Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB
SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA
NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE
NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO
LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:
accredito/bonifico al conto BancoPosta intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA IBAN: IT15A0760115800000092096221 (CIN IT15A - ABI 07601 - CAB 15800 - c/c n. 000092096221)
versamento in bollettino postale sul c.c. n. 92096221. intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA
SCEGLI IL LIBRO
PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996 0999708396
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - TELEWEBITALIA
FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
GIUSTIZIOPOLI
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA DELL’INGIUSTIZIA
OSSIA, LA LEGGE DEL PIU’ FORTE,
NON LA FORZA DELLA LEGGE
DISFUNZIONI DEL SISTEMA CHE COLPISCONO IL SINGOLO
"Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli.
Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla.
Le pene siano mirate al risarcimento ed alla rieducazione, da scontare con la confisca dei beni e con lavori socialmente utili. Ai cittadini sia garantita la libera nomina del difensore o l'autodifesa personale, se capace, ovvero il gratuito patrocinio per i poveri. Sia garantita un'indennità e una protezione alla testimonianza.
Sia garantita la scusa solenne e il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, al cittadino vittima di offesa o violenza di funzionari pubblici, di ingiusta imputazione, di ingiusta detenzione, di ingiusta condanna, di lungo o ingiusto processo.
Il difensore civico difenda i cittadini da abusi od omissioni amministrative, giudiziarie, sanitarie o di altre materie di interesse pubblico."
di Antonio Giangrande
*****
INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.
Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.
La MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.
L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!!
Della malagiustizia si parla in un’inchiesta ed in un libro a parte. Dei legulei, ossia degli operatori della giustizia, si parla dettagliatamente anche di loro in altra inchiesta ed in altro libro.
LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI ?!?!
LA GIUSTIZIA E' DI QUESTO MONDO ?!?!
"Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli. Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla."
di Antonio Giangrande
GIUSTIZIOPOLI
L'INGIUSTIZIA CHE COLPISCE IL SINGOLO
SOMMARIO PRIMA PARTE
INTRODUZIONE.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
ONESTA’ E DISONESTA’.
OTTENERE IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE È UN’ODISSEA.
RISARCIMENTO PER I PROCESSI LUNGHI. LEGGE PINTO? NO! LEGGE TRUFFA!
COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”
PARLIAMO DI INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA.
IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.
GIUSTIZIALISTI: COME LA METTIAMO CON GLI ERRORI GIUDIZIARI?
PARLIAMO DI INTERCETTAZIONI: LECITE, AMBIGUE, SELVAGGE.
PARLIAMO DELLE OFFESE DEL PUBBLICO MINISTERO ALL’IMPUTATO.
PARLIAMO DI TORTURA E VIOLENZA DI STATO.
SCIENZA E GIUSTIZIA.
LA RETORICA COLPEVOLISTA DELLA GIUSTIZIA MEDIATICA.
ASSOLTI. PERO’…
COLPA DEI PROCESSI INDIZIARI...
TOTO' CUFFARO: "LE MIE PRIGIONI".
L'INGIUSTIZIA NON E' UNA UTOPIA: E' REALTA'.
ANTONIO GIANGRANDE, GABRIELLA NUZZI, SILVIO BERLUSCONI: LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI.
INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.
INGIUSTIZIA. PARLIAMO DI DANTE BRANCATISANO. DETENUTO SENZA COLPA.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA……
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
INNOCENTE PER LEGGE, MA ‘NDRANGHETISTA PER SEMPRE.
LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.
L’ERRORE GIUDIZIARIO: INNOCENTI IN CELLA, ASSOLTI ED ARCHIVIATI.
MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!
GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.
ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.
IL SUD TARTASSATO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
DETENUTO SUICIDA IN CARCERE? UNO DI MENO!!!
BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!
IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.
USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.
E POI PARLIAMO DELL'ILVA.
EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.
CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI.
SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.
USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.
SPECULAZIONE E BANCHE: ECONOMIA CHE UCCIDE.
SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.
SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.
SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.
PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.
I GRANDI PROCESSI DEL 2014 ED I GRANDI DUBBI: A PERUGIA, KERCHER; A TARANTO, SCAZZI; A TORINO, ETERNIT; A MILANO, STASI; SENZA DIMENTICARE CUCCHI A ROMA.
SLIDING DOORS A MILANO: CRISAFULLI E BARILLA'. LA VITA CAMBIATA SENZA SAPERE UN CAZZO.
CASO MARO’. ITALIANI POPOLO DI MALEDUCATI, BUGIARDI ED INCOERENTI. DICONO UNA COSA, NE FANNO UN’ALTRA.
L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.
LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.
IN TEMA DI GIUSTIZIA E DI INFORMAZIONE CHI SBAGLIA PAGA? IL DELITTO DI PERUGIA. AMANDA E RAFFAELE COLPEVOLI DI INNOCENZA.
CARCERE. INFERNO SENZA ACQUA.
DONNE IN CARCERE. LA DISCRIMINAZIONE DIETRO LE SBARRE.
QUANDO IN PRIGIONE CI VANNO I BAMBINI.
QUANDO IN ESILIO CI VANNO I BAMBINI.
BREGA MASSONE: CONDANNATO IN TV.
IMPRENDITORIA CRIMINOGENA. SEQUESTRI ED AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. A CHI CONVIENE?
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
CONDANNA DEFINITIVA REVOCATA? NON E' PIU' UN TABU'.
L’ASINARA, PIANOSA ED IL FATTORE “M”.
CARCERI A SORPRESA. LE CELLE LISCE E LE ISPEZIONI SENZA PREAVVISO.
INCHIESTA. IL CARCERE, I CARCERATI, I PARENTI DEI CARCERATI ED I RADICALI…….
L’ITALIA COME LA CONCORDIA. LA RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.
SOMMARIO SECONDA PARTE
LA PRESCRIZIONE. LA GARANZIA PER GLI INNOCENTI CHE I GIUSTIZIALISTI NON VOGLIONO.
PRESCRIZIONE. MANLIO CERRONI ED I 14 ANNI DI SOFFERENZA DA INNOCENTE.
MAGISTRATURA SENZA VERGOGNA.
L’ITALIA DEI MORALISTI CON LA MORALE DEGLI ALTRI.
STORIE DI MAFIOSI E PARA MAFIOSI.
POTENTE UGUALE IMPUNITO.
FIDARSI DELLE ISTITUZIONI. I CITTADINI: NO GRAZIE!! CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?
INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI? UNA BALLA. LO STRAPOTERE DEI MAGISTRATI E LA VICINANZA DEI GIUDICI AI PM, OLTRE LA CORRUTTELA.
EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
FINANZA E GIUSTIZIA.
RESPONSABILITA' DELLE TOGHE? LA SINISTRA: NO GRAZIE!!!
LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO
LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.
SENTIAMO KARIMA EL MAHROUG, DETTA RUBY.
SENTIAMO CESARE BATTISTI.
YARA E' SEMPRE. SBATTERE IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA.
L'ULTIMO AFFRONTO AD ENZO TORTORA.
LA REPUBBLICA DEI MAGISTRATI.
GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.
COLPEVOLE DI ESSERE INNOCENTE.
CHE INGIUSTIZIA PERO'!!! DAI CARABINIERI ENTRI VIVO E NE ESCI MORTO O SCONTI LA PENA NELLA CELLA ZERO.
IL CARCERE E LA GUERRA DELLE BOTTE.
DELITTO DI STATO. FEDERICO PERNA.
POLIZIA, POLIZIA PENITENZIARIA E CARABINIERI: ABBIAMO UN PROBLEMA?
LA LEGGE NON AMMETTE IGNORANZA?
INGIUSTIZIA: IMMENSA BIBLIOGRAFIA.
LA METASTASI DELLA GIUSTIZIA. IL PROCESSO INDIZIARIO. IL PROCESSO DEL NULLA. UOMO INDIZIATO: UOMO CONDANNATO.
PARLIAMO DEL REATO DI MAFIA.
DIRITTO CERTO E UNIVERSALE. CONTRADDIZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE: CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA, UN REATO CHE ESISTE; ANZI NO!!.
G8 E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLO STATO.
AMANDA KNOX, RAFFAELE SOLLECITO E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLA GIUSTIZIA.
BERLUSCONI E LA GUERRA PERSECUTORIA DEI MAGISTRATI.
DOPO BERLUSCONI, I RIVA. ILVA E GLI ESPROPRI PROLETARI.
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
IN ITALIA UN ERRORE GIUDIZIARIO GRAVE OGNI DUE MAGISTRATI.
QUANDO IL PM SBATTE IL VIP IN CARCERE PER ANDARE IN PRIMA PAGINA.
IL PROFESSORE DI SALUZZO, LE ALLIEVE E LA GIUSTIZIA ITALIOTA.
L'INGIUSTIZIA E LA FICTION.
LA DRAMMATICA LETTERA DI GAIA TORTORA A “IL TEMPO” SULLA GIUSTIZIA ITALIANA.
QUANDO IL PM SBATTE IL VIP IN CARCERE PER ANDARE IN PRIMA PAGINA.
GLI INNOCENTI? PARLIAMONE....
DELINQUENTE A CHI?
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
IL CSM ASSOLVE IL GIUDICE ROSSO CHE ANDAVA A CACCIA CON I BOSS.
INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. GIOVANNI DE LUISE.
INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. MAURIZIO BOVA.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
BERLUSCONI E GLI ALTRI. I MAGISTRATI FANNO QUEL CHE “CAZZO” VOGLIONO.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
TRIBUNALI SPECIALI. QUELLO CHE SUCCEDE A SILVIO BERLUSCONI, CAPITA A TUTTI GLI ITALIOTI, CHE SUBISCONO E TACCIONO........ED I GIORNALISTI OMERTOSI: "MUTI SONO".
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.
LE TOGHE IGNORANTI.
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI. DISCUTIAMO DELLA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.
C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!
IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.
I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.
MANETTE FACILI ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.
MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.
ED IL CITTADINO COME SI DIFENDE? CON I REFERENDUM INUTILI ED INAPPLICATI.
LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.
CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.
IL CASO DI MARCELLO LONZI.
L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.
COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.
ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.
POPULISTA A CHI?!?
APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.
LA LEGA MASSONICA.
LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.
GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.
MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!
GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.
UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.
RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?
DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?
GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.
DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.
IN ITALIA, VINCENZO MACCARONE E' INNOCENTE.
TOGHE SCATENATE.
CORTE DI CASSAZIONE: CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.
CHI E' ANTONIO ESPOSITO.
ANTONIO ESPOSITO COME MARIANO MAFFEI.
GIUDICE ANTONIO ESPOSITO: IMPARZIALE?
IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.
PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.
BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?
BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.
DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.
BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.
I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.
QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.
PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.
CORRUZIONE: MANETTE A GIUDICI ED AVVOCATI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.
SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.
GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.
MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?
ITALIA, CULLA DEL DIRITTO NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.
MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.
LO STATO DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.
LA MALAGIUSTIZIA E L’ODIO POLITICO. LA VICENDA DI GIULIO ANDREOTTI.
LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.
CITTADINI ROVINATI DALLA GIUSTIZIA.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.
DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.
SE QUESTA E’ GIUSTIZIA.
GIUSTIZIA. QUELLO CHE NON SI DICE.
SEI IN CARCERE? CREPA!
SPECULATORI DELLA SOFFERENZA. CHI CI GUADAGNA SUI DETENUTI?
ASPETTATIVA DI GIUSTIZIA. DALLA PARTE DELLE VITTIME.
E IL GIUDICE SI TOLSE LA TOGA PERCHE' NON SOPPORTAVA L'IDIOZIA DEI COLLEGHI.
PERCHE' CI FELICITIAMO DELLE DISGRAZIE ALTRUI?
SARAH SCAZZI. MEDIA ED APPROSSIMAZIONE, SE NON DISINFORMAZIONE.
ANNA MARIA FRANZONI: COLPEVOLE PERCHE' LO HA DETTO LA STAMPA.
IL DELITTO DI GIUSI POTENZA. SABRINA SANTORO E FILOMENA RITA (FLORIANA) MAGNINI. ACCUSATE INGIUSTAMENTE MA PER LA STAMPA RESTERANNO "COLPEVOLI E PUTTANE" PER SEMPRE.
MELANIA REA. OMICIDI E SETTE SATANICHE? NON SE NE DEVE PARLARE!!
IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. BREMBATE SOPRA: QUANDO GLI ALTRI SIAMO NOI. IL DELITTO DI YARA GAMBIRASIO.
IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. AVETRANA IL DELITTO DI SARAH SCAZZI.
IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. LA STRAGE DI ERBA. OLINDO ROMANO E ROSA BAZZI.
IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. FABRIZIO CORONA COLPEVOLE DI SFRONTATEZZA ED ARROGANZA.
IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. DELITTO DI MELANIA REA. SALVATORE PAROLISI CON IL MOVENTE INTERSCAMBIABILE.
GRAVINA DI PUGLIA: CICCIO E TORE PAPPALARDI. STORIA DI ORDINARIA ITALIANITA'.
PER NON DIMENTICARE. STORIE DI ORDINARIA FOLLIA. L'ESEMPLARE STORIA DI ANTONIO GIANGRANDE. PERSEGUITATO PERCHE' RACCONTA LA VERITA'.
RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO. UNA NORMA DISATTESA.
PER NON DIMENTICARE. OTTAVIA DE LUISE.
PER NON DIMENTICARE. MAURIZIO BOLOGNETTI E GIUSEPPE DI BELLO. COLPEVOLI DI ESSERE INNOCENTI.
ELISA CLAPS ED IL NIDO DI SERPI.
INSABBIAMENTI E CENSURA A POTENZA.
INSABBIAMENTI: A POTENZA UN MURO DI GOMMA.
TOGHE LUCANE. INCHIESTA CHE NON SA DA FARE.
IL MISTERO DELLA MORTE DEI FIDANZATI DI POLICORO. LUCA ORIOLI E MARIROSA ANDREOTTA.
INSABBIAMENTI: SE SUCCEDE A LORO, FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI !!!!!
DELITTO DI MEREDITH KERCHER. AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO. MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA?
OMICIDI DI STATO. IL CASO BIANZINO.
OMICIDI DI STATO. GIUSEPPE UVA.
OMICIDI DI STATO. FEDERICO ALDROVANDI.
IL CASO DEL DELITTO DI SIMONETTA CESARONI. RANIERO BUSCO E PIETRINO VANACORE.
MANOLO ZIONI IN CARCERE DA INNOCENTE.
OMICIDI DI STATO. LUIGI MARINELLI.
OMICIDI DI STATO. STEFANO CUCCHI.
OMICIDI DI STATO. MICHELE FERRULLI.
CONDANNATI PREVENTIVI. LA CONDIZIONE DEGLI INNOCENTI IN CARCERE.
TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA.
SOLO A TARANTO. ILVA, SARAH SCAZZI, BEN EZZEDINE SEBAI. AVVOCATI SUCCUBI DEI MAGISTRATI.
L'INGIUSTIZIA RACCONTATA DAGLI ADDETTI AI LAVORI.
INGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.
A PROPOSITO DI GIUSTIZIA. QUELLO CHE LA STAMPA NON DICE.
CARCERE E STORIE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA.
CARA INGIUSTIZIA.
GLI INNOCENTI IN GALERA.
IL COSTO DEGLI ERRORI GIUDIZIARI.
PARLIAMO DI GIUSTIZIA E GIUSTIZIERI. L'ITALIA IN MANO AI MAGISTRATI.
LETTERE DAL CARCERE.
INTERVISTA AL PROCURATORE CAPO.
CENTO VOLTE INGIUSTIZIA.
TROPPI ERRORI GIUDIZIARI: CHI PROTEGGE GLI INNOCENTI?
EURISPES: RAPPORTO SUL PROCESSO PENALE.
DATI MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DIPARTIMENTO PENITENZIARIO. CARCERE: ICONA DELL'INGIUSTIZIA.
ABUSI E VIOLENZE SUI DETENUTI: UN DOSSIER INFINITO....
NIENTE RISARCIMENTO PER L'INGIUSTA IMPUTAZIONE.
(IN)GIUSTIZIA: 5 MILIONI GLI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
IL DIRITTO DI DIFESA: UGUALE PER TUTTI ???
IMPUNITOPOLI PER I MAGISTRATI. LA IRRESPONSABILITA’ DEI MAGISTRATI.
MPUNITOPOLI PER I FUNZIONARI PUBBLICI. FUNZIONARI PUBBLICI: IMPUNITA' ED IMMUNITA'.
MAGISTRATURA: FORTE CON I DEBOLI E DEBOLE CON I FORTI ???
IL MISTERO USTICA.
IL MISTERO MATTEI.
IL MISTERO MORO.
IL MISTERO SULLA MASSONERIA.
IL MISTERO PEDOFILIA.
IL MISTERO DEL MOSTRO DI FIRENZE.
IL MISTERO MOBY PRINCE.
DA MOSTRO A INNOCENTE, STORIE DI CALVARI.
OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.
MILANO: IL CASO RIZZOLI.
MILANO: IL CASO BERLUSCONI.
MILANO: IL CASO BARILLA’.
MILANO: I CASI MARIANI E CROSIGNANI
MILANO: IL CASO PALAU GIOVANNETTI.
CAGLIARI: IL CASO MANUELLA.
NUORO: IL CASO CONTENA.
ROMA: IL CASO ANDREOTTI.
ROMA: IL CASO LUTTAZZI.
ROMA: IL CASO SABANI.
ROMA: IL CASO DELITTO SIMONETTA CESARONI.
CASERTA: IL CASO OGARISTI.
NAPOLI: IL CASO TORTORA.
BARI: IL CASO LASTELLA.
TARANTO: IL CASO FAIUOLO, ORLANDI, NARDELLI, TINELLI, MONTEMURRO, DONVITO.
TARANTO: IL CASO PEDONE, CAFORIO, AIELLO, BELLO.
LECCE: IL CASO DI NAPOLI.
COSENZA: IL CASO MASALA.
CALTANISSETTA: IL CASO TURCO.
PEDOFILIA. LA FABBRICA DEI MOSTRI.
RIGNANO FLAMINIO E LE SUGGESTIONI. IL CASO DELLA PEDOFILIA SATANICA.
MODENA E LE SUGGESTIONI. IL CASO DELLA PEDOFILIA SATANICA.
SOMMARIO TERZA PARTE
GIUSTIZIA CAROGNA.
IL DIRITTO DI CRITICA GIUDIZIARIA.
ENZO MANNINA. IN CONFRONTO ALLA GIUSTIZIA ITALIANA KAFKA ERA UN DILETTANTE.
ONESTA’ E DISONESTA’.
CULTURA. EMIL ZOLA: L’AFFAIRE DREYFUS ED I GIORNALI CHE VIVONO DI SCANDALI.
IN NOME DELLO SCANDALO I GIORNALI SBEFFEGGIANO LA VERITA’.
MARCELLO DELL’UTRI. VITTIMA SACRIFICALE.
NICOLA MANCINO. VITTIMA SACRIFICALE.
CLEMENTE MASTELLA. VITTIMA SACRIFICALE.
CULTURA E CIVILTA’ GIURIDICA. CESARE BECCARIA. DEI DELITTI E DELLE PENE.
L’INCIVILTA’ GIURIDICA. IL RITO INQUISITORIO.
L’INCIVILTA’ GIURIDICA. LA CRUDELTA’.
DENUNCE A PERDERE.
L'IMPRESA IMPOSSIBILE DELLA RIPARAZIONE DEL NOCUMENTO GIUDIZIARIO.
LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN CAZZO.
COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”
PARLIAMO DI INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA.
COLPA DEI PROCESSI INDIZIARI...
ASSOLTI. PERO’…
L'INGIUSTIZIA NON E' UNA UTOPIA: E' REALTA'.
MORIRE DI CARCERE.
LA STORIA DELL’AMNISTIA.
ESEMPI SCOLASTICI. SONO ASSOLUTAMENTE INNOCENTI. NICOLA SACCO E BARTOLOMEO VANZETTI.
PRESUNTO COLPEVOLE.
PRESUNTA COLPEVOLE. ANNA PAGLIALONGA.
PRESUNTO COLPEVOLE. OSCAR SANCHEZ.
PRESUNTO COLPEVOLE. FABRIZIO BOTTARO.
PRESUNTO COLPEVOLE. ANGELO CIRRI.
PRESUNTA COLPEVOLE. ANASTASIA MONTANARIELLO.
PRESUNTO COLPEVOLE. ANTONIO FRANCESCO DI NICOLA.
PRESUNTO COLPEVOLE. CARMINE FORCELLA.
PRESUNTO COLPEVOLE. DINO TRAPPETTI.
PRESUNTO COLPEVOLE. SANDRO VECCHIARELLI.
PRESUNTO COLPEVOLE. TITO RODRIGUEZ.
PRESUNTO COLPEVOLE. EMANUELE NASSISI.
PRESUNTO COLPEVOLE. FILIPPO DI BENEDETTO.
PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCESCO SPANO'.
PRESUNTO COLPEVOLE. JOSE' VINCENT PIERA RIPOLL.
PRESUNTO COLPEVOLE. BRUNO DEL MORO.
PRESUNTO COLPEVOLE. EMMANUEL ZEBAZE SOKENG.
PRESUNTA COLPEVOLE. JOY IDUGBOE.
PRESUNTO COLPEVOLE. MASSIMO MALLEGNI.
PRESUNTO COLPEVOLE. PIO RAGNI.
PRESUNTO COLPEVOLE. MAURIZIO COMINO.
PRESUNTA COLPEVOLE. MONICA BUSETTO.
PRESUNTO COLPEVOLE. GIUSEPPE LA MASTRA.
PRESUNTO COLPEVOLE. GIOVANNI CAMASSA.
PRESUNTO COLPEVOLE. VITTORIO EMANUELE DI SAVOIA.
PRESUNTO COLPEVOLE. CLAUDIO BURLANDO.
PRESUNTO COLPEVOLE. GIGI SABANI.
PRESUNTA COLPEVOLE. LAURA ANTONELLI.
PRESUNTO COLPEVOLE. ROBERTO RUGGIERO.
PRESUNTO COLPEVOLE. CARLO PALERMO.
PRESUNTO COLPEVOLE. SANDRO FRISULLO.
PRESUNTO COLPEVOLE. CLELIO DARIDA.
PRESUNTO COLPEVOLE. FERDINANDO PINTO
PRESUNTO COLPEVOLE. MARIO SPEZI.
PRESUNTO COLPEVOLE. GIOVANNI TERZI.
PRESUNTO COLPEVOLE. ANTONIO GAVA.
PRESUNTA COLPEVOLE. DANIELA POGGIALI.
PRESUNTO COLPEVOLE. PIER PAOLO BREGA MASSONE.
PRESUNTI COLPEVOLI. GIOVANNI SCATTONE E SALVATORE FERRARO.
PRESUNTO COLPEVOLE. RAFFAELE SOLLECITO.
PRESUNTA COLPEVOLE. AMANDA KNOX.
PRESUNTO COLPEVOLE. LUCIANO CONTE.
PRESUNTO COLPEVOLE. MARIO CONTE.
PRESUNTO COLPEVOLE. BENIAMINO ZAPPIA.
PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO SAVINI.
PRESUNTO COLPEVOLE. OSCAR MILANETTO.
PRESUNTO COLPEVOLE. DIALLO A..
PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO SANTESE.
PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCESCO FUSCO.
PRESUNTO COLPEVOLE. ANDREA MARCON.
PRESUNTA COLPEVOLE. CHIARA BARATTERI.
PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCO MOCERI.
PRESUNTO COLPEVOLE. SALVATORE RAMELLA.
PRESUNTO COLPEVOLE. SALVATORE GRASSO.
PRESUNTI COLPEVOLI. VINCENZO E GIUSEPPE IAQUINTA.
PRESUNTA COLPEVOLE. BEATRICE CENCI.
PRESUNTO COLPEVOLE. ARMANDO CHIARO.
PRESUNTA COLPEVOLE. EMILIA SALOMONE.
PRESUNTO COLPEVOLE. ALFONSO SABELLA.
PRESUNTO COLPEVOLE. DOMENICO ZAMBETTI.
PRESUNTO COLPEVOLE. AMBROGIO CRESPI.
PRESUNTO COLPEVOLE. ILVO CALZIA.
PRESUNTO COLPEVOLE. OTTAVIANO DEL TURCO.
PRESUNTA COLPEVOLE. MARTA VINCENZI.
PRESUNTI COLPEVOLI. GIULIO E MARIA FRANCESCA OCCHIONERO.
PRESUNTO COLPEVOLE. FILIPPO MAGNINI.
PRESUNTO COLPEVOLE. ALEX SCHWAZER.
PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO PANTANI.
PRESUNTE COLPEVOLI. SABRINA MISSERI E COSIMA SERRANO.
PRESUNTI COLPEVOLI. OLINDO ROMANO E ROSA BAZZI.
PRESUNTO COLPEVOLE. MASSIMO BOSSETTI.
PRESUNTO COLPEVOLE. CATENO DE LUCA.
SONO INNOCENTE.
SONO INNOCENTE. ELAINE ARAUCO DA SILVA.
SONO INNOCENTE. ENZO TORTORA.
SONO INNOCENTE. LORENA MORSELLI.
SONO INNOCENTE. DOMENICO MORRONE.
SONO INNOCENTE. STEFANO MESSORE.
SONO INNOCENTE. ALDO SCARDELLA.
SONO INNOCENTE. MARIA VITTORIA PICHI.
SONO INNOCENTE. PATRIK LUMUNBA.
SONO INNOCENTE. ALBERTO OGARISTI.
SONO INNOCENTE. SAVERIO DE SARIO.
SONO INNOCENTE. FILIPPO LA MANTIA.
SONO INNOCENTE. FULVIO PASSANANTI.
SONO INNOCENTE. VITO GAMBERALE.
SONO INNOCENTE. CARMINE BELLI.
SONO INNOCENTE. PIETRO MELIS.
SONO INNOCENTE. GIUSEPPE GULOTTA.
SONO INNOCENTE. MARIA ANDO’.
SONO INNOCENTE. DIEGO OLIVIERI.
SONO INNOCENTE. CORRADO DI GIOVANNI.
SONO INNOCENTE. LUCIA FIUMBERTI.
SONO INNOCENTE. FRANCESCO RAIOLA.
SONO INNOCENTE. GUIDO BERTOLASO.
SONO INNOCENTE. ANTONIO CARIDI.
SONO INNOCENTE. HASHI OMAR HASSAN.
SONO INNOCENTE. MARIA GRAZIA MODENA.
SONO INNOCENTE. GIUSEPPE MELZI.
SONO INNOCENTI. GIUSEPPE ORSI E BRUNO SPAGNOLINI.
SONO INNOCENTE. ANGELO MASSARO.
SONO INNOCENTE. ANNA MARIA MANNA.
SONO INNOCENTE. CLAUDIO RIBELLI.
SONO INNOCENTE. ANTONIO LATTANZI.
SONO INNOCENTE. JOAN HARDUGACI.
SONO INNOCENTE. VITTORIO LUIGI COLITTI.
SONO INNOCENTE. VITTORIO RAFFAELE GALLO.
SONO INNOCENTE. MICHELE TEDESCO.
SONO INNOCENTE. ROBERTO GIANNONI.
SONO INNOCENTE. SANDRA MALTINTI.
SONO INNOCENTE. GAETANO MURANA.
SONO INNOCENTE. GIUSEPPE SILLITTI.
SONO INNOCENTE. PIO DEL GAUDIO.
SONO INNOCENTE. ANTONIO COLAMONICO.
ALTRI CENTO, MILLE, MILIONI DI INNOCENTI.
Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.
Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh- (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.
Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.
Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.
I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.
La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.
Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.
“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.
Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”
Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.
Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.
Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.
Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.
A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.
Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.
Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.
La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.
In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.
Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.
Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.
Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.
Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.
Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).
Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.
Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.
Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".
Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.
*****
INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.
Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.
LA MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.
L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!!
SECONDA PARTE
LA PRESCRIZIONE. LA GARANZIA PER GLI INNOCENTI CHE I GIUSTIZIALISTI NON VOGLIONO.
Prescrizione: Salvini, voglio tempi brevi processo e in galera colpevoli, scrive Adnkronos l'8 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “La mediazione è stata positiva, accordo trovato in mezz’ora. Voglio tempi brevi per i processi. In galera i colpevoli, libertà per innocenti- La norma sulla prescrizione sarà nel ddl ma entra in vigore da gennaio del 2020 quando sarà approvata la riforma del processo penale. La legge delega, che scadrà a dicembre del 2019, sarà all’esame del Senato la prossima settimana”. Lo dice il vicepremier Matteo Salvini, dopo l’intesa trovata a Palazzo Chigi sulla prescrizione.
Prescrizione: Di Maio, soddisfatto da accordo, stop furbetti, scrive Adnkronos il 9 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “Prescrizione? Mi sono svegliato dopo bene dopo l’accordo, mi soddisfa totalmente, perché l’obiettivo di riformare la prescrizione è sempre stata un obiettivo del M5S per fermare i furbetti. Allo stesso modo sapere che il 2019 sarà l’anno del processo penale è importante”. Lo ha detto il vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, incontrando la stampa estera a Roma. “Per me è molto importante confrontarmi con voi – ha aggiunto – i media mondiali con cui vorrei confrontarmi su temi importanti”.
Da quale pulpito vien la predica.
Moralizzatori moralizzati, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 08/11/2018, su "Il Giornale". I moralizzatori finiscono sempre per essere a loro volta moralizzati. È una legge ineluttabile di quella politica che si preoccupa sempre di fare le pulci agli altri - con fare saccente - dimenticandosi di guardare in casa propria. E proprio di casa si parla. Di casa Di Maio, per la precisione. Come ha rivelato ieri Repubblica, nel 2006 la famiglia del vicepremier ha condonato 150 metri quadrati di abusi nella sua abitazione di Pomigliano d'Arco. Non ci sarebbe nulla di male, se su quella porta di casa non ci fosse stampigliato il cognome Di Maio. Cioè il politico che, da sempre, pensa che i condoni siano una iattura e quelli che ne usufruiscono dei pericolosi criminali. Gli consigliamo di fare due chiacchiere con suo padre, che di sicuro non è un pericoloso criminale, ma una persona normalissima. Uno dei tanti italiani che, quando può, usufruisce delle sanatorie che lo Stato mette a disposizione. Senza nuocere a nessuno perché, ricordiamolo al forcaiolo Di Maio, c'è abuso e abuso. E allargare una mansarda o fare una finestra non è come costruire una villa in barba alla legge o edificare su un terreno a rischio idrogeologico. Così, mentre lui berciava contro i condoni dai palchi di tutt'Italia, il salotto di casa sua era condonato. Ma le sorprese non finiscono qui: perché la sanatoria sfruttata da Di Maio senior è entrata in vigore nel 1985, regnante Bettino Craxi. Che ovviamente per i Cinque Stelle è peggio del babau, il progenitore di tutte le caste. Un paradosso al cubo lascia in braghe di tela il moralismo grillino. Tante parole smontate, giorno dopo giorno, dai fatti. Ma d'altronde è in buona compagnia visto che anche il suo leader spirituale, Beppe Grillo, quatto quatto, ha usufruito dei tanto vituperati condoni. Il rapporto tra grillini e sanatorie è schizofrenico. Ne dicono peste e corna in pubblico, salvo poi utilizzarli nella propria vita privata e infilarli, di nascosto, nelle maglie di un decreto. Com'è accaduto con il decreto Genova, all'interno del quale sono state inserite le sanatorie per Ischia. Anche se il vicepremier continua a spergiurare che non c'è nessun condono. Mandiamo un messaggio in bottiglia a Di Maio: occhio Gigino, gli italiani hanno la memoria lunga e non condoneranno tutte le balle dei Cinque Stelle.
Condono anche a casa Di Maio, nel 2006 il padre pagò 2mila euro per la sanatoria. Il padre di Di Maio sanò l'abuso edilizio della propria casa nel 2006, pagando 2mila euro per la sistemazione di 150 metri quadri. Ma il capo politico del M5S fu durissimo con Rosa Capuozzo, l'ex sindaco di Quarto, espulsa dal M5S perché viveva in una casa con un'opera ancora da condonare, scrive Giovanna Pavesi, Mercoledì 07/11/2018, su "Il Giornale". Sono passati dodici anni da quando il padre del vice Primo Ministro, Luigi Di Maio, aveva chiesto di sanare un abuso edilizio, proprio nella casa di famiglia, a Pomigliano d'Arco. Era il 2006 e, secondo la ricostruzione fatta da Repubblica, a provarlo sarebbero oggi le carte conservate negli archivi. Antonio Di Maio, geometra e piccolo imprenditore, oggi 68enne, la sanatoria l'aveva richiesta per 150 metri quadri su due livelli della sua abitazione, un elegante palazzo all'interno del quale risiede ancora la famiglia del capo politico del Movimento 5 Stelle. Dalla sua costruzione, la casa avrebbe avuto diverse aree non conformi alla norma. Poi tutte condonate dopo il pagamento della multa. Che però, lascia, di fatto, le cose come sono.
I fatti, dall'inizio. Ad Antonio Di Maio corrispondeva la pratica numero 1840, del protocollo 7850 del 30 aprile 1986. Per la "sistemazione" della sua casa si appellò alla legge 47 del 1985. Che è quella del governo Craxi-Nicolazzi e che introduceva il primo condono. Si trattava di una sanatoria a cui potevano accedere in tanti. Ma per fare in modo che il percorso si concretizzasse servirono diversi anni. In Campania, infatti, nel frattempo, si ricostruiva dopo il terremoto: ripulire o estendere opere abusive era, quindi, pratica ricorrente. Il padre del ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, essendo geometra, all'epoca eseguiva vari lavori e, per il Comune napoletano, aiutava come esaminatore per le pratiche in attesa.
La sanatoria del 2006. La concessione, per la famiglia Di Maio, arriva nel 2006. Tecnicamente si tratta di "ampliamento di un fabbricato esistente al secondo e terzo piano" ed lo stesso geometra Di Maio, registrato come "tecnico rilevatore", a segnalare le superfici abitabili nei vari piani. La somma dei metri quadri, che risultano essere 151, costituiscono quasi una nuova casa. L'istruttoria conclusiva risale al 17 giugno 2006. Le rate da pagare sono due e corrispondono a 594 euro, con gli oneri di concessioni (altri 410 euro), più una differenza perché il padre del ministro, durante i calcoli, si sarebbe distratto, misurando meno metri quadri di quelli che risulteranno nelle carte. Le opere edilizie abusive, fatte all'interno della casa in diversi anni, gli costano circa 2mila euro. La pratica si chiude, ma rimane in archivio.
La replica di Di Maio. Poche ore fa è arrivata la replica del vice Presidente del Consiglio, che su Facebook ha risposto a Repubblica, dando la sua versione dei fatti. Spiegando che il quotidiano si sarebbe "inventato questo scoop". Il capo politico del movimento ha raccontato di aver chiamato subito il padre chiedendo spiegazioni sui fatti risalenti al 2006. Secondo quanto riportato dal leader pentastellato, la risposta arrivata dallo Stato si sarebbe riferita a una costruzione, inizialmente del nonno paterno e risaltente al 1966, che all'epoca dell'edificazione non avrebbe violato alcun regolamento. Almeno questo secondo Di Maio.
Il caso di Rosa Capuozzo. Nel corso della storia politica del leader pentastellato, il fatto non sarebbe però mai emerso. Nemmeno quando, nel 2016, dieci anni dopo la sanatoria del padre, Luigi Di Maio fu favorevole all'espulsione di Rosa Capuozzo. La scelta di allontanare il primo cittadino di Quarto, unico sindaco campano pentastellato, ebbe origine da un abuso edilizio. Anche se dietro il motivo dell'espulsione sembrò esserci altro. Capuozzo viveva in una casa con un'opera ancora da condonare. Il fatto spinse un consigliere comunale del M5S (finito poi sotto inchiesta per la Procura antimafia) a ricattarla. Sul blog di Beppe Grillo, infatti, si leggeva: "È dovere di un sindaco del M5S denunciare immediatamente e senza tentennamenti alle autorità ogni ricatto o minaccia che riceve".
Condono della casa di famiglia, Di Maio attacca Repubblica. La nostra risposta, scrive Conchita Sannino il 7 novembre 2018 su "La Repubblica". Luigi di Maio risponde a Repubblica sulla vicenda del condono della casa di famiglia a Pomigliano d'Arco. "Ho chiamato mio padre e gli ho chiesto cosa avesse combinato, mi ha spiegato che nel 1966 mio nonno, che ora non c'è più, costruì la casa dove vive tuttora la mia famiglia. Nel 1966 mio padre aveva sedici anni - ricorda Di Maio - e la casa fu costruita in base ad un decreto regio del 1942, ancora vigente nel 1966. Nel 1985, quando mio nonno non c'era più, mio padre venne a conoscenza di una legge per regolarizzare qualsiasi manufatto costruito in precedenza, e chiese di regolarizzare la casa". Di Maio, che si lamenta di come "non sia bello vedere la propria famiglia sbattuta a pagina 10 come i 'furbetti del condono edilizio", prosegue ricordando che il padre "presentò una domanda ad aprile 1986, io nasco tre mesi dopo, spero che mi si riconosceranno le attenuanti dell'incapacità di intendere e volere. Mio padre presenta la domanda ad aprile '86, io nasco a luglio '86. Nel 2006 mio padre riceve la risposta del comune che gli dice di pagare duemila euro e regolarizzare così la casa costruita nel 1966. Questo sarebbe il grande scoop di Repubblica, io condonista... Peccato però che non abbia mai titolato per gli scudi fiscali sotto i governi Renzi, Letta e Gentiloni". E aggiunge: "Mi perdonerete se oggi ho comprato Repubblica non lo farò spesso, lo farò solo quando serve".
La risposta di Repubblica. I fatti non si piegano alle convenienze. È una delle regole attraverso cui passa la credibilità e la trasparenza di un leader politico. Prendiamo atto che il vicepremier e capo del M5S Luigi Di Maio lo abbia appena sperimentato, confermando in una diretta Fb tutto quello che Repubblica - rigorosamente attenendosi a dati pubblici e incontestabili - aveva scritto, relativamente alla sanatoria concessa a suo padre, dal Comune di Pomigliano d'Arco, nel 2006, avente per oggetto il palazzetto in cui risulta residente il leader del Movimento. Di Maio, tuttavia, anche stavolta incorre in qualche imprecisione. E in alcune omissioni. Sfrondando l'intera vicenda di meta-messaggi e sarcasmo sulla libertà di stampa - che appesantiscono la verità come un abuso su uno scheletro d'immobile - per estrema chiarezza, ripercorriamo alcune evidenze.
Primo punto, tecnico. Suo padre, il geometra ed imprenditore edile, Antonio Di Maio, ha effettivamente chiesto ed ottenuto un condono per manufatti ed ampliamenti abusivi, eseguiti al secondo e terzo piano, richieste che sono state depositate in Comune a partire dal post-terremoto esattamente come abbiamo rilevato e raccontato? Sí. Invece qui cominciano i 'ma' dell'onorevole Di Maio. "Ho letto Repubblica (...), ho chiesto a mio padre cosa hai combinato. Mio padre presentó una domanda ad aprile 1986. Ma la casa fu costruita nel 1966, realizzata da mio nonno in base al Regio decreto del 1942". Una genealogia interessante, ma c'è una prima imprecisione. Due terzi della casa, ovvero secondo piano e terzo piano sono connotati da abusi che, secondo quanto registrato negli atti, sono stati realizzati almeno dieci anni dopo. Ciò non toglie che si sia trattato di ampliamenti per complessivi 150 metri quadri.
Secondo punto. Tecnico. Suo padre ha effettivamente definito tutta la pratica nel 2006, col pagamento di 2mila euro a fronte di quel volume, tra nuove camere da letto, tinello e studiolo con lucernai ed altro? Sí. "Mio padre riceve la risposta del Comune che gli chiede di pagare 2mila euro", spiega ancora Di Maio. Anche qui c'è una omissione. A quanto pare, il papà geometra - nonostante la sua esperienza e la competenza tale da esaminare pratiche altrui per il Comune - aveva sbagliato a proprio favore il calcolo di alcuni - pochi - metri quadri. Una dimenticanza certamente non voluta. È vero o no che fu costretto a tornare a Palazzo e a saldare quella differenza?
Terzo ed ultimo punto. Politico. "Questo sarebbe il grande scoop di Repubblica. Mi perdonerete oggi ho comprato Repubblica, non lo farò spesso", dice Di Maio che addirittura consiglia di mettere "più amore" nella cronaca politica; riecheggiando anche qui antichi slogan berlusconiani. Il vicepremier Di Maio, se leggesse di più e meglio, saprebbe cose che evidentemente in casa, gli erano sfuggite, almeno da 12 anni. E soprattutto dica cosa pensa del condono e di come possa ora vietare a Ischia ciò che in casa sua era stato concesso. I fatti, come lui stesso ha dimostrato spiegando, non si piegano alle convenienze. Conchita Sannino
Il vizio del moralista Grillo Sanate megaville e società. Il comico tuona contro i condoni ma li ha sfruttati per la residenza a Genova e l'immobiliare col fratello, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 08/11/2018, su "Il Giornale". Beppe Grillo sul blog denuncia da anni la piaga dell'evasione fiscale in Italia, anche se - raccontò l'ex impresario Lello Liguori - il comico pretendeva di farsi pagare i suoi spettacoli in nero. Ma Beppe Grillo denuncia da anni anche la malapianta dei condoni fatti dai vari governi. «Il cittadino deve sentirsi rispettato come contribuente, non preso per il culo da una serie infinita di condoni e dallo Scudo Fiscale» tuonava nel 2012. «I politici sono ectoplasmi che rinnovano la loro esistenza grazie a palliativi, l'ultimo è il condono per le abitazioni abusive» ammoniva nel 2013, epoca governo del «porporato Nipote Letta», cioè Enrico. Il M5s in Parlamento si occupa delle vere emergenze nazionali mentre «loro» si occupano solo di «salvare Berlusconi, salvare il Monte dei Paschi di Siena e fare il condono edilizio» sentenziava sempre sul blog nel 2013. «Il governo strizza l'occhio ai furboni con la procedura di condono nota come «voluntary disclosure» rituonava il comico nel 2017. Ma quando si trattava di condonare la roba sua, Grillo non si è schifato per nulla. Anzi più volte il fondatore del M5s ha approfittato della possibilità di sanare gli abusi. Nel suo caso per tre volte, con due tipologie diversi di condoni. I primi due sono scritti nei bilanci della Gestimar Srl, società immobiliare con sede a Genova proprietaria di una decina di immobili fra Liguria e Sardegna, di cui Beppe Grillo era socio al 99%, insieme al fratello Andrea. Ebbene nei bilanci 2002 e 2003 si legge: «In considerazione della possibilità concessa dalla legge finanziaria 2003 di definire la propria posizione fiscale con riferimento ai periodi di imposta dal 1997 al 2001, fermo restando il convincimento circa la correttezza e la liceità dell'operato sinora eseguito, si è ritenuto opportuno di avvalersi della fattispecie definitoria di cui all'articolo 9 della predetta legge», ovvero il condono tombale dell'allora governo Berlusconi, ministro Tremonti, ovvero del «nano di Arcore» e «Tremorti», come li soprannominava gentilmente il comico. Il loro condono però lo prendeva sul serio.
Come l'altro, edilizio, quello che i suoi fan diventati ministri giustificano in Sicilia e promuovono ad Ischia. Del condono edilizio di Grillo scrisse Filippo Facci sul Giornale ricostruendo l'epopea del comico-fustigatore di costumi: «Nel 1986, poco in linea con certe sue intransigenze future, fu protagonista di alcuni spot per gli yogurt Yomo: Ci hanno messo 40 anni per farlo così buono, diceva indossando una felpa con scritto University of Catanzaro. Lo yogurt è un prodotto buono, si difese lui. Per quella pubblicità vinse un Telegatto. È il periodo in cui andò a vivere a Sant'Ilario, la Hollywood di Genova: una bellissima villa rosa salmone, affacciata sul Monte di Portofino, con ulivi e palme e i citati frutti e ortaggi di plastica. Non fece scavare una piscina, ma due: cosa che piacque poco ai vicini e soprattutto al dirimpettaio Adriano Sansa, già poco entusiasta del terrazzo di 100 metri quadri che Grillo fece interamente ricoprire inciampando in un clamoroso abuso edilizio cui pose rimedio con uno di quei condoni contro cui è solito scagliarsi». È un artista, mica si può chiedergli la coerenza. Del resto Grillo ha fatto l'apologia della decrescita, del pianeta slow, delle auto ad acqua che non inquinano e non consumano petrolio, ma ha posseduto Ferrari e barche a motore. L'altra megavilla, quella a Bibbona a pochi metri dal mare che affitta a 15mila euro a settimana, ha la fortuna di essere stata accatastata solo come A7 (villino), invece che A8 (villa), come pure quella di Sant'Ilario. Comico, condonato e anche fortunato.
Bongiorno contro Bonafede: è guerra sulla nuova prescrizione. Dopo le critiche dei penalisti arriva la “bomba” dell’avvocata leghista: “è come un’atomica sul processo”. La replica del guardasigilli: “La vera bomba è l’impunità”, scrive il 3 novembre 2018 "Il Dubbio". Ad accendere la miccia della polemica del giorno all’interno del governo, ci pensa la ministra leghista della pubblica istruzione, Giulia Bongiorno: «Bloccare la prescrizione sarebbe una bomba atomica contro il sistema giudiziario italiano, io questa cosa non posso accettarla e non posso non segnalarla». E aggiunge: «I condannati devono avere un secondo grado di giudizio». Una posizione che il ministro della giustizia grillino Bonafede, “mandante” dell’emendamento che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, non ha mandato giù: “Rispetto e stimo il ministro Bongiorno, con cui ho collaborato e collaboro su diversi fronti, dalla necessita di riavviare il motore della giustizia con nuove forze, alla lotta contro la violenza sulle donne. Ma sulla prescrizione si sbaglia” E poi: “La bomba atomica che rischia di esplodere è la rabbia dei cittadini di fronte all’impunita”. Ma le critiche più dire alla nuova prescrizione sono arrivate dai penalisti: “La norma- manifesto che il Ministro della Giustizia aveva preannunciato e che gli Onorevoli Businarolo e Forciniti del Movimento 5 Stelle hanno tradotto in un emendamento al DDL anticorruzione, è espressione di una concezione autoritaria del diritto penale e del processo», ha infatti scritto la Giunta delle Camere penali. «La prescrizione nel nostro ordinamento – spiegano le Camere penali – ha un preciso significato ed è a pieno titolo uno degli elementi del patto sociale. L’istituto della prescrizione ha origini antiche e chi oggi ipotizza la sua sostanziale abolizione è disposto a cancellare conquiste della civiltà giuridica pur di ottenere risposte di vendetta sociale in nome di una efficienza che lo Stato non sa altrimenti garantire». I penalisti poi confermano lo stato di agitazione, in difesa dell’articolo 111 della Costituzione che garantisce la ragionevole durata del processo. Ma i 5Stelle sembrano tirare dritto e sulle presunte incomprensioni con la Lega, che a quanto pare ha molti dubbi sulla prescrizione immaginata dal ministro Bonafede – Di Maio risponde: «Lo stop alla prescrizione è entrata nel contratto di governo» prevedendo «che la decorrenza dei termini si ferma dopo il primo grado di giudizio». La riforma della prescrizione dunque «si farà, magari ci sono dei problemi interni alla Lega, non lo so e non mi interessa», scrive il vicepremier su Facebook, sottolineando: «Questo è il governo del cambiamento, non difende i furbi ma gli onesti». E poi: «Per quanto mi riguarda lo stop alla prescrizione deve entrare nella legge spazza- corrotti perché la prescrizione oggi è la legge dei furbi», continua il vicepremier Di Maio: «In questo paese, i più grandi furbetti del quartierino si sono salvati dai processi grazie alla prescrizione. Con la prescrizione si sono salvati grandi personaggi tra cui Licio Gelli. Bisogna arrivare a processo».
Eccolo lì il fantasma di Andreotti. Le pesanti critiche di Giulia Bongiorno all’emendamento di Bonafede ha scatenato i retroscenisti, scrive Francesco Damato il 6 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Il Fatto Quotidiano – e chi sennò – si è affrettato a scomodare il fantasma di Giulio Andreotti per cercare di mettere in difficoltà, se non tacitare, Giulia Bongiorno. Che nella doppia veste di ministro e di avvocato ha osato criticare, e pure pesantemente, la guerra alla prescrizione dichiarata dal suo collega di governo, e un po’ anche di professione, Alfonso Bonafede: accusato, in particolare, di voler usare ‘ una bomba atomica’ contro la "ragionevole durata" dei processi introdotta nel 1999 nella Costituzione con la modifica dell’articolo 111. Il Fatto Quotidiano – e chi sennò – si è affrettato a scomodare il fantasma di Giulio Andreotti per cercare di mettere in difficoltà, se non tacitare, Giulia Bongiorno. Che nella doppia veste di ministro e di avvocato ha osato criticare, e pure pesantemente, la guerra alla prescrizione dichiarata dal suo collega di governo, e un po’ anche di professione, Alfonso Bonafede: accusato, in particolare, di voler usare "una bomba atomica" contro la "ragionevole durata" dei processi introdotta nel 1999 nella Costituzione con la modifica dell’articolo 111. Altro che "ragionevole" sarebbe, in effetti, la durata dei processi se la prescrizione valesse solo sino alla prima sentenza, come vorrebbe appunto il guardasigilli condividendo l’emendamento alla legge “spazzacorrotti” predisposto dai due relatori, entrambi colleghi di partito. I processi durerebbero all’infinito, non finendo – come dicono i sostenitori della riforma, o controriforma, secondo i gusti ma semplicemente rovesciandosi, dalla difesa dell’imputato all’accusa, l’interesse presunto o reale a ritardare un giudizio finale, questa volta soltanto perché sgradito, di assoluzione. "Non arretreremo di un millimetro", ha garantito il guardasigilli replicando proprio ai rilevi della collega di governo, mentre il vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio partiva per la Cina escludendo che l’arretramento possa avvenire anche solo sul piano procedurale. Cioè, con la decisione di scendere dalla legge sulla corruzione per montare su un’altra legge, o presentarne una apposta. La legge spazzacorrotti deve quindi potersi chiamare anche spazzaprescritti. Il più famoso ed emblematico dei quali rimane nella memoria di Travaglio, ma anche di Nino Di Matteo, intervistato nell’occasione proprio dal Fatto Quotidiano, la buonanima di Giulio Andreotti. L’ex presidente del Consiglio fu a suo tempo assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, per la quale era stato mandato a processo, ma prescritto, come si dice in gergo tecnico e dispregiativo, per l’associazione a delinquere configurabile, secondo i giudici, negli incontri compromettenti da lui avuti sino alla primavera del 1980 con esponenti poi rivelatisi mafiosi. Tanto compromettenti furono peraltro quegli incontri che, una volta diventato presidente del Consiglio, Andreotti concorse curiosamente alla nomina di Giovanni Falcone, il magistrato simbolo della lotta alla mafia, sino ad esserne ucciso, a direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia. E poi sfornò, sempre contro la mafia, un decreto legge tanto ai limiti della Costituzione da essere emesso con fatica dal presidente della Repubblica, e non essere votato in Parlamento dall’opposizione comunista. Di Matteo ha ancora rimproverato a Giulia Bongiorno dalle colonne del giornale di Travaglio di avere festosamente gridato tre volte ‘ assolto’ all’indirizzo del suo assistito eccellente, nel momento del verdetto d’appello, sorvolando sulla prescrizione che lo aveva ugualmente macchiato. E di cui ancora si vanta ogni volta che può, a voce e per iscritto, Giancarlo Caselli. Il quale alla guida della Procura della Repubblica di Palermo condusse l’offensiva giudiziaria contro Andreotti, il veterano della Dc e del suo potere. La fedeltà al suo antico assistito, o "Divo", come lo incoronò Paolo Sorrentino col suo famoso film, nella interpretazione di Toni Servillo, non è la sola colpa rinfacciata in questi giorni alla ministra Bongiorno dagli alleati di governo grillini. E recepita anche da Emilio Giannelli, che con quel nome che porta di Giulia l’ha ritratta sulla prima pagina del Corriere della Sera come variante femminile di Andreotti, diventato persino la proiezione della sua ombra. Le viene un po’ rimproverato anche il fresco approdo, dai lidi finiani della Destra, alla Lega. Di cui nei giorni o nelle ore dispari i grilli ricordano i rapporti passati al governo nazionale con l’odiato Silvio Berlusconi, un altro prescritto eccellente, e quelli perduranti a livello locale, dove peraltro il centrodestra continua a presentarsi unito. Di stampo berlusconiano o protoleghista sarebbero appunto la difesa della prescrizione e tutti o quasi gli emendamenti proposti dai parlamentari del Carroccio alla legge "spazzacorrotti". Vedrete che prima o dopo, compulsando qualche vecchia rassegna stampa, con la stessa ossessione o chirurgica selezione riservata a verbali giudiziari, intercettazioni e quant’altro, i grillini e le loro prolunghe mediatiche scopriranno le pulsioni andreottiane dei leghisti della prima ora, approdati a decine in Parlamento nella legislatura uscita dalle urne del 1992. Quando Francesco Cossiga invertì con le sue improvvise dimissioni da presidente della Repubblica l’ordine degli adempimenti istituzionali delle nuove Camere, dando la precedenza alla sua successione sul Quirinale rispetto alla formazione del governo, Umberto Bossi chiese consigli a Gianfranco Miglio. Che la mattina gli suggeriva di aspettare la candidatura di Andreotti, preferita a quella in arrivo del segretario della Dc Arnaldo Forlani con l’appoggio di Bettino Craxi, e il pomeriggio invece gli perorava la causa di Cossiga, dimessosi secondo lui per tentare astutamente la rielezione dopo il naufragio sia di Forlani sia di Andreotti. Furbo ma non ancora allenato a dovere ai giochi di palazzo, e pur tentato più dall’idea di un ritorno a Cossiga, il cui piccone non aveva certamente danneggiato la Lega negli ultimi due anni della passata legislatura e nella campagna elettorale di quell’anno, Umberto Bossi tagliò la testa al toro sterilizzando i voti dei suoi ottanta e passa parlamentari. Dalla seconda alla sedicesima e ultima votazione tenne ferma la candidatura di bandiera di Miglio, che nel frattempo si era però convinto che convenisse alla Lega più l’elezione di Andreotti che il sempre più improbabile ritorno di Cossiga. La partita del Quirinale era destinata a chiudersi nel modo più imprevisto, a favore di Oscar Luigi Scalfaro, ancora fresco di elezione alla presidenza della Camera. A dargli una mano, facendolo prevalere sul presidente del Senato Giovanni Spadolini come soluzione ‘ istituzionale’, fu il clima di disorientamento e di emergenza creatosi con la strage mafiosa di Capaci, costata la vita a Falcone, alla moglie e a tre dei quattro uomini della scorta. Col democristianissimo Scalfaro poi Bossi si sarebbe trovato benissimo quando ne fu incoraggiato – solo due anni dopo, pensate – a liquidare anzitempo il primo governo di centrodestra del Cavaliere di Arcore.
L'ITALIA DEI PROCESSI INFINITI DAI COSTI INCALCOLABILI.
L'Italia dei processi infiniti dai costi incalcolabili. Se il processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito è stato l'oggetto di un ping pong giudiziario quasi interminabile, la colpa è dei meccanismi stessi del processo penale, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Non è stato il primo, e sicuramente non sarà l'ultimo: se il processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito è stato l'oggetto di un ping pong giudiziario quasi interminabile, la colpa è dei meccanismi stessi del processo penale. Il codice non prevede un tie break, un momento in cui si debba per forza tirare le fila, facendo pendere la bilancia da una parte o dall'altra. L'andirivieni tra Corti d'appello e Cassazione può andare avanti in teoria all'infinito: specie per i processi per omicidio, che non possono essere inghiottiti dalla prescrizione. Certo, i costi per la collettività sono incalcolabili, e pesanti anche i costi materiali e psicologici per vittime e imputati. Ma di una norma che metta fine al rimpallo non si è mai parlato. E così non è affatto da escludere che lo stesso esito del processo per il delitto di Perugia possa averlo a breve quello per il delitto di Garlasco, visto che la Cassazione dopo avere annullato la assoluzione di Alberto Stasi potrebbe tranquillamente annullare anche la sua condanna. Come capostipite dei processi interminabili viene indicato abitualmente quello per la strage di piazza Fontana: che però ebbe un percorso accidentato ma tutto sommato lineare, anche se molti anni dopo la stessa Cassazione scrisse che la Cassazione si era sbagliata ad assolvere i neofascisti Freda e Ventura. Ben più surreale fu invece l'andirivieni di un altro processo degli anni di piombo, quello per l'omicidio del commissario Calabresi: Adriano Sofri venne condannato in primo e secondo grado, la Cassazione annullò la condanna, nel nuovo processo d'appello Sofri venne assolto ma la Cassazione annullò anche questa sentenza, e ci vollero un terzo processo d'appello e una nuova condanna, stavolta confermata dalla Cassazione, per chiudere la vicenda. In tempi più recenti, quasi impossibile da spiegare ai non addetti ai lavori è stato l'iter del processo per il rapimento dell'imam terrorista Abu Omar: gli 007 del Sismi vennero assolti in primo e secondo grado, la Cassazione annullò le assoluzioni, a quel punto l'appello bis si concluse con la condanna di tutti gli imputati, ma la Cassazione annullò (fortunatamente senza rinvio, altrimenti si sarebbe andati avanti chissà quanto) anche la sentenza di condanna. Per i reati non puniti dall'ergastolo, a dare un taglio alla faccenda arriva prima o poi la prescrizione, ma l'effetto è ugualmente straniante: la Procura di Milano non ha mai rinunciato a considerare Antonio Fazio, ex governatore della Banca d'Italia, colpevole del caso Unipol, ma si è dovuta arrendere - a causa del tempo trascorso - di fronte alla sentenza di assoluzione dell'appello-bis, dopo che la Cassazione aveva annullato le prime assoluzioni. E nel vuoto rischia di svanire anche il triste caso di Matilda Borin, la bambina uccisa nel 2005 vicino Vercelli. Prima fu assolto l'amante della madre, poi anche la madre; altri non potevano essere stati; la Cassazione ha riaperto il caso, ma - trattandosi di omicidio preterintenzionale - la prescrizione potrebbe arrivare prima di qualunque condanna.
In Italia potente è uguale a impunito. Solo undici persone sono in carcere per corruzione. Perché le inchieste vengono cancellate in massa dalla prescrizione. E così i colletti bianchi non pagano mai per i reati che commettono, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biondani su “L’Espresso”. Gong, tempo scaduto: il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma il processo è durato troppo, per cui il colpevole ha diritto di restare impunito. Nel gergo dei tribunali si chiama prescrizione. È il termine massimo concesso dalla legge per condannare chi ha commesso un reato. In teoria è una nobile garanzia: serve a evitare che uno Stato autoritario possa riesumare accuse del lontano passato e perseguitare i cittadini con processi infiniti. Il guaio è che in tutti i Paesi civili la prescrizione è un evento eccezionale, mentre in Italia è diventata la regola per intere categorie di reati. Una scappatoia legale che premia soprattutto gli imputati eccellenti e la criminalità dei colletti bianchi. E nega giustizia al popolo delle vittime dei reati. E provoca pure danni alle casse dello Stato: le somme, in molti casi si parla di decine di milioni di euro, sequestrati agli imputati in fase di indagine perché ritenute provento della corruzione o concussione, una volta dichiarato prescritto il reato devono essere restituite agli “illegittimi” proprietari. E così, grazie alle leggi-vergogna sulla prescrizione, le tante caste, cricche, logge o lobby della politica e dell’economia possono continuare a rubare. Mentre restano senza giustizia i cittadini danneggiati da truffe, raggiri finanziari, evasioni fiscali o previdenziali, corruzioni, appalti truccati, scandali sanitari, omicidi colposi, traffici di rifiuti pericolosi, disastri ambientali, morti sul lavoro, violenze in famiglia, perfino abusi sui bambini. «L’Italia è l’unico Paese del mondo in cui la prescrizione continua a decorrere per tutti e tre i gradi di giudizio», è la diagnosi tecnica di Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani Pulite che oggi è giudice di Cassazione: «All’estero di regola il conteggio si ferma con il rinvio a giudizio o al massimo con la sentenza di primo grado, dopo di che non si prescrive più niente. Da noi invece il colpevole può farla franca anche se è già stato condannato in primo e secondo grado e perfino se è l’unico a fare ricorso, quindi è proprio lui ad allungare la durata del processo. Quando proviamo a spiegarlo ai magistrati stranieri, non riescono a capacitarsene: “Che senso ha?”». Il senso di questa anomalia italiana è una massiccia impunità: solo nell’ultimo anno giudiziario, come ha detto il primo presidente della Cassazione invocando una «riforma delle riforme», sono stati annientati dalla prescrizione ben 128 mila processi penali. Come dire che in Italia, ogni giorno, evitano la condanna almeno 350 colpevoli di altrettanti reati. La prescrizione facile è da decenni un vizio nazionale: basti pensare che i processi di Mani Pulite, nati dalle storiche indagini milanesi del 1992-1994, si erano chiusi con un bilancio finale di 1.233 condanne, 429 assoluzioni e ben 423 prescrizioni. Già ai tempi di Tangentopoli, insomma, il 20 per cento dei colpevoli riusciva a beffare la giustizia. Invece di risolvere il problema, le cosiddette riforme dell’ultimo ventennio lo hanno aggravato. Il tasso di impunità è salito alle stelle, in particolare, con la legge ex Cirielli, approvata nel 2005 dal centrodestra berlusconiano, che ha reso ancora più breve la via della prescrizione: termini dimezzati, applicazione automatica, obbligo per i giudici di concederla per ogni singolo reato, anche se il colpevole ha continuato a commetterne altri. E così, mentre la crisi economica spinge molti Stati occidentali a punire severamente i reati finanziari e il malaffare politico, in Italia i più ricchi e potenti riescono quasi sempre a sfuggire alla condanna. A documentarlo sono i dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (aggiornati al novembre 2013), raccolti in esclusiva da “l’Espresso”: sugli oltre 60 mila detenuti si contano soltanto 11 accusati per corruzione, 26 per concussione, 46 per peculato (cioè per furto di denaro pubblico), 27 per abuso d’ufficio aggravato. In Germania per reati economici finanziari vi sono in cella 8.600 detenuti. Di fronte all’enormità di un’evasione stimata nel nostro Paese di 180 miliardi di euro all’anno, in cella per frode fiscale ci sono soltanto 168 persone e appena tre arrestati per reati societari o falso in bilancio. La prescrizione all’italiana ha salvato centinaia di imputati eccellenti. L’elenco è interminabile, ma il re delle prescrizioni è sicuramente Silvio Berlusconi, che i giudici hanno dovuto dichiarare «non più punibile» prima per le tangenti a Bettino Craxi, per la corruzione giudiziaria della Mondadori (danni accertati per 494 milioni di euro) e per i colossali falsi in bilancio della Fininvest (caso All Iberian, fondi neri per 1.550 miliardi di lire) e poi, proprio grazie alla legge ex Cirielli approvata dalla sua maggioranza, per le mazzette da 600 mila dollari versate al testimone inglese David Mills, in cambio del silenzio sui conti offshore del Cavaliere. Che ora attende che si prescriva in appello anche la condanna per il caso dell’intercettazione trafugata nel dicembre 2005 per screditare il suo avversario politico Piero Fassino. Persino la prima condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale, quella che gli è costata il seggio in parlamento, è stata ridimensionata dalla prescrizione: le sentenze considerano pienamente provata un’evasione da 368 milioni di dollari, ma la ex Cirielli ha lasciato sopravvivere solo l’ultimo pezzetto di reato, per cui l’ex premier ora deve versare all’Agenzia delle Entrate solo dieci milioni. A sinistra, il miracolato più in vista è Filippo Penati, ex capo della segreteria del Pd: accusato di aver intascato tangenti per oltre due milioni di euro, aveva detto di voler rinunciare alla prescrizione, ma poi non l’ha fatto, e ora resta sotto processo solo per le accuse più recenti e difficili da dimostrare. Tra i big della finanza, autostrade e costruzioni, spicca il caso di Fabrizio Palenzona, che si è visto annullare l’accusa di aver intascato almeno un milione di euro su una rete di conti di famiglia tra Svizzera e Montecarlo, mai dichiarati al fisco e scoperti grazie alle indagini sulle scalate bancarie del 2005. Nel mondo della sanità, la sparizione dei primi reati, provocata dalla solita ex Cirielli, ha fatto tornare in libertà perfino il chirurgo della “clinica degli orrori” Pierpaolo Brega Massone, nonostante la condanna a 15 anni e mezzo. Nel pianeta giustizia, la prescrizione ha salvato l’ex giudice romano arrestato per tangenti Renato Squillante e altri magistrati con i conti all’estero. Tra i casi più recenti c’è la prescrizione ottenuta dal costruttore della “cricca” Diego Anemone per i famosi finanziamenti illeciti versati all’insaputa dell’ex ministro Claudio Scajola, che a sua volta è stato assolto nonostante siano stati usati per l’acquisto della sua casa romana. Mentre l’ex governatore del Molise, Michele Iorio, si è visto cancellare solo in Cassazione la condanna a 18 mesi per abuso d’ufficio e ora può tornare a fare politica nella sua regione. Verso la prescrizione si avviano molti altri scandali come le frodi milionarie di “Lady Asl” alla sanità laziale, le grandi truffe sui farmaci, i danni subiti da migliaia di risparmiatori con i famigerati bond-spazzatura della Cirio. La prescrizione facile, in sostanza, costringe la giustizia italiana, già rallentata da mille cavilli e inefficienze, a una corsa contro il tempo che per molti reati è perduta in partenza. E a truccare l’orologio a favore dei colpevoli sono proprio leggi come la ex Cirielli. Per capire quanto siano ingiusti e spesso drammatici gli effetti della prescrizione all’italiana, basterebbe che i politici legislatori non ascoltassero solo gli avvocati-deputati degli inquisiti, ma anche le vittime dei reati. «Mi chiamo Roberto Bicego, ho 66 anni, sono il primo paziente veneto a cui il luminare della cardiochirurgia Dino Casarotto aveva impiantato, nel novembre del 2000, una valvola-killer brasiliana, così chiamata perché scoppiava nel cuore dei pazienti. Quando si è saputo che aveva preso le tangenti dalle aziende fornitrici, il professore è stato arrestato e condannato in primo grado, ma non ha mai confessato niente, non ha chiesto scusa a noi malati, non ha risarcito nulla e in appello ha ottenuto la prescrizione. Io ho perso il lavoro, la salute, la tranquillità, ancora oggi ho dolori al torace. Il tribunale aveva accolto le richieste dei nostri legali, Giovanni e Jacopo Barcati, e ci aveva concesso un risarcimento provvisorio di 50 mila euro. Ma dopo la sentenza d’appello la direzione dell’ospedale di Padova ci ha intimato di restituirli con gli interessi. Adesso siamo noi a dover pagare i danni: roba da matti». «Sono Giovanni Tomasi, figlio di Clara Agusti, che ha 74 anni e non può muoversi da casa. I medici dicono che mia madre ha subito troppe operazioni, per cui non può più sostituire le sue due valvole cardiache, anche se una è difettosa. Facendosi corrompere, è come se il chirurgo l’avesse condannata a morte. Eppure anche lei ha ricevuto questo decreto ingiuntivo che le impone di risarcire l’ospedale. Ma che giustizia è questa?». Condanna a morte non è un modo di dire: dei 29 malati di cuore che si erano costituiti parte civile nel processo di Padova, solo uno aveva rifiutato di rioperarsi: «È morto durante il processo, il giorno dopo una visita di controllo. Gli hanno trovato pezzi della valvola-killer in tutto il corpo». «Sono Emanuela Varini, la moglie di Annuario Santi, che era un po’ il simbolo delle tante vittime di quelle valvole perché era rimasto paralizzato e seguiva tutte le udienze in carrozzella. Mio marito è morto nel 2008, non ha fatto in tempo a vedere che è finito tutto in prescrizione. Anche a Torino erano stati corrotti due chirurghi, ma hanno confessato e sono stati condannati: il professor Di Summa, quando ha visto mio marito in tribunale, è scoppiato a piangere e gli ha chiesto perdono. Il chirurgo di Padova invece non ha risarcito nessuno e dopo la prescrizione siamo ancora in causa con l’ospedale». A Roma sono cadute in prescrizione tutte le appropriazioni indebite che hanno svuotato le casse di 29 cooperative edilizie che hanno lasciato senza casa circa 2.500 famiglie. L’ex dominus del “Consorzio Casa Lazio” e i suoi presunti complici restano sotto accusa soltanto per bancarotta, ma il processo, lungo e complicato come per tutti i fallimenti a catena, è ancora in primo grado e i risarcimenti restano un sogno. «Le vittime sono migliaia di poveracci che hanno pagato gli anticipi e sono rimasti senza casa», spiega un avvocato di parte civile, Fabio Belloni: «Ci sono molte giovani coppie che avevano impegnato la liquidazione dei genitori, operai e impiegati che hanno perso tutti i risparmi: il Comune ha dovuto aiutare gli sfrattati che erano finiti a dormire per strada. Centinaia di famiglie, dopo aver versato più di centomila euro ciascuna, ora hanno solo la proprietà di un prato in periferia, neppure edificabile». A Milano è ancora fermo in appello, dopo le prime condanne e molte prescrizioni, il processo per le massicce attività di spionaggio illegale compiute dalla divisione sicurezza del gruppo Pirelli-Telecom tra il 2001 e il 2007, con la complicità di ufficiali corrotti anche dei servizi segreti: almeno 550 operazioni di dossieraggio che hanno colpito 4200 persone e decine di società private o enti pubblici. Lo scandalo aveva spinto il Parlamento a imporre per legge la distruzione dei dossier ricattatori: obiettivo raggiunto per i politici spiati, ma non per la massa di lavoratori e cittadini che avevano già subito i danni. E così, la prima vittima conclamata della banda dei super-spioni, il signor D.T., ex dirigente licenziato ingiustamente dalla filiale italiana di una multinazionale americana, non ha mai avuto giustizia, anche se l’intera maxi-inchiesta era partita proprio dal suo caso: «Sono stato spiato per mesi da una squadra di poliziotti corrotti, che per screditarmi non hanno esitato a inventarsi una falsa inchiesta per pedofilia», ricorda D.T. con voce disperata. «Sono stato mobbizzato, perseguitato per due lunghissimi anni: il manager che aveva pagato quel dossier 65 mila euro, ha diffuso quelle calunnie in tutta l’azienda, quindi i colleghi che mi erano amici hanno cominciato a chiamarmi “anormale”, a farmi passare per folle... È stato un inferno, ho avuto un gravissimo esaurimento nervoso, da allora non ho più una vita normale. Ho saputo di essere stato spiato illegalmente solo quando il pm Fabio Napoleone ha trovato la mia pratica: ero il dossier numero 323. Dopo l’arresto, le spie hanno confessato tutto, ma i poliziotti corrotti non sono stati nemmeno processati: era tutto prescritto già all’udienza preliminare. Ho perso il lavoro, la fiducia in me stesso, la serenità familiare e nessuno mi ha risarcito». La legge ex Cirielli favorisce anche i colpevoli di reati odiosi come le violenze contro i bambini. A Roma sono già caduti in prescrizione tre dei quattro processi aperti contro R.P., un padre degenere accusato di aver maltrattato e picchiato la moglie, arrivando a cacciarla da casa di notte con una neonata, in un drammatico quadro di abusi sessuali sulla figlia minorenne che lei aveva avuto nel precedente matrimonio. Condannato per tre volte in primo grado, l’uomo ha sempre ottenuto la prescrizione in appello. Nel quarto processo, il più grave, ora è imputato di violenza sessuale sulla ragazzina, nonché di averla sequestrata, alla vigilia della deposizione, per costringerla a ritrattare: tribunale e corte d’appello lo hanno condannato a quattro anni e otto mesi, ma l’udienza finale in Cassazione è stata rinviata per un difetto di notifica al prossimo marzo, quando rischia di essere tutto prescritto. «Al di là dei risarcimenti, le vittime dei reati hanno soprattutto un desiderio di giustizia che si vedono negare», spiega l’avvocata Cristina Michetelli. La ex Cirielli sta cancellando anche reati ambientali che minacciano intere comunità e compromettono la filiera alimentare. Della prescrizione facile hanno potuto beneficiare, tra gli altri, i diciannove inquisiti nella maxi-inchiesta sulle campagne avvelenate in Toscana e Lazio: sono imprenditori dello smaltimento, procacciatori d’affari e autotrasportatori che raccoglievano masse di rifiuti pericolosi, truccavano le carte, li riversavano negli impianti di compostaggio (rovinandoli) e poi li rivendevano come concimi da spargere nei terreni agricoli, che ora sono contaminati. In primo grado avevano subito condanne fino a quattro anni, con interdizione dalla professione, ma in appello la prescrizione ha cancellato anche i reati superstiti: ora sono tutti liberi e risultano incensurati, per cui possono tornare a fare il loro lavoro nel ciclo dei rifiuti. A completare il quadro dell’impunità, oltre alla prescrizione facile, sono le lacune normative che impongono di assolvere l’imputato che abbia commesso fatti considerati illeciti dai trattati internazionali, ma non dalle leggi in vigore in Italia. Un esempio per tutti: Francesco Corallo, il re delle slot machine del gruppo B-Plus-Atlantis, è riuscito a far cadere l’accusa, che lo aveva costretto alla latitanza, di aver pagato tangenti a un banchiere, Massimo Ponzellini, in cambio di prestiti per 148 milioni di euro: la Popolare di Milano infatti ha ritirato la querela, rendendo così impossibile processare entrambi per quella «corruzione privata». Anche i grandi evasori che nascondono montagne di soldi all’estero non vengono quasi mai perseguiti dall’Agenzia delle Entrate, perché le prove raccolte con le indagini penali fuori dai confini nazionali non possono essere utilizzate dal fisco italiano: tra i beneficiari di questo divieto, spiccano l’ex ministro Cesare Previti e i suoi colleghi avvocati condannati per corruzione di giudici. E fino a quando non diventerà reato l’auto-riciclaggio, non sarà possibile punire neppure i boss mafiosi che hanno nascosto o reinvestito le ricchezze ricavate con il racket delle estorsioni o i traffici di droga: il codice attuale infatti permette di incriminare solo eventuali complici esterni, ma non direttamente i padroni dei tesori criminali. Benvenuti in Italia, il Paese dell’impunità per i ricchi e potenti.
C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».
M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.
Prepotenti e impuniti di Stefano Zurlo (Piemme). Ci sono i vicini di casa che per anni continuano a utilizzare il giardino dei dirimpettai come discarica abusiva e non si trova un giudice in grado di impedirglielo. C'è un professionista che ha aperto un passaggio abusivo fra la casa e lo studio e non si trova un giudice in grado di impedirglielo. Ci sono i genitori separati che, sulla strada della riconciliazione, vorrebbero ricontrattare tempi e modi dell'affido congiunto dei figli, ma un giudice sedicente esperto in materia non vuoi cedere sulle restrizioni concordate anni prima, quando tra i coniugi era "guerra aperta". C'è poi il caso del dj licenziato dalla discoteca che lo aveva assunto facendogli firmare un contratto per l'intera stagione e che, per recuperare il compenso dovuto e non corrisposto, attende oltre dodici anni, durante i quali le lire fanno in tempo a diventare euro e le spese legali sostenute superano gli stipendi recuperati. C'è perfino una causa da 35,00 euro e un giudice che autorizza un tizio a portare la pistola in aula. E poi ci sono le sentenze mai depositate, i ritardi smisurati e le assenze ingiustificate di giudici e magistrati... Insomma, la giustizia civile in Italia proprio non funziona. Tanto che nel Belpaese i processi civili pendenti, come dicono gli addetti ai lavori, sono più di 5 milioni e mezzo: un numero impressionante di eredità, fallimenti, divorzi, liti di ogni genere congelati per anni e anni dentro il grande freezer della giustizia. Speranze, attese, rancori, soldi, interessi economici, business: c’è tutto un mondo che si muove a singhiozzo, permettendo ai soliti furbi di farla franca, spesso con la complicità di avvocati, giudici e magistrati poco solerti che, muovendosi in una selva di leggi e leggine, fanno della malagiustizia italiana la garanzia dell’impunità per i più prepotenti, a scapito degli onesti cittadini. Avvocati che ora diventano mediatori e conciliatori o impresari di mediazione: giusto per reiterare la malagiustizia se a promuovere le mediazioni sono i loro colleghi che sanno dove andare...
Processo dura 20 anni, lo stupro è prescritto. Il giudice: "Chiedo scusa alla vittima". Cade l'accusa per l'uomo che abusò della figlia della convivente. In Appello tutto si è arenato. Il ministro Orlando manda gli ispettori: "è un fatto che ribollire il sangue", scrive Sarah Martinenghi il 21 febbraio 2017 su "La Repubblica". "Questo è un caso in cui bisogna chiedere scusa al popolo italiano". Con queste parole, la giudice della Corte d'Appello Paola Dezani, ieri mattina, ha emesso la sentenza più difficile da pronunciare. Ha dovuto prosciogliere il violentatore di una bambina, condannato in primo grado a 12 anni di carcere dal tribunale di Alessandria, perché è trascorso troppo tempo dai fatti contestati: vent'anni. Tutto prescritto. La bambina di allora oggi ha 27 anni. All'epoca dei fatti ne aveva sette. Dall'aula l'hanno chiamata per chiederle se volesse presentarsi al processo, iniziato nel 1997, in cui era parte offesa. Ma lei si è rifiutata: "Voglio solo dimenticare". Il procedimento è rimasto per nove anni appeso nelle maglie di una giustizia troppo lenta. Lo ammette senza mezzi termini il presidente della corte d'Appello Arturo Soprano: "Si deve avere il coraggio di elogiarsi, ma anche quello di ammettere gli errori. Questa è un'ingiustizia per tutti, in cui la vittima è stata violentata due volte, la prima dal suo orco, la seconda dal sistema". In aula, a sostenere l'accusa della procura generale, è sceso l'avvocato generale Giorgio Vitari. "Ha espresso lui per primo il rammarico della procura generale per i lunghi tempi trascorsi - spiega il procuratore generale, Francesco Saluzzo - Questo procedimento è ora oggetto della valutazione mia e del presidente della Corte d'Appello. È durato troppo in primo grado, dal 1997 al 2007. Poi ha atteso per nove anni di essere fissato in secondo". La storia riguarda una bambina violentata ripetutamente dal convivente della madre. La piccola, trovata per strada in condizioni precarie, era stata portata in ospedale, dove le avevano riscontrato traumi da abusi e addirittura infezioni sessualmente trasmesse. La madre si allontanava da casa per andare a lavorare e l'affidava alle cure del compagno. Il procedimento alla procura di Alessandria parte con l'accusa di maltrattamenti e violenza sessuale. In udienza preliminare viene però chiesta l'archiviazione per parte delle accuse e l'uomo riceve una prima condanna, ma solo per maltrattamenti. Contemporaneamente, il giudice dispone il rinvio degli atti in procura perché si proceda anche per violenza sessuale. Nel frattempo, però, sono già trascorsi anni. L'inchiesta torna in primo grado e, dopo un anno, viene emessa la condanna nei confronti dell'orco: 12 anni di carcere. Da Alessandria gli atti rimbalzano a Torino per il secondo grado. Ma incredibilmente il procedimento resta fermo per nove anni in attesa di essere fissato. Finché, nel 2016, il presidente della corte d'Appello Arturo Soprano, allarmato per l'eccessiva lentezza di troppi procedimenti, decide di fare un cambiamento nell'assegnazione dei fascicoli. "Ho tolto dalla seconda sezione della corte d'Appello circa mille processi, tra cui questo, e li ho ridistribuiti su altre tre sezioni. Ognuna ha avuto circa 300 processi tutti del 2006, 2007 e del 2011. Rappresentavano il cronico arretrato che si era accumulato", spiega. La prima sezione ha avuto tra le mani per un anno il caso iniziato nel 1997. E l'udienza si è svolta solo ieri. "Ormai, però, era intervenuta la prescrizione". Un altro errore si è aggiunto alla catena di intoppi giudiziari: per sbaglio è stata contestata all'imputato una recidiva che non esisteva, il che avrebbe accorciato ulteriormente la sopravvivenza della condanna. I giudici, ascoltate le scuse della procura generale, si sono chiusi a lungo in camera di consiglio. Forse nella speranza di trovare un'ancora di salvezza. Alla fine, però, ha vinto il tempo. Sulla vicenda è anche intervenuto il ministro della giustizia Andrea Orlando che ha deciso di mandare gli ispettori di via Arenula per svolgere accertamenti preliminari in merito al processo, caduto in prescrizione.
Reato prescritto, pedofilo libero: il giudice chiede scusa, scrive di Roberta Catania il 22 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. «Abbiamo chiesto scusa alla vittima perché siamo stati costretti a chiedere il proscioglimento dell'imputato, nonostante non volessimo. È intervenuta la prescrizione». Ecco la giustificazione del procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, dopo che si è concluso, senza alcuna condanna, il processo a carico di un uomo che violentò la figlia della sua compagna dell'epoca, una bimba di sette anni. Per carità, sentire un giudice chiedere scusa è un evento di tale rarità che non si può non darne atto. Però rimane un fatto gravissimo che un caso così delicato sia rimbalzato per vent' anni da una scrivania all' altra senza trovare una giusta collocazione e dare un giusto processo alla vittima e al suo aguzzino. L'altro ieri la vittima di quelle violenze sessuali - che il compagno della madre le infieriva mentre la donna era al lavoro - non si è presentata in aula al Palagiustizia di Torino. Lei oggi ha 27 anni, vuole solo dimenticare e andare avanti. Un reset che sarebbe stato giusto offrirle molti anni fa, con tempi della giustizia più rapidi, condannando il suo stupratore ai giusti anni di prigione, invece di rammaricarsi oggi dichiarando «la prescrizione». Anche il presidente della corte d' Appello ha chiesto perdono alla donna e «al popolo italiano» per l'esito di una vicenda «su cui giustizia non c' è stata, perché non è stato possibile farla». Ma la colpa di chi è? Di quella ragazza che forse non aveva il denaro per pagare un brillante avvocato che incalzasse le udienze o di quei giudici che oggi chiedono perdono? Forse non loro direttamente, visti gli intoppi in cui è inciampato il caso, ma comunque qualcuno dovrebbe pagare un risarcimento o i danni morali. Il primo passo di questo processo è datato 1997. Il fascicolo arriva al tribunale di Alessandria, dove avviene il primo inciampo della giustizia. In udienza preliminare, il gup della provincia piemontese non aveva riconosciuto l'accusa di violenza sessuale ma soltanto quella di maltrattamenti. Accusa contestata successivamente dal giudice, che riesce a far riconoscere lo stupro, ma intanto altri anni erano andati persi. Il processo di primo grado dura tantissimo: dieci anni. E non per colpa di centinaia di testimoni da sentire o migliaia di perizie da esaminare, ma perché tra un'udienza e l'altra trascorrevano tempi inspiegabilmente biblici. Come se non fosse bastato un primo grado durato dieci anni, ce ne sono voluti altri nove prima che venisse fissato l'Appello. Diciannove anni, quindi, perché il caso arrivasse al tribunale di Torino per discutere il secondo grado di giudizio. E quando il fascicolo è stato preso in mano dai togati, oplà, era già tutto scaduto. Dopo molte ore di camera di consiglio, due giorni fa la giudice della Corte d' Appello Paola Dezani che ha dichiarato «prosciolto lo stupratore». Lo ha fatto con imbarazzo, dicono. Anche lei mortificata per una lentezza della giustizia che non ha lasciato impunito un abuso edilizio, ma che ha condonato le ripetute violenze sessuali su una bambina di sette anni. Adesso, in Piemonte arriveranno gli ispettori del ministero della Giustizia. Adesso, i giudici chiedono scusa. Adesso, la notizia rimbalza su tutti i giornali. Ma per venti anni nessuno ha preso a cuore la giustizia che meritava quella bambina e domani nessuno pagherà per qualcosa che tornerà ad essere catalogato come ordinaria lentezza della giustizia italiana.
Reato di stupro prescritto: ma chi paga? Le parole non restituiranno sollievo alla 27enne che 20 anni fa fu abusata, ma la sanzione dei responsabili. Di chi ha omesso, ignorato, e non ha vigilato, scrive il 22 febbraio 2017 Marco Ventura su Panorama. Per la giustizia negata non c’è altra soluzione che accelerare i processi e far valere il principio che chi sbaglia paga. Anche il magistrato negligente o lavativo. Tutto il resto è retorica: proposte di grande riforma del sistema giudiziario, ipotesi illiberali come quella di rendere infinito il tempo della prescrizione, scuse pubbliche prive di conseguenze concrete che servono soltanto a lavare le coscienze. Ben venga la prescrizione per l’uomo condannato in primo grado a 12 anni per aver abusato della figlia (che di anni ne aveva 7) della convivente; ben venga la notizia dei 20 anni di processo che non sono bastati a restituire, se non la serenità, almeno la giustizia a una donna che oggi ha 27 anni e dice di voler “solo dimenticare”; ben venga il proscioglimento del (dobbiamo dire presunto?) violentatore, se questa ennesima sconfitta della giustizia italiana servirà a qualcosa. Per esempio, a evitare in futuro nuove sentenze di prescrizione di reati che se non puniti “fanno ribollire il sangue”, come ha sollecitamente dichiarato con espressione suggestiva il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, annunciando l’invio di ispettori. E ben vengano le scuse agli italiani del giudice della Corte d’Appello di Torino, Paola Dezani, che ha dovuto emettere “in nome della legge” la sentenza, prendendo atto che il reato era prescritto: troppi dieci anni per il processo di primo grado (1997-2007) più altri nove per fissare l’udienza in appello. Ben venga la denuncia del presidente della Corte d’Appello, Arturo Soprano, che parla di “ingiustizia per tutti” e vittima “violentata due volte, la prima dall’orco, la seconda dal sistema”. Eppure. Il Sistema ha un volto. Un nome. Altrimenti sono tutti colpevoli e nessuno è colpevole. E anche questo è il Sistema. Che si difende auto-accusandosi. Il dubbio che qualcosa cambi davvero è forte. Perché in Italia manca del tutto il concetto di responsabilità, che è sempre personale ed è quella per la quale meriti e demeriti producono premi o sanzioni. Succede invece che il buon giudice continui a svolgere il proprio lavoro in silenzio, smazzando sentenze e trattando equamente le cause che trova sul tavolo, sforzandosi di leggere le carte prima di prendere decisioni. E capita poi che vengano emesse sentenze prima ancora di ascoltare le parti in udienza: la condanna pre-confezionata e “per errore” firmata e controfirmata. Per dire quanto la giustizia possa essere veloce: la sentenza precede l’udienza. Svista che smaschera anch’essa un Sistema. C’è una lacuna nello scandalo dello stupro pedofilo impunito. Un difetto, forse, nella comunicazione dei magistrati. Un dubbio, un rovello anzi, che deve assillare chiunque non si accontenti di denunciare le imperfezioni del Sistema. Il dubbio è che la vittima di 7 anni che oggi ne ha 27 e vuole solo dimenticare abbia tragicamente ragione. Primo, perché se anche la giustizia fosse arrivata in tempo (nei termini) sarebbe stata comunque tardiva. È ragionevole che si debbano aspettare 17-18 anni per vedere condannato il proprio violentatore o perché un uomo accusato di violenza venga processato? Siamo un Paese incivile. È di ieri la notizia che a Rio de Janeiro sono stati condannati a 15 anni di carcere due autori della violenza di gruppo su una sedicenne commessa lo scorso maggio. E parliamo di Brasile e favelas. Non di Alessandria o Torino. Secondo, perché il moltiplicarsi di scuse dei magistrati (pur benvenute e doverose) e dichiarazioni di quanti hanno la responsabilità della “giustizia” nascondono una diffusa ipocrisia. Qui non sono le parole a poter restituire uno straccio di riparazione alla 27enne che vent’anni fa fu abusata, ma la sanzione dei responsabili. Di chi ha omesso, ignorato, sottovalutato. Di chi ha lavorato male e provocato un danno con la sua negligenza. Di chi non ha vigilato. La sanzione può anche essere semplicemente un fermo alla carriera, un trasferimento, una censura. La magistratura gode di benefici economici (e non solo) in ragione della sua autorevolezza. Che oggi è ai minimi nell’opinione pubblica. E la sua autonomia, invece, rischia di esser vista come arroccamento corporativo e difesa dei privilegi. Se nessuno, alla fine e dopo tante belle parole, non pagherà per la denegata giustizia o per l’errore giudiziario (le carceri ne sono piene), avrà sempre ragione il presidente della Corte d’Appello di Torino, che ha scelto male le parole quando ha detto che la 27enne che vuole solo dimenticare è vittima due volte: dell’orco e del sistema. E la vittima rischia così di essere vittima non due ma tre volte, vittima dell’ipocrisia di quelli che puntano l’indice contro un ente inafferrabile e irresponsabile (il Sistema) invece di volgere lo sguardo al proprio fianco, nell’ufficio accanto, tra i colleghi, e additare i colpevoli, i veri irresponsabili, con nome e cognome.
La giustizia italiana è lentissima e fa restare impigliati gli innocenti. Tra Tronchetti Provera che viene assolto dopo 8 anni e Davigo che pensa sia giusto eliminare la prescrizione. La nuova puntata di Pinocchio, scrive Fabio Massa su Affari italiani, Mercoledì 7 novembre 2018. C'era una volta la giustizia. Oggi sui giornali ci sono due notizie che riguardano il mondo dei tribunali. Entrambe mi riportano a qualche anno fa. La prima notizia riguarda il caso Kroll, con Tronchetti Provera che è stato definitivamente assolto dopo 8 anni e tre dibattimenti in appello. Non sto a farvela lunga sul caso, perché è la tipica spy-story all'italiana. Io la seguii, quando emerse, perché mi occupavo di giudiziaria. Una storia da romanzo, e non scherzo. Invece, il fatto che Tronchetti Provera abbia dovuto sostenere un procedimento lungo 8 anni è più che altro una tragedia. Lui se l'è potuto permettere, essendo bastantemente ricco. Ma altri in otto anni avrebbero perso tutto. Certo, la cosa si sarebbe potuta risolvere prima. Come? Ricorrendo alla prescrizione. Ma Tronchetti non ha voluto, perché si riteneva innocente e in Italia, se ricorri alla prescrizione, vieni automaticamente bollato come colpevole. La seconda notizia riguarda Piercamillo Davigo, che intervistato dal Fatto Quotidiano, sostiene che abolire la prescrizione è cosa giusta, che bisogna permettere di peggiorare le sentenze in appello. Argomento difficile da trattare, me ne rendo conto. Però occorre che su questa cosa tutti ci facciano una riflessione. Perché non è così infrequente finire in tribunale per qualche motivo. Perché si è vittime, o perché si è accusati di qualcosa. Io ci sono finito per le querele, roba normale nel mio lavoro. Le ho sempre vinte. Ne ricordo una nella quale facevo fatica a mettere a fuoco addirittura l'articolo contestato perché l'avevo scritto quattro anni prima. E considerato che sono uno che fa almeno una decina di articoli a settimana (a settimana!), mi veniva difficile ricordare esattamente come fossi arrivato a scrivere quelle cose, dopo altri 2000 articoli. E si trattava in fondo solo di un articolo, per un reato assai minore. Provate a pensare a manager che prendono decisioni complesse, o a politici che vedono migliaia di persone all'anno. Il problema in Italia non sono i colpevoli che sfuggono alla giustizia. Ma gli innocenti che nella giustizia rimangono impigliati, e intanto le loro vite si consumano aspettando che un giudice abbia finalmente il tempo di occuparsi di loro.
Abolire la prescrizione, come da manuale del perfetto Stato totalitario, scrive Aldo Vitale il 9 novembre 2018 su Tempi. Diceva Montesquieu: «Quando l’innocenza dei cittadini non è garantita, non lo è neppure la libertà». Appunti per il ministro Bonafede e i giacobini grillini. La vicenda, se non fosse grave, sarebbe esilarante dato che proprio un ministro della Giustizia che si chiama Bonafede intende promuovere una riforma, la quale abbia lo scopo di elidere la prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado, presupponendo che tutti gli altri siano in malafede e violando proprio i più elementari fondamenti del giusto processo e dello Stato di diritto. La notizia dell’accordo intervenuto nella maggioranza di governo in tema di abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio non può che suscitare perplessità e preoccupazione non soltanto per chi esercita più o meno lucrosamente l’antica e nobile professione d’avvocato, ma anche per tutti coloro che abbiano sviluppato in coscienza un pur minimo spirito di giustizia e di buon senso.
IN LINEA CON ROUSSEAU E ROBESPIERRE. Una simile iniziativa non dovrebbe sorprendere oltre modo considerato il background culturale e ideologico che ispira il movimento grillino, cioè una scimmiottatura senza dubbio ridicola, ma non per questo meno pericolosa, del pensiero di Rousseau – non a caso scelto come riferimento ideologico della piattaforma del movimento grillino – il quale costituisce l’anello di congiunzione tra il pensiero dell’assolutismo politico del XVII secolo e il totalitarismo del XX secolo. In mezzo, non a caso, vi è la rivoluzione francese il cui acme rivoluzionario è da rinvenirsi nei terribili e grotteschi, nonché sanguinari, eventi del 1793, cioè l’anno in cui assunse il potere totale il giacobinismo, ovvero l’estremismo del pensiero rivoluzionario che – secondo gli storici, come per esempio Pierre Gaxotte o Albert Soboul – trovando nel pensiero di Rousseau il suo supporto ideologico e in Robespierre il suo braccio esecutore condusse al periodo del cosiddetto “terrore” in cui si poteva essere arrestati lunedì 23 marzo e ghigliottinati martedì 24 marzo. La celerità e la certezza dell’applicazione della legge erano, infatti, tra gli obiettivi primari dei giacobini, anche se ciò comportava un sacrificio per la giustizia e per i diritti del singolo.
PERSONE SENZA DIRITTI. Del resto, proprio Rousseau aveva teorizzato un sistema politico e giuridico in cui si imponeva la cessione totale di ogni associato con tutti i suoi diritti alla comunità tutta, così che nessuno poteva rivendicare diritti in contrasto con l’autorità rivoluzionaria e nessuno poteva dirsi innocente contro le accuse mosse dall’autorità rivoluzionaria la quale nel 1793 prese l’altisonante, quanto sostanzialmente vuoto, nominativo di “Comitato di salute pubblica”. In un tale scenario tutte le libertà e le garanzie giuridiche vengono meno, come del resto in ogni regime totalitario. Non a caso i grillini, che proprio a Rousseau e alla suddetta tradizione ideologica si richiamano espressamente, hanno proposto di abolire la prescrizione, senza, tuttavia, rendersi conto delle gravi conseguenze che una simile scelta produrrà sulla integrità dell’ordinamento giuridico italiano come ordinamento di uno Stato di diritto.
STATO SENZA LIMITI. L’istituto della prescrizione – che peraltro è esclusa per i reati puniti con la pena dell’ergastolo e quindi caratterizzati da una maggiore gravità, o più pregnante pericolosità sociale come si ama dire – è da ritenersi un cardine del sistema penale di uno Stato di diritto, cioè di uno Stato che riconosce i propri limiti e che all’interno di questi limiti riconduce la propria pretesa punitiva, almeno per reati non estremamente gravi. Il venir meno della prescrizione, anche se dopo il giudizio di primo grado, è, inoltre, un imbarazzante errore di “grammatica” giuridica e costituzionale fondamentale, poiché comporterebbe il venir meno della presunzione d’innocenza a cui la prescrizione è ontologicamente connessa. A questo punto sarebbe privo di senso anche il grado d’appello, ma come sopperire alla eventualità – molto verosimile del resto – che un unico giudice potrebbe sbagliarsi condannando ingiustamente un innocente? La prescrizione è, allora, da ricondurre necessariamente al principio della presunzione d’innocenza, cristallizzato dal secondo comma dell’art. 27 della Costituzione, sacrificato il quale si possono considerare sacrificate tutte le altre libertà, anzi la libertà in quanto tale, come ha insegnato Montesquieu per il quale, infatti, «quando l’innocenza dei cittadini non è garantita, non lo è neppure la libertà».
PRESCRIZIONE COME ASSOLUZIONE. Quando decorre il termine per la maturazione della prescrizione, diversamente da come i neo-giacobini odierni sostengono, non significa che un colpevole l’abbia fatta franca, ma piuttosto che non si è riusciti a smentire la presunta innocenza dell’imputato nell’arco di tempo previsto dalla legge per farlo, la quale innocenza, a questo punto, si consolida talmente da non poter nemmeno più essere ritenuta semplicemente presunta, ma ormai sostanzialmente certa. La giurisprudenza più accorta è ben consapevole di ciò; si pensi, per esempio, a quanto enunciato proprio dalla stessa Cassazione penale con la sentenza n. 37583/2009 in cui si ribadisce che «la prescrizione dichiarata con sentenza non può essere, nei gradi successivi, oggetto di rinuncia, sicché una dichiarazione in tal senso in sede di impugnazione va intesa come richiesta di assoluzione nel merito». In altri termini: la Cassazione equipara gli effetti della dichiarazione di intervenuta prescrizione tramite sentenza agli effetti della richiesta da parte dell’imputato, e dell’accoglimento di una tale richiesta, per l’assoluzione nel merito, a tal punto che l’avente diritto, infatti, non può più rinunciarvi. La prescrizione rappresenta, quindi, il limite temporale che un ordinamento penale deve possedere per evitare di diventare eterno o incerto e quindi sostanzialmente totalitario, poiché in modo totalizzante disporrebbe della libertà dell’individuo, perfino se realmente colpevole.
LIBERTÀ IN PERICOLO. Similmente vi sono, non a caso, altre imprescindibili garanzie che tutelano la libertà dell’individuo e che orientano il sistema penale secondo i principi dello Stato di diritto e non secondo le storture dello Stato totalitario: si pensi, per esempio, al divieto di reformatio in pejus, al divieto di analogia, al favor rei, al divieto di retroattività della legge più sfavorevole al reo, al potere di grazia che spetta al presidente della Repubblica, alla revisione e a tutto ciò che direttamente o indirettamente consacra il corpo del cosiddetto “giusto processo”, in rispetto dei princìpi sanciti dalla Costituzione e dalla tradizione giuridica occidentale in genere e italiana in particolare. L’abolizione della prescrizione, dunque, rappresenta un grave danno per la tenuta della democrazia e delle più elementari libertà e garanzie individuali che, invece, dovrebbero essere quanto più sacre in uno Stato di diritto che si presuma realmente tale.
LA LEZIONE DI CARRARA. Non è un caso, in conclusione, che uno dei padri della scienza penalistica italiana, come Francesco Carrara, abbia avuto modo di insegnare l’importanza giuridica dell’istituto della prescrizione: «Interessa la punizione dei colpevoli, ma interessa altresì la protezione degli innocenti. Un lungo tratto di tempo decorso dopo il fatto criminoso che vuolsi obiettare ad alcuno rende a questo punto infelice, quasi impossibile, la giustificazione della propria innocenza […]. Qual sarebbe l’uomo che chiamato oggi a dar conto di ciò che fece in un dato giorno dieci anni addietro sia in grado di dire e dimostrare dove egli fosse, e come sia falsa la imputazione che contro di lui si dirige? La perfidia di un nemico può avere maliziosamente tardato a lanciare lo strale della calunnia per farne più sicuro lo effetto».
In cella 7 anni dopo il reato: la prescrizione è davvero inutile? Il caso di uno chef e di una accusa controversa di violenza sessuale, con la condanna definitiva l’uomo ha perso tutto, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 Agosto 2018 su "Il Dubbio". La certezza della pena: la storia di S. B. dovrebbe far riflettere tutti quelli che la invocano come panacea dei mali che affliggono il sistema giudiziario italiano. S. B è uno chef che ha appena compiuto 50 anni. Nato a Venezia, fin da giovane ha avuto una grande passione per la cucina, e ha lavorato in molti ristoranti in Italia e all’estero. Trasferitosi a Parma agli inizi del 2000, decide di fare il grande passo e di mettersi in proprio aprendo un ristorante di pesce nella patria del prosciutto e del parmigiano. Il successo è immediato. Nonostante il locale sempre pieno, come tutti gli chef, anche S. B. dopo qualche tempo sente il bisogno di rimettersi in gioco e di tentare l’avventura altrove. Nella primavera del 2011 la scelta dunque di vendere il locale di Parma per aprirne uno alle Cinque Terre. La trattativa si rivela alquanto complicata. L’acquirente, una donna della città emiliana, tergiversa, tratta sul prezzo, allunga i tempi. S. B ha invece fretta, avendo già versato un importante acconto per il nuovo ristorante in Liguria. Quei soldi sono quindi indispensabili. Una sera di giugno di quell’anno, quando sembra che finalmente tutto si è sistemato, la donna ci ripensa e si presenta nel ristorante per comunicarglielo. La discussione è molto accesa. Volano parole grosse. S. B. alza anche le mani. La donna esce dal locale e corre subito dai carabinieri. «S. B. l’ha violentata», scrivono i militari, allegando il referto del pronto soccorso che parla di «abrasione ad un braccio». Passano solo pochi giorni e S. B. si ritrova nel carcere di massima sicurezza di Parma. «Tentata violenza sessuale», l’accusa riportata sull’ordine di custodia cautelare. Inutili i tentativi di difendersi. La parola della donna contro quella di S. B. E poi quel referto medico. Dopo alcuni mesi trascorsi in carcere, i domiciliari. Poi l’obbligo di dimora. Finché agli inizi del 2012 S. B. è completamente libero. Il progetto di trasferirsi alle Cinque Terre è rimasto nella testa di S. B. ed è difficile rimanere a Parma dopo quanto successo. Il sogno di avere un locale nel frattempo è sfumato e i soldi dell’anticipo definitivamente persi. Arriva l’estate e S. B. riparte dalla cucina di un ristorante vicino al porto di La Spezia come aiuto cuoco con un contratto a chiamata. Le indagini si chiudono nel 2014. Il processo inizia l’anno dopo. Arriva la condanna in primo ed in secondo grado: 4 anni e mezzo. Nel frattempo S. B. si è sposato, ha comprato casa con un mutuo, ed è tornato a fare lo chef in un importante ristorante delle Cinque Terre. Ma agli inizi di quest’estate la Cassazione conferma la sentenza di condanna. Nonostante il “presofferto”, S. B. deve andare in carcere: i reati di violenza sessuale non ammettono la sospensione dell’ordine di esecuzione. I carabinieri lo vengono a prendere all’alba della scorsa settimana. Secondo la legge deve effettuare un percorso di rieducazione, dietro le sbarre. Anche se S. B. il percorso di rieducazione in questi anni l’ha già fatto da solo: si è sposato, ha rifatto la gavetta fino a guadagnarsi un lavoro a tempo indeterminato (un miraggio di questi tempi), ha comprato casa. Ieri S. B. è stato licenziato: la moglie, a carico, sta cercando urgentemente lavoro. La richiesta alla banca di sospensione del mutuo verrà presentata oggi. Ultima nota. Il ristorante in cui S. B. lavorava è rimasto senza chef proprio nel periodo clou della stagione. La certezza della pena.
IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.
Giustizia, 13 anni per arrivare in appello. Ex procuratore capo, cancelliere e altri 9 imputati prescritti. Gli imputati erano accusati del saccheggio del Palazzo di Giustizia di Torre Annunziata: 20 milioni di euro depredati, attraverso un gioco di falsi mandati di pagamento di rimborsi e consulenze di giustizia, orchestrato da un cancelliere con la responsabilità del procuratore capo, Alfredo Ormani, scrive Vincenzo Iurillo il 6 maggio 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. Ci volevano 13 anni per far estinguere i reati di cui erano accusati i principali imputati del saccheggio del Palazzo di Giustizia di Torre Annunziata: 20 milioni di euro depredati, secondo l’accusa, attraverso un gioco di falsi mandati di pagamento di rimborsi e consulenze di giustizia, orchestrato da un cancelliere con la responsabilità del procuratore capo. Ci volevano 13 anni eppure è successo: il colpo di spugna della prescrizione ha cancellato in appello le condanne a sei e cinque anni in primo grado dell’ex capo della Procura di Torre Annunziata Alfredo Ormanni e dell’ex supercancelliere Domenico Vernola. Entrambi erano alla sbarra a Roma – competente quando è implicato un magistrato del napoletano – in un processo con 21 imputati per reati che spaziavano dall’associazione a delinquere al peculato, falso e riciclaggio. La Corte d’Appello ha sentenziato 11 prescrizioni, 8 condanne per riciclaggio e 2 assoluzioni nel merito. Colpa dei tempi biblici di un processo di primo grado durante il quale il collegio giudicante è cambiato dieci volte. Spiega un avvocato: “Anche le accuse di riciclaggio aggravato dovrebbero prescriversi tra un mese, non faranno nemmeno in tempo a depositare le motivazioni: i giudici si sono presi 90 giorni di tempo per redigerle”. Basterà presentare un ricorso in Cassazione, e la prescrizione scatterà anche per molti dei condannati in appello. E così tanti saluti alle responsabilità penali di uno dei più colossali scandali della provincia napoletana del decennio scorso. Esplose violentissimo nel 2004, al termine di una ispezione ministeriale, che contestò a Vernola un giro fraudolento di rimborsi per spese di giustizia. Il cancelliere fu sospeso e allontanato, si aprì una indagine che coinvolse il procuratore Ormanni, firmatario di centinaia di mandati di pagamenti ritenuti fasulli, e i parenti di Vernola, sospettati di essersi fatti girare i soldi raccolti dal cancelliere tramite finti ‘mandati a se stesso’ per trasformarli in auto, case e beni di lusso. Nel mirino le spese di giustizia di alcune importanti indagini di Torre Annunziata: così finiscono sotto inchiesta a Roma anche alcuni esponenti delle forze di polizia giudiziaria che materialmente le condussero, presentando note spese ritenute anch’esse finte o gonfiate. Il Gup decreta il rinvio a giudizio il 25 maggio 2006. Ma il processo parte al rallentatore perché il collegio giudicante cambia in continuazione. Ed ogni volta si riparte da capo. Udienze celebrate solo per fissare rinvii. Senza istruttorie. Senza testimonianze. Un processo fermo. Partito in pratica solo nel 2012, quando finalmente il collegio si stabilizza. Quindi due anni di udienze per la sentenza di primo grado. E due per la fissazione dell’appello. Tempi normali, sui quali però ha pesato il lungo stop iniziale. Allora si stagliano come due eroi gli unici imputati che hanno rinunciato alla prescrizione per ottenere un’assoluzione piena. Si chiamano Emilia Salomone e Sergio Profeta, rispettivamente cancelliere a Torre Annunziata ed ispettore di polizia del commissariato di Sorrento. Assistiti dagli avvocati Francesco Matrone e Giuseppe Ferraro, il cancelliere e il poliziotto erano stati condannati in primo grado e licenziati in tronco. Ora avranno diritto al reintegro e alle spettanze perse. Gli anni smarriti nel lungo tunnel della giustizia, quelli no: sono persi per sempre.
Appello contro i Giustizialisti Giacobini (e invito alla sollevazione contro il Klan delle tre G). Come si sa, i Giustizialisti Giacobini dormono, la notte, adagiati fra le teste mozzate dei nemici uccisi. Di essi hanno bevuto il sangue. Delle loro carni si sono saziati. Non c’è nulla di più detestabile di un Giustizialista Giacobino. In lui infatti convergono, tautologicamente, due orribili vizi: l’essere giustizialista, e l’essere giacobino. E’, come si sa, una combinazione devastante ed esiziale. Da essa proviene ogni male della terra. Si pensa che anche Eva, quella di Adamo, fosse malata di questa malattia. Non parliamo di Giuda. Si nutrono cauti sospetti anche su Robespierre. Data la gravità dei loro crimini, siamo tutti in grado di riconoscere i Giustizialisti Giacobini, tutti conosciamo le loro malefatte. Appare dunque superfluo definirli. Si sa quello che sono. Nomina sunt consequentia rerum. Dunque parliamo di fatti e bando alle ciance:
1) Il Giustizialista Giacobino è colui che non evoca la giustizia come risoluzione di alcuni problemi giudiziari, ma vorrebbe perversamente che essa li risolvesse tutti. Tutti ovviamente vogliamo la giustizia e tutti, socraticamente, sappiamo che la “giustizia è giusta”. Quello che è ingiusto ovviamente è l’uso giacobino e giustizialista della giustizia. Tale uso si caratterizza per la pretesa, assolutamente ignobile, di processare coloro che sono indiziati, e di condannare coloro che sono risultati colpevoli dagli atti processuali, quando quei reati ci riguardano e riguardano i nostri interessi. I Giudici Giustizialisti e Giacobini (l’orribile Klan delle Tre G) se ne fregano della micro o macro criminalità quotidiana e di strada. Come se un criminale abituale e seriale, ad esempio il ladruncolo di strada extra comunitario, fosse ladro tanto quanto (forse meno!) di finanzieri e politici corrotti e corruttori, di falsificatori di bilanci e dispensatori di mazzette, di evasori fiscali. Come se il gioielliere che spara al ladro che l’ha privato di tutti i suoi averi, fosse colpevole come il ladro stesso!
2) Si dirà che tale idea della differenziazione della giustizia ha un che di antiquato, di classista, distingue ricchi da poveri, privilegiati e non, potenti e miserabili. Ma questa, ovviamente, è la tipica obiezione del Giustizialista Giacobino. Questa ignobile creatura sa infatti molto bene, ma finge di non sapere, che se la giustizia è sempre giusta non sempre lo sono i giudici. Essi si dividono in Giudici Giustizialisti Giacobini e Giudici Non Giustizialisti e Non Giacobini. I primi condannano per scopi politici, per rancori personali, per invidia sociale. I secondi sono animati da giustizia, saggezza e santità. Per riconoscere una sentenza come Giustizialista basta individuare chi è stato colpito da essa. Se è qualcuno che ha sparato a zero sul Giustizialismo Giacobino, potete stare certi che la sentenza sarà il prodotto del medesimo. E’ un circolo da cui non si sfugge. Ne consegue che, chi denuncia il Giustizialismo Giacobino, verrà preferibilmente condannato dai Giudici Giustizialisti. La denuncia del Giustizialismo causa la vendetta dei Giustizialisti. Qualcuno forse obietterà che spesso i giudici vengono definiti Giustizialisti Giacobini a sentenza di condanna avvenuta. Ma a questo è facile rispondere che, fino ad allora, l’imputato ingiustamente condannato non si era reso conto di quando il suo giudice fosse Giustizialista e Giacobino. Certo i cittadini sono troppo onesti e hanno un troppo elevato senso della giustizia per concepire che un giudice possa essere così perverso. E quando lo scoprono sulla loro pelle, perché vengono condannati, sentono il dovere morale di denunciarlo.
3) Altra cosa del Giustizialismo Giacobino è invocare una giustizia rapida, inflessibile, con inasprimento delle pene e accelerazione dell’iter processuale, incarcerazione preventiva prolungata e cancellazione delle attenuanti e dell’habeas corpus per i reati commessi dai nemici giurati della comunità civica e dunque della giustizia giusta. Neri, maghrebini, rumeni ed albanesi, frange estremiste e disperate, vagabondi che insozzano le nostre strade, devastatori e disturbatori dell’ordine pubblico di qualsiasi etnia, debbono patire la giustizia giusta, severa e spietata, e questo ovviamente non è Giustizialismo. Il Giustizialismo Giacobino è infatti l’uso politico, ingiusto ed abusivo della giustizia. In questo caso si tratta invece di eque pene (anche troppo morbide, diciamola tutta) che dimostrano che lo Stato ha forte e coerente il senso della giustizia giusta.
Riassumiamo dunque. La giustizia è sempre giusta, ma i giudici possono essere giusti ed ingiusti. I giudici ingiusti sono i Giustizialisti Giacobini, che condannano animati da sete di vendetta politica. Il cittadino che denuncia un giudice come Giustizialista Giacobino lo fa perché capisce, presto o tardi e sulla sua pelle, che tale giudice lo odia e vuole condannarlo. Su di lui piove crudele la vendetta dei Giustizialisti. Pertanto, alla fine della sua giornata, il Giudice Giustizialista può aver condannato anche moltissimi innocenti. E’ dunque opportuno costituire un Partito degli Innocenti (P.d.I.) che ribatta colpo su colpo all’offensiva dei Giudici Giustizialisti e Giacobini. Il Klan delle tre Gdeve essere colpito e affondato. Trattiamo finalmente da esuli i latitanti e da innocenti i colpevoli. Distinguiamo fra colpevoli-colpevoli, innocenti-innocenti, innocenti-colpevoli e colpevoli-innocenti. Rendiamo un utile servizio all’umanità e al nostro paese. Diciamo basta al Giustizialismo Giacobino e ai giudici che perversamente lo praticano! Viva la libertà! Viva la giustizia giusta! Abbasso la giustizia ingiusta! Prescrizione per tutti!
Glossario (nel caso ci fosse ancora qualcuno che non sappia del Klan delle Tre G)
Giudici: Strane creature, in genere provenienti dai reparti neuropsichiatrici, la cui sindrome si manifesta attraverso la pretesa di giudicare altri esseri umani, in genere mentalmente molto più stabili di loro, mediante uno strano sistema di norme, astratte e sconclusionate, chiamate leggi. Si tratta di un comportamento evidentemente insolito, assurdo, e chiaramente inficiato da delirio paranoico e di onnipotenza. Si guardassero a casa loro e nel loro orto, invece di cercare la trave del vicino nel primo cammello che capita a tiro (forse non è così, non mi ricordo bene...). Questo non vuol dire che alcuni di questi strani individui non si comportino egregiamente e tendano ad assolvere le persone che noi vogliamo che assolvano (compresi noi stessi). Ma gli altri sono inguaribili strafottenti, che esercitano la giustizia come se brandissero una clava.
Giustizialismo: Il temine in sé è neutrale e vorrebbe indicare, immaginiamo, l’esercizio della giustizia tramite la condanna dei colpevoli. In realtà il termine tende ad evidenziare il comportamento della maggior parte dei giudici, che condannano tutti quelli che ritengono colpevoli e non solo quelli che noi onesti cittadini vorremmo che fossero giudicati tali. Il Giustizialismo è quindi definibile come l’attitudine ad esercitare la giustizia in modo abusivo. Questo ovviamente comporta il problema di chi possa giudicare i giudici riguardo a tali abusi. La risposta è quanto mai ovvia e scontata: coloro che si oppongono al giustizialismo!
Giacobini: Esseri dalle apparenti sembianze umane (o che assumono ingannevoli sembianze umane), ma probabilmente provenienti da altri pianeti e comunque non dalle comunità occidentali progredite del nostro pianeta. Coloro i quali affermano che i giacobini nascano in Occidente, e affondino le loro radici culturali nella tradizione occidentale, sono probabilmente giacobini essi stessi. I giacobini sono esseri talmente crudeli che spesso si divorano tra di loro. Sono dotati di una doppia fila di zanne e secernono liquidi urticanti dai pori delle loro pelle squamosa. Quando sorridono, si vede che non lo sanno fare. Né si divertono mai, perché passano il loro tempo a tramare contro l’umanità. Si riuniscono in luoghi oscuri e fangosi dove praticano l’accoppiamento fra coppie non sposate (e spesso dello stesso sesso) e il sacrificio umano (bambini soprattutto). Quando si travestono da uomini e popolano le nostre città, vivono spesso anche nei quartieri alti. In tal caso si riuniscono in salotti bene e firmano petizioni allo scopo di epurare l’umanità dai suoi elementi migliori. Tendono naturalmente a diventare giudici (per natura e per attitudine, data la loro devastata biologia e la loro perversione innata) o a influenzare i giudici, probabilmente per mezzo di facoltà telepatiche e di controllo della mente.
“I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo e nel presentare il loro programma di governo si affrettano a sottolineare che tra i primi punti ci sarebbe l’abolizione della prescrizione. Prescrizione che, tra l’altro, è stata allungata nei tempi dal Governo Renzi. Anziché voler lavorare per una giustizia vera e per garantire tempi certi nei processi ai cittadini, così come sancito dalla nostra Costituzione, i grillini optano per procedimenti giudiziari infiniti che paralizzerebbero la vita delle persone, anche di quelle innocenti. Se malauguratamente diventassero forza di governo ci sarebbe davvero di che preoccuparsi”. Così Gabriella Giammanco, parlamentare di Forza Italia. 18 ottobre 2015.
Quali saranno i primi punti di un governo a 5 Stelle? “La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l’onesta, mettere mano alla giustizia, eliminare la prescrizione, mettere persone oneste nelle amministrazioni”. Lo sostiene Gianroberto Casaleggio, che ha risposto così ai giornalisti che, a Italia 5 Stelle, gli chiedevano i primi punti del programma. Il primo criterio sarà “la fedina penale”, i sospettabili non sarà possibile sceglierli. La piattaforma è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi, il problema sarà fare una sintesi. “Fra i primi punti del programma dell’ipotetico governo del Movimento 5 stelle c’è l’abolizione della prescrizione, il che vuol dire la possibilità di tenere sotto processo un innocente per tutta la vita. I grillini si dimostrano sempre più funzionali alla retorica giustizialista che tanti danni ha provocato in questi anni, non avendo mai nascosto del resto la loro avversione verso il Parlamento e le Istituzioni rappresentative”. Lo afferma Deborah Bergamini, responsabile Comunicazione di Forza Italia. 18 ottobre 2015
LA PRESCRIZIONE. Dissertazione di Giovanni Ciri, sabato 18 maggio 2013. "Detesto il fanatismo, la faziosità e le mode pseudo culturali. Amo la ragionevolezza, il buon senso e la vera profondità di pensiero". La Prescrizione. E' l'istituto più odiato dai giustizialisti, sto parlando della prescrizione del reato. Vorrebbero tempi di prescrizione lunghissimi, praticamente infiniti. Non conta quando hai commesso un reato, dicono, conta se lo hai commesso, e se lo hai commesso devi essere punito, punto e basta. E non va loro giù che la prescrizione intervenga dopo che il processo ha avuto inizio. Citano addirittura gli Stati Uniti d'America, dove i termini di prescrizione si interrompono appena è stata emessa la sentenza di rinvio a giudizio. Si, è proprio così, negli Usa la prescrizione si interrompe dal momento in cui il sospettato è rinviato a giudizio, ma, quali sono i termini di prescrizione negli Stati uniti d'America? Un delitto che comporta la pena dell'ergastolo è sempre perseguibile. Ogni altro delitto grave (rapine, furti, stupri, sequestri di persona) è perseguibile entro CINQUE ANNI. I delitti meno gravi sono perseguibili entro DUE ANNI, quelli minimi entro UN ANNO. Esclusi i delitti gravissimi, sempre perseguibili, negli Usa ogni crimine deve essere perseguito entro termini temporali abbastanza ristretti. Nel momento in cui inizia il processo però i termini di prescrizione si interrompono, e si evitano in questo modo eventuali manovre dilatorie. Questo non fa sì che l'imputato debba passare lunghi periodi nella “zona di nessuno” in cui necessariamente vive chi è sottoposto a procedimento penale. Negli Usa infatti i processi sono piuttosto rapidi. Le udienze sono quotidiane, i giurati vivono praticamente da reclusi, impossibilitati addirittura a leggere i giornali o a guardare la TV, questo perché chi è chiamato a giudicare della vita di un essere umano deve formarsi la propria convinzione in base a ciò che emerge dal dibattimento, non dai talk show televisivi o dai predicozzi di giornalisti alla Travaglio. La differenza con quanto avviene in Italia è lampante. Un giudice popolare italiano ascolta oggi un teste, fra due mesi un altro, fra sei mesi la requisitoria del PM e fra otto l'arringa del difensore. Se tutto va bene fra un anno entrerà in camera di consiglio (fanno eccezione i processi a carico di Berlusconi che sono di solito rapidissimi). E' difficile pensare che in questo modo il giudice popolare italiano possa maturare una convinzione ponderata sulla base di quanto emerge dal dibattimento. Si aggiunga che negli Usa il pubblico accusatore non è, come in Italia, un collega del giudice, che la difesa contribuisce alla selezione della corte giudicante, che i giurati devono decidere alla unanimità e ci si renderà conto che in quel paese il processo penale, anche se esclude i tre gradi di giudizio automatici, è molto più garantista che nel nostro. E' interessante mettere in evidenza una cosa: se nel nostro paese fosse in vigore la normativa americana molti procedimenti a carico di Berlusconi non avrebbero neppure potuto iniziare. Come hanno agito infatti i magistrati col cavaliere? Non appena è entrato in politica hanno iniziato inchieste riguardanti vecchie storie sulle quali sino a quel momento nessuno aveva indagato o, se indagini c'erano state le loro risultanze giacevano da tempo sotto montagne di pratiche inevase. Nel processo All Iberian il cavaliere è stato rinviato a giudizio nel 1996 per finanziamento illecito ai partiti, reato che è avvenuto (se è avvenuto) fra il 1991 ed il 1992, e di certo non è un reato grave (negli Usa non è neppure previsto come reato). La prima inchiesta a carico di Berlusconi, quella per le famose tangenti alla guardia di finanza, riguarda diverse tangenti, corrisposte a diversi soggetti, la prima della quali risalente al 1989, l'ultima al 1994. Il rinvio a giudizio è del 1995, quanto meno le prime tangenti non avrebbero quindi dovuto rientrare nel procedimento che, come si sa, si concluse con la piena assoluzione dell'imputato. Una indagine a carico di Berlusconi per traffico di droga si è conclusa nel 1991 con una archiviazione, i fatti risalgono al 1983. Non voglio continuare perché non sono e non mi interessa essere uno specialista in Belusconismo giudiziario (ho preso i dati dalla rete). Mi va solo di sottolineare che i termini americani di perseguibilità avrebbero reso assai più difficile il lavoro di magistrati assolutamente imparziali e privi di pregiudizi come Antonio Di Pietro o Ilda Boccassini. Ma, a parte ogni tecnicismo, quale è la filosofia che sta dietro l'istituto della prescrizione, che i forcaioli di ogni tipo odiano? La risposta è semplicissima, la si può riassumere in una sola parola: garantismo. Garantismo che vale a tre livelli. In primo luogo, una persona non può essere indagata a vita. Se sei indagato vivi in una situazione di estrema provvisorietà. Se cerchi lavoro tutto diventa più difficile se è in corso un procedimento giudiziario a tuo carico, se il lavoro lo hai già le prospettive di carriera si complicano terribilmente. Chi è indagato ha diritto che in tempi ragionevolmente brevi il suo caso si chiuda. Ha diritto a questo anche chi è stato offeso dall'eventuale azione criminosa dell'indagato. Insomma, una giustizia rapida è nell'interesse di tutti, meno che dei criminali e dei calunniatori di professione. In secondo luogo, a meno che non si tratti di reati gravissimi, nessuno può essere chiamato a rispondere di cose avvenute molto tempo prima, con tutte le difficoltà di ricordare eventi, nomi, situazioni. Infine, ed è la cosa più importante di tutte, i termini di perseguibilità tendono ad impedire che qualche solerte magistrato possa perseguitare un cittadino andando a spulciare nella sua vita passata in cerca di qualche reato. Questa in particolare è la filosofia che sta dietro alla normativa americana. Tizio può essere indagato solo se esiste una specifica ipotesi di reato a suo carico e se c'è il ragionevole sospetto che possa essere implicato in quel reato. I magistrati insomma devono indagare su reati accertati, non andare alla ricerca di reati, meno che mai lo devono fare concentrandosi su una persona, ancora meno andando a spulciare tutta la sua esistenza per appurare se per caso ci sia in essa qualcosa di poco regolare. L'istituto della prescrizione è inoltre collegato teoricamente con il principio della presunzione di innocenza. Non è vero che la assoluzione per prescrizione equivale ad una condanna. I termini di prescrizione fissano dei limiti alla azione del magistrato: questi deve riuscire a far condannare il sospettato da lui ritenuto colpevole entro quei limiti, se non ci riesce il sospettato è innocente perché nei paesi civili la innocenza è presunta. Da quanto si è detto emerge che non è affatto un caso che i giustizialisti forcaioli di tutte le risme abbiano profondamente in odio la prescrizione. Il loro ideale è una società in cui tutti si sia indagati, tutti si viva sempre sotto sorveglianza. Un “magistrato” come Ingroia è arrivato addirittura a proporre, in campagna elettorale, la inversione dell'onere della prova nei processi per reati finanziari: se Tizio è sospettato di evasione gli si confischino i beni, ha detto, poi lui avrà sei mesi di tempo per dimostrare la sua innocenza... magnifico! A Tizio sono concessi sei mesi per provare la sua innocenza, ma dieci anni per prescrivere un reato sono pochi, per il dottor Ingroia! E ora questo signore è di nuovo magistrato, non invidio valdostani. La cosa grave è che simili idee forcaiole sono molto diffuse nel paese. Molta, troppa gente è convinta che il garantismo sia quasi un lusso, che tutto sia lecito pur di mettere dentro un presunto corrotto. Non si capisce che ogni arbitrio è possibile se vengono meno le fondamentali garanzie a tutela della libertà dei singoli, ogni arbitrio ed anche ogni corruzione.
Prescrizione: cos'è e cosa cambia. Secondo l'intesa Lega-M5S, scatterà dopo la sentenza di primo grado. Entrerà in vigore dal 2020 con la riforma del processo penale. Ecco come cambieranno i processi, scrive Eleonora Lorusso il 9 novembre 2018 su "Panorama". L’accordo è stato raggiunto: l’emendamento al ddl Anticorruzione, fortemente voluto dal M5S e inserito nel programma di governo, approderà in Aula la prossima settimana e modificherà i tempi dei processi. La prescrizione, che finora prevedeva lo stop ai procedimenti in caso di superamento di un certo limite di tempo, interverrà dopo la sentenza di primo grado: nelle intenzioni, dunque, permetterà di arrivare fino alla fine dell’iter processuale, con una sentenza certa. I contrari sostengono, invece, che con la novità si dilateranno ulteriormente i tempi già lunghi della giustizia italiana. Per evitare questo effetto, che rischia di tenere un soggetto nel limbo per anni, il governo ha chiarito che il provvedimento entrerà in vigore nel 2020 dopo la riforma del processo penale, che mira proprio a snellire e migliorare le procedure processuali. Ecco in cosa consiste la riforma della prescrizione.
Prescrizione: cos’è. La prescrizione prevede che un reato sia estinto, dunque che il procedimento che lo riguarda abbia fine, “decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria”, come stabilito dall’articolo 157 del Codice penale, poi modificato dalla legge n. 251/2005 (ex Cirielli). In pratica, trascorso un certo periodo, il reato non può più essere perseguito e chi è sospettato di averlo commesso non è più processato. Il senso della norma si rifà alla convinzione che, dopo un determinato numero di anni, non sia più nell’interesse della comunità perseguire alcuni reati oppure non ci siano più le condizioni per farlo. Fanno eccezione i reati di particolare gravità, per i quali è prevista la pena dell’ergastolo.
Cosa cambia. Nel ddl Anticorruzione “ci sarà la riforma della prescrizione che prevede l'interruzione dopo la sentenza di primo grado ed entrerà in vigore il prossimo anno con la riforma epocale del processo penale”. Così il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha annunciato la modifica dei termini sulla prescrizione che lo stesso ministro ha spiegato così: “La prescrizione resta quindi così com'è, l'emendamento rimane al ddl Anticorruzione che andrà in aula la settimana prossima”. La riforma, che prevede la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sarà contenuta in una “legge delega che entro il dicembre 2019 stabilirà tempi certi per la durata dei processi”, ha spiegato il ministro della Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno, inizialmente molto critica nei confronti del provvedimento.
Quanti processi cancellati? Uno dei rischi maggiori paventati dai detrattori della riforma è che i tempi della giustizia possano allungarsi ulteriormente rispetto agli attuali. Al contrario, i sostenitori invocano lo stop alla prescrizione per evitare che i processi siano cancellati per lungaggini spesso “agevolate” dagli avvocati, con ricorsi ad arte e richieste di rinvii, lasciando dunque impuniti coloro che sono sospettati di aver commesso un reato. Secondo i dati del ministero della Giustizia, nel 2017 i processi terminati senza sentenza per superamento dei tempi previsti sono stati 125.564, in calo rispetto ai 136.888 del 2016 e i 130.208 del 2015. In generale, quasi un processo su 10 (9,4%) degli oltre 1,3 milioni annuali in Italia non arriva a termine. Nelle grandi città come Roma, però, la percentuale arriva anche al 40%. Situazione analoga anche a Torino, Napoli e Venezia. Nel 50% dei casi circa la prescrizione interviene nella fase preliminare, ossia in quella delle indagini che precedono il rinvio di giudizio: in sostanza non si fa in tempo ad arrivare in tribunale, o perché le indagini durano troppo o perché i fascicoli rimangono in attesa di essere presi in mano dai magistrati per un eccesso di denunce e di lavoro, o ancora per disfunzioni organizzative. Sono sempre i numeri del ministero della Giustizia a indicare che nel 2017 i casi di prescrizione in questa fase sono stati 66.904, a fronte dei 27.436 avvenuti a processo iniziato. I casi di estinzione del reato in fase di appello sono stati invece 28.125, pari al 25,7%, in Cassazione 670, davanti ai Giudici di Pace2.439. L’andamento è comunque in calo negli anni, con una tendenza alla diminuzione dei casi di prescrizione.
Le posizioni: il governo. Il Movimento 5 Stelle ha voluto inserire la riforma nel contratto di governo sostenendo che la prescrizione possa rappresentare uno strumento per evitare di arrivare a una condanna, soprattutto da parte di soggetti coinvolti in casi di corruzione, tanto da aver inserito la norma nel ddl Anticorruzione. Si ritiene, infatti, che spesso gli avvocati ricorrano a richieste di rinvii, di spostamento di sede processuale o altre forme di dilazione dei tempi per arrivare proprio alla prescrizione del reato per il proprio assistito. Il premier Conte è intervenuto su Twitter spiegando: “Riforma prescrizione e accelerazione dei processi penali: avanti spediti per l'attuazione del contratto di governo. Certezza del diritto e dei tempi processuali sono i nostri obiettivi. Come sempre ci confrontiamo e come sempre troviamo la soluzione migliore per gli italiani".
Ha parlato di “processi brevi e tempi certi” anche il vicepremier Di Maio, aggiungendo l’hashtag #BastaImpuniti. Al contrario la Lega si era mostrata inizialmente contraria, temendo un ulteriore aggravamento delle condizioni di lentezza della giustizia italiana, che possono finire per tenere un cittadino “in ostaggio” per anni prima di arrivare a sentenza, magari di assoluzione. L’annuncio del ministro della Giustizia, Bonafede, sulla riforma della prescrizione aveva scatenato una reazione negativa anche da parte del ministro per la PA, Bongiorno. L’avvocato aveva definito il provvedimento una “bomba atomica nel processo penale”, paventando il rischio di “bloccare la giustizia per sempre”. Anche il vicepremier Salvini aveva manifestato perplessità. Alla fine l’accordo di governo è stato raggiunto, dopo un vertice al quale hanno preso parte lo stesso Salvini, l’altro vicepremier Di Maio, il premier Conte e il Guardasigilli Bonafede. La svolta è arrivata decidendo di far entrare in vigore la norma solo dopo la riforma del processo penale, da gennaio 2020.
Il "no" degli avvocati- Ad essere fortemente critici nei confronti della norma sono anche gli avvocati. L’Unione delle Camere penali ha proclamato quattro giorni di sciopero dal 20 al 23 novembre, ritenendo che la prescrizione, soprattutto in Italia, rappresenti una “difesa” degli imputati dall’eccessiva lunghezza di processi e indagini preliminari. Anche in caso di sentenza positiva, infatti, un cittadino sarebbe costretto ad attendere anni prima di un giudizio definitivo.
Non si vuole curare il male, ma vogliono eliminare il rimedio di tutela.
Prescrizione. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La prescrizione è un istituto giuridico che concerne gli effetti giuridici del trascorrere del tempo. Ha valenza in campo sia civile sia penale. Nel diritto civile indica quel fenomeno che porta all'estinzione di un diritto soggettivo non esercitato dal titolare per un periodo di tempo indicato dalla legge. La ratio della norma è individuabile nell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici. In diritto penale determina l'estinzione di un reato a seguito del trascorrere di un determinato periodo di tempo. La ratio della norma è che, a distanza di molto tempo dal fatto, viene meno sia l'interesse dello Stato a punire la relativa condotta, sia la necessità di un processo di reinserimento sociale del reo. La prescrizione è motivata dal diritto dell'imputato a un giusto processo in tempi ragionevoli (superati i quali il reato si estingue), dal fattore tempo che rende oggettivamente più difficile (ad esempio per l'inquinamento delle prove, la scomparsa o minore memoria e attendibilità dei testimoni) sia l'efficacia dell'azione penale sia l'esercizio del diritto di difesa, quanto più le indagini e il processo avvengono anni dopo il fatto oggetto di reato. Altra considerazione è il contrasto di un termine di prescrizione dei reati col principio della certezza del diritto e della pena, che si realizza in primo luogo con la certezza prima che con l'intensità e l'estensione temporale (la durata e la "durezza") delle misure detentive. La certezza viene a mancare quando il reato non può più essere perseguito con una sentenza di condanna perché i termini di prescrizione scadono mentre i processi sono ancora in corso. Questo accade ad esempio se la legge fissa i termini per la prescrizione di un reato inferiori alla durata media dei procedimenti per quel tipo di procedimento, tenendo conto solamente della possibilità di esercitare efficacemente il diritto difesa dopo un certo tempo dai fatti e del diritto dell'imputato a un giusto processo in tempi ragionevoli, e non anche dei tempi effettivi di funzionamento della giustizia penale.
La prescrizione nei vari ordinamenti. L'istituto in oggetto presenta sensibili differenze da un ordinamento all'altro e fra ordinamenti nazionali differenti, per un approfondimento specifico si vedano le voci di seguito riportate. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti la prescrizione dei reati è prevista senza un termine massimo inderogabile: se ci sono sufficienti evidenze di prova, il reato può essere sempre perseguito. I tempi della giustizia civile e penale sono resi ragionevoli e cogenti da altre norme, senza la prescrizione dei reati. Il termine di prescrizione è perentorio. Ciò comporta che il ricorso nei gradi di giudizio successivi al primo (appello, Corte Suprema) non sospendono i termini di prescrizione, e che la sentenza definitiva deve arrivare prima di questo termine. Se invece questo viene raggiunto mentre le indagini o il processo sono ancora in corso, il processo si interrompe senza arrivare a una sentenza di assoluzione o condanna, e l'eventuale condanna in primo grado non può essere eseguita: se l'imputato già si trova in carcere deve essere rimesso in libertà, senza ulteriori possibilità di opposizione o di azione penale, poiché nessuno può essere processato due volte per il medesimo fatto, anche nel caso-limite in cui dopo la prescrizione l'imputato confessi la sua colpevolezza. Un rischio implicito della prescrizione dei reati è quello che la condotta della difesa più che orientata a dimostrare l'innocenza dell'imputato e a farlo in tempi celeri, e quindi all'accertamento della verità nel contraddittorio tra accusa e difesa, sia tesa ad applicare ogni possibile forma di garanzia, dubbio interpretativo e procedura prevista dalla legge per prolungare il più possibile la durata del processo fino a far scadere i termini di prescrizione, che di fatto con minore impegno e rischio producono a favore dell'imputato effetti "migliori" di un'assoluzione con formula piena (per la quale la pubblica accusa può ricorrere in appello e, se la prescrizione cade durante il processo di 2º grado, esistono casi determinati di ricorso alla Corte Suprema). Deterrente a questo rischio è l'esecuzione della misura detentiva subito dopo la condanna in primo grado, ovvero un equivalente uso-abuso della carcerazione preventiva e cautelare, in modo che tanto più si tende a ritardare la sentenza e ad allungare i tempi del processo fino alla prescrizione, quanto più a lungo l'imputato permane in carcere.
Nell'Atene classica esisteva un termine di prescrizione di 5 anni per tutti reati, ad eccezione dell'omicidio e dei reati contro le norme costituzionali, che non avevano termine di prescrizione. Demostene scrisse che questo termine fu introdotto per controllare l'attività dei sicofanti.
“Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. CAPITOLO XXX PROCESSI E PRESCRIZIONE. Conosciute le prove e calcolata la certezza del delitto, è necessario concedere al reo il tempo e mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo cosí breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere uno de’ principali freni de’ delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli dell’innocenza crescono coi difetti della legislazione. Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alle prove de’ delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto. Parimente quei delitti atroci, dei quali lunga resta la memoria negli uomini, quando siano provati, non meritano alcuna prescrizione in favore del reo che si è sottratto colla fuga; ma i delitti minori ed oscuri devono togliere colla prescrizione l’incertezza della sorte di un cittadino, perché l’oscurità in cui sono stati involti per lungo tempo i delitti toglie l’esempio della impunità, rimane intanto il potere al reo di divenir migliore. Mi basta accennar questi principii, perché non può fissarsi un limite preciso che per una data legislazione e nelle date circostanze di una società; aggiungerò solamente che, provata l’utilità delle pene moderate in una nazione, le leggi che in proporzione dei delitti scemano o accrescono il tempo della prescrizione, o il tempo delle prove, formando così della carcere medesima o del volontario esilio una parte di pena, somministreranno una facile divisione di poche pene dolci per un gran numero di delitti. Ma questi tempi non cresceranno nell’esatta proporzione dell’atrocità de’ delitti, poiché la probabilità dei delitti è in ragione inversa della loro atrocità. Dovrà dunque scemarsi il tempo dell’esame e crescere quello della prescrizione, il che parrebbe una contradizione di quanto dissi, cioè che possono darsi pene eguali a delitti diseguali, valutando il tempo della carcere o della prescrizione, precedenti la sentenza, come una pena. Per spiegare al lettore la mia idea, distinguo due classi di delitti: la prima è quella dei delitti atroci, e questa comincia dall’omicidio, e comprende tutte le ulteriori sceleraggini; la seconda è quella dei delitti minori. Questa distinzione ha il suo fondamento nella natura umana. La sicurezza della propria vita è un diritto di natura, la sicurezza dei beni è un diritto di società. Il numero de’ motivi che spingon gli uomini oltre il naturale sentimento di pietà è di gran lunga minore al numero de’ motivi che per la naturale avidità di esser felici gli spingono a violare un diritto, che non trovano ne’ loro cuori ma nelle convenzioni della società. La massima differenza di probabilità di queste due classi esige che si regolino con diversi principii: nei delitti piú atroci, perché piú rari, deve sminuirsi il tempo dell’esame per l’accrescimento della probabilità dell’innocenza del reo, e deve crescere il tempo della prescrizione, perché dalla definitiva sentenza della innocenza o reità di un uomo dipende il togliere la lusinga della impunità, di cui il danno cresce coll’atrocità del delitto. Ma nei delitti minori scemandosi la probabilità dell’innocenza del reo, deve crescere il tempo dell’esame e, scemandosi il danno dell’impunità, deve diminuirsi il tempo della prescrizione. Una tal distinzione di delitti in due classi non dovrebbe ammettersi, se altrettanto scemasse il danno dell’impunità quanto cresce la probabilità del delitto. Riflettasi che un accusato, di cui non consti né l’innocenza né la reità, benché liberato per mancanza di prove, può soggiacere per il medesimo delitto a nuova cattura e a nuovi esami, se emanano nuovi indizi indicati dalla legge, finché non passi il tempo della prescrizione fissata al suo delitto. Tale è almeno il temperamento che sembrami opportuno per difendere e la sicurezza e la libertà de’ sudditi, essendo troppo facile che l’una non sia favorita a spese dell’altra, cosicché questi due beni, che formano l’inalienabile ed ugual patrimonio di ogni cittadino, non siano protetti e custoditi l’uno dall’aperto o mascherato dispotismo, l’altro dalla turbolenta popolare anarchia.
Prescrizione: cosa prevedono Costituzione e Codice penale, scrive Agorà24 l'1 novembre 2018. L’emendamento presentato dai relatori al ddl anticorruzione sui termini della prescrizione va a modificare gli articoli 158, 159 e 160 del codice penale. Disciplina la durata dei processi anche l’articolo 111 della Costituzione.
– ART.111 COSTITUZIONE: ai primi due commi: “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.
– ARTICOLO 158 CODICE PENALE: L’articolo disciplina la decorrenza del termine della prescrizione, e recita: “Il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente, dal giorno in cui è cessata la permanenza. Quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata. Nondimeno, nei reati punibili a querela, istanza o richiesta, il termine della prescrizione decorre dal giorno del commesso reato. Per i reati previsti dall’articolo 392, comma 1-bis, del codice di procedura penale, se commessi nei confronti di minore, il termine della prescrizione decorre dal compimento del diciottesimo anno di età della persona offesa, salvo che l’azione penale sia stata esercitata precedentemente. In quest’ultimo caso il termine di prescrizione decorre dall’acquisizione della notizia di reato”. Quest’ultimo comma era stato aggiunto dalla riforma del 2017, approvata nella scorsa legislatura.
– ARTICOLO 159 CODICE PENALE: l’articolo disciplina la sospensione del corso della prescrizione, e recita: “Il corso della prescrizione rimane sospeso in ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge, oltre che nei casi di: 1) autorizzazione a procedere, dalla data del provvedimento con cui il pubblico ministero presenta la richiesta sino al giorno in cui l’autorità competente la accoglie; 2) deferimento della questione ad altro giudizio, sino al giorno in cui viene decisa la questione; 3) sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell’imputato o del suo difensore. In caso di sospensione del processo per impedimento delle parti o dei difensori, l’udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento, dovendosi avere riguardo in caso contrario al tempo dell’impedimento aumentato di sessanta giorni. Sono fatte salve le facoltà previste dall’articolo 71, commi 1 e 5, del codice di procedura penale; 3-bis) sospensione del procedimento penale ai sensi dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale; 3-ter) rogatorie all’estero, dalla data del provvedimento che dispone una rogatoria sino al giorno in cui l’autorità richiedente riceve la documentazione richiesta, o comunque decorsi sei mesi dal provvedimento che dispone la rogatoria. Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso nei seguenti casi: 1) dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi; 2) dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi. I periodi di sospensione di cui al secondo comma sono computati ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere dopo che la sentenza del grado successivo ha prosciolto l’imputato ovvero ha annullato la sentenza di condanna nella parte relativa all’accertamento della responsabilità o ne ha dichiarato la nullità ai sensi dell’articolo 604, commi 1, 4 e 5-bis, del codice di procedura penale. Se durante i termini di sospensione di cui al secondo comma si verifica un’ulteriore causa di sospensione di cui al primo comma, i termini sono prolungati per il periodo corrispondente. Nel caso di autorizzazione a procedere, la sospensione del corso della prescrizione si verifica dal momento in cui il pubblico ministero presenta la richiesta e il corso della prescrizione riprende dal giorno in cui l’autorità competente accoglie la richiesta. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione. Nel caso di sospensione del procedimento ai sensi dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale, la durata della sospensione della prescrizione del reato non può superare i termini previsti dal secondo comma dell’articolo 161 del presente codice”.
– ARTICOLO 160 CODICE PENALE: il primo comma dell’articolo recita: “Il corso della prescrizione è interrotto dalla sentenza di condanna o dal decreto di condanna”.
– EMENDAMENTO RELATORI: L’emendamento va a modificare gli articoli 158, 159 e 160 del codice penale. Recita il testo dell’emendamento: “Il termine della prescrizione decorre per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente o continuato dal giorno in cui è cessata la permanenza o la continuazione” (in sostanza, l’emendamento ripropone la formulazione dell’articolo prima della modifica intervenuta con la cosiddetta Legge ex Cirielli nel 2005, che aveva eliminato dal dispositivo della norma il riferimento alla parola “o continuato” nel punto in cui statuiva che il termine di prescrizione decorre per il reato permanente “o continuato” dal giorno in cui è cessata la permanenza “o la continuazione”). L’emendamento dei relatori dispone inoltre: “il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o dal decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o della irrevocabilità del decreto di condanna”. L’emendamento poi abroga il primo comma dell’articolo 160 del codice penale, che recita: “Il corso della prescrizione è interrotto dalla sentenza di condanna o dal decreto di condanna”.
Prescrizione: chi paga le spese processuali? Scrive il 31 ottobre 2018 Mariano Acquaviva su La Legge per tutti. Cos’è e come funziona la prescrizione? In caso di prescrizione chi deve pagare le spese di giustizia? E le spese legali? Tutto finisce. Non si tratta di un’asserzione filosofica, fatta per impressionare gli altri con la propria triste visione nichilista, ma di un dato di fatto inconfutabile. Nell’universo giuridico, la fine è rappresentata dalla prescrizione: istituto giuridico a volte fin troppo criticato, esso comporta l’estinzione di un diritto e, se parliamo di processo penale, l’estinzione di un reato. Se una persona ti deve dei soldi, allora temi la prescrizione come il tuo peggior nemico; se, al contrario, ti trovi dall’altra parte (sei un debitore, quindi), oppure sei imputato di un reato, allora aspetti la prescrizione come la tua salvezza. In un modo o nell’altro, è da quando esiste il diritto che esiste anche la prescrizione e, perciò, è inutile strumentalizzare questo istituto durante le campagne politiche: è bene che ci rassegniamo al fatto che, nel mondo del diritto (così come in quello reale), ogni cosa ha un termine. Fin qui, tutto chiaro. I problemi sorgono in sede processuale: se nel frattempo matura la prescrizione, chi paga le spese di giustizia? È chiaro che ci riferiamo al processo penale, durante il quale ben spesso accade che il reato venga prescritto; in realtà, anche nel processo civile il giudice potrebbe dichiarare prescritto un diritto, se la prescrizione è eccepita dalla controparte. Se questo argomento ti incuriosisce oppure ti interessa perché anche tu sei finito nelle spire di un processo, allora prosegui nella lettura: ti spiegherò chi paga le spese processuali in caso di prescrizione.
Cos’è la prescrizione? Prima di affrontare il tema inerente al pagamento delle spese processuali, ti dirò brevemente in cosa consiste la prescrizione. La prescrizione è una causa di estinzione dei diritti, se parliamo di diritto civile, oppure del reato o della pena, se parliamo di diritto penale. In entrambi i casi, comunque, si tratta di un evento giuridico che pone fine ad una situazione giuridicamente rilevante. Sia la prescrizione penale che quella civile poggia su un elemento fondamentale: il decorso del tempo. Nel caso della prescrizione civile, il diritto si prescrive, di norma, dopo dieci anni di assoluta inattività del suo titolare; nella prescrizione penale, invece, occorre che trascorra un lasso di tempo diverso a seconda del crimine commesso. In entrambe le branche, poi, vi sono casi di imprescrittibilità: nel campo civilistico, i diritti indisponibili, nonché tutti quelli specificamente individuati dalla legge, non si estinguono mai per prescrizione; nel settore penalistico, invece, i reati punibili con l’ergastolo non cadono mai in prescrizione.
Come funziona la prescrizione? La prescrizione estingue il reato decorso un determinato lasso di tempo. Per il diritto civile, la prescrizione ordinaria è di dieci anni che cominciano dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Presupposto fondamentale è che, per tutto il tempo previsto affinché maturi la prescrizione, il titolare del diritto non faccia nulla per esercitarlo. Esempio: se hai prestato dei soldi a un tuo amico e dopo undici anni ti fai vivo per chiedergli la restituzione, non ti spetterà più nulla perché il tuo diritto nel frattempo è andato prescritto. Se, al contrario, pur non avendo ricevuto i soldi hai tentato di riaverli, ad esempio scrivendo al tuo “amico” di restituirteli, allora il tuo diritto non si è prescritto, perché la lettera che gli hai inviato è sufficiente a far cominciare da capo i dieci anni necessari affinché maturi la prescrizione. Nel diritto penale, invece, la prescrizione comincia a decorrere automaticamente dal giorno in cui il crimine è stato commesso, a prescindere dal fatto che un procedimento sia stato intrapreso nei confronti del reo. La prescrizione penale estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo mai inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, anche se puniti con la sola pena pecuniaria. In poche parole, per capire quando un reato si prescriverà, sarà necessario far riferimento alla pena massima prevista dalla legge per il reato stesso. Ti faccio un esempio: il peculato è punito con la pena da quattro a dieci anni e mezzo di reclusione: questo vuol dire che il delitto di peculato si prescriverà decorsi dieci anni e mezzo dal fatto. La concussione, invece, è punita con la reclusione da sei a dodici anni: si prescriverà, quindi, in dodici anni. I delitti che sono puniti con una pena inferiore ai sei anni, invece, si prescriveranno sempre in sei anni: è questa la soglia minima posta dalla legge. Così, ad esempio, il furto semplice, pur essendo punito al massimo con tre anni di reclusione, si prescriverà comunque in sei anni. Per le contravvenzioni, invece, il termine di prescrizione non è mai inferiore a quattro anni.
Cosa sono le spese processuali? Non posso spiegarti il problema del pagamento delle spese processuali in caso di prescrizione se non ti dico prima in cosa consistono le spese processuali. Ebbene, per spese processuali (o spese di giustizia) si intendono tutte quelle che riguardano l’attivazione della giustizia. La macchina processuale italiana, oltre che essere molto lenta, è anche assai costosa: per potervi accedere occorre sostenere delle spese che, in alcuni settori (penso a quello dell’esecuzione nel diritto processuale civile) sono davvero ingenti. Il procedimento penale, per le parti che vi accedono, è in realtà meno oneroso, in quanto è lo Stato ad intraprendere, normalmente di propria iniziativa, l’azione nei confronti dell’autore del crimine. Non che la giustizia penale non abbia un costo: è ovvio che anche il processo penale necessita di mezzi, per via di tutte le persone e i macchinari che devono essere coinvolti (si pensi a periti, consulenti, ecc.). Ora, molto spesso accade che, nel bel mezzo di un processo, intervenga la prescrizione. Nel processo civile, la prescrizione di un diritto può essere dichiarata dal giudice solo nel caso in cui la controparte, cioè colei che resiste alle pretese di chi ha adito per prima il tribunale, la eccepisca, cioè la faccia presente al magistrato. Nel diritto penale, invece, la prescrizione può maturare anche nel corso del processo, perfino in appello o in Cassazione, poiché l’azione penale esercitata dal pubblico ministero non blocca il decorso del tempo utile a maturare la prescrizione (salvo casi di interruzione e di sospensione, per i quali si rimanda all’articolo: Prescrizione reati: come si calcola?).
In entrambi i casi, comunque, qualcuno dovrà pagare le spese processuali; ma chi? In caso di prescrizione, chi è tenuto al pagamento? Te lo dirò nel prossimo paragrafo.
Spese processuali in caso di prescrizione: chi paga? In caso di prescrizione, chi paga le spese processuali? Bisogna distinguere a seconda che si tratti di processo civile o di processo penale. Nel primo caso, non ci sono particolari dubbi: le spese processuali sono poste a carico della parte che ha inutilmente adito il giudice poiché il suo diritto era già prescritto. Faccio un esempio: se citi in tribunale il tuo debitore dopo oltre dieci anni dal prestito che gli avevi fatto e lui, costituitosi in giudizio, eccepisce la prescrizione del tuo diritto, il giudice, nel dargli ragione, ti condannerà al pagamento di tutte le spese processuali, comprese quelle legali che ha dovuto sostenere il tuo debitore (in pratica, gli dovrai pagare l’avvocato). Nel processo penale le cose sono diverse: qui, infatti, vi è una parte pubblica (rappresentata dal pubblico ministero) la cui funzione è quella di svolgere le indagini relativamente alla commissione di reati e di esercitare (se vi sono i presupposti) l’azione penale nei confronti dell’imputato. Il processo penale, quindi, non si avvia per volontà delle parti private (attore o ricorrente), come accade nel processo civile, ma per volontà di una parte pubblica che praticamente costringe l’imputato a subire il processo. Da tanto deriva una conseguenza molto semplice: se, nelle more del procedimento, il reato andrà prescritto, le spese processuali resteranno a carico dello Stato, in quanto la prescrizione non è una colpa addebitabile all’imputato. In parole povere, l’imputato prosciolto per prescrizione non dovrà pagare le spese processuali. È lo stesso codice di procedura a stabilirlo: solo la sentenza di condanna può porre a carico del condannato il pagamento delle spese processuale. Stesso discorso vale nel caso in cui la persona danneggiata si sia costituita parte civile per chiedere il risarcimento del danno: anche in questa ipotesi, la sopravvenuta prescrizione del reato impedisce al giudice di poter condannare l’imputato non solo alle spese processuali, ma anche a quelle legali sostenute dalla vittima.
La prescrizione e l’arte dell’italico rinvio. Se c’è una cosa dove siamo imbattibili nel mondo, è quella di buttare la palla avanti, talmente avanti che probabilmente a riceverla non ci saranno più gli stessi giocatori della squadra che l’ha lanciata, scrive Paolo Madron il 9 novembre 2018 su Lettera 43. Fatidica prescrizione. Da sempre, è uno dei temi più divisivi, al punto che nell’affrontarla il governo ha rischiato la rottura. C’erano i grillini che la volevano a prescindere, i leghisti che le consideravano solo la parte di un tutto legata alla riforma del sistema giudiziario. Come si è visto una soluzione all’italiana ha accontentato capra e cavoli: verrà tolta dopo il primo grado di giudizio, ma solo dal 2020. Se c’è un’arte dove siamo imbattibili nel mondo, è quella di buttare la palla avanti, talmente avanti che probabilmente a riceverla non ci saranno più gli stessi giocatori della squadra che l’ha lanciata. Tregua raggiunta, per il momento.
UN DIBATTITO TROPPO POLARIZZATO. La questione suscita considerazioni più generali e di merito. Sgombriamo il campo dalle prime, ovvero dal fatto che oramai, dalla prescrizione alle grandi opere, fino persino ai numeri del bilancio pubblico che essendo matematica non dovrebbero costituire opinione, ci si divide tra apocalittici e integrati. Tertium non datur, non è più possibile affrontare un tema senza schierarsi con l’una o l’altra delle fazioni in campo. Chi invoca dei distinguo o è pusillanime o al servizio di poco nobili interessi e lobby. Ci fu un momento recente della nostra storia in cui il terzismo godette in politica di un qualche credito, ci furono giornali che si fecero paladini delle sue ragioni, ma fu una breve stagione e l’indole rissosa riebbe presto il sopravvento. Eppure mai argomento come quello della prescrizione dovrebbe essere avulso da considerazione di parte, per la sua ambiguità e temo irrisolutezza. Che la prescrizione non debba essere motivo di impunità per i colpevoli è lapalissiano, altrettanto che non si debba trasformare in una lunga gogna per il cittadino in attesa di giudizio definitivo. Quello di invocare tempi certi per la giustizia non è dunque uno slogan tra i tanti, ma un fondamentale diritto di ogni società civile e democratica. Di prescrizione si potrebbe più serenamente parlare se ci fosse una legge che delimita la durata dei processi, che semplifica i gradi del giudizio garantendo il rispetto delle prerogative di accusa e difesa, ma l’accumulo di procedimenti arretrati e la cronica carenza di organico rendono l’aspirazione utopica.
IL RINVIO DELLA PRESCRIZIONE CONVIENE A TUTTI. La storia italiana del resto conferma l’ambiguità della questione: ci sono processi durati all’infinito e conclusisi per scadenza dei termini, (i nomi dei protagonisti li sapete), altri che si concludono in tempi lunghissimi con sentenze di assoluzione che rendono tardivamente giustizia all’imputato ma non gli restituiscono gli anni vissuti nell’incubo di doversi difendere da un’accusa rivelatasi poi non veritiera. Sullo sfondo, ma neanche tanto, ci sono anche considerazioni di classe per cui i ricchi si difendono meglio dei poveri, perché si possono pagare gli avvocati migliori, ovvero quelli che possono tirare in lungo i processi al punto da farli decadere. Questo spiega perché il rinvio è la strada che conviene a tutti, anche a costo di intestarsi una plateale ipocrisia. Quella di credere che la messianica riforma del sistema che si attende dalla notte dei tempi metterà tutte le cose a posto, tempo dei processi compreso. Se ne riparla nel 2020.
Antonio Racanelli (M.I.) «Giusto fermare la prescrizione». Intervista al procuratore aggiunto di Roma e segretario generale di Magistratura indipendente Antonello Racanelli, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 2 Novembre 2018 su "Il Dubbio". «Premesso che non è possibile attendere decenni per avere una sentenza, la proposta del ministro della Giustizia di voler interrompere il decorso della prescrizione dopo il primo grado di giudizio mi vede favorevole», dichiara il procuratore aggiunto di Roma e segretario generale di Magistratura indipendente Antonello Racanelli. La riforma – un emendamento al ddl “spazzacorrotti” in discussione alla Commissione giustizia di Montecitorio voluta da Alfonso Bonafede sta suscitando in queste ore innumerevoli polemiche. Le opposizioni, Forza Italia e Partito democratico, prevedono effetti devastanti per il sistema giudiziario in caso la norma dovesse essere approvata. E anche la Lega ha già manifestato “perplessità”.
Procuratore, lei è da sempre favorevole allo “stop” della prescrizione. Non teme il rischio del “fine processo mai”?
«Io non sono per il processo “infinito”. Ricordo che viviamo in un Paese dove i tempi della giustizia sono totalmente irragionevoli. I processi devono essere celebrati rapidamente. Detto questo, bisogna evitare che la prescrizione vanifichi il lavoro svolto».
Ma con la riforma Bonafede i processi che già sono lenti non diventeranno lentissimi? Qualche magistrato potrebbe cominciare a pensare: ‘ Va bene, c’è tempo prima che si prescriva’. Condivide?
«Non c’è nessun giudice che voglia tenere fermo un processo. Mi rifiuto di pensare che qualcuno voglia farli durare trent’anni».
Una volta che si interrompe la prescrizione, però, non c’è più la corsa a fare il processo ed il rischio che i processi si trascinino anni è concreto.
«Questa è la patologia del sistema. Noi dobbiamo parlare del normale andamento del processo. Di fronte a rallentamenti anomali da parte di qualche magistrato si deve intervenire disciplinarmente».
Ma è sufficiente bloccare la prescrizione per risolvere i problemi del processo penale in Italia?
«No. A questa riforma si devono accompagnare in parallelo interventi sulle strutture del sistema giustizia. Penso al personale amministrativo e alle dotazioni tecnologiche».
In quanto tempo dovrebbe concludersi un processo?
«Due o tre anni. Bisogna comprendere sia le ragioni dell’imputato ad avere una sentenza in tempi rapidi e sia quelle delle vittime del reato ad avere un adeguato ristoro».
Il presidente della Commissione giustizia di Palazzo Madama, il senatore leghista Andrea Ostellari, dice che la prescrizione si può evitare se gli uffici funzionano bene.
«Certo. Con maggiore personale amministrativo, ripeto, si potrebbe ad esempio iniziare a fare udienze tutto il giorno. Mattina e pomeriggio. Spero che anche l’avvocatura sia aperta ad un dialogo in questa direzione».
I processi si prescrivono nella fase delle indagini preliminari. Le tabelle del Ministero della giustizia parlano di un 70 per cento.
«E’ un dato che va valutato con attenzione. Solo formalmente è così. La Procura di Roma dove lavoro ha attualmente 40.000 processi in attesa dell’udienza. Ne abbiamo chiesto la fissazione al presidente del Tribunale che però non ci ha ancora trasmesso le date in quanto il ruolo è saturo. Si può attendere anche due anni prima che questa fissazione avvenga. A quel punto il reato si è però prescritto ed al Tribunale non resta che mandare indietro il fascicolo con il risultato statistico che la prescrizione è avvenuta durante le indagini preliminari».
L’incidenza della prescrizione tra i diversi uffici giudiziari varia da distretto a distretto, ed è in più delle volte indipendente dalle scoperture degli organici o dalle condizioni socio economiche dei territori interessati. Concorda?
«Sì. Anche l’organizzazione individuata dai singoli capi ufficio incide. Ci sono poi best practice al riguardo da diffondere sul territorio nazionale. Il Csm ha sempre fatto sul punto un grande lavoro».
Una depenalizzazione aiuterebbe?
«Sì. Abbiamo troppi reati».
Cristina Ornano (Area): «Prescrizione? E’ uno spot». Secondo la segretaria generale delle toghe progressiste, “Riforme così importanti meriterebbero certamente un approccio molto diverso”, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 4 Novembre 2018 su "Il Dubbio". «Riforme così importanti meriterebbero certamente un approccio molto diverso», afferma Cristina Ornano, giudice per le indagini preliminari al Tribunale di Cagliari e segretaria generale di Area, il raggruppamento delle toghe progressiste di cui fa parte anche Magistratura democratica, commentando con Il Dubbio la proposta del ministro Alfonso Bonafede di voler bloccare il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.
Dottoressa, cosa non la convince della riforma del Guardasigilli?
«Pur essendo in linea di principio favorevole al blocco della prescrizione, non credo sia in alcun modo risolutiva da sola dei gravi problemi che affliggono il nostro processo penale. Su argomenti molto delicati, come appunto il funzionamento del processo, sarebbe necessario procedere all’esito di una approfondita riflessione. Non è questo un tema che possa essere affrontato con un semplice tratto di penna».
Si riferisce al fatto che il blocco della prescrizione sia stato inserito in un emendamento al ddl “spazzacorrotti”?
«Certo. Suscita perplessità, sul piano del metodo, l’inserimento di una riforma di così generale e vasta portata, in un emendamento ad un testo di legge in discussione che ha un suo specifico, senza che siano state preventivamente ponderate le complessive ricadute sul sistema. A ciò si aggiunga che non vi è stato alcun serio confronto con la magistratura, l’avvocatura ed il mondo accademico e che il testo rischia di non essere neppure oggetto di una approfondita discussione in Parlamento. La stessa Associazione nazionale magistrati ne discuterà nel prossimo comitato del 10 novembre».
Se fosse approvata questa norma, quali sarebbero le immediate conseguenze?
«Nel merito, il congelamento della prescrizione, in assenza di un intervento di sistema, e, in particolare di correttivi, come potrebbe essere ad esempio la previsione di una prescrizione processuale, rischia di produrre effetti distorsivi, pregiudicando il diritto alla ragionevole durata del processo ed alla certezza del diritto, principi di civiltà recepiti dalla nostra Costituzione».
Il ministro della Giustizia, però, dello stop della prescrizione ne ha fatto una bandiera…
«Si ha l’impressione di trovarci di fronte all’ennesimo intervento “spot” attraverso il quale si insegue a tutti i costi, anche attraverso scorciatoie, la rivendicazione di un impegno elettorale, senza che però ci si faccia carico né dell’impatto complessivo dell’intervento, né dei veri problemi che oggi affliggono il processo penale».
Da dove bisognerebbe partire?
«Il tema della prescrizione andrebbe inserito nel quadro di un intervento di sistema che miri ad aggredire con soluzioni efficaci i gravi problemi del processo e del diritto penale. Oggi una delle più gravi criticità è costituita dall’elevatissimo numero di impugnazioni, in particolare in Cassazione. E’ ineludibile un intervento di razionalizzazione nel sistema».
E poi ci sono troppi reati…
«Assolutamente. C’è una ipertrofia del diritto penale. Andrebbe prevista una coraggiosa opera di deflazione e depenalizzazione. Il diritto penale minimo è, infatti, l’obiettivo di civiltà cui deve mirare un sistema penale moderno ed efficiente, in quanto unica misura che riuscirà a ridurre l’eccessivo carico penale. Infine, occorre che il legislatore pratichi politiche di pieno organico del personale di magistratura e amministrativo, che si stanzino risorse adeguate e si faccia un grande investimento sul terreno dell’innovazione».
Il Governo, tornando alla sua prima osservazione, punta invece ad un panpenalismo sempre più spinto.
«Con rammarico constato che si risponde invece ai problemi con nuove e non sempre necessarie criminalizzazioni, l’inasprimento delle pene e la costruzione di nuove carceri, soluzioni, che non guariscono quel grave malato che è il processo penale, ma semmai ne aggravano la malattia».
In Esclusiva Carlo Nordio “Blocco Della Prescrizione? Ricadute Terribili”, scrive il 9 Novembre 2018 Giovanni Maria Jacobazzi su Milano Post. “Nel processo penale ogni intervento settoriale rischia di essere una catastrofe. Può entrare in conflitto con altre norme e creare problemi terribili. A maggior ragione se questo intervento riguarda affari delicatissimi come appunto la prescrizione del reato”, dichiara Carlo Nordio, ex procuratore di Venezia ed ex presidente, nel 2002, della commissione che portò il suo nome incaricata dall’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli di riscrivere il codice di procedura penale.
Procuratore, lei è molto critico nei confronti della proposta voluta dai cinquestelle di bloccare la prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado. Che cosa non la convince?
«Sul contenuto di questa riforma si sono espressi in questi giorni autorevoli commentatori. Io mi limito solamente a dire che, se venisse approvata, creerebbe un cortocircuito con l’esecuzione della pena. Mi spiego. Se si blocca la prescrizione del reato poi si deve bloccare anche la prescrizione della pena. Altrimenti si favorisce l’imputato che, dopo essersi fatto condannare, scappa, ben sapendo che trascorsi dieci anni la pena sarà estinta».
Alfonso Bonafede e Luigi Di Maio vanno ripetendo da giorni che la riforma della prescrizione è prevista nel contratto di governo.
«Guardi anche io ho letto questo contratto di governo. E da nessuna parte c’è scritto che va bloccata la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Si parla solamente di “riformare” l’istituto».
Il tema doveva essere affrontato preventivamente in tavoli tecnici con gli addetti ai lavori come ad esempio proposto dal presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin?
«Certo. La prescrizione è un tassello fondamentale del codice penale. Non può essere riformato con un semplice emendamento».
Il presidente emerito della Cassazione Giovanni Canzio ha affermato ieri in una intervista quello che tutti pensano ma non dicono. E cioè che il problema principale riguarda le indagini preliminari. In quella fase maturano la maggior parte delle prescrizioni dei reati. Indagini preliminari vuol dire ruolo del pubblico ministero e toccare il pm è operazione sempre molto complicata…
«Su questo aspetto vorrei fare chiarezza.
Prego.
«Il pubblico ministero italiano è l’unico organismo al mondo che ha un potere senza responsabilità».
Detto da lei bisogna crederci.
«Con il codice di procedura penale di tipo accusatorio abbiamo mutuato il pm dagli Stati uniti dove è il capo della polizia giudiziaria. Con un ‘piccola’ differenza. Negli Stati Uniti è elettivo e quindi se non funziona va a casa. Noi invece abbiamo mantenuto le garanzie giurisdizionali che esistevano nel processo inquisitorio».
Il risultato è ben noto…
«Abbiamo un organismo sbilanciato. Indipendenza del giudice con i poteri politici del pm americano».
Un mix che non esiste in nessuna altre parte del pianeta?
«Ripeto, solo in Italia. Il processo accusatorio ha due sistemi: quello americano e quello inglese. In America il pm è il capo della polizia ma non ha indipendenza in quanto è elettivo. In Inghilterra è indipendente come quello italiano ma non è il capo della polizia. Le indagini vengono fatte dalle polizia senza chiedere il permesso al pm».
Non potevamo copiare il modello inglese?
«Viste le esperienze italiane preferisco anche io che ci sia un controllo da parte del pm. Sarebbe stato rischioso. Però devo esserci una responsabilità».
E copiare il modello americano?
«In Italia un pm elettivo non lo vedrei bene».
Non c’è soluzione allora?
«No. Sarebbe importante un potere di controllo durante le indagini da parte del giudice se il pm è inerte.
Esisterebbe l’avocazione delle indagini da parte della Procura generale.
«Sulla inerzia del pm il controllo non deve essere devoluto alla Procura generale ma al giudice».
Perché non è possibile sanzionare il pm inerte?
«E’ un discorso complicato. L’obbligatorietà dell’azione penale intasa le Procure di fascicoli. Punire per l’inerzia è un principio giusto. Ma bisogna vedere se questa è una inerzia necessitata perché il pm è sommerso da fascicoli che non riesce a fisicamente a gestire o altro. Nessuno ha mai fatto l’analisi di quanto lavoro possa svolgere correttamente un pm professionalmente preparato e diligente».
Un’ultima domanda. Perché a Piercamillo Davigo questa riforma piace? Anzi, come affermato dai pentastellati in Commissione giustizia a Montecitorio ne è lui l’ispiratore.
«Come ripeteva Senofane, esiste una tendenza sbagliata: quella di crearsi gli dei a propria immagine e somiglianza. “Gli Etiopi – diceva il filoso greco – affermano che i loro dei sono camusi e neri, i Traci che sono cerulei di occhi e rossi di capelli”. Quando un magistrato ha fatto per troppi anni il pm poi è portato a vedere la realtà deformata dai suoi occhi».
"Troppo potere mediatico ai pm. La giustizia italiana è una follia". Piero Sansonetti, direttore del nuovo quotidiano "il Dubbio", in edicola da martedì: "Le toghe fanno politica, riforma necessaria", scrive Anna Maria Greco, Giovedì 07/04/2016, su "Il Giornale". Si chiama il Dubbio, esce in edicola martedì e per 5 giorni la settimana, ha 16 pagine, full color, una redazione di 13 professionisti: è il nuovo quotidiano diretto da Piero Sansonetti. Che ha come editore la Fondazione del Consiglio nazionale forense.
Insomma, sarà il giornale degli avvocati. Con quale obiettivo?
«La linea politico-editoriale sarà quella dell'avvocatura, che si riassume così: i diritti avanti a tutto. Si propone di spezzare il predominio di un pezzo della magistratura sul mondo dell'informazione italiana e così anche la supremazia del potere giudiziario su quello politico».
E questo nome, Il dubbio?
«Fa riferimento al ragionevole dubbio verso ogni accusato. Ai diritti della difesa, che sono il fondamento dello stato di diritto. Da noi gran parte della stampa è giustizialista, amplifica le accuse, gli avvisi di garanzia, gli arresti e quando poi gran parte dei processi finisce con l'assoluzione, si scrive che è stata negata la giustizia e non c'è un colpevole. Se si sostengono le ragioni della difesa si passa per complici, così spesso vengono considerati gli avvocati di un accusato. Questa etica della colpevolezza va contrastata».
Sarà un nuovo Garantista?
«Sarà un quotidiano apertissimo, in cui parleranno tutti. Non sarà né con il governo né con l'opposizione, né di destra né di sinistra, né con Renzi né con Berlusconi. Aperto al dialogo, su tutto e con tutti».
Però, diciamolo, sarà un giornale contro le toghe.
«No, perché ce ne sono di ottime e noi vogliamo fare un giornalismo senza risse e insulti, beneducato. Contro il giustizialismo, sì. Contro quella parte forcaiola dei magistrati e della stampa, sì. Contro quel potere politico in ginocchio davanti alla magistratura, sì».
Che ne dici dell'uscita critica di Renzi sulle lentezze dei magistrati, dopo il caso Guidi, cui ha replicato l'Anm Basilicata?
«Un'uscita coraggiosa, perché è raro che un politico osi sfidare le toghe. È vero che si comincia con le accuse e non si arriva mai ai processi. Non hanno interesse a celebrarli i magistrati stessi. Altro che accuse agli avvocati sulla prescrizione: nel 70 per cento dei casi interviene in fase di indagini preliminari, quando la difesa non ha certo potuto ritardare l'iter. I guai dipendono dai tempi lunghi della giustizia. Ma quando Renzi l'ha detto, immediatamente l'Anm ha reagito. Perché è una forza politica, polemizza col governo, interviene sulle leggi da fare e come, mette in discussione continuamente l'equilibrio tra i poteri. È impressionante. In questo scambio di battute c'è il riassunto della follia che è oggi la giustizia».
Serve la famosa riforma.
«Non la fa nessuno. Non l'ha fatta Berlusconi, non la fa Renzi. E l'opinione pubblica viene spinta dal sistema dell'informazione sempre dalla parte della pena e della forca. Così, anche i diritti alla privacy scompaiono».
In prima pagina ci sono Panama papers e intercettazioni dello scandalo petrolio.
«E qualcuno si chiede se la fuga di notizie sui conti off-shore sia legale? Nessuno. O se lo siano le intercettazioni della Guidi (che ha fatto benissimo a dimettersi, beninteso) e degli altri? Nessuno. Chi si pone la questione che in Italia ci siano mille volte più intercettazioni che in Gran Bretagna? Il rispetto delle regole, il diritto alla difesa, non interessa nessuno».
Se il processo dura 20 anni non c’entra la legge ma i magistrati, scrive Piero Sansonetti il 22 Febbraio 2017, su "Il Dubbio". Lo scandalo non sta nel fatto che è scattata la prescrizione, dopo 20 anni dal reato e 20 anni dall’inizio del procedimento penale. Lo scandalo sta nel fatto che non sono bastati 20 anni alla magistratura per concludere l’iter processuale. Se un processo per lo stupro di una bambina dura vent’anni e poi l’accusa cade in prescrizione, la colpa di chi è? È successo in Piemonte. Ieri la notizia ha conquistato le home page di tutti i siti, e l’hanno data le Tv. Un po’ ovunque è sembrato sentire un atto di accusa vibrante contro la prescrizione, cioè quel meccanismo satanico e da azzeccagarbugli che permette agli imputati di farla franca. Il procuratore generale di Torino ha dichiarato ai giornali che occorre una profondissima riforma, e che il compito tocca al legislatore. È il ritornello di sempre, ripetuto incoro da giornali e procure: le colpe per la malagiustizia comunque sono del potere politico e delle norme troppo garantiste. Mentre i magistrati, di solito, si comportano in modo egregio e infatti, come è noto, combattono contro la prescrizione. Se il potere politico non si opponesse alle giuste battaglie dei magistrati e facesse le cose a modino, come i magistrati chiedono, ecco che questo scandalo del presunto pedofilo che la fa franca non sarebbe avvenuto…Davvero è così? Non solo non è così ma è esattamente il contrario. La prescrizione è una misura estrema che serve solo a mettere un argine alla violazione di un principio costituzionale che è quello della “ragionevole durata del processo” (art 111 della Costituzione). E nessuno può avere dubbi sul fatto che 18 o 19 anni devono essere più che sufficienti per concludere un processo nel quale un uomo è accusato di avere esercitato violenza sessuale su una bambina di 7 anni. Noi, né nessun altro giornalista, non siamo assolutamente in grado di sapere se a carico dell’imputato ci fossero o no prove sufficienti. Essere accusati d i pedofilia, insegnano casi giudiziari anche molto recenti, non vuole assolutamente dire essere colpevoli. Spesso le accuse per pedofilia cadono, risultano infondate (pensate solo alla vicenda assurda di quei poveretti accusati di “pedofilia” di massa in una scuola di Rignano, in provincia di Roma, e poi risultati tutti completamente innocenti, dopo mesi di carcere e anni di infamie). Ma qui la questione non è certo quella di stabilire se l’imputato fosse o no colpevole. Si tratta semplicemente di capire perché il processo è andato in appello dopo 20 anni, quando ormai l’accusato era diventato vecchio, e la bambina era diventata una signora (la quale, tra l’altro, ha fatto sapere che di questa storia non vuole sapere più niente). Allora, proviamo a vedere come stanno le cose. Le Procure e le Corti d’appello, sicuramente, sono intasate da migliaia di procedimenti giudiziari che non riescono a smaltire. Questo vuol dire che tutti i provvedimenti giudiziari durano 20 anni? No. E sarebbe logico che i processi per i reati più gravi andassero più spediti. Non sempre è così. Per esempio gli avvocati di tal Silvio Berlusconi ci dicono che dal 1995 a oggi il suddetto Silvio Berlusconi ha subito 70 processi. Naturalmente nei processi a Berlusconi, la procura di Alessandria e la corte d’appello di Torino (cioè le due istituzioni che non sono riuscite a processare il sospetto pedofilo) non c’entrano niente. Berlusconi è stato processato soprattutto dalla Procura di Milano. Però il paragone, dal punto di vista politico, regge eccome. Le procure hanno trovato tutto il tempo necessario per processare 70 volte Berlusconi, mentre altre procure non riuscivano a fare un solo processo a quel signore accusato di aver violentato una bambina. Come è possibile questo? Forse c’è una sola spiegazione: processare un tipo come Berlusconi è attività assai più attraente che processare un sospetto pedofilo sconosciuto. Produce uno spettacolo molto maggiore, titoli sui giornali in grande rilievo, tv, fama. Un procedimento giudiziario che garantisca un alto tasso di spettacolarità e che magari abbia la possibilità di avere un peso significativo sulla vicenda politica italiana, procede spedito. Nell’unica condanna subita da Berlusconi (quella per una evasione fiscale commessa da Mediaset) tra la conclusione dell’appello e la sentenza della Cassazione (assegnata a una sezione presieduta da un giudice che poi è andato in pensione e ora fa il commentatore sul “Fatto Quotidiano”) passarono addirittura pochi mesi. Fu un caso esemplare di giustizia speedy gonzales. Dunque è del tutto evidente che non è l’istituto della prescrizione il colpevole, ma il colpevole va cercato nel funzionamento di alcuni settori della magistratura. Ha fatto molto bene la giudice Paola Dezani, pronunciando la sentenza che prendeva atto dell’avvenuta prescrizione, a chiedere scusa agli italiani a nome della magistratura. Però ora sarebbe anche il caso di chiedersi di chi sia la colpa del sovraffollamento di procedimenti penali. Forse, per esempio, è colpa dell’obbligatorietà dell’azione penale, norma difesa col coltello tra i denti dall’Associazione magistrati, e che ormai è diventata insensata? E magari è colpa anche dell’ostinazione con la quale molti Pm ricorrono in appello di fronte a una sentenza di assoluzione in primo grado (che pure dovrebbe far scattare, a lume di logica, il ragionevole dubbio previsto dal codice penale come condizione di non condanna)? È chiaro che una riforma della giustizia è assolutamente necessaria. Da anni molti governi di centrodestra e di centrosinistra tentano di realizzarla, ma nessuno ci riesce proprio per la tenace e potente resistenza dell’Anm.
Giustizia carogna, scrive Fabrizio Boschi il 31 gennaio 2017 su "Il Giornale”. Nel febbraio 2012 ci provò un deputato di Forza Italia, Daniele Galli: presentò una proposta di legge per obbligare lo Stato a rifondere le spese legali del cittadino che viene imputato in un processo penale e ne esce assolto con formula piena. Non venne mai nemmeno discussa. Eppure affrontava una delle peggiori ingiustizie italiane. Il corto circuito che ne viene fuori è poi un altro: chi è sotto la soglia di povertà, ovvero meno di 16mila euro all’anno, può ottenere l’avvocato pagato dallo Stato, ovvero il gratuito patrocinio. Chi usufruisce di questo favore pagato da noi cittadini sono di solito, delinquenti, evasori seriali, ed extracomunitari. Pochissimi gli italiani. Doppia beffa. Davanti al Tar poi la cosa si fa ancora più triste: le cause contro lo Stato vengono pagate dallo Stato stesso. Ogni anno in questo paese si aprono 1,2 milioni di procedimenti penali, più alcune centinaia di migliaia di processi tributari. Gli assolti, alla fine, sono la maggioranza: secondo alcune stime sono quasi i due terzi del totale. Moltissimi sono quelli che escono dalle aule di giustizia assolti con una “formula piena”, come si dice, e cioè perché il fatto non sussiste o per non avere commesso il fatto. Costoro, però, devono comunque pagare di tasca propria l’avvocato e i professionisti di parte: periti, tecnici, consulenti. Si tratta di cifre a volte molto importanti. La famiglia di Raffaele Sollecito, processato per otto anni come imputato per l’omicidio di Meredith Kercher a Perugia, ha dovuto pagare 1,3 milioni di euro al suo avvocato Giulia Bongiorno. Elvo Zornitta, accusato ingiustamente di essere “Unabomber”, il terrorista del Nord-Est, dovrebbe pagarne 150mila al suo avvocato. Giuseppe Gulotta, vittima del peggiore errore giudiziario nella storia d’Italia (22 anni di carcere da innocente) dovrebbe affrontare una spesa da 600mila euro. Ci sono poi tantissimi casi nei quali anche parcelle da alcune decine di migliaia di euro rappresentano la rovina economica per qualcuno. Oppure casi in cui per non sentir più parlare di quel caso, il cliente soccombe a questa ingiustizia, si china e paga. Quando poi il querelante decide di rimettere la querela, perché magari ha obbligato, tramite il proprio avvocato, ad un accordo segreto il querelato, che decide di pagare (in nero) pur di veder finito il suo calvario (un ricatto in piena regola insomma: io rimetto la querela se tu mi dai tot altrimenti vado avanti con la causa), allora dopo alcuni anni il querelato si vede pure arrivare a casa una bella cartella di Equitalia, riguardo alle spese originate dalla remissione di querela, come prevede la legge: è la norma processuale, infatti, che fissa a carico del querelato la refusione delle spese del procedimento. Altra follia pura. Insomma, lo Stato ti obbliga a pagare le spese legali anche se vinci le cause, ma non ha remore nel pagare il difensore all’extracomunitario che non ha nulla ed è in Italia illegalmente. Anche importanti giuristi e magistrati concordano col fatto che far pagare le spese legali a chi ha vinto la causa o è innocente sia una pura follia. Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, si dice convinto che sia «una fondamentale questione di giustizia: con il discutibile principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, lo Stato stabilisce il dovere d’indagare dei pubblici ministeri; ma ha anche l’obbligo di risarcire l’avvocato all’innocente che senza alcun motivo ha dovuto affrontare spese legali, spesso elevate». Giorgio Spangher, docente di procedura penale alla Sapienza di Roma, ipotizza un fondo «che provveda almeno in parte a indennizzare le spese sostenute», come già avviene per l’ingiusta detenzione. Certo, il problema (come sempre in questi casi) sono le casse dello Stato: con la legge di Stabilità per il 2016 il governo ha appena dimezzato e reso praticamente inaccessibili le disponibilità previste per la legge Pinto, la norma che dal 2001 indennizzava gli imputati vittime della lunghezza dei processi a un ritmo di circa 500 milioni l’anno. Sarà forse difficile, pertanto, che si possa mettere in atto qualcosa di valido sul rimborso delle spese legali. Ma non può essere questa la scusa per distogliere lo sguardo da questa vera ingiustizia. Se sei stato accusato di un reato o querelato ingiustamente e poi al termine di un processo una sentenza sancisce la tua innocenza o estraneità ai fatti o il fatto non sussiste, o il fatto non costituisce reato, non è giusto che sia tu a pagare l’avvocato: deve farlo lo Stato. Che invece paga il patrocinio ai delinquenti.
Sorpresa: la prescrizione la decide quasi sempre il pm, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 4 novembre 2016 su "Il Dubbio". Lo studio dell'associazione "Fino a prova contraria". Annalisa Chirico, giornalista e fondatrice del movimento "Fino a prova contraria", ha pubblicato ieri sul Foglio un interessante studio dei dati relativi alla prescrizione dei procedimenti penali in Italia. Studio che merita di essere approfondito e commentato, visto che cristallizza in maniera inconfutabile alcune verità che non faranno certamente piacere ai giustizialisti in servizio permanente effettivo. Partendo dalle rilevazioni statistiche del Ministero della Giustizia, raccolte in un documento dello scorso maggio, la giornalista ha potuto constatare che circa il 60% delle prescrizioni avvengono nella fase delle indagini preliminari. Quindi nella fase in cui il pubblico ministero è dominus assoluto del procedimento e dove la difesa, usando una metafora calcistica, "non tocca palla". Il dato smentisce una volta per tutte la vulgata che vedrebbe l'indagato ed il suo difensore porre in essere condotte dilatorie per sottrarsi al giudizio. Quella che viene comunemente chiamata "fuga dal processo". Di contro, certifica l'assoluta discrezionalità dell'ufficio del pubblico ministero nella gestione del procedimento. Com'è noto, attualmente, nessuna sanzione è prevista per il Pm che ritarda la definizione di un suo fascicolo oltre il termine delle indagini preliminari. Anzi, la proposta di prevedere l'avocazione del procedimento da parte della Procura generale trascorsi 3 mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini, ha scatenato la rivolta dei pubblici ministeri. L'analisi riserva, poi, altre sorprese. Ad esempio una gestione degli affari penali a "macchia di leopardo". Se esistono uffici virtuosi, in cui la prescrizione è praticamente inesistente e tutti i procedimenti vengono definiti in tempo, di contro in molti tribunali tale istituto raggiunge percentuali veramente sorprendenti. Anche in questo caso, dunque, è molto difficile "scaricare" la responsabilità sull'indagato e sul suo difensore. Piuttosto è un problema di organizzazione dell'ufficio. E non di aree geografiche. Visto che si prescrivono, per fare un esempio, più reati a Parma che a Palmi. In conclusione, il danneggiato è sempre il cittadino che, purtroppo, paga sulla sua pelle le inefficienze del sistema.
La prescrizione è garanzia di giustizia, i pm la trasformano in un mostro giuridico. L’analisi statistica licenziata dal ministero di via Arenula e il rischio di vivere sotto la spada di Damocle di un processo interminabile che grava sul cittadino, scrive Annalisa Chirico il 3 Novembre 2016 su “Il Foglio". Tribunale che vai, giustizia che trovi. L’incidenza della prescrizione nella fase predibattimentale, prima del processo, passa dal 40 percento di Torino allo 0,1 di Pordenone, dal 13,7 di Milano al 3,6 di Firenze, dall’8,5 di Bari al 9,9 di Barcellona Pozzo di Gotto (40 mila abitanti nel messinese…). Non va meglio a processo avviato: il divario di efficienza si contrae ed espande come una fisarmonica, dal 51 percento del tribunale di Tempio Pausania allo 0,2 di Aosta, dal 33,1 di Spoleto al 2 di Milano, con Salerno, Venezia e Palermo che oscillano tra i 13 e 14 punti percentuali. Sul territorio nazionale lo stato fornisce un servizio “a macchia di leopardo”, con differenze vistose e stridenti da ufficio a ufficio, a parità di norme e, in molti casi, di risorse. Sul sito web del movimento “Fino a prova contraria”, compare l’analisi statistica licenziata dal ministero di via Arenula lo scorso maggio. Grafici e tabelle fotografano lo stato della prescrizione in Italia, un’autopsia fortemente voluta dal capogabinetto del ministero, il magistrato Giovanni Melillo. Notoriamente parco di esternazioni mediatiche, Melillo si lascia andare a un fugace commento: “Non contano le norme ma gli uomini”. E’ l’elemento umano, le “guarnigioni” di Karl Popper, a decretare lo iato di efficienza tra situazioni pure assimilabili per dotazione di organico e normativa vigente. Forse per questa franchezza assai poco corporativa dalle parti del Csm, che già una volta gli ha sbarrato la strada nella corsa a procuratore capo di Milano, il dottor Melillo non è amatissimo, additato piuttosto come archetipo della toga “collaborazionista”, sedotta dal potere politico. Dai dati ministeriali riaffiora l’eterno grattacapo: è giusto rimediare alla lentezza dei processi con l’allungamento ipertrofico della prescrizione? Il rischio di vivere sotto la spada di Damocle di un processo interminabile grava sul cittadino. E, come ha ricordato pochi giorni fa il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, la prescrizione è “un istituto di garanzia per il sistema. Ha senso condannare oggi per una corruzione commessa vent’anni fa?”. I tempi ragionevoli, questi sì che sarebbero una conquista di civiltà per innocenti e colpevoli. Secondo l’analisi ministeriale, negli ultimi dieci anni le prescrizioni si sono ridotte del 40 percento, passando dagli oltre 213 mila procedimenti estinti nel 2004 a circa 132 mila nel 2014. Il 58 percento delle estinzioni per prescrizione avviene nella fase preliminare del giudizio, un ulteriore 4 percento delle sentenze dichiaranti l’avvenuta prescrizione sono emesse da gip e gup. Vi è poi un 19 percento di casi in primo grado, 18 percento in Corte d’appello mentre solo una volta su cento la prescrizione matura in Cassazione. En d’autres mots, nel 62 percento dei casi la prescrizione incombe prima del processo, nella fase delle indagini preliminari, quando il pm è dominus e l’avvocato è spettatore inerme. Il 62 percento è la riprova che l’obbligatorietà dell’azione penale resta una chimera: il pm decide discrezionalmente quali fascicoli far avanzare e quali abbandonare lungo il sentiero dell’estinzione per decorrenza dei termini. L’appello rappresenta la fase con l’incidenza più elevata, tra il 2014 e il 2015 si è registrato un consistente calo delle prescrizioni in Cassazione. Quanto alle categorie di reato, nel 2014 quelli legati alla circolazione stradale presentano il maggior tasso d’incidenza, lo scorso anno invece primeggiano i reati legati al traffico e consumo di stupefacenti, seguiti da quelli contro il patrimonio. L’incidenza della prescrizione sui definiti si attesta all’1,3 per i reati di violenza sessuale, al 5,6 per i reati ambientali, al 5,9 per lesioni e omicidi colposi, al 9,1 per i reati di truffa, al 12,5 per i reati contro la Pubblica amministrazione. Su base geografica l’incidenza della prescrizione sulle definizioni nelle corti d’appello spazia dal 48 percento di Venezia al 12 percento di Milano. Napoli, Reggio Calabria e Caserta si stagliano al di sopra della media nazionale. Sassari, Catanzaro, Potenza e Messina viaggiano al di sotto. Nel penale, su cento procedimenti 9,5 si prescrivono, tra questi 5,7 nella fase delle indagini preliminari, 3,8 nel corso dei tre gradi di giudizio. Tribunale che vai, giustizia che trovi. Nella speranza che giustizia sia.
Davigo: non ho mai incontrato Grillo né tramato contro Berlusconi. Il magistrato: la prescrizione? Per i politici ha un peso diverso rispetto agli altri, scrive Giovanni Bianconi il 5 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. «Già domenica mattina ho mandato una e-mail al mio avvocato per dirgli di predisporre una querela contro Il Giornale». Quel giorno campeggiava un titolo in prima pagina: «Trame a 5 stelle - Ecco chi è il mandante dell’agguato a Berlusconi - Vertici segreti tra Grillo e Davigo dietro la legge per fare fuori il cavaliere dalla vita politica».
Che cosa c’era di sbagliato, dottor Davigo?
«Tutto. Non ho mai incontrato Grillo in vita mia, se non quarant’anni fa, lui sul palco e io spettatore di un suo spettacolo. Né ho mai partecipato all’ideazione o alla stesura di qualsivoglia emendamento alla legge elettorale che punti a estromettere Berlusconi dalla vita politica».
E dopo domenica che cosa è successo?
«Lunedì ho telefonato allo stesso avvocato per raccomandargli di sbrigarsi a presentare la denuncia, senza aspettare come suo solito la scadenza dei novanta giorni di tempo, perché tra tante diffamazioni questa mi dà molto fastidio».
Risultato?
«Domani (oggi per chi legge, ndr) andrò nel suo studio a firmare la querela. E mi pare che questa cronologia contenga in sé la smentita attesa dal collega Galoppi».
Claudio Galoppi è il componente del Consiglio superiore della magistratura che ieri, in un’intervista a Il Foglio intitolata «Bordata dal Csm contro Davigo», ha detto, a proposito delle notizie riportate da Il Giornale: «Mi auguro che arrivi presto una smentita; se Davigo non smentirà, non potranno non esserci conseguenze». Galoppi è un rappresentante di Magistratura indipendente, la corrente considerata più a destra nella classificazione politico-culturale delle toghe, da cui Piercamillo Davigo è uscito due anni fa insieme a un consistente numero di colleghi, fondando il gruppo chiamato Autonomia e indipendenza. Tra i motivi della scissione da Mi c’era anche il dissenso con la posizione del leader Cosimo Ferri, che da quattro anni e mezzo occupa la poltrona di sottosegretario al ministero della Giustizia, inizialmente come tecnico in quota Forza Italia e poi, dopo l’uscita di Berlusconi dalla maggioranza del governo Letta, come tecnico e basta.
Nella sua intervista Galoppi s’è detto allibito se davvero lei avesse affermato che chi non rifiuta la prescrizione dovrebbe vergognarsi, perché “non spetta a un magistrato esprimere valutazioni morali sulle scelte processuali”.
Che cosa replica?
«Che io non stavo parlando della prescrizioni in generale né delle scelte processuali di un cittadino comune, ma del caso specifico dell’ex presidente della provincia di Milano, Filippo Penati, cioè di una persona che ha svolto ruoli amministrativi. E non ho fatto valutazioni morali, bensì ho citato e interpretato l’articolo 54 della Costituzione, secondo il quale “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Non mi pare che chi evita una condanna grazie alla prescrizione possa rivendicare di aver svolto il suo compito con onore».
Dunque secondo lei un uomo politico deve sempre rinunciare alla prescrizione?
«Può fare quello che vuole, ma la Costituzione pone una netta distinzione tra i cittadini che esercitano funzioni pubbliche e tutti gli altri. Non sono uguali, perché chi amministra ha doveri e obblighi in più, tra cui quello di adempiere al proprio ruolo con onore. Mi sembra strano che debba ricordare queste cose a un magistrato che siede al Csm».
L’altra sera in tv le hanno chiesto chi risarcisce le persone che escono innocenti dai processi, e lei s’è alterato. Perché?
«Perché nell’elenco avevano inserito Penati, che per un reato ha usufruito della prescrizione pur avendo dichiarato in passato che vi avrebbe rinunciato, e dunque non mi pare che ci sia nulla da risarcire. Io come magistrato svolgo funzioni pubbliche, e se in un procedimento penale vengo accusato di reati poi dichiarati prescritti, per quei fatti scatta l’azione disciplinare. Altro che risarcimento».
Dietro il dibattito che a intermittenza si riaccende sulle sue dichiarazioni c’è sempre il retropensiero che un giorno lei possa scendere in politica, e assumere una carica di governo.
«Sono 25 anni che rispondo che non mi interessa, e che non farò mai politica. E lo ribadisco, di più non posso fare».
Il prossimo anno si voterà per il Parlamento ma anche per il rinnovo del Csm. Lei si candiderà al Csm?
«A questa domanda non rispondo».
Questo significa che potrebbe farlo.
«Significa che non rispondo».
"Frasi gravi e imbarazzanti". Ora il Csm striglia Davigo. Galoppi bacchetta il collega: "Mi auguro smentisca gli incontri con il M5S per suggerire la norma anti Cav", scrive Anna Maria Greco, Venerdì 6/10/2017, su "Il Giornale". Se parlate con magistrati di destra, sinistra, centro, corrente A o corrente B, è un coro di proteste contro le uscite di Piercamillo Davigo. L'ex presidente dell'Anm, già star del pool Mani pulite, con i suoi comizi politici di taglio giustizialista in programmi tv, feste pubbliche e convegni di partito, mette in imbarazzo per primi i suoi colleghi in toga. C'è grande malumore all'Anm e a Palazzo de' Marescialli. Alla prima commissione del Csm e al Procuratore generale della Cassazione (titolare dell'azione disciplinare e membro di diritto del consiglio), arriverà l'esposto del Movimento Fino a Prova Contraria di Annalisa Chirico, che chiede di «fare chiarezza sul rapporto talvolta patologico tra magistrati e mass media», sulla sovraesposizione di toghe come Davigo che, con interventi «apertamente politici», danneggiano l'immagine della categoria. L'ultima che ha sparato martedì dal salotto di Floris su La7 è che «l'imputato che non rifiuta la prescrizione deve vergognarsi», perde «l'onore». E intanto non ha smentito la notizia pubblicata 5 giorni fa dal Giornale di 3 incontri con esponenti del M5S per scrivere l'emendamento anti-Berlusconi al Rosatellum 2.0, sotto esame alla Camera. In sua vece è intervenuto il paladino Marco Travaglio su Il Fatto, appoggiando la posizione sulla prescrizione, scagliandosi contro Il Giornale e il direttore Alessandro Sallusti, assicurando che «Davigo e Grillo non si sono mai incontrati». Ma chi ha parlato di Grillo, in persona? Semmai, di deputati Cinque Stelle. Quasi un'ammissione, insomma. Anche su questo punto il movimento fondato dalla giornalista Annalisa Chirico chiede a Pg e Csm di intervenire. In sostanza, si sollecita un procedimento disciplinare su Davigo o, almeno, una pratica in prima commissione sull'incompatibilità con il suo ruolo di magistrato di Cassazione. «Non spetta a un magistrato - sostiene su Il Foglio Claudio Galoppi, togato al Csm di Magistratura Indipendente e presidente della VII commissione - esprimere valutazioni morali sulle scelte processuali. La prescrizione è un diritto riconosciuto al cittadino, non un salvacondotto per disonesti. Non esiste alcuna equiparazione tra prescrizione e colpevolezza». Per Galoppi, Davigo dovrebbe anche smentire la notizia degli incontri con i grillini sull'emendamento alla legge elettorale. Altrimenti, «non potranno non esserci conseguenze». Perché «si tratterebbe di una condotta gravissima», dice. Gli amici più vicini a Davigo ora fanno pressione sul leader della corrente Autonomia & Indipendenza (nata da una scissione di MI) perché neghi la collaborazione col M5S. Per mesi si è parlato di un rapporto stretto del magistrato con il movimento, anche di una sua candidatura se non a premier almeno a ministro di un possibile governo. Lui ha ripetuto che i magistrati non devono fare politica (perché «non sanno farla») e ha continuato a passare da un convegno del M5S alla Festa del Fatto, dai talk show de La 7 a quelli della Rai. Anche ieri, da Agorà su Rai3, diceva che «la Corte dei conti che si occupa di uscite dello Stato, dovrebbe occuparsi anche delle entrate». Quanto all'eventuale azione disciplinare Galoppi spiega che a promuoverla possono essere solo Pg o ministro della Giustizia, mentre il Csm potrebbe muoversi dopo un esposto, per valutare una «condotta incolpevole ed è arduo sostenere che un magistrato che siede in uno studio tv agisca in assenza di colpa». Pochi giorni fa il Guardasigilli Andrea Orlando commentava: «Mi pare che Davigo faccia anche un po' di politica e sia portatore di idee distanti da questo governo. Ma è anche fisiologico». Fisiologico?
Legnini: "Solo in Italia le toghe passano dai talk show alle aule". Il vicepresidente del Csm: "Non ci sono norme che arginino il fenomeno che porta dalle prime pagine dei giornali a ruoli di rilievo". Sulle carriere di giudici e pm: "Sempre più distinte", scrive il 6 ottobre 2017 "Il Foglio". "In nessun Paese europeo è consentito passare con tanta facilità dai talk show o dalle prime pagine dei giornali a funzioni requirenti e giudicanti, fino alla presidenza di collegi di merito o della Cassazione", ha detto il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, al congresso dei penalisti. Legnini non ha fatto riferimenti diretti a Piercamillo Davigo, sottolineando che "non ci sono norme per arginare questo fenomeno". "Risolvere questo problema - ha spiegato - è un dovere che spetta a tutti i protagonisti che tengono al rispetto, sacrosanto, dell'indipendenza della magistratura che anche i cittadini devono percepire. Non è in discussione la libertà d'espressione, ma - ha chiarito il vicepresidente del Csm - c'è bisogno di recuperare senso di responsabilità e un esercizio equilibrato delle funzioni". Legnini si è poi espresso sul Codice Antimafia, augurandosi che "possa essere interpretato e applicato in modo che le misure di prevenzione siano adottate nel rispetto dei diritti e delle garanzie fondamentali di ciascuno". In merito alla divisione delle carriere di giudici e pm il vicepresidente del Csm ha ribadito di rispettare l'iniziativa dell'Unione delle Camere penali, che sta raccogliendo le firme per chiedere la separazione delle carriere dei magistrati. Una mossa, secondo Legnini, non necessaria: "Nei dieci anni di attuazione della riforma nell'ordinamento giudiziario il principio della distinzione delle funzioni è andato via via consolidandosi e i percorsi professionali di giudici e pm stanno andando sempre più distinguendosi. La vostra associazione - ha poi sottolineato - sta conducendo una battaglia molto forte, sforzandosi di rifuggire da un'impostazione ideologica. Non so come andrà a finire, ma so che si tratta di un tema divisivo".
I giudizi morali del pm e i danni di immagine per l’ordine giudiziario. Parla Galoppi. Intervista di Annalisa Chirico del 5 Ottobre 2017 su "Il Foglio".
Dottor Galoppi, su La7 il presidente Davigo ha detto che chi non rifiuta la prescrizione deve vergognarsi.
“Sta scherzando, vero?”.
Sulle prime Claudio Galoppi stenta a crederci. In magistratura dal 1997, Galoppi è stato sostituto procuratore a Como, poi giudice a Milano. Oggi presiede la settima commissione del Csm.
“Se il presidente Davigo ha detto così, resto allibito. Non spetta a un magistrato esprimere valutazioni morali sulle scelte processuali. La prescrizione è un diritto riconosciuto al cittadino dall’ordinamento. Un uomo di legge non può far passare l’idea che si tratti di un salvacondotto per disonesti. Il nostro dovere è applicare la legge vigente. La legge la detta il legislatore”.
A sentire Davigo, “non c’è onore nel prendere la prescrizione”.
“E’ un istituto legale con una precisa ratio: decorso un certo lasso di tempo dalla commissione del fatto, viene meno l’interesse dello stato a esercitare la pretesa punitiva. L’imputato che non rinuncia alla prescrizione agisce nel rispetto della legge”.
L’imputato prescritto non merita le stimmate del colpevole?
“Non esiste alcuna equazione tra prescrizione e colpevolezza. La seconda attiene a un giudizio di merito. Nel caso di estinzione per intervenuta prescrizione, tale giudizio non c’è”.
“So distinguere i ladri dai non ladri”, ha tuonato l’ex presidente dell’Anm. Pure lei, dottore, si ritiene dotato di questa capacità discernitiva?
“Senta, io diffido dei magistrati moralizzatori. Le generalizzazioni sono nemiche della verità. Il nostro compito è accertare responsabilità individuali in casi specifici attraverso una rigorosa ricostruzione dei fatti. Certe espressioni ultimative e assolutizzanti sono fuorvianti”. “Capisco che le pronunci un politico, non un magistrato”, continua Galoppi, giudice e membro del Csm. “Mi auguro che lei stia scherzando…”.
Io sono serissima.
“Da magistrato provo un sincero imbarazzo nel dover commentare simili sortite. In primo luogo, un giudice in servizio non partecipa a talk-show politici lanciando giudizi morali e lasciandosi andare a commenti di natura politica. Forse io vivo su Marte…”.
Davigo è tornato in Cassazione, ribadisce in ogni occasione che i magistrati non sanno fare politica, eppure corre da un convegno all’altro, partecipa alla festa del Fatto quotidiano, non sembra disdegnare il corteggiamento pentastellato.
“Osservo con enorme circospezione i casi di vera o presunta contiguità con la politica”.
Siamo tornati alla stagione degli Ingroia?
“Il danno d’immagine per l’ordine giudiziario è il medesimo. Mi ha colpito una notizia di alcuni giorni fa secondo la quale si sarebbero tenuti tre incontri tra Davigo e i vertici del M5s per mettere a punto un emendamento volto a impedire la candidatura di un noto esponente politico”.
Si riferisce alla norma ammazza-Berlusconi? Non ci sono conferme di quegli incontri.
“Io mi auguro che arrivi presto una smentita. Se Davigo non smentirà, non potranno non esserci conseguenze”.
Il modello del magistrato che parla attraverso le sentenze è passato di moda?
“Un giudice, anche in virtù delle competenze tecniche di cui è depositario, può essere interpellato riguardo a procedimenti normativi che incidono, per esempio, sul sistema processuale. Esistono tuttavia severe limitazioni volte a tutelare l’immagine di terzietà, indipendenza e imparzialità che dobbiamo preservare per essere credibili di fronte ai cittadini”.
A compulsare le cause di illecito disciplinare, si scopre che sui magistrati grava non solo l’obbligo di riserbo sui procedimenti in corso ma anche il dovere di astenersi dal “rilasciare dichiarazioni e interviste in violazione dei criteri di equilibrio e misura”. Il Csm ha le armi spuntate?
“Non abbiamo poteri diretti di censura, possiamo valutare le ipotesi di incompatibilità soltanto in relazione a condotte incolpevoli. E’ arduo sostenere che un magistrato che siede in uno studio televisivo agisca in assenza di colpa…”.
Il ministro della Giustizia e il procuratore generale della Cassazione sono titolari dell’azione disciplinare.
“Le ripeto: la notizia di un incontro politico per perfezionare un emendamento alla legge elettorale richiede una smentita. Si tratterebbe di una condotta gravissima”.
Esiste un primato morale del magistrato?
“Siamo uomini e donne in carne e ossa, tra noi ci sono professionisti e cialtroni, onesti e corrotti, come in ogni categoria. Anche noi commettiamo errori, per questo esistono le impugnazioni. Mi dispiace che certe uscite pubbliche gettino discredito sull’intera magistratura. Prestiamo un giuramento di fedeltà alla Repubblica. Forse io sono un romantico idealista ma la toga, mi lasci dire, va indossata con lealtà e rispetto”.
La prescrizione non si tocca, lo ha ribadito la Cassazione. Rigettato il ricorso del procuratore generale di Belluno per un procedimento per frode fiscale, scrive Damiano Aliprandi il 27 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Salvaguardata, ancora una volta, la prescrizione e il diritto alla determinatezza del nostro ordinamento giudiziario grazie a una sentenza della Cassazione (n. 4709/18 depositata il 18 ottobre). Sono ancora gli effetti della sentenza della Corte europea dei diritti umani “Taricco” e l’altra “Taricco bis” che riaffermò il “primato del diritto dell’Unione” quale dato acquisito nella giurisprudenza costituzionale, ai sensi dell’art. 11 della Costituzione, condizionato all’osservanza dei “principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona”. Il problema si è riproposto quando il Tribunale di Belluno, nel 2016, aveva dichiarato di non doversi procedere nei confronti di due imputati per evasione fiscale in quanto i reati dovevano considerati estinti per prescrizione. Il procuratore presso la Corte di appello di Venezia, però, ha impugnato il provvedimento in Cassazione ritenendo che fosse stato disatteso il principio affermato dalla Corte di giustizia Ue (causa dell’ 8 settembre 2015) che porterebbe alla disapplicazione degli articoli 160 e 161 codice penale sulla prescrizione delle frodi gravi in materia di Iva. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso sulla scorta della successiva sentenza “Taricco bis”, intervenuta in seguito alla questione pregiudiziale sollevata dalla Corte Costituzionale che aveva rilevato un’ipotesi di incompatibilità, perché riteneva che la decisione (“Taricco”) fosse non conforme ai principi di determinatezza delle norme di diritto penale sostanziale, oltre che a quello di impedire l’arbitrio applicativo del giudice. Per questo la Consulta chiedeva ai giudici europei un’interpretazione “correttiva”. E così fu: infatti con la sentenza “Taricco bis”, la Cedu cercò una mediazione tra i principi della sua precedente decisione e le esigenze di tutela dei principi costituzionali interni. Anche la Cassazione quindi con questa pronuncia di rigetto sembra accogliere e fare proprio quello che la Cedu aveva statuito nel tentativo di andare incontro alle esigenze di costituzionalità del diritto nazionale in tema di principio di legalità. “I giudici nazionali competenti, quando devono decidere, nei procedimenti pendenti, di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione, sono tenuti ad assicurarsi che i diritti fondamentali delle persone accusate di avere commesso un reato siano rispettati”, questo scrisse la Cedu per non dimenticare il principio di legalità in termini di determinatezza del diritto e l’irretroattività della legge penale. È la stessa Consulta che prende atto di questo tentativo di mediazione e, con sentenza ( 115/ 2018), a seguito della “Taricco bis” si pronuncia confermando che è demandato alle autorità giudiziarie nazionali “il compito di saggiare la compatibilità della “regola Taricco” con il principio di determinatezza in materia penale”; in più la Consulta aggiunge che, in tale evenienza, per giungere a disappliessere care la normativa nazionale in tema di prescrizione, è necessario che il giudice nazionale “effettui uno scrutinio favorevole quanto alla compatibilità della “regola Taricco” con il principio di determinatezza, che è sia principio supremo dell’ordine costituzionale italiano, sia cardine del diritto dell’Unione, in base all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. Il procuratore generale aveva richiamato la “Taricco” e la successiva sentenza della Corte di Cassazione del 17.9.2015, ma la Corte di Cassazione non accogliendo le sue argomentazioni, ha ritenuto di obiettare i principi “correttivi” inseriti nella cd “Taricco bis”, riconoscendo al giudice nazionale di aver salvaguardato le norme interne rispetto alle statuizioni della “Taricco” che era in contrasto con la determinatezza del diritto applicabile interno.
Codice riformato e depenalizzazioni. Che ne dice il Fatto? Note a margine dell'articolo di Peter Gomez sulla prescrizione di Massimo Bordin del 3 Novembre 2018 su "Il Foglio. Ieri sulla prescrizione il Fatto ha pubblicato due articoli uno dei quali merita un approfondimento. Peter Gomez ha intelligentemente evitato di compiacere un sentire diffuso fra i lettori del suo giornale e non ha imputato il fenomeno, che è comunque meno esteso di quanto chi legge i giornali sia indotto a credere, alle attività dilatorie dei difensori degli imputati. Peraltro la melina difensiva con le leggi attuali è praticamente impossibile. Gomez addebita il problema al numero spropositato dei processi che si celebrano e alla riforma che ha modificato il rito processuale da inquisitorio ad accusatorio. La relazione fra le due questioni non è banale e offre lo spunto per un dibattito razionale e non urlato. Troppi processi? Giusto, anzi sacrosanto. Si tratta di un fenomeno che alcuni giuristi e molti sociologi chiamano da qualche decennio pan-penalizzazione. In parole povere molte controversie che potrebbero essere risolte in altre sedi intasano le cancellerie dei tribunali penali. La soluzione dovrebbe essere un’ondata di depenalizzazioni. Difficile credere che al Fatto approverebbero. Quanto al codice riformato, Gomez nota che se la prova deve formarsi in dibattimento, il lavoro di indagine dei pm si duplica e questo allunga i tempi, pur migliorando le garanzie. Verissimo, ma va pure notato che se il 70 per cento delle prescrizioni matura nella fase delle indagini quando la duplicazione non si è ancora verificata, è difficile definirla la causa principale. Il tema però è importante perché un bilancio della riforma andrebbe fatto, considerato che risale al 1987 ma pur essendo passati trent’anni se ne discute ancora come se l’avessero approvata l’anno scorso.
Prescrizione: tu quoque, Lilli Gruber…, scrive Piero Sansonetti il 31 Agosto 2018 su "Il Dubbio". La polemica. Persino Lilli Gruber, che pure è una giornalista molto esperta, intelligente e di ottima cultura, ieri non ha resistito alla tentazione di gettarsi, lancia in resta, contro la prescrizione. Indicandola come il simbolo e il cuore dei problemi della giustizia italiana. Lo ha fatto scrivendo sul “7” (il settimanale del Corriere della Sera), in risposta alla lettera di un lettore. Tu quoque, Lilli Gruber, appoggi la campagna contro la prescrizione? Questo lettore (Mauro Chiostri), dopo una serie di osservazioni molto serie e garbate sui politici che hanno usato il disastro di Genova come ottima occasione per fare propaganda, tocca, con una certa indignazione, il tema della prescrizione, sostenendo che probabilmente salverà tutti i colpevoli. Lilli Gruber gli risponde dandogli ragione, e raccontando di come, all’inizio degli anni settanta, per poche settimane la prescrizione non salvò alcuni dei responsabili del disastro del Vajont. E infine esprimendo l’augurio che il nuovo governo sia in grado, su questo terreno, di dimostrare le proprie capacità riformatrici. Intendendo dire immagino – che il governo- Conte potrebbe dar prova delle sue capacità attuando il programma dei 5 Stelle e abolendo, o almeno allungando molto, i termini di prescrizione. Del disastro del Vajont abbiamo già parlato nei giorni scorsi. E’ stato una delle più grandi tragedie nazionali del dopoguerra. Quasi duemila morti travolti da una inondazione gigantesca e violentissima che ridusse in sassi e polvere un intero paese, Longarone, in provincia di Belluno. L’inondazione fu provocata da un pezzo del monte Toc, che si staccò e piombò nel bacino della diga, appunto la diga del Vajont (che è ancora lì, forte e maestosa) che era una costruzione recente e realizzata ad opera d’arte in tutto e per tutto tranne che per un particolare: il rischio di frana del Monte Toc, che i geologi conoscevano e che alcuni giornalisti coraggiosi avevano denunciato, prendendosi improperi e sberleffi da imprenditori, politici e dai mostri sacri del giornalismo italiano.
Eravamo nel novembre del 1963. Il processo si concluse otto anni dopo. Effettivamente alla vigilia della prescrizione. Allora c’era un altro codice di procedura penale, un’altra magistratura, un’altra stampa. Anche il codice penale era diverso, molto meno attento ai reati ambientali. Le imputazioni contro i responsabili furono abbastanza leggere, e questo accorciò i termini di prescrizione. I due imputati maggiori furono condannati a sei e a quattro anni e mezzo di prigione.
Oggi, per Genova, c’è il rischio della prescrizione? Naturalmente, essendo passati pochi giorni dalla tragedia del ponte crollato, è difficile immaginare se ci saranno imputati, per quali reati, e in che tempi. E’ un’indagine molto complessa, e individuare le responsabilità non sarà facile. La frase del premier Conte (“non possiamo aspettare i tempi della giustizia”) è stata infelice, una vera e propria gaffe, fortunatamente criticata un po’ da tutti. Quello che sappiamo è che i rischi di prescrizione, se saranno individuati gli imputati, sono molto bassi. Proviamo a immaginare i reati. Disastro colposo e/ o omicidio plurimo colposo. Nel primo caso credo che la prescrizione potrebbe scattare dopo 12 anni, nel secondo caso (abbastanza probabile perché ci sono 43 morti) credo che la prescrizione scatti dopo 30 anni.
Basteranno? Ammettiamo anche – per assurdo – che non bastino, e che nell’agosto del 2048 il processo sia ancora in corso. Sarebbe in quel caso giusto o no cercare di andare avanti per condannare magari nel 2040 o nel 2045 eventuali imputati rimasti in vita e ragionevolmente ultraottantenni? Vedi, amica Gruber, il problema è questo: nel “senso comune” ormai è affermatissima l’idea che il male della giustizia sia la prescrizione, e che la prescrizione sia una norma salva- manigoldi, abilmente usata dagli avvocati, e voluta sostanzialmente da Berlusconi per coprire i suoi magheggi. Beh: è una fake news. Esattamente come tante altre fake news che avvelenano il nostro dibattito politico, a partire da quelle su l’invasione dei migranti, sull’aumento degli sbarchi, sull’impennarsi della criminalità, e sull’aumento esponenziale della corruzione politica. La prescrizione non è affatto il male della nostra giustizia, non è affatto un marchingegno degli avvocati, non è affatto un’invenzione di Berlusconi: è semplicemente una misura che in parte – solo in parte – attenua gli effetti deleteri di una giustizia lentissima e che funziona male. E’ chiaro che uno dei nostri problemi è la lentezza della giustizia. I tribunali sono intasati. Non si risolve sicuramente questo problema concedendo ai magistrati il diritto al processo infinito. Il processo infinito è peggio del processo lunghissimo. E ha tra i suoi effetti quello di rendere ancora più lunga la giustizia. Il processo sul Vajont, nelle sue ultime fasi, fu affrettato proprio per evitare la prescrizione. Altrimenti sarebbe durato anni ancora. La prescrizione è una misura che serve a garantire un minimo di giustizia. Il diritto a un processo giusto e rapido, affermato nell’articolo 111 della Costituzione, riguarda sicuramente le vittime dei reati, ma anche gli imputati. I quali, per altro, come si sa, non sempre sono colpevoli. La lunghezza del processo è già una condanna insopportabile e sommamente ingiusta per un imputato innocente. Ma è una ingiustizia anche una condanna che arriva venti o trenta anni dopo il reato, quando l’imputato è una persona molto diversa da quella che aveva commesso il delitto. Poi c’è un’altra cosa da dire, così, solo perché si sappia: non è vero che sono gli avvocati quelli che lavorano per giungere alla prescrizione. Nel 70 per cento dei casi la prescrizione scatta prima che il processo cominci, e dunque prima che l’avvocato possa neppure iniziare a muoversi. Vedi, Gruber, quanti luoghi comuni? Sono molto pericolosi perché spingono l’opinione pubblica a scagliarsi contro il diritto alla difesa e al giusto processo. Specie in coincidenza con le grandi emozioni nazionali, prodotte da sciagure come quella di Genova. Ma allora come si può fare per sveltire la giustizia? Bisognerebbe investire un po’ di soldi, per rafforzare le strutture e aumentare il personale. Questo è essenziale. E poi si potrebbero fare alcune piccole riforme a costo zero. Per esempio: abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, rinuncia all’appello da parte dell’accusa (come in molti paesi occidentali), responsabilità civile dei magistrati. Poi io penso che si potrebbe prendere un’altra misura molto utile (richiesta da anni dagli amici radicali: una robusta amnistia. Piccole cose? No, probabilmente dimezzerebbero i tempi della giustizia, senza offendere lo stato di diritto. Il problema è che non piacciono a una parte della magistratura. Che è sempre riuscita a bloccarle.
Se La Repubblica vuole ancora più processi, scrive Giovanni Torelli su “L’Intraprendente” il 15 febbraio 2016. No, alla sinistra non basta la quantità abnorme di processi penali che si celebrano ogni anno in Italia e di quelli ancora pendenti (sono circa 3 milioni e mezzo). Ne vuole ancora di più, perché desidera un sacco alimentare sia la macchina della Burocrazia che quella del Giustizialismo. E così, in un dossier pubblicato lo scorso sabato, la Repubblica lamenta il fatto che, per colpa della prescrizione troppo breve voluta dalla legge ex Cirielli del 2005, nel nostro Paese vengano cancellati ogni anno circa 130mila reati. E che quindi altrettanti presunti colpevoli restino inevitabilmente impuniti…Insomma, alla macchina già ingolfata della giustizia italiana (la cui inefficacia non è certo colpa della prescrizione troppo breve, semmai della lentezza di certi magistrati) la Repubblica vorrebbe aggiungere un ulteriore carico, appoggiando l’ipotesi di riforma voluta dal ministro della Giustizia Orlando, che intende allungare di tre anni per tutti i processi penali i tempi della prescrizione. Il sovraccarico potrebbe essere facilmente calcolabile: “riabilitando” 130mila processi annui è verosimile che in un decennio i processi ancora pendenti in Italia diventino circa 5 milioni. Che dire, un’ideona…E vabbè, uno dirà, non è giusto che 80mila fascicoli non arrivino neppure in sede di dibattimento ma vengano bloccati dalla scure della prescrizione già in fase di indagini preliminari; ed è ingiusto che la giustizia non faccia il suo pieno corso, “costringendo” oltre 23mila processi a fermarsi in primo grado per raggiunti limiti di tempo e altri 24mila a bloccarsi in Appello per la stessa ragione. La giustizia piena vuole che siano affrontati tutti i tre gradi di giudizio, dicono loro. È una forma di garanzia verso l’imputato ma anche di sicurezza che il colpevole ottenga la giusta pena, dicono loro. Il punto vero però è che molte di quelle indagini preliminari muoiono ancor prima di addivenire a giudizio perché vengono aperte in ritardo rispetto al reato, sono fondate su prove inconsistenti, non hanno riscontri concreti e tergiversano fino a concludersi in un nulla di fatto: altroché prescrizione, molte di quelle indagini non dovevano neppure essere aperte. Se poi in fase di dibattimento quei processi si arenano fino a interrompersi, la colpa spesso è oltre che dell’oggettiva lentezza della giustizia italiana (che ha scambiato il garantismo con una dilazione immotivata di tutti i passaggi processuali) anche di una mancata operosità di chi dovrebbe invece favorire l’accelerazione di quei processi. Il fardello pendente dei processi mai portati a compimento, per capirci, grava non solo sulle spalle dell’imputato, ma soprattutto sulle coscienze di dipendenti (non sempre efficienti) dello Stato che si chiamano magistrati. E non vorremmo che la riforma della prescrizione voluta da Orlando e difesa da la Repubblica diventi una scusa per prolungare ulteriormente i tempi di lavoro dei giudici. Avranno pure le ferie più corte, adesso, ma hanno anche tre anni in più per trastullarsi con le carte di un processo…
I penalisti contro la riforma della prescrizione: «é una norma autoritaria che viola la Costituzione». I penalisti contro l’emendamento che blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Ma i 5Stelle tirano dritto, scrive il 3 Novembre 2018 "Il Dubbio". “La norma-manifesto che il Ministro della Giustizia aveva preannunciato e che gli Onorevoli Businarolo e Forciniti del Movimento 5 Stelle hanno tradotto in un emendamento al DDL anticorruzione, è espressione di una concezione autoritaria del diritto penale e del processo». Non usa mezzi termini la Giunta delle Camere penali e boccia senza appello l’emendamento voluto da guardasigilli che sospende la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. «La prescrizione nel nostro ordinamento – spiegano le Camere penali – ha un preciso significato ed è a pieno titolo uno degli elementi del patto sociale. L’istituto della prescrizione ha origini antiche e chi oggi ipotizza la sua sostanziale abolizione è disposto a cancellare conquiste della civiltà giuridica pur di ottenere risposte di vendetta sociale in nome di una efficienza che lo Stato non sa altrimenti garantire». I penalisti poi confermano lo stato di agitazione, in difesa dell’articolo 111 della Costituzione che garantisce la ragionevole durata del processo. Ma i 5Stelle sembrano tirare dritto e sulle presunte incomprensioni con la Lega, che a quanto pare ha molti dubbi sulla prescrizione immaginata dal ministro Bonafede – Di Maio risponde: «Lo stop alla prescrizione è entrata nel contratto di governo» prevedendo «che la decorrenza dei termini si ferma dopo il primo grado di giudizio». La riforma della prescrizione dunque «si farà, magari ci sono dei problemi interni alla Lega, non lo so e non mi interessa», scrive il vicepremier su Facebook, sottolineando: «Questo è il governo del cambiamento, non difende i furbi ma gli onesti». E poi: «Per quanto mi riguarda lo stop alla prescrizione deve entrare nella legge spazza- corrotti perché la prescrizione oggi è la legge dei furbi», continua il vicepremier Di Maio: «In questo paese, i più grandi furbetti del quartierino si sono salvati dai processi grazie alla prescrizione. Con la prescrizione si sono salvati grandi personaggi tra cui Licio Gelli. Bisogna arrivare a processo».
«Fermatevi o è rottura coi penalisti». «Se resta l’emendamento sulla prescrizione, con noi penalisti non c’è più dialogo». Lo dice Eriberto Rosso, segretario dell’Unione Camere Penali, scrive Errico Novi il 7 Novembre 2018 su "Il Dubbio". «Astensione: la risposta sarà questa. Se il governo non torna indietro, se il ministro non corregge la traiettoria sulla prescrizione, sicuramente i penalisti italiani si asterranno. Ci sarà una grande risposta, come è chiaro dall’indignazione che attraversa in queste ore l’avvocatura penale». Eriberto Rosso è da pochi giorni segretario dell’Unione Camere penali. È lui che il nuovo presidente Gian Domenico Caiazza ha voluto come più prossimo compartecipe della difficile sfida che gli è toccata. Insieme hanno visto il guardasigilli Alfonso Bonafede ieri mattina, a via Arenula. E Rosso, avvocato fiorentino da tempo impegnato nella politica associativa, è come se guardasse con occhi pieni di sconcerto al terremoto che sembra battezzare il suo incarico».
Il ministro vi è sembrato disposto a riconsiderare tempi e sostanza della modifica sulla prescrizione?
Mi pare disponibile a ragionare su una via d’uscita. Anche per ragioni di equilibri interni alla maggioranza. Ci è sembrato aperto a riconsiderare quanto meno la forma davvero misera in cui i deputati del suo gruppo hanno formulato l’emendamento. Spero che la maggioranza rifletta, di fronte alla mobilitazione degli avvocati, allo stupore della parte più sensibile della magistratura, di fronte ai tanti giuristi che hanno reagito in maniera chiara».
E se invece resta il blocco dopo la sentenza di primo grado?
«La nostra risposta sarà dura. In questi casi le Camere penali sanno coniugare opposizione netta e in- transigente con la capacità di offrire un contributo di approfondimento. Ci asterremo e non resteremo a guardare. Intanto, di fronte al pasticcio combinato sull’emendamento, va accolta la dichiarazione del presidente della Camera, Fico, che assicura di voler verificare la correttezza della procedura. Una cosa è certa: si tratta di un colpo di mano ingiustificabile. Tanto che anche la maggioranza sembra esserne squassata. Ma a Bonafede abbiamo fatto notare anche altro».
Cosa?
«Da una parte abbiamo apprezzato il modo in cui è corso ai ripari dopo quella frase, quell’“azzeccagarbugli” che, ci ha spiegato, è stata una voce dal sen fuggita. Gli abbiamo dato atto di aver sùbito telefonato a noi e al presidente del Cnf Mascherin. Ma nel ddl Anticorruzione ci sono diversi altri aspetti che paiono frutto del populismo più sprovveduto. Cito la non punibilità dell’agente provocatore, confezionata con delle limitazioni concepite per scongiurarne l’incostituzionalità ma chiaramente inefficaci. Lo avevamo detto già in audizione. Ma certo se non si toglie di mezzo l’emendamento sulla prescrizione, gli spazi di confronto si azzerano».
Qual è la conseguenza più grave di quella modifica?
«Premessa: agirà, in concreto, fra almeno una decina d’anni, a meno di non abbattere quel principio elementare per cui la norma penale sostanziale opera solo sui reati futuri. Ma in termini di principio, ci rendiamo conto o no, che se si dice ‘ da quel momento la prescrizione non opera più’, si resta sotto la scure del processo per un tempo indefinito? E ancora, ci si rende conto o no, che se il pm impugna un’assoluzione, la persona si trova con l’incubo di una condanna in appello che può travolgerlo senza limiti di scadenza? È incredibile».
Se invece il ministro aprisse un tavolo con avvocati e magistrati, ci andreste?
«Se si tratta di discutere su cosa non funziona nel processo penale, sulla stratificazione di norme che hanno scombinato il modello accusatorio e ingigantito per esempio i poteri del pm, andremmo sicuramente a discuterne. E se in un simile quadro di revisione dicessero di voler parlare anche di prescrizione, andremmo a dire la nostra e a sentire cosa hanno in mente. Non ci sottraiamo. È la proposta avanzata dal presidente Mascherin e l’Ucpi sarebbe senz’altro un interlocutore attivo. Se invece l’idea è di proporci una pacchetto chiuso e concederci solo di dire cosa ne pensiamo, noi penalisti reagiremo con gli strumenti che siamo in grado di mettere in campo e coglieremo l’occasione per condurre una grande opera di sensibilizzazione nella società, per additare i rischi a cui si espone lo Stato di diritto».
Un’ultima cosa. Alla maggioranza dell’Anm lo stop della prescrizione piace: ma crede che le toghe sarebbero pronte a invitare esse stesse la politica a una riflessione pur di non perdere del tutto l’interlocuzione con l’avvocatura?
«Ci muoviamo per questo. Non solo me lo auguro, ma sono convinto che possa andare proprio così. E ne trovo validi auspici nelle parole pronunciate al nostro congresso di Sorrento da magistrati come il procuratore di Napoli Melillo e la segretaria di Md Guglielmi. Mi sembra che in tanti, anche nella magistratura associata, siano interessati al confronto».
L’ARTICOLO 111 PARLA DI RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO: UNA DURATA CHE PUÒ ESSERE INFINITA È RAGIONEVOLE?»
De Luca: “Bonafede e blocco prescrizione? E’ notte fonda nella giustizia. Da oggi lui si chiamerà ministro Bonanotte”, scrive Gisella Ruccia il 2 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Giustizia? E’ notte fonda, è buio pesto. Una mattina si è svegliato il ministro Bonafede, che da oggi in poi si chiamerà “il ministro Bonanotte”, e propone di eliminare dopo il primo grado di giudizio i termini delle prescrizioni”. Così, su Lira Tv, il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca commenta l’emendamento al ddl Anticorruzione, annunciato dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. E aggiunge: “Secondo il ministro, i processi possono durare in eterno, così le persone perbene e quelle innocenti avranno la vita rovinata, perché non puoi vivere per decenni con problemi irrisolti. Si avrà anche un ulteriore aggravio del sistema giudiziario e violeremo un principio costituzionale che obbliga l’Italia a garantire un processo in tempi ragionevoli. Tu non puoi sospendere la vita di una persona perché non hai un sistema giudiziario efficiente. Questo” – continua – “sarebbe un altro passo gigantesco verso la barbarie, verso la cancellazione dello Stato di diritto, che già in buona parte è stata acquisita nel nostro Paese. L’Italia, che era il Paese del diritto, approva norme che calpestano lo Stato di diritto, a cominciare da alcune norme previste dalla legge Severino”. De Luca sottolinea: “Mi auguro che non si vada avanti in maniera scapigliata, come vorrebbe il ministro ‘Buonanotte’. Le opposizioni faranno la battaglia che riterranno di fare. Ma l’opposizione, a cominciare dal Pd, deve anche fare qualche autocritica. Sui temi della civiltà del diritto e dello Stato di diritto anche il Pd ha avuto cedimenti drammatici e irresponsabili negli anni passati. Speriamo che almeno adesso si redimano”.
Fine-processo mai: e la Costituzione? Intervista a Padovani. «Hanno inventato la categoria del processo eterno». A dirlo, con amara ironia, è Tullio Padovani, uno dei maestri del Diritto penale in Italia, scrive Errico Novi l'1 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Ride. Non riesce a trattenersi. «Sa, io da un po’ sono stato accolto nell’Accademia dei Lincei. Forse sbagliano. L’Accademia è per gente che studia, pondera e riflette bene prima di esprimersi. Io sono uno che mena le mani». E invece qui il professor Tullio Padovani, maestro del diritto penale, avvocato e studioso che continua a formare schiere di giuristi alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, ride proprio perché ha capito benissimo. Ha colto la gigantesca irrazionalità dell’ultima “riforma” sulla prescrizione. «La fanno per usarla come slogan. Avrà i suoi effetti non prima di 4 o 5 anni, perché la prescrizione è principio di diritto sostanziale e le novità non potrebbero applicarsi a un reato commesso prima della loro entrata in vigore. Poi la modifica sarà dichiarata incostituzionale, mi pare evidente. Ma intanto si fa baccano. E si allungano i processi in corso».
Perché, professore?
«Semplice: ci sarà un’ubriacatura generale. Intanto il magistrato saprà che gli basta chiudere il primo grado un minuto prima che scatti la prescrizione. Poi le fasi successive del processo potranno durare anche in eterno. Hanno inventato la categoria del processo eterno. Non posso trattenere il riso perché in questo emendamento c’è anche un aspetto comico. Ma poi certo, ci si rende conto di quanto siano difficili e pericolosi i tempi in cui ci tocca di vivere».
Partiamo dall’aspetto comico.
«Nell’emendamento è scritto che la prescrizione è sospesa. Fino a quando? Scrivono: fino al giudicato. O alla irrevocabilità del decreto di condanna. C’è un dettaglio: a quel punto la prescrizione non può più decorrere. Non c’è più tempo. Che senso ha usare la parola “sospensione”? La sospensione è una parentesi. Qui la parentesi non si chiude. È uno strafalcione che rivela l’atteggiamento davvero approssimativo con cui è stato formulato l’emendamento. Dopodiché mi pare chiaro che sia incostituzionale».
Ci spieghi esattamente anche la ragione dell’incostituzionalità.
«La prescrizione da noi ha due anime. Una obbedisce al principio per cui su un determinato reato, dopo che è trascorso tanto tempo, viene meno l’interesse sociale a realizzare la prevenzione che la legge penale assicura. Si impone il trionfo dell’oblio. L’altra anima è nella necessità di dare seguito a quanto previsto dall’articolo 111: la legge assicura la ragionevole durata del processo. Così il processo invece diventa potenzialmente eterno. Durata eterna vuol dire durata ragionevole? Non credo».
Il ministro della Giustizia ha risposto in via preventiva: abbiamo stanziato 500 milioni per assumere magistrati e personale in modo da fronteggiare il maggior carico processuale che deriverà dalla “nuova” prescrizione.
«Dimentica che ogni legislatura ha la sua disgrazia e che in quella precedente si è materializzata con la riforma Orlando. Lì si è già introdotta una bella franchigia rispetto al bilanciamento fra il trionfo dell’oblio e il cosiddetto rito della memoria che si rinnova negli atti qualificanti del processo. Con quella modifica si è regalato un bonus complessivo di tre anni rispetto al naturale decorso della prescrizione, due anni in particolare previsti per l’appello. Le assunzioni servirebbero per rimediare a tale già criticabile novità. Adesso invece si altera del tutto il sistema».
L’allungamento dei tempi sarà inevitabile?
«Nei processi senza detenuti non c’è la sollecitazione dei termini di custodia cautelare, che si rinnovano fase per fase e mettono fretta: laddove viene meno il timore di finire sui giornali per un imputato di mafia rimesso in libertà, è la prescrizione a sollecitare il ritmo del processo. Ma con l’abolizione dopo il primo grado, l’appello si potrà fare dopo quattro o cinque anni, la Cassazione quando parrà più comodo. Certo, è insensato pensare che la modifica appena presentata passi il vaglio di costituzionalità. Ma intanto l’ubriacatura generale raddoppierà la durata dei procedimenti per i reati successivi all’entrata in vigore della norma».
Con un bel po’ di indagati ricattati dall’incubo di restare a vita nelle mani del pm: la prescrizione verrebbe bloccata persino se assolti in primo grado.
«Certo. Ho sostenuto a suo tempo che il pm non può presentare appello contro sentenze di non colpevolezza. Il povero Pecorella ne trasse spunto per la sua famosa legge, la Consulta presieduta ne dichiarò l’incostituzionalità con una pronuncia molto criticabile. Fatto sta che se un giudice ti riconosce innocente, a seguito di un rito regolare, fuori dai casi di nullità dovuta per esempio a prove assunte in modo illegittimo, nessun altro giudice potrà mai riformare quel giudizio e condannarti oltre ogni ragionevole dubbio. Tanto è vero che nei Paesi civili, e non barbarici, l’appello del pm in caso di assoluzione non esiste. Anziché procedere in quella direzione ne scegliamo una diametralmente opposta ai princìpi di uno Stato liberale di diritto».
Si cancella anche la norma della ex Cirielli che non consentiva di far decorrere la prescrizione dal reato più recente di una serie continuata di delitti.
«Quella riforma fu necessaria dopo che con Vassalli si erano allargate le maglie in modo da poter scorgere la continuazione tra reati anche molto diversi. Quella di Vassalli fu una scelta deflattiva che impose la modifica introdotta con la ex Cirielli. Se con l’emendamento Bonafede tale modifica va a farsi benedire, si consegna al giudice il potere di stabilire se c’è un unico disegno criminoso e quindi se un reato altrimenti già prescritto può ancora essere perseguito. In eterno. Viene di nuovo da ridere. Ma è anche una scorciatoia per non cedere allo spavento».
Giustizia alla frutta. Spesi 84 milioni per i fascicoli "scaduti". Secondo “Il Giornale”: Migliaia di casi l’anno in prescrizione, ma lo Stato paga lo stesso. E per recuperare un credito servono 1.200 giorni. Spendiamo tanto. Troppo. E abbiamo sempre l’acqua alla gola. La giustizia tricolore è una macchina scassata. Non funziona quella penale, va male quella civile, le aule sono intasate da milioni di procedimenti e i giudici assomigliano a quel bambino che voleva svuotare il mare con un secchiello. I dati - le analisi di Confindustria, Confartigianato, Banca d’Italia e Banca Mondiale - sono impietosi: basti dire che il 42 per cento dei detenuti è in custodia cautelare. In poche parole, stanno in cella ma l’iter giudiziario è ancora in corso e potrebbero essere assolti. Anzi, per dirla con il paradosso formulato da Carlo Nordio, si entra in cella da innocenti e si esce colpevoli. Il governo Monti ha varato una norma per alleggerire la pressione nei penitenziari, ma si torna all’oceano di prima. Forse, e anche senza forse, si dovrebbe avere il coraggio di rivedere e limitare la mitica obbligatorietà dell’azione penale, intoccabile più dell’articolo 18.
Altro rimedio è intaccare la impunità e la irresponsabilità dei giudici. In questo modo starebbero più attenti a non sbagliare. Intanto i codici si gonfiano con reati nuovi di zecca, le Commissioni - Grosso, Nordio, Pisapia - sfornano poderosi tomi che predicano nel deserto la depenalizzazione e poi vengono sigillati in un cassetto. Risultato: si aspetta alla lotteria per vedere come va a finire questo o quel procedimento; ogni anno 165mila fascicoli vanno in prescrizione, insomma la ruota gira a vuoto, con uno spreco per lo Stato di 84 milioni l’anno, calcolando prudenzialmente 521 euro a processo. Quando preture e tribunali furono unificati, nel ’96, il procuratore di Napoli Agostino Cordova trovò migliaia e migliaia di faldoni abbandonati, come merce deperita, in qualche scantinato. «La spada della giustizia - spiegò amareggiato - è fatta di latta». Il tempo non ha lenito le ferite. Anzi. Nel 2008 qualcosa di analogo è accaduto a Bologna: sono saltati fuori 3.300 fascicoli di indagini in corso, chiusi a chiave in un armadietto e dimenticati. Ovviamente molti di quei reati, furti e ricettazioni, sono caduti in prescrizione.
Basta. Tempo scaduto. Non c’è più sabbia nella clessidra della giustizia. Si viaggia a velocità ridotta, a passo d’uomo. Eppure l’andatura rilassata non elimina gli errori, o, forse, fa venire ai giudici, che esaminano e riesaminano le pratiche, dubbi su dubbi fino a capovolgere i verdetti. Dalla colpevolezza all’innocenza, qualche volta, raramente, sul cammino inverso. Così ogni 12 mesi si affrontano nelle aule oltre 2mila procedimenti per ingiusta detenzione, o addirittura, per errore giudiziario. Quello che non dovrebbe mai accadere, perché viene scoperto a tempo scaduto, quando la sentenza era divenuta, come si dice, irrevocabile. Con il timbro della Cassazione. E invece capita che debba essere revocata, con tante scuse e con un assegno sostanzioso per gli anni passati dal malcapitato di turno in qualche carcere. È quel che si sta delineando per un manipolo di disgraziati, ingiustamente spediti all’ergastolo per la strage di via D’Amelio, in cui morì Paolo Borsellino con la scorta. Nel solo 2011, secondo il Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria del ministero della Giustizia, lo Stato ha erogato risarcimenti per 46 milioni di euro. Sul fronte del civile, l’ultimo governo Berlusconi e poi l’esecutivo Monti hanno alzato il muro della mediazione obbligatoria, per fermare alla partenza i troppi fascicoli che smaniano per entrare nelle aule. Ma questo fa pensare: tra mediazione obbligatoria ed ausilio dei Giudici di Pace e dei Giudici del Tribunale onorari e dei sostituti procuratori onorari (tutti avvocati), ai togati cosa resta di fare. Forse solo politica!
È ancora presto per tentare bilanci, intanto ci teniamo i cinque milioni e mezzo di fascicoli pendenti. Molte imprese straniere girano alla larga dal nostro Paese perché considerano i nostri tribunali come sabbie mobili in cui svaniscono gli investimenti. Il governatore della Bce Mario Draghi, più sobrio, ha spiegato che una riforma seria del civile vale un punto secco del Pil. Del resto per recuperare un credito ci vogliono 1.210 giorni in Italia contro i 515 della Spagna, i 399 dell’Inghilterra, i 331 della Francia e i 300 degli Usa.
Dovunque ci si sposti si rischia di cadere male: ci vogliono dieci anni, di media, per chiudere un fallimento e nove anni per una causa davanti alla giustizia tributaria. Il sistema è tarato male da tutti i lati: gli avvocati italiani sono 240mