La commissione evidenziava come l’inefficienza del sistema giustizia non rappresenta soltanto un costo sociale, ma la fonte di costi rilevanti per il sistema produttivo in termini di crescita e produttività, soprattutto in sistemi di mercato aperti e concorrenziali. L’incertezza sui tempi delle decisioni ed il loro procrastinarsi in tempi non ragionevoli, ha ripercussioni distorsive sulle transazioni commerciali e sulle decisioni di investimento. In particolare la commissione stimava il rischio economico dello Stato per le (future e probabili) condanne ex Legge Pinto in circa 500 milioni di euro all’anno. Stesse considerazioni allarmanti in riferimento al danno causato all’economia nazionale sono state espresse nel 2011 dalla Banca d’Italia; secondo quest’ultima, in termini economici, il costo dell’inefficienza della giustizia italiana può essere misurato come pari all’1% del Pil. Da ultimo si ricorda che lo stesso ministero della Giustizia, nella relazione presentata all’inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2014, ha ammesso che i ritardi della giustizia ordinaria determinano ricadute anche sul debito pubblico e che l’alto numero di condanne dello Stato ed i limitati stanziamenti sul relativo capitolo di bilancio, hanno comportato un forte accumulo di arretrato del debito Pinto ancora da pagare che, ad ottobre 2013, ammontava ad oltre 387 milioni di euro. Le somme sopra riportate si riferiscono unicamente alle condanne ai sensi della Legge Pinto, e non tengono conto delle condanne subite dallo Stato in materia di violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che riguarda il divieto di trattamenti inumani e degradanti con riferimento ai detenuti delle nostre carceri. Anche in questo caso Governo e Parlamento, lungi dal voler prendere in seria considerazione un provvedimento di amnistia quale unico strumento in grado di abbattere il reiterarsi delle violazioni e le conseguenti condanne, hanno preferito optare per rimedi meramente risarcitori, con ulteriori costi per le casse dello Stato. Di tutti questi costi non è dato rintracciare una stima certa nei bilanci dello Stato ed anche su questo punto l’esposto presentato alla Corte dei Conti chiede di fare chiarezza. Visto l’interesse e la cordialità dimostrati dal procuratore De Dominicis, i Radicali si augurano che oltre al “Giudice a Berlino” vi siano un procuratore ed un Giudice in Italia che abbiano il coraggio di fornire risposte, nell’interesse di ogni italiano cui lo Stato chiede enormi sacrifici, specialmente in questo periodo di crisi economica, senza smettere di violare la sua stessa legalità, e causando con tale comportamento gravi ripercussioni sull’intera economia nazionale.

Dell’insostenibile irresponsabilità della magistratura, scrive Maurizio Calo “Articolo 21”. Lo considerereste, ed a ragione, la summa della domanda retorica (cui, per imitare le triple in stile Francesco Merlo, si potrebbero aggiungere: il paradigma dell’ovvietà e l’archetipo dell’evidenza) il dilemma se sia preferibile essere operati d’appendicite da un chirurgo responsabile di come muove il bisturi nella vostra pancia oppure da uno irresponsabile. Eppure la risposta scontata a quel quesito cessa di essere lapalissiana se, al posto del medico, mettete il magistrato, quasi che libertà, reputazione e patrimonio valessero meno dell’appendice. In contrasto con medici, architetti, ingegneri, avvocati, notai, farmacisti e tutti gli altri attori che assumono responsabilità nell’esercizio della loro professione, il magistrato è il soggetto della società civile che per legge (L. 117/1988) è talmente irresponsabile che i casi di condanna dei suoi componenti per dolo o colpa grave si contano letteralmente sulle dita di una mano in oltre venticinque anni, a fronte di milioni e milioni di casi giudiziari decisi nello stesso periodo. E’ la legge delle probabilità quella che la magistratura non vuole rispettare quando chiede di mantenere inalterata l’attuale normativa. A pensarci bene, ciò che consente ad un neurochirurgo di introdursi tra i lobi del cervello dei suoi pazienti – col rischio di invalidarli per tutta la vita e di pagarne eventualmente le conseguenze patrimoniali – è la fiducia nella propria scienza e coscienza, nella propria capacità di saper affrontare l’emergenza che può insorgere in qualunque momento dell’intervento, è la stima nelle proprie qualità professionali, nella preparazione meticolosa, nell’accettazione dei sacrifici che l’assunzione di quella responsabilità comporta.
In due parole, è l’autorevolezza conquistata con l’esperienza. Per converso e contrappasso, dunque, al rifiuto di assumere la responsabilità delle proprie azioni corrisponde, inevitabilmente, il rifiuto dell’autorevolezza conquistata con l’esperienza. E, difatti, alla magistratura italiana mancano proprio l’autorevolezza ed il prestigio della competenza che invano si cerca di recuperare tramite benevoli articoli di stampa, il più delle volte compiacenti ed osannanti le capacità del pubblico ministero di turno che, poi, spesso è quello che ha passato la velina del verbale che si pubblica in spregio alle regole della segretezza processuale. Con 250 mila avvocati iscritti negli albi italiani, si può dire che ciascuno ne abbia almeno uno tra i consanguinei ed a loro potete chiedere la stima che nutrono nell’attendibilità della magistratura. Vi racconteranno di quella volta che hanno vinto una causa in base ad una norma abrogata dieci anni prima; di quando hanno perso la causa con motivazioni per le quali lo studente sarebbe stato perentoriamente bocciato; di quella pronuncia che manifestava assoluta misconoscenza delle regole del commercio, o delle costruzioni, o degli appalti e tante altre vicende conclusesi con concenti delusioni, se non della parte – magari vittoriosa – certamente del giurista. Ammettiamo che il sondaggio presso l’avvocatura, per l’istituzionale contrapposizione alla magistratura, potrebbe apparire fazioso e fuorviante, ma quello che stupirà sarà comunque il numero e la qualità dei casi criticati, a conferma che la fiducia nella capacità dei giudici di risolvere con equilibrio e competenza i conflitti sociali è da tempo al lumicino. Ma uno Stato in cui i giudici non hanno piena credibilità, fallisce nel fondamentale servizio di dirimere le liti ed occorre quindi mettere mano al più presto alle regole della magistratura. Di fronte all’immobilismo sin qui manifestato in questo settore, non resta che intervenire rapidamente sulla responsabilità perché è il tema sul quale l’Italia è già stata messa in mora dall’Europa. L’auspicio è che, introducendo una seria legge sulla responsabilità dei magistrati, che si porrebbe a valle della formazione, del merito e delle automatiche progressioni di carriera, questa vera e propria casta venga costretta a modificare “per risalita capillare” il suo intero statuto. L’attuale situazione è un lusso che non possiamo più permetterci al cospetto del mondo globalizzato che guarda al nostro ordinamento per eventuali investimenti e che, anche a causa delle condizioni in cui vi versa una giustizia irresponsabile, sceglie di investire da un’altra parte. Il tutto senza disconoscere che, almeno un paio di volte l’anno, dalla magistratura vengono pronunce che commuovono per l’altezza dei concetti espressi e per la spinta che danno alla nostra società verso livelli sempre più alti di democrazia e rispetto dei diritti umani.

Il “fattore M” come Magistratura, scrive Guido Paglia su “L’Ultima Ribattuta”. Tanti anni fa, il grande giornalista Alberto Ronchey inventò il “fattore k” per giustificare l’impossibilità per il PCI di andare al potere. Oggi, mutuando Ronchey, sarebbe il caso di parlare di “fattore m” per cercare di capire cosa sta accadendo in Italia per un altro partito che le sta provando tutte per riuscire a dettare l’agenda del Palazzo: quello dei giudici; o almeno di quella parte della categoria, politicizzata o incarognita dalla cancellazione di determinati privilegi, che pretende di condizionare la politica a colpi di sentenze. Non passa praticamente giorno senza una pronuncia della magistratura che comporti sospensioni o inibizioni di vario genere. Intendiamoci, non si tratta di voler difendere personaggi indifendibili e con sulle spalle sentenze passate in giudicato, ci mancherebbe altro. Si tratta semplicemente di notare delle strane coincidenze. Per esempio, la curiosa contestualità tra le iniziative del governo in tema di giustizia e l’uscita dalle sabbie mobili dell’inchiesta sui familiari di Matteo Renzi. L’elenco sarebbe troppo lungo per non continuare ad alimentare il sospetto della “giustizia ad orologeria”: certi giudici se ne facciano una ragione, perché, tanto per restare in tema di orologeria, i cittadini non hanno la sveglia al collo. E i sondaggi su certi sviluppi a tempo dei procedimenti penali stanno lì a dimostrarlo. Ma è anche significativo come in questo meccanismo giudiziario ormai senza controllo, finiscano per finire stritolati anche gli “apprendisti stregoni”, cioè quei magistrati o ex-magistrati che quando indossavano la toga erano in prima fila nel “cecchinaggio” dei politici. E’ il caso del sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, un tempo soprannominato “Giggino ‘a manetta”. Il nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, si è appena insediato. Vediamo se saprà diventare davvero l’organo di autogoverno dei giudici, o continuerà ad essere la sede della difesa degli interessi più corporativi dell’ordine giudiziario. E il regno incontrastato delle correnti, interessate quasi esclusivamente a spartirsi Procure, presidenze di Tribunali, Corti d’Appello e vertici della Cassazione.

Finmeccanica, il libero arbitrio della magistratura: un crollo di immagine per il paese, scrive Achille Saletti, Criminologo e presidente di Saman, su “Il Fatto Quotidiano”. Siamo alle solite. Magistratura e media linciano persone, aziende, organizzazioni e, a distanza di qualche tempo, si scopre che l’oggetto del linciaggio non aveva partecipato allo stupro. Articoletto di ordinanza per dare la notizia, quando va bene e nemmeno un brontolio da cui si crede di intuire che ci si scusa. Sulla questione degli elicotteri, di Finmeccanica e delle tangenti corruttive avevo già scritto: in maniera disincantata, se vogliamo, con quel poco di conoscenza del mondo diretta ed indiretta che mi fece scrivere su Finmeccanica quello che solo coloro che si iscrivono al mondo di Heidi non vogliono ammettere: che nelle commesse internazionali può accadere che si utilizzi la mazzetta. Non avevo preso in debita considerazione, però, l’azione della magistratura sul presupposto (ed in tal caso mi iscrivo io al mondo di Heidi) che prima di sbattere in galera un tizio per 81 giorni devo avere in mano prove forse non granitiche ma nemmeno composte da farina. E invece è esattamente quello che è accaduto con la carcerazione dell’amministratore delegato Giuseppe Orsi e al suo collega Bruno Spagnolini che grazie all’azione di una procura di un tribunale periferico, si sono ritrovati, insieme alle loro aziende, su tutte le pagine dei giornali nazionali ed internazionali. L’ennesimo crollo di immagine per il nostro paese unitamente ad una inutile sofferenza umana per i due manager. Questione che si è risolta, in questi giorni, con la assoluzione dei due per l’infangante reato di corruzione internazionale e la condanna per quello, non meno infangante ma infinitamente meno grave, di evasione fiscale per false fatturazioni. Una differenza abissale tra l’ipotesi della accusa e la condanna finale. Se dovessi quantificare il danno di tale improvvida azione probabilmente avrei difficoltà con gli zero. Dieci politici, scelti tra i più ladri e scellerati, non sarebbero riusciti a danneggiare così tanto il nostro paese. Ma tale calcolo sarebbe un inutile esercizio stilistico perché si ha la certezza che quei magistrati, serenamente, continueranno nella loro progressione della carriera potendo, se mai ve ne fosse bisogno, procedere all’arresto di altri innocenti, all’azzeramento di altre commesse, alla distruzione di altre ricchezze. Dal canto loro i giornali potranno, dopo avere asfaltato Orsi e Spagnolini, rivendicare il merito di azzannare i potenti rimuovendo il demerito di non investigare più a causa di una fiducia cieca ed incondizionata nelle salvifiche menti delle procure. Siamo alle solite. Non ci sarà riforma concreta fin tanto che la responsabilità della magistratura sarà affrontata. Per il momento sappiamo che l’unico vero libero arbitrio presente in questo paese appartiene ad una casta: quella della magistratura.

E se lo dice il Fatto…………!!!!!

Finmeccanica, Orsi: "Solo qui i pm decapitano un colosso". Finmeccanica, l'ex ad assolto dalla corruzione: "In nessun posto si arresta senza prove il presidente della più grande industria del Paese", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Il diario scritto in carcere ha 84 pagine, come i giorni passati in galera. «Un po' da solo, un po' con altri detenuti, dipendeva... La cosa più impressionante è che il giorno prima hai a disposizione tutto e tutti, devi decidere se andare a Mosca o a Tokyo, e quando entri lì ti trovi in una gabbia di quattro metri per due, dove devi chiedere il permesso anche solo per farti una doccia, e aspettare il tuo turno». Ma l'esperienza del carcerato preventivo, per Giuseppe Orsi, ex presidente e ad di Finmeccanica arrestato e messo in galera il 12 febbraio 2013, non è nemmeno la ferita più lacerante, dopo l'assoluzione dall'accusa di corruzione internazionale «perché il fatto non sussiste». «Stavo lì dentro, a leggere giornali, a guardare la tv, a sentire gli stessi politici che prima se chiamavo rispondevano, che anzi mi cercavano, e che invece in quei giorni sono in piena campagna elettorale, lei capisce...».

Meglio essere colpevolisti.

«Anche Pier Luigi Bersani, che pure mi conosce bene, poteva dire qualcosa in più, tipo "questo Orsi lo conosco, o è impazzito improvvisamente oppure non ci credo sia un corruttore internazionale". Niente. Allora gli ho scritto una lettera, ma è una cosa privata. La cosa più avvilente era l'impossibilità di comunicare che quello che io stavo leggendo nell'ordinanza non era vero. Vedere in tv il primo ministro indiano che dà per scontata la mia colpevolezza».

Lei come se l'è spiegato?

«Guardi, io credo che in nessuna parte del mondo si sognino di mettere in galera il presidente della più importante industria del Paese se non si hanno motivazioni più che provate. E quindi è molto difficile capire dall'estero che uno possa essere messo in galera senza un processo. Poiché stavo in carcere, fuori dall'Italia pensavano fossi un criminale, e anche pericoloso visto che non potevo uscire nemmeno su cauzione, come prue aveva fatto proprio in quei giorni Pistorius, accusato di omicidio. Lindsay Fox (magnate australiano della logistica, ndr ) parlando con mia moglie al telefono non riusciva proprio a capire perché fossi in galera. Allora ha preso l'aereo, è venuto a Milano dal mio avvocato, per farsi spiegare. Dopo è andato in Duomo, ha preso una cartolina e mi ha scritto: "Italy's fucked up"».

L'Italia è fottuta.

«Poi in un messaggio ha aggiunto: "Trovo arduo credere che un italiano leale che ha sempre lavorato nell'interesse di Agusta e del Paese possa esser messo in carcere senza una prova contro di lui, per non dire della mancanza di un processo". Se lei vede l'ordinanza di arresto si legge "Orsi ha pagato, Orsi ha corrotto, Orsi ha fatto...", tutto il documento dice in modo assertivo che il reato l'ho fatto, il condizionale è solo all'inizio. Tradotto in inglese tutto questo, e distribuito nel mondo, con pezzi di intercettazioni estrapolati dal loro contesto, ha portato le persone, i clienti passati e futuri di Finmeccanica, ad avere perlomeno un momento di sconcerto, a poter pensare che io fossi colpevole e che fossero aziende che corrompevano. Un danno devastante per l'industria italiana, prima ancora che per me. C'è da domandarsi se ci fosse un sufficiente riscontro di prove per causare tanto disastro».

Vuol dire che una Procura dovrebbe avere maggiori attenzioni quando si tratta di un'azienda strategica per il Paese?

«Credo che almeno dovrebbe pensarci bene prima. Si può anche separare la responsabilità personale dal danno che si infligge ad un'azienda decapitandola. Voglio dire, se fossi stato chiamato da un procuratore, convinto di avere le prove della mia colpevolezza, avrei potuto lasciare la carica prima dell'arresto. Una persona dà le dimissioni, la società non soffre il danno».

Danno che, solo rispetto all'India, si è tradotto in 560 milioni di commessa andati in fumo.

«Credo che in India non avessero capito bene che si trattava solo di un'indagine, e non di un fatto accertato. Nella prima parte del processo c'è stata l'istruttoria dell'accusa, e gli indiani erano sconvolti, perché le prendevano non come ipotesi accusatorie ma come dati di fatto. Si convincevano che fossi colpevole. Ritengo che fossero anche irritati dal fatto che uno Stato straniero dicesse che il loro capo di Stato maggiore fosse un corrotto. È comprensibile insomma la posizione del governo indiano».

Il magnate indiano Ratan Tata, però, ha testimoniato in suo favore.

«È venuto apposta a Busto Arsizio per attestare "rispetto e fiducia verso Orsi sia come persona che come manager". Ho avuto molti attestati di stima e solidarietà da chi mi conosceva dopo quarant'anni di lavoro nel settore difesa.

Il capo di un'azienda come Finmeccanica, se indagato per un reato come la corruzione, ha il dovere di dimettersi o no?

«L'indagato deve confrontarsi col proprio consiglio di amministrazione, che può decidere. Io da indagato non mi sono dimesso, avevo tutto il cda dalla mia, fino all'ultimo, e devo dire che non ho avuto alcuna pressione da parte del governo in quel senso. Anzi, l'allora ministro Passera escluse le mie dimissioni dopo l'avviso di garanzia».

Ma la storia della tangente alla Lega, poi dimostratasi una bufala nel processo, com'è nata?

«Da un giro di persone che ha avuto un danno dalla mia nomina. C'era un risentimento nei miei confronti legato all'interruzione di certi affari che io non consideravo corretti. E quindi la volontà di screditarmi con false accuse».

Quelle di aver ricambiato la Lega per la nomina.

«Io non fui nominato grazie alla Lega. Ero nella rosa in quanto manager coi risultati migliori di tutto il gruppo, come ad di AgustaWestland. L'azienda più grande della provincia di Varese, territorio amministrato da molti leghisti, con cui era ovvio avere rapporti istituzionali. Maroni l'ho conosciuto quand'era ministro, mai avuto rapporti personali o di partito».

È stato assolto dall'accusa di corruzione internazionale, ma condannato per false fatturazioni.

«Il Tribunale ha ridotto l'addebito rispetto alla richiesta del pm. Aspettiamo le motivazioni perché è difficile per noi capire le ragioni di questa condanna. Un funzionario di azienda che interesse avrebbe a evadere le tasse? Contiamo di chiarire in Appello anche questo».

Ma chi risarcirà Romeo? Le motivazioni della Cassazione su un processo farsa. Storia esemplare, scrive “Il Foglio”. Come molte inchieste promosse dalla procura napoletana, anche quella su Global service, clamorosa e tragica, divenuta famosa per il suicidio dell’assessore Giorgio Nugnes, si è dimostrata infondata. Le motivazioni con cui la Corte di cassazione ha assolto “perché il fatto non sussiste” il principale imputato, l’imprenditore Alfredo Romeo, non lasciano dubbi. La procura viene criticata per aver messo in piedi un procedimento nonostante il “vuoto probatorio” esteso a tutte le ipotesi accusatorie. Anche le numerose intercettazioni telefoniche che erano state disposte dalla procura erano carenti di giustificazioni che le legittimassero. Romeo, 79 giorni di carcere preventivo, ha visto ristabilita la sua onorabilità, anche se le insinuazioni che per settimane sono state pubblicate sul suo conto dalla stampa lasceranno un segno. L’imprenditore ha commentato esprimendo la convinzione che “per fortuna in questo paese esistono regole di garanzia oltre ogni giustizialismo, e che ci può essere una giustizia giusta grazie a magistrati che hanno rispetto della legge, del loro ruolo e dei diritti dei cittadini”. Parole nobili, soprattutto se si tiene conto che le ha pronunciate chi è stato vittima di una via crucis dolorosissima. Resta da chiedere se gli “altri” magistrati, quelli che hanno imbastito la teoria accusatoria senza prove e riscontri, raccogliendo intercettazioni illegittime, saranno chiamati a rispondere del loro operato. Ma lo sappiamo già: nessuno pagherà.

Chi risarcisce Finmeccanica? Dopo Scaglia e Romeo, un’altra assoluzione che grida giustizia, scrive “Il Foglio”. E siamo a tre. Dopo l’assoluzione con formula piena di Silvio Scaglia (caso Fastweb) e di Alfredo Romeo (per il così detto affaire Global Service), ecco il proscioglimento “perché il fatto non sussiste” per gli ex top manager di Finmeccanica Giuseppe Orsi e Bruno Spagnolini, accusati di corruzione internazionale per presunte tangenti pagate in India nella vendita di elicotteri Agustawestland. La sentenza del tribunale di Busto Arsizio, arrivata giovedì, segue l’archiviazione, ad agosto, dell’accusa di finanziamenti alla Lega nord ricavati dalle tangenti stesse. Per Orsi e Spagnolini è rimasta la condanna a due anni, sospesi, per il reato minore di false fatture. Cade dunque per l’ennesima volta un castello accusatorio tipico di alcuni pm, quello della corruzione internazionale, nel quale si sono specializzati i vari De Pasquale e Woodcock, nonché giornalisti a caccia di sensazionalismo. Ieri, a proposito, sulla “grande stampa” l’assoluzione è finita confinata in poche colonne all’interno (cercatele). In attesa di vedere se una sorte analoga toccherà alle inchieste che, con le medesime accuse complottiste, tesori e tesoretti costituiti in Italia e immancabili faccendieri e logge P4, hanno coinvolto l’Eni in Nigeria e Algeria, si possono intanto contare le vittime di un modo di indagare per teoremi, brogliacci di intercettazioni e verbali passati a reporter che li pubblicano volentieri (con strilli da edizione straordinaria). Le prime vittime sono certo le reputazioni personali degli indagati o imputati; e assieme ci sono l’onore e l’interesse di un sistema imprenditoriale e di un paese che pare interamente modellato sulle invettive di Roberto Saviano o di Sabina Guzzanti. La seconda vittima sono le aziende, che perdono commesse strategiche (come quella indiana) prontamente rimpiazzate dalle concorrenti inglesi, francesi, americane, cinesi, sulle quali la mannaia della corruzione internazionale e dei maxi-complotti non incombe perché il sistema giudiziario è diverso, e perché altrove quei reati non esistono (a meno che non configurino evasione fiscale o benefici personali in patria). A essere colpiti sono poi gli azionisti grandi, come lo stato, e piccoli, come i risparmiatori. Infine gli investimenti, logicamente non certo attratti da un’Italia dove la magistratura, per fare un prigioniero, scatena guerre preventive a tappeto e colpisce nel mucchio.

Sansonetti contro la ridda dei giornalisti che «invocano l’ergastolo professionale per Farina mentre prendono ordini dalle Procure», scrive “Tempi”. La riammissione all’albo di Farina da parte dell’Ordine della Lombardia ha scatenato le proteste dei colleghi, che ora brigano per convocare addirittura una «mobilitazione generale». Il commento di Piero Sansonetti per il Garantista. La recente decisione da parte dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia di riammettere Renato Farina all’albo professionale ha causato, come spiega Repubblica, un «grande subbuglio» all’interno della categoria. Oltre alle dimissioni dal Consiglio nazionale dell’Ordine di Carlo Bonini (Repubblica), Anna Bandettini (Repubblica) e Pietro Suber (Mediaset), ai quali diversi Ordini regionali hanno ritenuto di dover dimostrare «solidarietà» (segnatamente Puglia, Lazio, Liguria, Emilia Romagna e Toscana), il provvedimento ha scatenato – sempre secondo Repubblica – un «tam tam tra giornalisti» che testimonia una certa «aria di rivolta: con richieste di assemblee, con la proposta di un’autosospensione generale dall’Ordine, e con la richiesta di riunire tutti i Comitati di redazione (gli organismi sindacali delle testate) per concordare una mobilitazione generale». Pubblichiamo il commento a queste notizie scritto da Piero Sansonetti per il Garantista. Ho scoperto che tra i miei colleghi giornalisti ci sono diverse persone di idee naziste. Stanno organizzando una mobilitazione generale della categoria per linciare Renato Farina. Dicono che è un appestato, che ha lavorato per i servizi segreti, che merita l’ergastolo – almeno l’ergastolo professionale, cioè la proibizione per il resto della sua vita, e forse anche quella dei suoi figli, di scrivere sui giornali – dicono che se lui fa parte dell’Ordine dei giornalisti loro se ne vanno e che sarebbe bene radunare tutti i comitati di redazione contro Farina, e che è indegno e altre cosette così. A me queste persone fanno paura. Non riesco a  immaginarle senza una divisa addosso, un elmetto, un paio di “esse” stilizzate sulle spalline. Loro vivono di odio, senza odio appassiscono, non ce la fanno: e per odiare hanno bisogno di qualcuno di debole, sconfitto, per poterlo pestare senza troppi rischi. Renato Farina è l’ideale. Sapete chi è Renato Farina? Un giornalista di lungo corso, firma di punta prima del Sabato, che era il giornale di Cl, e poi de Il Giornale di Feltri, di Libero e di nuovo del Giornale con Sallusti. Farina è accusato di avere lavorato per i servizi segreti. Sicuramente era legato all’ufficio dell’ex direttore del Sismi Niccolò Pollari e ha collaborato con lui. Farina dice di averlo fatto per “un’etica superiore”. È da discutere che esista un’etica superiore che imponga ai giornalisti di non essere indipendenti. Io non credo che esista questa etica. Però, secondo il vecchio insegnamento evangelico, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Non credo che Farina sia l’unico giornalista italiano amico di 007 e che quindi viola la legge del ’77 che proibisce i rapporti tra giornalisti e servizi segreti. Gran parte del miglior giornalismo giudiziario italiano ha buoni rapporti coi servizi. Non sappiamo chi, non conosciamo i nomi (magari li immaginiamo) ma sappiamo che se non ci fossero questi rapporti non ci sarebbero neanche gli scoop, numerosi – tutti con fonte gli 007 – che spesso abbelliscono le cronache dei grandi quotidiani e settimanali. Perché allora accanirsi contro Farina che ha solo la colpa di essersi fatto beccare? Perché il suo referente, Pollari, era caduto in disgrazia mentre altri 007 salivano la collina del potere? Comunque, Farina si fa beccare – circa 7 anni fa – e l’Ordine lo sospende per un anno. Poi interviene la Procura di Milano che chiede all’Ordine di radiarlo, perché la Procura di Milano è abbastanza raro che si faccia – come dire? – i cazzi suoi, e magari si dimentica qualche inchiesta importante nel cassetto ma se c’è da far casino per proteggere i suoi giornalisti e punire gli altri, non si tira mai indietro. E così l’Ordine radia Farina a vita. Dice che è indegno. Poi qualcuno ci dovrà spiegare perché è indegno uno che ha brigato coi servizi e non è indegna una intera categoria (quella dei giornalisti giudiziari) che – forse con massimo 7 o 8 eccezioni – è totalmente all’ordine delle Procure, sdraiata, si limita a copiare le carte che riceve senza fare domande, e in questo modo inquina in modo devastante tutta l’informazione, specie quella che riguarda la politica e l’economia, ma non solo. Temo che nessuno ce lo spiegherà. Chissà se un deputato presenterà mai in Parlamento una legge come quella del ’77 sugli 007, che dica: “I giornalisti non devono prendere ordini dalle Procure…” Ve l’immaginate una cosa del genere? Comunque ora l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha deciso di riammettere Farina. Dimostrando che in fondo anche tra i giornalisti c’è qualcuno che un po’ di sale in zucca ce l’ha. E i colleghi nazisti non hanno perso tempo e stanno facendo un casino del diavolo. Dicono che o l’Ordine della Lombardia si rimangia il provvedimento o mettono a soqquadro tutto. Forse nei prossimi giorni organizzeranno una manifestazione a piazza San Babila per fare un falò coi libri di Farina. Farenheit, il film, vi ricordate Farenheit?

CARCERI A SORPRESA. LE CELLE LISCE E LE ISPEZIONI SENZA PREAVVISO.

Nella “cella liscia”, dove si torturano i detenuti. È una cella completamente vuota. Senza servizi. Senza letto. Buia. È dove si “puniscono” i detenuti, scrive Arianna Giunti su “L’Inkiesta”.

Lettura. Mercoledì 19 febbraio 2014: il Parlamento approva il controverso “decreto carceri”, un pacchetto di norme mirato a sfoltire la popolazione penitenziaria e migliorare le condizioni dei detenuti. Il decreto è la diretta conseguenza della “sentenza Torreggiani”, la pronuncia con cui nel 2013 l’Europa ha condannato l’intero sistema carcerario italiano per le condizioni inumane applicate in cella: ma cosa succede davvero dietro le sbarre delle nostre carceri quando i cancelli si chiudono alle spalle del detenuto? Lo racconta la giornalista Arianna Giunti nell’ebook La cella liscia- Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane , appena edito da Informant e disponibile in tutti gli store online, di cui pubblichiamo un estratto.

La chiamano “liscia” perché è una cella completamente vuota, senza mobili, senza branda, senza tubi, maniglie o qualsiasi altro oggetto che possa essere utilizzato come appiglio. Fisico e mentale. E’ stretta, buia, ha un odore nauseante e più che a una camera di sicurezza assomiglia a una segreta medievale. Perché – appunto – esattamente di tortura si tratta. E’ lì che secondo i racconti di alcuni detenuti verrebbe rinchiuso chi sgarra, chi si oppone a un ordine o semplicemente chi è colpito da crisi isteriche o psichiatriche. A volte solo per una notte, più spesso per un’intera giornata. La punizione consiste nel provocare l’annichilimento e l’annientamento psicologico del detenuto, che viene lasciato solo, completamente nudo e al buio. Ogni tanto entra qualcuno per portare l’acqua. Ma non è mai una visita piacevole, perché volano botte e schiaffi, frustate con uno straccio bagnato per non lasciare segni sul corpo, e spesso il carcerato è costretto a fare flessioni ripetute davanti alle guardie. Non esistono sanitari, nella cella liscia. Il detenuto deve fare i propri bisogni sul pavimento, dove è costretto a dormire. L’aria infetta attira gli scarafaggi, che escono dagli anfratti del muro e brulicano per la stanza, infestano il cibo e camminano sopra il corpo del carcerato se lui per caso smette di muoversi. Solo prima di lasciare la cella, al prigioniero viene dato un tubo d’acqua con il quale lavare via i suoi stessi escrementi. Quasi tutte le attuali sezioni d’isolamento dispongono ancora di una cella liscia. Eredità antica, dura a morire. Dura anche da ascoltare e raccontare. Dura da far comprendere a chi lì dentro non ha mai messo piede e non sa, non può, non vuole immaginare che in pieno terzo millennio uno Stato democratico ed evoluto possa ancora ricorrere a strumenti così aberranti. Eppure i casi di cronaca legati alle “celle lisce” sono tanti e documentati. Prendiamo ad esempio il carcere di santa Maria Maggiore, a Venezia, che nel 2009 ha attirato l’attenzione della magistratura dopo il suicidio di un cittadino marocchino di ventisei anni di nome Mohammed. I giudici volevano accertare se la cella liscia fosse stata impiegata per ospitare momentaneamente i detenuti “nuovi giunti” in attesa di essere assegnati in sezione, oppure come cella d’isolamento. Dopo la morte di Mohammed il sostituto procuratore Stefano Michelozzi aveva indagato per omicidio colposo due ispettori della penitenziaria: il responsabile del reparto, dove è avvenuto il suicidio, e il responsabile della sorveglianza generale. Secondo il magistrato nella condotta dei due graduati si evidenziavano possibili carenze e omissioni nella gestione del detenuto, che in manifeste condizioni di sofferenza psichica aveva già tentato il suicidio poche ore prima della morte. Abbandonato a se stesso e alla sua disperazione, aveva sfilettato con i denti la coperta di lana che gli era stata data come giaciglio per farne una treccia che poi era riuscito a utilizzare per appendersi alla finestra. Quell’episodio aveva suscitato numerose proteste tra i suoi compagni e attraverso le loro lettere pubblicate anche dal sito dell’associazione Ristretti Orizzonti sono state ricostruite le fasi precedenti il suicidio. “Dopo il primo tentativo di farla finita”, scriveva un testimone, “Mohammed è stato portato in una cella di punizione che puzza tanto da far vomitare e che è buia più di una grotta. Lo so perché ci sono stato. Gli hanno prima tolto i vestiti e poi sarebbe stato spinto dentro solo con una coperta senza neppure farlo visitare da un medico o da uno psichiatra. Perché nessuno ha controllato cosa faceva e come stava? Non era meglio lasciarlo con i compagni, che pure avevano chiesto di lasciarlo con loro?”. Domande che sono rimaste senza risposta. Della tortura della cella liscia aveva parlato prima di morire anche Carlo Marchiori, richiuso in carcere per motivi di droga e ritrovato cadavere nella sua cella a 30 anni non ancora compiuti. La storia di questo giovane detenuto oggi prende vita attraverso le parole di suo padre, Antonio Natale, che con dignità e coraggio vuole capire che cosa sia realmente successo quella sera di novembre di nove anni fa. La sua è la storia di un amore incondizionato, che va oltre gli errori e il dolore, e che attraversa gli anni diviso a metà fra la piena consapevolezza della fragilità di suo figlio e la tenace ricerca della verità. Non perché non si rassegni a questa tragica morte, ma perché tutto questo non accada mai più. “Io e mia moglie sapevamo che Carlo faceva uso di sostante stupefacenti”, racconta oggi Antonio, “era spesso violento, ci chiedeva continuamente soldi. Per questo motivo, un giorno, stremati da questa situazione, abbiamo deciso di denunciarlo ai carabinieri”. Correva l’anno 2003, e dopo alcuni mesi di detenzione a San Vittore, Carlo passa da un carcere all’altro, fino ad arrivare al Mammagialla di Viterbo.  Lì si trova bene, fa amicizia con il suo compagno di cella e riesce a mangiare il cibo che la mamma del suo “coinquilino” gli fa recapitare in carcere. Un giorno, però, litiga con una guardia. E per la prima volta sperimenta la cella liscia. “Dopo un mese di detenzione al Mammagialla, durante uno dei colloqui mio figlio mi disse che lo avevano portato nella cella liscia. ‘E che cos’è la cella liscia?’, gli chiesi”.  La risposta di Carlo lo lascia di sasso. Vorrebbe abbracciarlo ma il suo corpo è come paralizzato.  “Quando sei rinchiuso da solo al buio in quella cella”, scandisce il figlio con un filo di voce, “perdi la cognizione del tempo. Ti sembra che sia passata un’ora e invece sono appena dieci minuti. Ti sembra che sia passata una giornata e invece sono solo due ore”.  Il suo resoconto è agghiacciante: “Al freddo, nudo, su un pavimento che puzza di pipì rancida, ogni tanto entrano due agenti che ti portano l’acqua. Ti fanno fare dieci piegamenti e ti danno dieci sberle. Altri dieci piegamenti e altre dieci sberle. Fino a che non crolli. Ma tu, pur di non restare solo a impazzire, aspetti quei momenti come fossero una cosa bella”. Qualche settimana dopo, il suo compagno di cella viene trasferito in un altro carcere due mesi prima della scarcerazione. Per Carlo è un dolore enorme, reagisce con rabbia scaraventando un fornellino da cucina contro un agente della penitenziaria. La rappresaglia è tremenda: viene lasciato nella cella liscia un’intera settimana. “Mi sembrava fosse trascorso un anno”, racconterà al padre, “e invece erano solo sette giorni”. Poco tempo dopo viene trasferito nel carcere di Monza. Le sue telefonate sono sempre più rare, durante le visite è cupo e sofferente. Alla mamma, una sera, dice: “Non arriverò a compiere 30 anni”. Morirà il 5 novembre 2005, 11 giorni prima del suo compleanno. Antonio Marchiori non si rassegna, vuole conoscere la verità, e chiede al carcere la cartella clinica del figlio. Scopre che non è mai stata redatta né firmata, e gliela consegnano solo 18 giorni dopo. Quei fogli, compilati svogliatamente dai medici in un freddo linguaggio tecnico, non chiariscono però quali siano state realmente le cause della morte di Carlo. Così presenta un esposto alla Procura di Monza, che però non dispone alcuna autopsia. Il padre di Carlo si scontra contro un muro di gomma anche quando chiede un appuntamento al direttore del penitenziario, dove suo figlio ha passato i suoi ultimi giorni: “Mi dispiace, non posso aiutarla”, si sente ripetere. E non gli ha teso una mano neppure chi davvero avrebbe potuto aiutarlo ad arrivare alla verità, gli ex compagni di cella del figlio. Che non hanno mai voluto testimoniare. 

Benvenuti nella “cella liscia”. Ecco dove vengono torturati i detenuti nelle carceri italiane, scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Intervista ad Arianna Giunti, che ha raccolto in un libro le testimonianze inedite delle vittime di questa “tradizione” disumana. Ennesima stortura di un sistema penitenziario da terzo mondo. «È stato il padre di Carlo M., detenuto morto in carcere, a raccontarmi per primo della “cella liscia”, come è chiamata nel gergo carcerario. Per lavoro mi occupo spesso di carcere, ma fino ad allora non ne avevo mai sentito parlare. L’uomo mi ha raccontato di questa forma di tortura, su cui solo oggi per fortuna si inizia a fare progressivamente luce». Arianna Giunti, giornalista freelance per il gruppo L’Espresso (premio Guido Vergani “cronista dell’anno” 2010), racconta a tempi.it com’è nato l’ebook-inchiesta La cella liscia. Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane (edizioni Informant). Attraverso documenti e testimonianze dettagliate, Giunti è riuscita a ricostruire aspetti sconosciuti dell’ingiustizia che è diventato il sistema carcerario italiano, fatto di soprusi e violenze, oltre che di una generale indifferenza per il fallimento della funzione rieducativa della pena.

Cos’è la “cella liscia”?

«Proprio in questi giorni è stata avviata un’inchiesta dalla procura di Napoli basata su circa 70 esposti di carcerati che denunciano l’esistenza di questa cella liscia o “cella zero”. Si chiama “liscia” perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari (i detenuti sono costretti a fare i loro bisogni sul pavimento), né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Stando alle testimonianze raccolte, il detenuto viene rinchiuso lì per punizione, a volte solo per alcune ore, in altri casi anche per una settimana. Viene lasciato per tutto il giorno da solo, abbandonato a se stesso. I testimoni all’unanimità riferiscono che una volta al giorno nella cella liscia si è sottoposti a pestaggio da parte degli agenti. Il detenuto Carlo Marchiori, finito in cella al Mammagialla di Viterbo per droga, prima di morire nel 2005 aveva raccontato al padre della cella liscia: «Al freddo, nudo, su un pavimento che puzza di pipì rancida, ogni tanto entrano due agenti che ti portano l’acqua. Ti fanno fare fieci piegamenti e ti danno dieci sberle. Altri dieci piegamenti e altre dieci sberle. Fino a che non crolli. Ma tu, pur di non restare solo a impazzire, aspetti quei momenti come se fossero una cosa bella»».

Ci sono celle lisce in tutte le carceri italiane?

«Solo negli istituti dove ci sono ancora le celle di isolamento: oltre al caso di Viterbo, ho raccolto testimonianze relative al Santa Maria Maggiore di Venezia, Le Sughere di Livorno, Marassi di Genova, Sollicciano di Firenze, la casa circondariale di Asti».

Però le segnalazioni citate nel libro e raccolte dall’osservatorio “Ristretti orizzonti” non hanno prodotto molte inchieste da parte della magistratura, e quando questo è avvenuto i processi si sono chiusi senza condanne. Come si è convinta che non si trattava di fantasie dei carcerati?

«Quasi tutte le testimonianze che ho raccolto sono frutto di confidenze dei detenuti ai parenti, consegnate in alcuni casi prima di morire dietro le sbarre. Sottolineo che quelle che avvengono nelle celle lisce non sono torture che portano direttamente al decesso, non c’è un nesso causale dimostrato. Non sono pestaggi violenti, ma resta il fatto che sono abusi. Le testimonianze mi hanno convinta perché combaciano perfettamente tra loro pur provenendo da detenuti in carceri geograficamente distanti, che non erano in contatto tra loro. Inoltre le parole delle vittime non sono mai intese ad accusare la guardia di turno o altre persone in particolare, non sono dettate da sete di vendetta. E poi una sentenza che ha riconosciuto l’esistenza di questa forma di “tortura” c’è».

Di quale sentenza parla?

«Parlo del caso di Claudio Renne e Andrea Cirino. I due erano detenuti nel carcere di Asti e i fatti che hanno raccontato alla magistratura sono avvenuti nel 2004. Come molti altri, però, temevano ritorsioni anche dopo la scarcerazione, quindi hanno sporto denuncia sulla cella liscia solo nel 2010, appoggiati dall’associazione Antigone. Nel libro ricostruisco le prove che hanno portato il tribunale a emettere nel dicembre 2012 una sentenza di condanna nei confronti di quella che i giudici hanno definito «la squadretta» di guardie: due dei quattro responsabili sono stati radiati dalla polizia penitenziaria un anno fa. Ma nel frattempo i reati erano caduti in prescrizione. Del resto erano reati lievi, visto che in Italia non esiste il crimine di “tortura”. L’indagine aperta adesso a Napoli invece promette qualcosa di più, perché in questo caso un garante dei detenuti ha raccolto per iscritto settanta testimonianze».

Nel libro affronta anche un aspetto meno drammatico ma ugualmente grave dell’emergenza carcere, la mancata funzione rieducativa della pena.

«La funzione rieducativa manca assolutamente, quindi i detenuti italiani sono “condannati a vita” a non ritrovare una normalità, con rischi di recidiva altissimi, tra i più alti d’Europa. Solo il 17,5 per cento degli oltre 67 mila detenuti in Italia lavora: sono 11.579 persone. A queste si aggiungono solo altri 2.266 fortunati, impiegati per altri datori. E se possibile, una volta fuori, i detenuti si trovano spesso davanti a prospettive ancora più cupe. Posso raccontare una storia emblematica?»

Prego.

«Mi ha colpita molto la vicenda di Sebastiano, 35 anni, ex detenuto a San Vittore, Milano, per piccoli reati di droga. In carcere Sebastiano era riuscito a disintossicarsi e aveva imparato a fare il giardiniere, sperando «che da quel momento non avrei più commesso cazzate». Una volta uscito di galera, però, si è ritrovato addosso un marchio indelebile. Quindici giorni dopo la scarcerazione ha trovato lavoro come pony express, ma a un certo punto ha iniziato improvvisamente a soffrire di crisi di panico: quando per strada sentiva le sirene delle volanti o vedeva un uomo in divisa, gli si annebbiava la vista e non riusciva più a muoversi. «Sette anni di carcere non passano indenni», mi ha raccontato. Avrebbe dovuto iniziare un percorso psicoterapeutico, ma non poteva permetterselo. Così lo hanno licenziato dicendogli: «Sappiamo dei suoi problemi passati, ma non possiamo permetterci persone problematiche». Nel mese successivo ha fatto un altro colloquio e lo ha superato. Ma quando si è presentato nella nuova azienda, si è visto sbattere la porta in faccia: «Ci spiace, deve esserci stato un errore, lei ha precedenti penali». Oggi, cinque anni dopo la scarcerazione, Sebastiano sta ancora provando a reinserirsi nel mercato del lavoro. Non ce l’ha ancora fatta. Nel libro racconto anche il caso di un uomo, Marcello, ingiustamente rinchiuso in prigione in via cautelare e poi scagionato dalle accuse: nemmeno l’assoluzione è servita a cancellare dal suo curriculum l’onta della detenzione».

Le «celle lisce», in particolare, sono un problema antico e mai risolto. Ci finiscono in tanti: dai cosiddetti "psichiatrici" ai "depressi". Spesso anche le matricole, che non reggono l'urto del carcere e manifestano propositi suicidari. Sono celle piantonate da un agente h24, per controllare, da uno psichiatra, per somministrare la terapia. Le chiamano «lisce» perché, per evitare che il detenuto "si faccia male", c'è solo una branda di ferro, spesso senza materasso e lenzuola. Ma poiché il carcere "fa male", nasce un circolo vizioso: il detenuto deve restare in cella liscia finché non è guarito, ma se non lascia la cella liscia continua a star male. Quindi, starà sempre male. D'altra parte, nessuno si assume la responsabilità di cambiare procedura, rispondendo con un atto di cura - e non di punizione - a una chiara esigenza di cura. Non a caso gli psichiatri concordano che per curare la salute mentale dentro il carcere bisogna fare guerra al sistema carcerario. Perché il funzionamento del carcere si misura sulla sua vivibilità, intesa come qualità della vita.

«Hanno tentato in tutti i modi di non farmi entrare - dice l’On. Enza Bruno Bossio su Gazzetta del Sud 11 agosto 2014 - Mi chiedevano di tornare in altro momento, adducendo che non vi era in servizio né il Direttore né il Comandante di Reparto. Alla fine, solo per la mia ferma opposizione, gli Agenti di Polizia Penitenziaria mi hanno consentito di entrare. E’ stato comunque impedito l’ingresso all’esponente dei radicali Emilio Quintieri con il quale stiamo facendo diverse visite ispettive a sorpresa. Ieri mi sono presentata alla Casa di reclusione di Rossano per svolgere, come mi consente la mia funzione di parlamentare della Repubblica, una ispezione, Una delle tante che sto compiendo in questi mesi. Com’è noto l’Art. 67 dell’Ordinamento Penitenziario consente anche ai membri del Parlamento ed ai loro accompagnatori di ispezionare in qualunque momento gli Istituti Penitenziari senza la necessità di essere autorizzati per accertare se le condizioni di detenzione siano conformi al dettato costituzionale e cioè che non siano contrarie al senso di umanità e che rispettino la dignità della persona. Volevo verificare, in particolare, la condizione di un detenuto che avevo precedentemente incontrato a Catanzaro e che, dalla sera alla mattina, senza alcun motivo, era stato trasferito al Carcere di Rossano anche perché, lo stesso, tramite i familiari, mi aveva segnalato che si trovava segregato in isolamento in modo inumano e gli avevano bloccato la corrispondenza epistolare e telegrafica anche con me mentre non lo potevano fare. Gli Agenti della Polizia Penitenziaria credevano, invece, che si trattasse di una “tranquilla visita di cortesia”. Tant’è vero che mi hanno detto: “Onorevole, attenda in questa stanza, le andiamo a prendere il detenuto che ha chiesto di vedere.” Io mi sono opposta dichiarando il carattere ispettivo della mia visita tesa ad accertare le condizioni in cui era ristretto il detenuto in questione. Finalmente ho potuto visitare il Reparto di Isolamento, posto al piano terra della struttura penitenziaria che, attualmente, a fronte di una capienza regolamentare di 215 posti, ospita 258 detenuti (43 in esubero), tantissimi dei quali appartenenti al Circuito differenziato dell’Alta Sicurezza (AS3 ed AS2). Gli Agenti stavano provvedendo a chiudere le porte blindate delle celle di tutti i detenuti allocati in Isolamento, lasciando aperta solo quella del detenuto che volevo visitare. Ad un certo momento gli altri ristretti si sono messi ad urlare chiedendo che vedessi in che condizioni erano costretti a vivere. Ho chiesto di aprire le celle ma gli Agenti mi hanno detto che non avevano le chiavi per cui non sono potuta entrare. In ogni caso ho visto le condizioni illegali che, sinceramente, non pensavo esistessero in un carcere d’Italia. Ho trovato detenuti sostanzialmente nudi, soltanto con gli slip, in delle celle in cui non c’era neanche il letto, quindi seduti per terra, in mezzo ai loro escrementi, al vomito ed ai piatti sporchi. Uno di loro, italiano, era stato messo lì per aver tentato il suicidio e quindi, assolutamente, non poteva essere tenuto in isolamento. L’esperienza ha dimostrato gli effetti deleteri che l’isolamento produce sulla psiche e sul fisico delle persone costrette a subirlo. Gli altri due, a quanto pare, avevano tentato una evasione. Questi ultimi hanno sostenuto di essere stati pestati dalla Polizia Penitenziaria ed infatti si vedeva che avevano ricevuto delle percosse. Ad uno di loro avrebbero rotto anche un orecchio e non avrebbero ricevuto alcuna assistenza sanitaria. Ho avuto anche un duro colloquio telefonico con la comandante della Polizia Penitenziaria di Rossano che mi contestava il diritto/dovere di svolgere ispezioni senza preavviso. Nei prossimi giorni presenterò una interrogazione a risposta scritta rivolta al Governo e ritornerò a Rossano per compiere una ulteriore ispezione».

Ispezione al carcere di Rossano: il drammatico racconto dell'onorevole Bossio, scrive Andrea Spinelli su “Crime Blog”. Sul carcere di Rossano (Cs): la parlamentare PD denuncia una situazione drammatica per i detenuti in isolamento. La frase clou si è sentita al termine dell'ispezione del carcere di Rossano (un diritto dovere di ogni parlamentare, del quale non molti si avvalgono): "Onorevole lei non si doveva permettere di venire al Carcere senza preavviso. Quando si va a casa degli altri si chiede il permesso." Questo è quanto è stato detto alla parlamentare del Partito Democratico Enza Bruno Bossio dal Comandante della Polizia Penitenziaria di Rossano, il Vice Commissario Elisabetta Ciambriello, al termine dell'ispezione della deputata presso il carcere cosentino. Bossio si era recata nel tardo pomeriggio di sabato 9 agosto ai cancelli del carcere calabrese dopo che, da tempo, intrattiene una conversazione epistolare con un detenuto in isolamento. Tra i diritti-doveri dei parlamentari infatti c'è quello delle visite ispettive nelle carceri italiane, cosa che gli onorevoli deputati e senatori possono fare in qualunque momento e in qualunque carcere dello Stivale: memorabili le visite ispettive dei deputati e dei senatori Radicali durante la loro permanenza in Parlamento, grazie alle quali è stato possibile far uscire dalle mura delle carceri le violenze, il disagio e sopratutto il regime di illegalità dilagante che imperversa un po' in tutte le case circondariali italiane. Un diritto dovere codificato all'art. 67 dell’Ordinamento Penitenziario, che consente proprio ai membri del Parlamento ed ai loro accompagnatori di ispezionare in qualunque momento gli Istituti Penitenziari senza la necessità di essere autorizzati per accertare se le condizioni di detenzione siano conformi al dettato costituzionale e cioè che non siano contrarie al senso di umanità e che rispettino la dignità della persona. Al suo arrivo al carcere di Rossano la deputata Bossio è stata in ogni modo ostacolata nella sua visita: inizialmente gli agenti di Polizia Penitenziaria si rifiutavano addirittura di farla entrare, cosa avvenuta solo al termine di molte insistenze della parlamentare e l'accettazione di rinunciare ai propri accompagnatori (di fatto, un diritto negato alla stessa parlamentare). A convincere Enza Bruno Bossio a visitare il carcere di Rossano è stata, dicevamo, una conversazione epistolare e telegrafica con un detenuto che lamentava, nei suoi scritti, di essere ristretto in un regime di isolamento inumano nel quale gli erano negate anche lettere e telegrammi. Inizialmente gli agenti si erano offerti di portare il detenuto dalla Parlamentare in parlatorio, ma anche qui, dopo lunghe insistenze, la deputata democratica è riuscita a farsi condurre nel Reparto di Isolamento del carcere: "Gli Agenti stavano provvedendo a chiudere le porte blindate delle celle di tutti i detenuti allocati in Isolamento, lasciando aperta solo quella del detenuto che volevo visitare. Ad un certo momento gli altri ristretti si sono messi ad urlare chiedendo che vedessi in che condizioni erano costretti a vivere. Ho chiesto di aprire le celle ma gli Agenti mi hanno detto che non avevano le chiavi per cui non sono potuta entrare. In ogni caso ho visto le condizioni illegali che, sinceramente, non pensavo esistessero in un carcere d’Italia. Ho trovato detenuti sostanzialmente nudi, soltanto con gli slip, in delle celle in cui non c’era neanche il letto, quindi seduti per terra, in mezzo ai loro escrementi, al vomito ed ai piatti sporchi. Mi riferisco, in particolare, alle celle 1, 2 e 7. Uno di loro, italiano, era stato messo lì per aver tentato il suicidio e quindi, assolutamente, doveva essere tenuto in Isolamento. L’esperienza ha dimostrato gli effetti deleteri che l’isolamento produce sulla psiche e sul fisico delle persone costrette a subirlo. Gli altri due, a quanto pare, avevano tentato una evasione. Questi ultimi hanno sostenuto di essere stati pestati dalla Polizia Penitenziaria ed infatti si vedeva che avevano ricevuto delle percosse. Ad uno di loro avrebbero rotto anche un orecchio e non avrebbero ricevuto alcuna assistenza sanitaria". Il carcere di Rossano registra anch'esso un grave stato di sovraffollamento: a fronte di una capienza regolamentare di 215 posti ospita infatti ben 258 detenuti, tra cui molti ristretti in regime di Alta Sicurezza. L'atteggiamento ostracista della Polizia Penitenziaria è già stato segnalato dalla parlamentare del PD a chi si occupa di carceri da una vita, il segretario di Radicali Italiani Rita Bernardini, ma anche al responsabile carceri del PD ed alla segreteria del Ministro Andrea Orlando; nei prossimi giorni la parlamentare procederà anche ad una formale denuncia indirizzata alla Procura della Repubblica di Castrovillari ed ad una Interrogazione a risposta scritta rivolta al Governo. Va detto che quanto riferito dal vice Commissario Ciambriello all'onorevole Bossio è, in sostanza, fondamentalmente sbagliato: i parlamentari, ed in particolare quelli del Sindacato Ispettivo Parlamentare, hanno una sorta di diritto/dovere in tal senso: le condizioni del carcere di Rossano raccontate dall'onorevole Bossio dimostrano l'importanza di tali visite.

In cella nudi tra vomito e escrementi. Abu Ghraib è in Calabria. Il blitz della deputata Bruno Bossio, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Costretti a vivere nelle loro feci e nel loro vomito. A dormire per terra, senza un materasso. I detenuti delle celle 1, 2 e 7 hanno ematomi su tutto il corpo. Alcuni di loro sostengono di essere stati pestati dai carcerieri. Ad uno gli avrebbero rotto un orecchio a forza di botte. Nessun medico, dice, l’ha poi visitato. Segregati completamente, anche durante l’ora d’aria che viene trascorsa in uno spazio più piccolo della cella, circondata da una rete metallica. Non è la descrizione del carcere di Guantamo o di Abu Grahib, e nemmeno delle celle turche descritte nel film “Fuga da mezzanotte”. Accade qui da noi. A Rossano, provincia di Cosenza. Nello stesso carcere dove circa un mese fa un detenuto di etnia curda si è dato fuoco usando la piccola bomboletta di gas del fornellino usato per cucinare ed un accendino. Due anni fa si è suicidata anche una guardia carceraria, un assistente capo di 44 anni. Si è sparato un colpo di pistola alla tempia. A descrivere l’orrore del carcere di Rossano è la deputata Enza Bruno Bossio del partito democratico. Ha accertato le condizioni inumane e degradanti durante una visita ispettiva, senza preavviso. Accompagnata dal Emilio Quintieri, ragazzo dei Radicali, calabrese, da sempre attento i diritti dei detenuti. Gli addetti del carcere hanno cercato di impedire la visita della deputata, chiedendole di entrare in un altro momento. Lei ha insistito e alla fine hanno acconsentito che entrasse, ma da sola. Poiché voleva capire come mai un detenuto che era al carcere di Catanzaro fosse stato trasferito all’improvviso a quello di Rossano, la deputata ha accettato di entrare alle condizioni poste. Una volta varcata la soglia dell’ istituto ha trovato una condizione terribile. Il detenuto in questione era in un reparto di isolamento. Non l’hanno fatta entrare nella sua cella, che comunque presentava condizioni accettabili. I familiari avevano detto alla Bruno Bossio che gli era stata bloccata la corrispondenza epistolare. Ad un certo punto però i detenuti, per attirare l’attenzione della deputata, si sono messi a gridare e allora ha potuto scoprire una situazione che lei non pensava nemmeno potesse esistere all’interno di un carcere italiano. Una realtà atroce che in pochi hanno l’opportunità di vedere, compresi i deputati che fanno le visite ispettive con preavviso: detenuti semi-nudi, con le sole mutande addosso; un uomo in una cella senza il letto né un materasso, seduto per terra in mezzo ai suoi escrementi e sporcizia; un altro ha il letto nella, ma senza lenzuola e non ha vestiti; un altro per terra circondato dal suo vomito perché sta male, è celiaco e vomita in continuazione. Ha visto detenuti ricoperti di lividi, uno con un orecchio rotto che non ha ricevuto nessuna assistenza sanitaria. Le guardie si sono giustificate dicendo che questi detenuti sono tenuti in quelle condizioni perché hanno tentato il suicidio, altri perché hanno tentato di evadere. Giustificazione senza senso, l’esperienza ha dimostrato gli effetti deleteri che l’isolamento produce sulla psiche e sul fisico delle persone costrette a subirlo. Ad aggravare la situazione è stata la telefonata della comandante delle guardie penitenziarie, la vice commissaria Elisabetta Ciambrello: ha insultato la deputata dicendole che non si doveva permettere di entrare in carcere senza chiedere prima il permesso. Le è stato ricordato che il regolamento, per quanto riguarda le visite ispettive parlamentari, permette di fare le ispezioni anche all’improvviso e senza chiedere il permesso a nessuno. Enza Bruno Bossio ha informato dell’accaduto la segretaria dei radicali Rita Bernardini, il responsabile nazionale carceri del Pd Sandro Favi e la segreteria del ministro della giustizia Orlando. Nei prossimi giorni procederà ad una formale denuncia indirizzata alla procura di Castrovillari e presenterà un’interrogazione parlamentare per chiedere una risposta scritta del governo. Il Ministro ha fatto sapere di essere stato informato della visita della deputata del Pd e di essere anche lui indignato, e ha giurato che interverrà immediatamente. Speriamo che sia vero, speriamo che lo faccia con efficacia.

Carcere Rossano, Bruno Bossio: “Hanno tentato di non farmi entrare”, scrive “cn24tv”. “Mi chiedevano di tornare in altro momento, adducendo che non vi era in servizio né il Direttore né il Comandante di Reparto. Alla fine, solo per la mia ferma opposizione, gli Agenti di Polizia Penitenziaria mi hanno consentito di entrare privandomi dei miei collaboratori tra cui l’esponente radicale Emilio Quintieri con il quale stiamo facendo diverse visite ispettive a sorpresa.” E’ quanto denuncia Enza Bruno Bossio, Deputato del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia che nel tardo pomeriggio di ieri, si era presentata, senza alcun preavviso, alla Casa di Reclusione di Rossano per effettuare una ispezione. Com’è noto l’articolo 67 dell’Ordinamento Penitenziario consente anche ai membri del Parlamento ed ai loro accompagnatori di ispezionare in qualunque momento gli Istituti Penitenziari senza la necessità di essere autorizzati per accertare se le condizioni di detenzione siano conformi al dettato costituzionale e cioè che non siano contrarie al senso di umanità e che rispettino la dignità della persona. “Volevo verificare, in particolare, la condizione di un detenuto che - racconta la Bossio - avevo precedentemente incontrato a Catanzaro e che, dalla sera alla mattina, senza alcun motivo, era stato trasferito al Carcere di Rossano anche perché, lo stesso, tramite i familiari, mi aveva segnalato che si trovava segregato in isolamento e gli avrebbero bloccato la corrispondenza epistolare e telegrafica anche con me mentre non lo potevano fare. Gli Agenti della Polizia Penitenziaria credevano, invece, che si trattasse di una tranquilla visita di cortesia”. Tant’è vero che avrebbero detto alla Parlamentare, secondo quanto riferisce lei stessa: “Onorevole, attenda in questa stanza, le andiamo a prendere il detenuto che ha chiesto di vedere.” La Bruno Bossio però si è opposta: “Questa è una ispezione, voglio andare a vedere dov’è ristretto questo detenuto e le condizioni delle celle. Non serve a nulla avere un colloquio in questa stanza”. Detto questo, finalmente, ha avuto la possibilità di accedere nel Reparto di Isolamento, posto al piano terra della struttura penitenziaria che, attualmente, a fronte di una capienza regolamentare di 215 posti, ospita 258 detenuti (43 in esubero), tantissimi dei quali appartenenti al Circuito differenziato dell’Alta Sicurezza (AS3 ed AS2). “Gli Agenti stavano provvedendo a chiudere le porte blindate delle celle di tutti i detenuti allocati in Isolamento - aggiunge la parlamentare - lasciando aperta solo quella del detenuto che volevo visitare. Ad un certo momento gli altri ristretti si sono messi ad urlare chiedendo che vedessi in che condizioni erano costretti a vivere. Ho chiesto di aprire le celle ma gli Agenti mi hanno detto che non avevano le chiavi per cui non sono potuta entrare. In ogni caso ho visto le condizioni illegali che, sinceramente, non pensavo esistessero in un carcere d’Italia". "Ho trovato detenuti sostanzialmente nudi, soltanto con gli slip - continua la Bossio - in delle celle in cui non c’era neanche il letto, quindi seduti per terra, in mezzo ai loro escrementi, al vomito ed ai piatti sporchi. Mi riferisco, in particolare, alle celle 1, 2 e 7. Uno di loro, italiano, era stato messo lì per aver tentato il suicidio e quindi, assolutamente, doveva essere tenuto in Isolamento. Gli altri due, a quanto pare, avevano tentato una evasione. Questi ultimi hanno sostenuto di essere stati pestati dalla Polizia Penitenziaria ed infatti si vedeva che avevano ricevuto delle percosse. Ad uno di loro avrebbero rotto anche un orecchio e non avrebbero ricevuto alcuna assistenza sanitaria.” Ad aggravare la situazione si sarebbe aggiunto il comportamento del Comandante della Polizia Penitenziaria di Rossano, il Vice Commissario Elisabetta Ciambriello, il quale avrebbe preteso, secondo la parlamentare, che la Bossio fosse accompagnata fuori dal Reparto, ad una postazione telefonica, per potergli parlare. “Onorevole lei non si doveva permettere di venire al Carcere senza preavviso. Quando si va a casa degli altri si chiede il permesso.”, sarebbero le parole che il comandante avrebbe detto alla stessa rappresentate del Pd, affermazioni alle quali il Deputato avrebbe risposto di essere “un Parlamentare ed in tale qualità posso ispezionare le Carceri quando ritengo opportuno, senza preavviso e senza chiedere il permesso a nessuno.” Di quanto accertato ne sono stati già informati Rita Bernardini, Segretario Nazionale dei Radicali Italiani, Sandro Favi, Responsabile Nazionale Carceri del Partito Democratico e la Segreteria del Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Nei prossimi giorni si procederà ad una formale denuncia indirizzata alla Procura della Repubblica di Castrovillari ed ad una Interrogazione a risposta scritta rivolta al Governo. L’Onorevole Bruno Bossio, ha inteso precisare che, nei prossimi giorni, ritornerà a fare una ennesima visita ispettiva alla Casa di Reclusione di Rossano per fare degli approfondimenti.

«L’irruzione dell’on. Enza Bruno Bossio nel carcere di Rossano ci ha svelato all’improvviso una realtà che forse nemmeno potevamo sospettare. Una cosa è indignarsi per le celle minuscole, per il sovraffollamento, per l’assenza di strutture, per la mancata rieducazione, per la repressione, eccetera eccetera. Tutte cose che sappiamo, da tanto tempo. Una cosa diversa è scoprire che dentro le celle ci sono persone trattate peggio delle bestie, che c’è violenza estrema, sadismo, sopraffazione, violazione di ogni legge. Le immagini che l’articolo qui accanto descrive sono quelle dei lager, come Guantánamo, come Abu Ghraib. Siamo scesi in piazza tante volte per chiedere che fossero chiuse Guantánamo e Abu Ghraib. Se è vero che nel carcere di Rossano c’era un detenuto lasciato a terra, sul pavimento, malato, circondato dal suo vomito, se è vero che diversi detenuti presentavano ematomi e dicevano di essere stati picchiati (…) Se è vero che qualcuno trascorreva l’ora d’aria in quattro o cinque metri quadrati, peggio di un maiale all’ingrasso, di una gallina in batteria, se tutto questo è vero bisogna chiudere il carcere di Rossano. Chiudere. E forse – per una volta lasciatelo dire a noi – sarebbe anche il caso che la magistratura aprisse un’indagine. Dopodiché, fatte queste due cose essenziali e urgentissime, bisognerà anche porsi delle domande. Se l’on Bruno Bossio, che ha fatto irruzione senza preavviso nel carcere, in agosto, quando nessuno se l’aspettava, ha trovato questa situazione, è legittimo sospettare che la medesima situazione possa esserci in molte altre carceri, dove magari non sono avvenute visite improvvise dei deputati? È chiaro che è possibile. L’iniziativa dell’on Bruno Bossio ci fa capire a quel grado di gravità e di inciviltà sia giunta la situazione delle carceri in Italia. E quanto ipocrita e insufficiente sia stato il varo di una leggina che dispone qualche giorno di sconto di pena o una mancia di 240 euro al mese per chi subisce le torture del sovraffollamento. Il problema delle carceri è gigantesco, e lo standard delle nostre prigioni spinge l’Italia, in una virtuale classifica della civiltà, tra i più arretrati paesi del terzo mondo. Non si può restare fermi di fronte a questa situazione. Il problema carceri è il più urgente nell’agenda. Se vogliamo che l’Italia resti nel novero dei paesi civili bisogna che le forze politiche, almeno per una volta, si tappino le orecchie, non ascoltino gli urlacci e gli insulti della vasta platea giustizialista, mettano in conto la perdita di un po’ di voti e pongano mano a una riforma seria delle carceri. In quattro passi. Primo passo: subito amnistia e indulto, per allentare la pressione nelle celle e nei tribunali. Va fatto a settembre, come hanno chiesto il papa e Napolitano, e come da anni, senza sosta, con le proteste e gli scioperi della fame, è sostenuto dai radicali e da Pannella. Secondo depenalizzazione di tutti i reati minori. Terzo, riforma radicale della carcerazione preventiva che riduca a poche decine di casi le custodie cautelari. Quarto, norme sulla responsabilità civile dei giudici, che abbattano il numero dei procedimenti penali pretestuosi. In questo modo si può arrivare in tempi rapidissimi alla riduzione del 60 o 70 per cento della popolazione carceraria. E a quel punto sarà necessario trovare il modo per avere la certezza di controlli su come si vive nelle prigioni, e probabilmente anche una forte riforma, in senso garantista, di tutti i regolamenti carcerari (a partire dall’abolizione dello sciaguratissimo articolo 41 bis). Non costa niente una riforma di questo genere. Anzi, produce risparmi. Costa dei voti, questo sì, costa le grida di Travaglio e dell’Anm. E se per una volta, solo per una volta, cari politici di sinistra e di destra, ve ne fregaste di Travaglio e dell’Anm? P.S. Certo che se ci fossero in giro più deputate e deputati come Enza Bruno Bossio, sarebbe una buona cosa. Piero Sansonetti» Il Garantista, 12 agosto 2014.

INCHIESTA. IL CARCERE, I CARCERATI, I PARENTI DEI CARCERATI ED I RADICALI…….

Carceri, carcerati e parenti dei carcerati. Dove sbagliano i Radicali? Inchiesta di Antonio Giangrande.

I radicali da anni si distinguono con il Satyagraha per la loro lotta non violenta a favore dei diritti dei detenuti. I risultati sono scarni e su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo" ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti della giustizia ha pubblicato dei volumi: "Ingiustiziopoli, ingiustizia contro i singoli"; "Malagiustiziopoli, malagiustizia contro la collettività"; "Impunitopoli, legulei ed impunità". Egli afferma: «Una lotta impari destinata alla sconfitta. Forse perché sono sempre le stesse facce a rappresentare lo sparuto gruppo radicale o forse perché l’Italia è in mano a quattro pennivendoli che scrivono le stesse cose, od in mano a quattro legulei che fanno le stesse cose, od in mano a quattro politicanti che dicono le stesse cose. Dov'è il nuovo che avanza, che si è palesato come la brutta copia dei forcaioli? Fatto sta che è inutile lottare a favore degli italiani. Un popolo sodomizzato, che da masochista tace sulle sofferenze subite e non si ribella alla sua situazione. Difatti, come mai si lasciano a sparute rappresentanze di cittadini questo enorme aggravio di denuncia sulla giustizia, mentre i parenti dei detenuti sono centinaia di migliaia? Sarebbero milioni se si considera che a loro si aggiungono i parenti di quei 5 milioni di italiani che negli ultimi 50 anni sono rimasti vittima di errore giudiziario o ingiusta detenzione. Sarebbero il primo partito in Italia, pronto a metter mano a quelle riforme tanto auspicate e reclamizzate, ma mai approvate dalle lobbies e caste al potere. La masso-mafia che tacita le coscienze ed uccide la speranza.»

Nella città invisibile, dove il sovraffollamento delle carceri e i diritti dei detenuti sono temi su cui raramente ci si sofferma, c’è chi opera anche tacitamente affinché questo muro del silenzio crolli definitivamente. Ciò nonostante un'informazione non democratica e poco veritiera determina i sentimenti rancorosi. I tg si basano su fatti di sangue. Si tocca la pancia degli italiani e non li si fa ragionare con fatti di verità su una semplice questione: di carcere si muore.

28 luglio 2014, l'AGI diffonde. "Ore di grande tensione si sono vissute nella mattinata di ieri all'interno del carcere di Taranto ove un paio di detenuti dopo aver distrutto la loro stanza avrebbero incitato tutti gli altri detenuti a rivoltarsi contro il personale di Polizia Penitenziaria". Lo denuncia in una nota il Sappe, il sindacato degli agenti della Polizia Penitenziaria. "Fortunatamente – è scritto nella nota del Sappe – è giunto prontamente sul posto il comandante di reparto che dopo aver parlato con i rivoltosi ha risolto il tutto non senza conseguenze per i poliziotti penitenziari poiché un paio sarebbero dovuti ricorrere alle cure dell'ospedale. Ormai il problema della sicurezza del carcere di Taranto, considerata l'irresponsabilità dell'Amministrazione penitenziaria, a cominciare dal Dap a Roma e per finire al provveditore regionale a Bari, non consente più perdite di tempo". Per il Sappe, "è necessario che il prefetto di Taranto prenda in mano la situazione e convochi con urgenza un comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica sulla situazione del carcere di Taranto alla presenza dell'Amministrazione penitenziaria e dei sindacati che tutelano i lavoratori su cui ricade la tragicità della situazione. Ormai - conclude la nota – è tempo di fatti poiché è in gioco oltreché la sicurezza del carcere e dei lavoratori quella della città di Taranto e dei propri cittadini".

Nonostante tutti sappiano, sono pochi, però, i familiari dei carcerati disposti a metterci la faccia. Delegano ai pochi di buona volontà l’arduo compito di denuncia.

31 luglio 2014: Cronaca del presidio dello Slai Cobas sindacato di classe di Taranto in solidarietà coi detenuti del carcere. Dai pochi familiari dei detenuti intervenuti la testimonianza della pesante condizioni nel carcere di Taranto.

«Sul sovraffollamento, sono costretti a stare in 5/6 nelle celle previste per due, massimo tre persone; d'estate si muore dal caldo, d'inverno piove acqua dentro le celle. C'è degrado. I detenuti che vengano mandati giù in isolamento, sono poi abbandonati. Il letto è sporco, pieno di polvere. Il cibo qui viene portato dopo. Vengono puniti perchè si ribellano? Perchè hanno protestato per le condizioni in cui vivono? Al di là dell'impegno del personale sanitario, possono passare anche mesi prima che vengano visitati; anche se i detenuti hanno problemi urgenti, per es. ai denti, gli viene detto che provvederanno ma poi niente. Certo gli agenti sono pochi, ce ne vorrebbero di più e neanche loro stanno bene, ma sono i detenuti quelli che stanno male e, invece, non hanno voce. Per loro non c'è alcun intervento di recupero, quando escono non c'è lavoro. Soprattutto i giovani stanno perdendo gli anni più belli. Vi sono ragazzi che non hanno fatto cose gravi eppure restano per mesi e mesi, anche anni. Certo i nostri familiari che stanno in carcere hanno sbagliato, nè pensiamo che possano stare in carcere come se stessero in villeggiatura, ma devono essere trattati come persone non come animali.»

Analoghe iniziative, manifestazioni, picchetti, “presidi” e richieste di impegno sono in corso in altre realtà, dall'Abruzzo a Napoli, in Veneto, Emilia Romagna…ad opera dei Radicali italiani, con il difficile Satyagraha con i mezzi (scarsi), le risorse (fantasia tantissima, denaro assai poco), e cercando di insinuarsi negli spazi sempre più stretti di istituzioni e mezzi di comunicazione, “armati”, come si diceva un tempo, di nonviolenza.

Eppure tutti sanno. Carcere: storie di ordinaria follia, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Rita Bernardini, Segretaria di Radicali italiani, racconta alcune delle vicende ai limiti della realtà. Che si fa, si ride o si piange? Questa storia l’ha scoperta la Segretaria di Radicali italiani Rita Bernardini, Segretaria di Radicali italiani; è una storia paradossale, ma lasciamola raccontare alla stessa Bernardini. “Mentre si scaricano sui Magistrati di Sorveglianza e sui loro uffici ulteriori compiti ai quali adempiere, e mentre da anni i Tribunali di Sorveglianza non riescono a seguire nemmeno l'ordinaria amministrazione, all'Ufficio di Sorveglianza di Modena può accadere che una signora da tempo stia cercando di interloquire con il Magistrato, stressata da telefoni che non rispondono, da uffici che non chiariscono e che rimandano sine die gli adempimenti che competono loro per legge”. Bisogna dire che da tempo a Modena non c'è il Magistrato di Sorveglianza che ha la competenza anche degli internati di Castelfranco Emilia; questo significa che nessuno si occupa delle istanze dei detenuti dei due istituti; significa, solo per fare qualche esempio, niente permessi, niente licenze, niente ingressi nelle comunità terapeutiche. Dopo giorni e giorni di peripezie alla signora l’Ufficio di Sorveglianza fa sapere che "neanche loro sanno quando arriverà da Roma il sostituto magistrato, e che è tutto fermo fino al suo arrivo". Decisa a non mollare, la signora telefona al Ministero della Giustizia; le viene consigliato di telefonare al Consiglio Superiore della Magistratura. Una signora ostinata, alla fine ce la fa a parlare con la sezione Settima del CSM; e le riferiscono che a loro risulta che il magistrato ha già preso l'incarico, si tratta del dottor Sebastiano Bongiorno. Forte di questa notizia ritelefona all'ufficio di Modena dove finalmente le dicono che effettivamente il magistrato ha preso l'incarico... ma è andato in ferie e, comunque, anche dopo le ferie non rientrerà perché... andrà in pensione! “Quando la signora in questione mi ha raccontato questo fatto”, dice   Bernardini “non ci volevo credere. Constato, attraverso una ricerca fatta al volo su internet, che in effetti il dottor Bongiorno, magistrato e politico eletto nel 1994 nella lista dei Progressisti, ha assunto servizio l'8 luglio scorso e che la decisione del Csm risale al 19 febbraio. Faceva parte della vasta schiera di Magistrati fuori ruolo presso il Ministero della Giustizia (Dap): la pacchia pertanto avrebbe dovuto finire, ma il  dottor Bongiorno, come abbiamo visto, ha trovato un'alternativa. Dal  canto suo, il magistrato Dal canto suo, il magistrato di Reggio Emilia  – che in teoria sostituisce quello di Modena - non firma le licenze, quindi il risultato è che tutti i semiliberi che regolarmente usufruiscono di licenze, proprio nei mesi più caldi di luglio, agosto e settembre, non avranno la possibilità di esercitare un loro diritto. Inoltre, in molti avevano già prenotato le ferie per andare nei loro paesi di origine a trovare i genitori, che a loro volta aspettavano da tutto l'anno questo momento. Di fronte a questa situazione, il Ministero della Giustizia tace, così come tacciono al Csm e la Procura Generale della Corte di Cassazione: è estate, i magistrati vanno in ferie e quanto prescritto dalla legge può attendere, in un Paese pluricondannato per violazione dei diritti umani fondamentali”. E ora la storia di una persona che viene sottoposta ad anni di carcere, li sconta, viene assolto e per l’ingiusta detenzione non viene risarcito. Si chiama Giulio Petrilli, questa vittima della giustizia ingiusta italiana. Ha scritto una lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi. Attende risposta. "Gentile Presidente Renzi", scrive il signor Petrilli, "visto che la legge attuale sulla responsabilità civile dei magistrati prevede di inoltrare il ricorso e anche il risarcimento al presidente del consiglio dei ministri, le inoltro la richiesta di risarcimento danni, quantificabile in dieci milioni di euro, per l'errore giudiziario commesso dal procuratore del tribunale di Milano e la Corte dello stesso tribunale che mi condannò in primo grado. Da anni mi batto per avere giustizia sulla mia vicenda giudiziaria. Una vicenda che mi vide arrestato nel 1980 con l'accusa di partecipazione a banda armata (Prima Linea) e rilasciato nel 1986, dopo l'assoluzione in giudizio d'appello presso il tribunale di Milano. Uscii innocente dopo cinque anni e otto mesi di carcere, da un'accusa di banda armata, che prevedeva anche la detenzione nelle carceri speciali e sotto regime articolo 90, più duro dell'attuale 41 bis. Anni d'isolamento totale, blindati dentro celle casseforti insonorizzate, senza più poter scrivere, leggere libri, anche quelli per gli studi universitari, qualche ora di tv ma solo primo e secondo canale. Sempre, sempre soli, con un'ora d'aria al giorno, in passeggi piccoli e con le grate. Un'ora di colloquio al mese, con i parenti, ma con i vetri divisori. Dodici carceri ho attraversato in questi sei lunghi anni. Ebbi la sentenza di assoluzione dalla Cassazione nel 1989". Chissà se Renzi ha risposto, anche un solo twitter.

«Ecco perché proseguo il Satyagraha, dice Rita Bernardini. Vi spiego perché proseguo il Satyagraha insieme a Marco Pannella  con il sostegno attivo di oltre 200 cittadini. Marco Pannella sta praticando il Satyagraha nella forma dello sciopero della sete, nonostante i medici glielo sconsiglino nel modo più assoluto:

- è inconcepibile per uno Stato che si definisca democratico che il boss di “cosa nostra” Bernardo Provenzano sia ancora detenuto in regime di 41-bis (carcere duro). Occorre immediatamente interrompere questa vergogna che mette lo Stato italiano a un livello di criminalità superiore a quello dei peggiori mafiosi o terroristi.

- occorre intervenire immediatamente per garantire le cure oggi negate a migliaia di detenuti che non possono essere “curati” nelle strutture carcerarie. Responsabili di questa situazione sono il Ministero della Giustizia, quello della Sanità e i magistrati di sorveglianza.

- il decreto sulle carceri in fase di conversione alla Camera, nel prevedere le misure risarcitorie per i detenuti che hanno subito trattamenti inumani e degradanti – che noi radicali abbiamo definito “il prezzo della tortura” – non ha corrisposto minimamente a quanto previsto dalla Corte EDU e a principi elementari di costituzionalità. Questo non lo affermiamo solo noi radicali, ma anche la Commissione Affari Costituzionali della Camera che ha espresso seri dubbi circa queste misure chiedendo alla Commissione Giustizia se “siano pienamente rispondenti ai principi stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella richiamata sentenza dell’8 gennaio 2013 (causa Torreggiani e altri contro Italia, ricorsi 43517/09 più altri riuniti) ed al principio di proporzionalità di matrice costituzionale”.

- Oltretutto, gli 8 euro per ogni giorno di trattamenti inumani e degradanti subiti in violazione dell’art. 3 della CEDU, o il giorno di sconto di pena ogni 10 giorni passati in carcere nella condizione suddetta, costituiscono misure inapplicabili per una Magistratura di Sorveglianza già sotto organico e non in grado -da tempo- di affrontare i doveri quotidiani ai quali è chiamata; lo stesso vale per i Giudici civili che dovrebbero ricostruire giorno per giorno e per ciascun detenuto le condizioni di carcerazione nei diversi spostamenti che i reclusi subiscono durante la permanenza nei penitenziari italiani: cambio di cella, di sezione, di istituto.

- occorre che Televisioni pubbliche e private rimedino all’ignobile censura che hanno riservato agli esiti della visita effettuata in Italia (dal 7 al 9 luglio) da parte delle Nazioni Unite tramite il “Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria”. Nel documento redatto e nelle richieste rivolte al nostro Paese dall’ONU ci sono tutti gli obiettivi della nostra lotta e tutti i contenuti del Messaggio al Parlamento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, amnistia e indulto compresi. Gli esperti ONU hanno anche avuto da recriminare su un argomento tabu in Italia come quello del 41-bis, al quale solo noi radicali ci opponiamo. Secondo l’ONU non ci siamo ancora “adeguati ai requisiti internazionali per i diritti umani.

Troppo pochi 8 euro al giorno ai detenuti che hanno sofferto una carcerazione inumana. Il rischio è che l’Europa ci sanzioni anche per questa maniera di mettere pezze ai danni già fatti. Non lo dicono solo i radicali italiani di Rita Bernardini e Marco Pannella, che di questa battaglia hanno fatto da tempo una ragione di vita e di verità, ma lo hanno messo nero su bianco i membri del Csm, con un voto che quasi all’unanimità, 19 voti favorevoli e due astenuti, ha bocciato il decreto del ministro Andrea Orlando.

“L’obiettiva esiguità del quantum risarcitorio da liquidarsi – si legge nel parere messo a punto dalla Sesta Commissione (relatrice la togata di Unicost Giovanna Di Rosa) – senza che alcuna discrezionalità sul punto residui al giudicante, potrebbe infatti essere sospettata di svuotare di contenuto la tutela offerta dalla disposizione sovranazionale, la cui violazione non darebbe luogo ad un effettivo ristoro per equivalente da parte dell’amministrazione”.

“Al di là della evidente esiguità della somma – ha osservato il Csm – chiaramente riconducibile al timore che il riconoscimento di importi assai cospicui a favore dei danneggiati possa gravare eccessivamente sulle finanze dello Stato, la previsione di un siffatto limite appare discutibile anche sotto il profilo della rigidità del tasso di risarcimento previsto per legge, senza che sia prevista alcuna possibilità di graduarlo in ragione della gravità del pregiudizio eventualmente accertato”.

Rita Bernardini sul Satyagraha in corso: ''Serve la mobilitazione anche dei detenuti''. Nelle carceri, intanto, ci si continua ad ammalare e a morire. Sono 82 i morti dall'inizio dell'anno, dei quali 24 per suicidio, riporta “Espresso on line”. La puntata di Radio Carcere andata in onda martedì 29 luglio 2014 ha visto la presenza in studio della segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini, e quella di Marco Pannella. Come ricordato dal conduttore del programma, Riccardo Arena, Rita Bernardini è giunta a quota 29 giorni di sciopero della fame contro la "morte per pena" e affinché lo stato la smetta di comportarsi come "il peggiore dei criminali" in riferimento anche alla vicenda umana di Bernardo Provenzano e la sua permanenza al 41 bis in condizioni pressoché larvali. La puntata ha inoltre ananlizzato i contenuti dell'interrogazione presentata giovedì scorso dal vicepresidente della Camera, On. Roberto Giachetti (Pd) su sovraffollamento carcerario e capienza degli istituti. Arena ha quindi ricordato che venerdì scorso c'è stato un nuovo suicidio al carcere Due Palazzi di Padova. Un morto è morto per impiccagione nella propria cella, il suo nome era Giovanni Pucci, 44 anni di Lecce, che stava scontando una pena di 30 anni di reclusione. A questo detenuto era stato da poco negato il permesso di lavoro esterno al carcere, a causa di una rissa dietro le sbarre in cui sarebbe stato coinvolto e su cui è in corso un'indagine. Si tratta dell'82 esimo detenuto morto nelle carceri italiane nel 2014. Tra questi 24 sono i suicidi. Il deputato ha ribadito la necessità di amnistia e indulto, citando gli interventi di Giovanni Paolo II in Parlamento (2002 e in qualche modo prodromico all'indulto del 2006) e il più recente messaggio di Giorgio Napolitano alle Camere, datato otto ottobre dello scorso anno. Il Parlamento però, secondo Melilla, non ha il coraggio di prendere certe decisioni per paura dell'opinione pubblica che confonde "l'esigenza di sicurezza con una lotta disumana nei confronti di chi ha sbagliato".

"L'informazione determina i sentimenti rancorosi evocati da Melilla – ha proseguito la Bernardini – un'informazione non democratica e poco veritiera. Il centro d'ascolto ha documentato che i tg si basano su fatti di sangue quando è risaputo che gli omicidi sono in netto calo rispetto ad alcuni anni fa. Si tocca la pancia degli italiani e non li si fa ragionare con fatti di verità su una semplice questione: ovvero che in realtà se si fa un carcere diverso, se si usano misure alternative c'è più sicurezza per tutti. Quando non si mandano direttamente le persone nelle carceri illegali italiane, la recidiva si abbassa drasticamente".

Anche il tema della sanità in carcere è tornato al centro della discussione: "Non è solo una questione di metri quadrati – ha dichiarato la Bernardini - ma anche di sanità e in generale di mancanza di cure. Una percentuale intorno al 30% dei detenuti ha problemi psichiatrici e in carcere c'è un'alta probabilità di veder manifestare problemi psichiatrici proprio per le condizioni in cui si è costretti a vivere. Poi ci sono il 32% che sono tossicodipendenti e hanno già problemi di loro. Anche se sei sano ti ammali, il carcere è un luogo dove ci si ammala spesso gravemente e troppe volte si muore per mancanza di cure e perché indagini urgenti tipo le Tac non vengono eseguite se non dopo quattro mesi o un anno, quando ormai è troppo tardi. Inoltre ci sono detenuti che vengono accusati di fare scena, non vengono creduti e muoiono in carcere. Non tutte le carceri hanno la guardia medica h24, pochissime hanno il defibrillatore e anche dove c'è non sanno usarlo. Andrebbero fatti dei corsi per gli agenti e per chi è presente in carcere ma non vengono svolti".

"C'è da occuparsi e preoccuparsi di questo – ha poi dichiarato Pannella entrando nel merito delle questioni - Renzi non si rende conto che, con queste condanne formali e quando il massimo magistrato costituzionale (Presidente della Repubblica) manda un messaggio alle Camere in cui scrive che quanto viene detto da Cedu, Corte Costituzionale (e perfino dall'Onu, benché in un momento successivo) è qualcosa che crea l'obbligo, questo parlamento non ha neppure discusso e in questo dà la misura di se stesso". Ha sentenziato l'anziano leader che si è soffermato anche sulla vicenda riguardante l'irragionevole durata dei processi ricordando che: "Già nel 1976 mi schieravo contro i comunisti che erano contrari all'amnistia preferendo le prescrizioni". Quindi Pannella ha letteralmente tuonato contro l'indegnità del nostro paese a far parte di quella stessa Unione Europea che pure ha contribuito a fondare: "L'Italia andrebbe espulsa dalla comunità europea per la somma e per il prodotto delle violazioni commesse – Pannella ha evocato in proposito una ricerca sul costo economico delle procedure d'infrazione contro l'Italia, a cura di Massimiliano Iervolino - e con la nonviolenza dobbiamo giocare al massimo la partita per il diritto e per i diritti". Tra questi il diritto costituzionale alla salute in carcere.

A proposito viene i aiuto la toccante testimonianza di Davide Grassi su “Il Fatto Quotidiano”. Sovraffollamento delle carceri: Michele se n’è andato. È una calda giornata di luglio. Le imponenti mura di recinzione che circondano l’edificio principale sono la prima cosa che mi lascio alle spalle quando oltrepasso il massiccio portone blindato, che sembra ruggire mentre si apre e si richiude a battente. Prima di arrivare alle “sezioni” che ospitano i detenuti devo percorrere alcuni metri a cielo aperto, interrotti da almeno altri due fabbricati di cemento armato e acciaio, all’interno dei quali vengo sottoposto a rapidi controlli dalle guardie carcerarie che mi riconoscono subito e si limitano ad una superficiale occhiata al “pass” che il loro collega mi ha rilasciato all’ingresso. Mi capita spesso di addentrarmi dentro “l’inferno”. Lo chiamano così, quelli che ci finiscono dentro, per colpa loro o, in certi casi, anche per  un errore giudiziario. Dentro “l’inferno” ci trovi quelli che sono gravati da una misura cautelare e che, secondo il magistrato, finché il procedimento non si conclude, potrebbero inquinare le prove, tentare la fuga o commettere un altro reato. Tra di loro anche chi sta scontando una condanna definitiva. Ho superato l’ultimo controllo e percorro gli ultimi metri all’aperto. Inevitabilmente alzo lo sguardo. Dalle inferiate saldate al perimetro di una finestra fuoriescono le braccia a penzoloni di un detenuto. Scorgo i suoi occhi rassegnati che fissano il vuoto. Dietro di lui credo di aver intravisto le ombre dei compagni che si agitano dentro la cella. Proseguo ancora. Davanti a me sento il fischio del motorino elettrico che fa scattare la serratura dell’ultima porta d’acciaio che mi separa dall’”inferno”. Sono dentro. Noto che alcuni agenti della penitenziaria parlano tra di loro in modo concitato. Capita a volte quando ci sono problemi con i detenuti. Il piantone mi fa segno di andare. Mi accomodo in una delle stanze messe a disposizione per i colloqui e attendo. “Oggi è una giornata molto pesante.” Esordisce Marco che è appena sceso dalla seconda sezione. Marco ha 22 anni ed è nato in Marocco ma è in Italia da quando aveva dieci anni. Parla un italiano impeccabile. È cresciuto con gli zii e non ha mai conosciuto i suoi genitori. È dentro da 11 mesi per una rapina aggravata. Ha preso una condanna in primo grado di 3 anni. Abbiamo appellato la sentenza. Marco è la prima volta che finisce in carcere e mi ha nominato da poco. È stato Michele ad avergli consigliato di nominarmi ed io sto facendo un favore a Michele, un mio cliente, che ha da scontare delle vecchie condanne per spaccio. Roba vecchia, ma con le quali prima o poi Michele sapeva di doverci fare i conti. Michele ha sessant’anni e dal carcere ci era già passato. Visto che era uno dei più anziani aveva deciso di prendere sotto la sua ala protettiva quelli come Marco che fanno il carcere per la prima volta. Michele si è affezionato a Marco. Sarà per la differenza d’età. Marco potrebbe essere suo figlio. Michele mi ha chiesto di difendere Marco gratuitamente ed era molto contento quando gli ho detto che avrei accettato. “Ne hanno portati altri due e adesso nel “buco” siamo in otto.” Mi dice Marco. Lo guardo per niente sorpreso. Quel carcere aveva già avuto qualche problema: condizioni igienico sanitarie pessime e sovraffollamento. Soprattutto quando arriva l’estate e si riempie di ladruncoli e piccoli spacciatori. “Hanno dovuto aggiungere un letto a castello. Siamo stipati come delle sardine. Con questo caldo non gira l’aria e mi sembra di soffocare. Facciamo a turno per stare in piedi, anche solo per dare un’occhiata fuori dalla finestra. Abbiamo una sola tazza del cesso per otto persone. E’ giusto secondo te?” Marco è un ragazzino intelligente, più maturo della sua età. Lo guardo e ascolto senza fiatare. Annuisco soltanto e non posso fare altro che prenderne atto. Dopo lo sfogo iniziale parliamo d’altro. Di cosa farà un giorno quando sarà fuori e che dovrà cercarsi un lavoro. Ha deciso che si rimetterà in contatto con gli zii che non vede da un paio d’anni. Da quando ha deciso di vagabondare da una città all’altra. Nessuno da quando è dentro è mai passato a trovarlo. Forse nessuno dei suoi familiari sa che lui è dentro. Noto che Marco non ha molta voglia di parlare, allora provo a cambiare discorso e a quel punto lui mi interrompe. “Michele se n’è andato…” “Michele se n’è andato?”, ripeto come un automa.  Provo a spiegargli che è impossibile che Michele se ne sia andato, perché mi sarebbe arrivata una comunicazione in studio e comunque la sua posizione doveva essere ancora vagliata dal magistrato di sorveglianza. Mi sembra ridicolo dovergli spiegare che uno non può andarsene dal carcere quando gli pare. Ma subito mi rendo conto che sono io quello ridicolo. Marco ha gli occhi lucidi. In un istante realizzo e mi sento un groppo in gola. “Quando è successo?” “Questa mattina. Durante l’ora d’aria. Nella cella in cui era stato trasferito le finestre del bagno erano abbastanza alte.." Era bravo con i nodi Michele. Li aveva imparati sul lavoro. Per molti anni era andato per mare. Imbarcato su un peschereccio. Michele era un pescatore. Michele quella mattina aveva atteso che la cella si liberasse. Aveva preso un lenzuolo e aveva fatto un cappio ad una estremità. Poi lo aveva girato attorno al collo. L’altra estremità l’aveva già legata alle inferiate della finestra. Quindi si era arrampicato sul piccolo lavabo d’acciaio. Prima di andarsene aveva dato un’occhiata attraverso le sbarre. Fuori il cielo era di un limpido azzurro. Si era lasciato sfuggire un sorriso. Era una splendida giornata d’estate.

Morte naturale, qualcuno dirà. No. E’ omicidio di Stato. Quel reato abbietto di cui nessuno parla.

Così si muore nelle “celle zero” italiane.  Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili, scrive Antonio Crispino  su “Il Corriere della Sera”. Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove. Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».

Poggioreale, l'incubo "cella zero". Le denunce sui pestaggi dei detenuti. Dopo l'inchiesta dell'Espresso di qualche mese fa, con il racconto di un ex detenuto su botte e minacce ricevute da un gruppo di guardie carcerarie, ora sono diventate oltre cinquanta le confessioni raccolte dai magistrati napoletani sui maltrattamenti nella famigerata “cella zero”, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. C’è “melella”, che si è guadagnato questo soprannome perché “quando beve le guance gli diventano rosse come due mele mature”. C’è “ciondolino”, che quando arriva nelle celle, a notte fonda, lo riconosci da lontano per via di quel tintinnio “proveniente da un voluminoso mazzo di chiavi che gli ciondola attaccato ai pantaloni”. Poi c’è “piccolo boss”. Non è molto alto di statura, è silenzioso, però “picchia forte e zittisce tutti”. Insieme sono “la squadretta della Uno bianca”. Almeno, è così che li chiamano i carcerati di Poggioreale, il carcere di Napoli. In memoria di un terribile caso di cronaca nera degli anni Novanta. Solo che in questa vicenda i protagonisti non sono feroci killer che vestono la divisa della polizia di Stato ma un piccolo gruppo di agenti della penitenziaria che – secondo le testimonianze di alcuni detenuti – si sarebbe reso responsabile di ripetuti pestaggi notturni, minacce, vessazioni e umiliazioni nei confronti dei carcerati “disobbedienti”. Rinchiusi nudi e al buio per ore intere, in una cella completamente spoglia ribattezzata la “cella zero”. Sono salite a 56 le denunce dei detenuti del penitenziario napoletano che hanno messo nero su bianco, davanti ai magistrati della Procura di Napoli, le presunte violenze subite dietro le mura di una delle carceri più sovraffollate d’Europa. La punta di un iceberg fatto di sistematiche violazioni dei diritti umani che l’Espresso aveva documentato già lo scorso gennaio , riportando tra l’altro la testimonianza esclusiva di una delle vittime, un ex detenuto di 42 anni che ha riferito di aver subito durante la sua permanenza di cella “pestaggi e trattamenti disumani in una cella con le pareti sporche di sangue”. Il corposo dossier presentato due mesi fa dal garante dei detenuti della regione Campania, Adriana Tocco, nel frattempo si è dunque arricchito di decine di altre testimonianze, sempre più drammatiche e sempre più ricche di dettagli. Per l’esattezza, si tratta di 50 nuove denunce e altri 6 esposti, contenute in due diversi fascicoli che ora sono al vaglio dei procuratori aggiunti Gianni Melillo e Alfonso D’Avino. Un’inchiesta, questa, che potrebbe far vacillare i vertici dell’istituto penitenziario partenopeo e gettare nell’imbarazzo l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, proprio alla luce dell’ennesima stroncatura ricevuta pochi giorni fa dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, con la quale Strasburgo ha mandato a dire al nostro Paese – senza tanti giri di parole – che i provvedimenti presi finora dall’Italia per sanare la piaga carceri (il recente decreto approvato da Camera e Senato) sono insufficienti a riabilitare il nostro sistema carcerario. E così a maggio il nostro Paese – condannato un anno fa con la storica sentenza Torreggiani – potrebbe vedersi costretto a pagare una maxi multa. Le deposizioni dei detenuti ed ex detenuti napoletani, intanto, sono già iniziate e continueranno anche nelle prossime settimane. Testimonianze ancora tutte da verificare, questo è certo, ma che per ora sembrano dipingere un abisso di soprusi e vessazioni. Nei loro racconti davanti alle toghe i carcerati ricostruiscono la punizione della “cella zero” – una cella completamente vuota che si trova al piano terra del carcere - con tanto di linguaggi in codice da parte del gruppo di agenti che avrebbe preso parte alle violenze. Un gruppo ristretto di “mele marce”, visto che a onore del vero la maggior parte dei poliziotti in forza al carcere partenopeo viene descritta dagli stessi detenuti come “sana” e composta da agenti coscienziosi e votati al sacrificio che non si risparmiano con ore e ore di straordinari in condizioni usuranti. Questa piccola squadretta, invece, avrebbe compiuto negli ultimi anni abusi di potere continui. “La punizione della cella zero”, raccontano i detenuti nelle loro denunce, “consiste nell’essere confinati in una cella isolata, completamente vuota, nudi e al buio, per intere ore, sottoposti a pestaggi e minacce”. Poi c’è qualche terribile eccezione. Uno dei detenuti che ha da poco presentato un esposto davanti ai magistrati napoletani, infatti, un ragazzo italiano di 35 anni finito in carcere per reati di droga, racconta di essere stato rinchiuso nella cella zero “tre giorni consecutivi”. La dinamica appare la stessa per tutti i detenuti. “Ci portano lì dentro di notte, quando molti di noi già dormono”, raccontano, “e ci picchiano uno per volta”. “Tempo fa”, mette nero su bianco un ex detenuto, “ci hanno portati lì in otto, ma poi il ‘trattamento’ è stato fatto uno per volta”. Già, ma in cosa consiste – esattamente – questo “trattamento”? I detenuti lo raccontano con tragica naturalezza. Innanzitutto, parte l’ordine: Scinne a ‘stu detenuto, “fai scendere questo detenuto”. In pochi minuti, il prescelto viene portato nella cella zero, e viene spogliato di tutto. La cella è umida, vuota, ha le pareti e il pavimento sporche “di sangue ed escrementi”. A questo punto secondo i racconti partirebbero le percosse. “Ci picchiano a mani nude o con uno straccio bagnato, per non lasciare segni sul corpo”, verbalizza nella sua denuncia uno dei detenuti, “alcuni di loro hanno in mano un manganello, ma lo usano solo per spaventarci”. Mentre incassano le botte, i detenuti iniziano a sanguinare. La paura di entrare in contatto con liquidi infetti è enorme. Ecco perché “tutti gli agenti mentre picchiano indossano guanti di lattice”. Ai pestaggi seguirebbero quindi le minacce. Racconta un detenuto: “Uno di loro mi ha detto: ‘ se provi a riferire quello che hai visto te la faccio pagare’”. Quindi, a botte concluse, da parte degli agenti della penitenziaria arriverebbe anche un’offerta: “Vuoi andare a farti medicare in infermeria?”. “Inutile aggiungere che nessuno di noi ha il coraggio di farsi portare dagli infermieri ma sopporta il dolore in silenzio”, racconta uno dei detenuti negli esposti, “o al limite si fa medicare alla meno peggio dai compagni di cella”. La squadretta secondo i detenuti sarebbe composta da tre o quattro agenti, ai quali i carcerati hanno assegnato appunto diversi soprannomi. Come “ciondolino”, “melella”, “piccolo boss”. Tutti riconoscibilissimi, visto che avrebbero agito a volto scoperto. Questo è il motivo per cui i magistrati napoletani vogliono proteggere con grande discrezione l’identità dei testimoni in attesa di verificare che le loro accuse siano attendibili, precise e concordanti. Anche confrontando la cronologia dei presunti pestaggi subiti dai detenuti con i fogli di turno e i registri di presenza degli agenti. Di sicuro, secondo i racconti dei detenuti, a far divampare la rabbia delle “guardie” basterebbe un pretesto. Una risposta sbagliata, un atto di disobbedienza, un banale battibecco. Ed eccoli scaraventati nell’inferno “cella zero”. Uno scenario nero che nelle prossime settimane potrebbe arricchirsi di nuove testimonianze e accuse e che quasi certamente culminerà con un’ispezione carceraria a Poggioreale.

Dopo tutto questo si sente l’opprimente bisogno di scomunicare “solo” i mafiosi. "Ora Bergoglio venga qui a spiegarci se possiamo prendere l'ostia", scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”.  «A questo punto, vogliamo incontrare il Papa. Solo lui può dirci se possiamo ricevere o no i sacramenti. E questo noi dobbiamo saperlo ». Quando, alle cinque di ieri pomeriggio, nella "sala della socialità" del reparto Alta sicurezza 3 del carcere di Larino, prende la parola uno dei quindici ‘ndranghetisti, il vociare che fino a quel punto aveva accompagnato la visita ispettiva al penitenziario dell'assessore regionale alle Politiche sociali del Molise, Michele Petraroia, si spegne. «Noi, tutti insieme — dice il boss, indicando con il dito il gruppo di detenuti calabresi intorno a lui e guardando l'assessore — due settimane fa, dopo la scomunica del Papa alla ‘ndrangheta durante la visita in Calabria, abbiamo posto una domanda al nostro prete (il cappellano del carcere don Marco Colonna, ndr). E, visto che siamo tutti condannati per reati di mafia, gli abbiamo chiesto se potevamo continuare a prendere i sacramenti. Don Marco ha preso tempo, giustamente — prosegue il detenuto — Ha detto che si doveva informare, che non aveva sentito bene le parole del pontefice e che le aveva ascoltate solo distrattamente alla televisione. Ci ha detto che ne avrebbe parlato con il vescovo (don Gianfranco De Luca della diocesi di Larino-Termoli, ndr). Noi, nel dubbio, a messa non ci siamo andati fino a quando non è venuto il vescovo a parlarci, e a darci con le sue mani la comunione. Ma quando, dopo la messa di domenica, abbiamo posto la stessa domanda anche a lui, ci ha detto che c'è ancora bisogno di riflettere e approfondire. Poi ci ha lasciato da leggere il discorso integrale del Papa a Sibari». Quindi il boss rivolge un invito all'assessore: «Visto che è qui per conoscere questa vicenda da vicino, faccia sapere fuori che vogliamo incontrare Papa Francesco. Che da lui vogliamo la risposta alla nostra domanda». Petraroia annuisce e prende appunti con un'assistente: «Capisco il vostro turbamento e non sono la persona adatta per parlarvi di pentimento o conversione. Conosco questo carcere e le persone che ci lavorano e sono certo che potranno aiutarvi». Nella sala c'è anche Carmelo Bellocco, capo cosca di una potente ‘ndrina di Rosarno: «Assessore, faccia anche arrivare un messaggio alle nostre famiglie. Dica loro che noi non abbiamo offeso la chiesa, mai», dice. «Abbiamo solo fatto una domanda, tutti insieme. Non c'è nessuna rivolta come dicono invece i telegiornali. Noi non siamo come quelli dell'inchino... (con un chiaro riferimento alla vicenda della sosta della statua della Madonna davanti all'abitazione di un boss a Oppido Mamertina, ndr )». A quel punto i detenuti rompono il silenzio e cominciano a prendere la parola uno alla volta. «Perché esce questa immagine di noi? Perché ci vogliono far passare per rivoltosi? », si sfoga uno di loro, seduto accanto al boss della Sacra corona unita Federico Trisciuoglio: «Ci vogliono punire », dice. «Tutti questi articoli di giornale e servizi della tv ci fanno solo del male». Nella "sala della socialità" dovrebbe esserci anche Giuseppe Iovine, fratello del boss del clan dei Casalesi pentitosi da un mese, ma non c'è: è rimasto in cella e non ha voluto partecipare all'incontro. Ma nemmeno quando Petraroia passa attraverso il reparto Z (dove si trovano i parenti dei collaboratori di giustizia che devono scontare una pena in carcere) Iovine si avvicina. La direttrice del penitenziario, Rosa La Ginestra, che segue la visita, illustra all'assessore le attività dell'istituto: «Facciamo tante iniziative per fare socializzare i detenuti e per recuperarli. Hanno ragione quando dicono che tutto questo clamore non ci aiuta. Una parte dei nostri ospiti, quelli che frequentano il corso di studi interno, ogni anno si reca in visita a Roma per ascoltare il Papa in piazza San Pietro». Quando, dopo un'ora di ispezione dei reparti, Petraroia esce dal penitenziario, è stato appena stato diffuso l'ultimo messaggio di monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Campobasso. Che sulla vicenda dice: «Occorre chiudersi a riflettere su come conciliare la forza della misericordia con il dramma della scomunica». Nessuna rivolta, spiega poi il presule: i detenuti, sostiene, hanno voluto porre una «questione».

L’ITALIA COME LA CONCORDIA. LA RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA.

Da Formigoni a Errani, la caduta dei governatori 2010.

Roberto Formigoni è stato a capo della Regione Lombardia per 18 anni. Si è dimesso dopo aver concordato la dissoluzione della giunta e di un consiglio regionale nel quale la Lega Nord aveva chiesto la sua testa, bersagliata in quel momento dalle inchieste giudiziarie. Avrebbe voluto mantenere un piede a Milano, come commissario generale dell’Expo. Ma ha dovuto mollare anche quello. Eletto in Senato con il Popolo della libertà nel 2013, è passato con Ncd e ora è nella maggioranza che sostiene Matteo Renzi. E’ anche presidente della commissione Agricoltura di Palazzo Madama.

Renata Polverini è rimasta con Berlusconi. Ma come Formigoni è caduta in piedi. L’hanno eletta in Parlamento nel 2013, a dispetto di un passaggio meteorico alla presidenza della Regione Lazio. Nel settembre 2012 la sua giunta cola a picco insieme al consiglio regionale affondato dallo scandalo dei fondi milionari dei gruppi politici consiliari, di cui è stato portabandiera Franco Fiorito, il “batman di Anagni”.

Roberto Cota, ex governatore del Piemonte, se n’è dovuto andare per decisione dei magistrati amministrativi che hanno dato ragione alla sua avversaria Mercedes Bresso circa irregolarità nelle firme per le liste elettorali commesse 3 anni prima.

Vasco Errani. Condannato a un anno per la vicenda Terremerse decide per le dimissioni irrevocabili. Dopo 15 anni ininterrotti alla guida della Regione, e 19 di presenza nella giunta.

Giuseppe Scopelliti, ex presidente della Regione Calabria, condannato a 6 anni di reclusione per falso e abuso d’ufficio. Accompagnato alla porta dalla legge che porta il nome dell’ex ministro di Giustizia Paola Severino, che stabilisce la decadenza degli amministratori condannati.

Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto. Per lui i giudici hanno chiesto l’arresto, ritenendolo una delle pedine chiave dello scandalo Mose. Sicuro di essere rieletto per un quarto mandato, ha dovuto mollare la presidenza della Regione che occupava da 15 anni. Due volte ministro e ora deputato: presidente della commissione Cultura della Camera.

…E PROTESTANO PURE…..

Politici in piazza. A casa mai? Gli imprenditori che aspettano i rimborsi dallo Stato, le partite Iva perseguitate dal fisco, gli esodati, i pensionati: ecco chi avrebbe diritto ad avere udienze non richieste da Napolitano, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Marciare da parlamentare sulle istituzioni, occupare per protesta i luoghi simbolo dello Stato, diventa improvvisamente lecito. E dire che ancora adesso a Forza Italia si rinfaccia, come un attentato alla Costituzione, il sit in del marzo scorso davanti al Palazzo di giustizia di Milano per protestare contro l'accanimento dei pm nei confronti di Silvio Berlusconi. Senatori grillini, pezzi consistenti della sinistra e leghisti ieri hanno cambiato idea e in corteo hanno raggiunto il Quirinale occupandone il piazzale. Non ci stanno a varare la riforma del Senato, impantanata in aula in un drammatico braccio di ferro: da una parte il governo (sostenuto da Forza Italia) che vuole arrivare al voto per mettere fine alla sciagura del bicameralismo perfetto entro l'8 agosto usando tutti gli strumenti di cui dispone, dall'altra le opposizioni (e pezzi del Pd) che per impedirlo hanno presentato ottomila emendamenti alla legge. Noi restiamo fermi al giudizio espresso all'epoca del sit in anti magistrati politicizzati: ognuno ha il diritto di protestare dove e come meglio crede. Ma oggi siamo anche convinti che chi ieri ha marciato sul Quirinale rappresenta solo la difesa di se stesso. Difende il suo prestigioso posto di lavoro e il relativo lauto compenso, non gli interessi degli italiani. I quali, se il Senato chiudesse domani mattina, non verserebbero una lacrima. Anzi, credo che un applauso si leverebbe dal più profondo del Paese. Se qualcuno ha il diritto di occupare lo spiazzo del Quirinale non sono certo quei privilegiati dei senatori. Gli imprenditori che aspettano i rimborsi dallo Stato, le partite Iva perseguitate dal fisco, gli esodati, i pensionati: ecco chi avrebbe diritto ad avere udienze non richieste da Napolitano. Il futuro e gli stipendi sono temi che non ci appassionano. E il danno che provocano resistenze così violente a una legge di riforma tutto sommato «soft» dimostra una sola cosa: è gente fuori dal tempo. Il Senato è un'istituzione obsoleta, inutile e ora anche dannosa. Prima questa partita si chiude prima si affronteranno, finalmente, le questioni vitali. Se poi Grillo o la sinistra vorranno fare precipitare la situazione, si accomodino. Voglio vederli andare a elezioni anticipate al motto di: «Più Senato per tutti».

Ci avete rotto con questa Costa Concordia! Scrive Fulvio Abbate su “Il Garantista”. E basta! La storia della Costa “Concordia”, nonostante i suoi poveri morti, non riuscirà mai a creare un’epopea, com’è accaduto invece alla sagoma del “Titanic”. Già, iceberg contro scoglio è quasi una metafora, una povera immagine da strapaese. Già, nulla che vada oltre l’immaginario da rotocalco nazionale con tutti gli strilli dei titoli che sappiamo, e con questo ritengo di avere già detto tutto, o comunque molto dello stato delle cose. Basta con la “Concordia”, insomma. Dimenticavo: ancora c’è da mettere in conto la figura dal fulgore rionale di capitan Schettino, cominciando dalla cura che l’uomo metteva nella pettinatura, gel su gel, da vero orgoglioso, fascinoso capitano sul ponte, appunto, di comando, che poi non si rivelò affatto tale. Altrimenti l’unico fermo-fotogramma della nostra vicenda non mostrerebbe l’immagine della nave lì spiaggiata, come ulteriore metafora della balena italiana, come un capitolo significativo dell’autobiografia nazionale. Capitolo chiuso. Basta con la “Concordia”, dai. E poi ecco le parole dell’eroe positivo, l’altro ufficiale, finalmente gentiluomo, che non può mancare in ogni melodramma italico, quel “Torni a bordo, cazzo!” che in pochi giorni, tra nuovi titoli dei giornali e battute da cabaret, da “Bagaglino” redivivo, ha assunto lo stesso peso simbolico del garibaldesco “Nino, domani a Palermo”, e infine i turisti, tutti lì, al Giglio, a fotografare l’intruso, il mostro del mare, l’orca bianca spiaggiata, e ancora tutte le parole spese nella rosea prospettiva di riportare presto il pesce-relitto fuori dallo sguardo per ristabilire la pax turistica, lungamente violata per colpa di quel maledetto “inchino”, capitolo ulteriore del già citato costume da pagliaccio nazionale, salvo poi scoprire che proprio quel relitto era diventato un’attrazione non meno turistica di una basilica di Pompei o di Loreto, una sorta di Torre di Pisa trasfigurata in cadavere di natante, un po’ come l’immagine di King-Kong morto sulla spiaggia di Long Island che il regista Marco Ferreri piazzò in un suo film sul declino del maschio. Maschio italiano o comunque italico, campano, con accompagnatrice esotica, anche Schettino in questa nostra storia accompagnata a sua volta dal fiato sospeso nel tentativo di liberarsi dall’incubo, e dunque ecco arrivare i Pico della Mirandola e gli Archimede in grado di riportare in asse la “Concordia”, e da lì allontanarla verso il suo ultimo viaggio con rotta verso il bacino del disarmo, fra un: “E’ mia!”, e un  “No, la voglio io”, e ancora “No, ho detto che è mia”, un po’ come certe liti condominiali tra sfasciacarrozze quando c’è da rottamare, metti, un pezzo meccanico di valore come, che so?, la Porsche 550 Spyder di James Dean, visto che non si sa mai che non possa diventare un cimelio, una reliquia, un ottovolante d’affari. E poi, una volta rimessa dritta, ecco le foto dei saloni risparmiati dalla ruggine, i resti dei bagagli, e allora riecco lo spettro del Titanic con le sue argenterie finite nel fondo del mare, quasi una location perfetta per un reality sulle catastrofi non meno da rotocalco. E basta con la “Concordia”. E i servizi per mostrare che il tempo si è fermato, retorica e ancora retorica asserragliata dietro al pianoforte rimasto intanto, quasi che se arrivasse lì, per puro caso, un Fred Bongusto o perfino un Vinicio Capossela, il pianobar potrebbe ricominciare come se nulla fosse accaduto, e c’è perfino da giurare che lo stesso Schettino lascerebbe la plancia di comando e i fianchi della simpatica Domnica Cemortan, così come il vassoio di ostriche galantemente offerto per senso d’ospitalità, per scendere giù a cantare pure lui perché, come dirà la moglie del eroe negativo in un’intervista a “Oggi”, rotocalco a favore delle alghe dei fondali: “Mio marito non è un mostro”. E allora, anche se così fosse, basta con la “Concordia”. E intanto, mentre la sagoma bianca si allontana dal Giglio, viene voglia di dire davvero che questa storia è insostenibile! Sognando di liberarsi da questo incubo perché, sì, come ha detto proprio Domnica: “Sì, mi ero presa una cotta per il capitano Schettino. Sì, ci siamo baciati. Penso che saremmo finiti a letto, ma poi la nave ha colpito lo scoglio e si è capovolta”. Così parlò la signorina Cemortan, 25 anni, moldava che era a bordo della Costa Concordia la notte del disastro davanti all’isola del Giglio, in un’intervista al domenicale britannico Mail on Sunday. Ora che ci penso, anche Gemma Politi, allo scoccare dei suoi novant’anni, madre del sottoscritto, era il 2010, come testimonia una foto che la vede accanto a un sorridente d’ufficio commissario di bordo, fu ospite della “Concordia”, al momento di rimettere piede a terra però disse soltanto: “Un viaggio da schifo, Fulvio! Ho litigato pure con mio fratello Gino”, e io, prendendola sotto braccio, cercando di liberarla dall’incubo scampato: “E dunque, mamma?” E lei: “Mai più crociere”. Già, mai più “Concordia”, cazzo!

Qual è la vera Italia? L'impresa di Nibali, le lamentele dei commessi alla Camera, il recupero della Concordia la lentezza della politica. Facce della stessa medaglia: il nostro paese, scrive Marco Ventura su “Panorama” Qual è la vera Italia? E' quella di Vincenzo Nibali, la “pulce” diventata “Squalo” che pedala macinando chilometri e dondolando testardo sul sellino fino a trionfare sul Tourmalet al Tour de France? O è quella dei commessi e dipendenti miracolati da decenni di privilegi alla Camera con mega-pensioni e che da semplici centralinisti o documentaristi guadagnano più d’un primario d’ospedale e poi se gli diminuisci lo stipendio fischiano e urlano ai deputati dentro Montecitorio (a dimostrazione che quei soldi non erano meritati, almeno non da tutti)? L’Italia è l’ingegneria italiana, è l’ingegno e l’efficienza degli italiani che hanno rimesso in linea, in “navigazione”, addirittura in anticipo sui tempi, la Costa Concordia dopo che un altro italiano l’aveva portata a schiantarsi sugli scogli, fatta affondare e abbandonata con disonore al suo destino di morte? L’Italia è quella che con abilità si inserisce in una trattativa tra la Sudan e gli Stati Uniti, due Paesi che non dovrebbero neppure guardarsi in faccia per l’embargo che il primo applica al secondo e perché il leader sudanese è sotto accusa all’Aja per crimini contro l’umanità, e tuttavia il nostro viceministro Lapo Pistelli con scatto felin-diplomatico riesce a imbarcare sul volo di Stato tricolore e riportare libera a Roma Meriam, con i piccoli Martin e Maja e il marito somalo-americano, sottraendola alla sorte possibile di 100 frustrate e, peggio, dell’impiccagione nel 2016? L’Italia è quella che persegue il rinnovamento, le riforme, la sobrietà, il merito, mettendo fine a un’ubriacatura di privilegi castali e corporativi, dalla magistratura ai sindacati, dalla politica agli ordini professionali (o almeno ci prova), o è quella che nel pieno del crollo di un sistema si aggrappa miseramente al soldo e mentre i giovani oggi non sanno se avranno mai una pensione decente, anzi sanno perfettamente che mai l’avranno, nelle sembianze di consiglieri regionali lombardi di vari partiti (compresi nomi famosi come la Minetti e il figlio di Bossi) si precipita a chiedere la liquidazione dei contributi già versati, prima che nuove regole insidino il “tesoretto”? Ecco, l’Italia è fatta di slanci generosi e testarda voglia di fare bene il proprio lavoro, ma anche di freni, marce indietro, recidive (im)morali. Forse è sempre stato così. Forse adesso i comportamenti positivi e quelli negativi risaltano di più perché la torta è più piccola e gli squilibri sono più evidenti (e quindi ingiusti). Ma è positivo almeno questo: che sempre di più si diffonda la percezione di un’equità necessaria che consenta all’Italia di rialzare la testa. Anche perché alternativa è una “Concordia nazionale”, nella versione che affonda.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.  

 (Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)   

Lasciatemi votare 

con un salmone in mano 

vi salverò il paese 

io sono un norvegese…  

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo  come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale  e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza,  nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati.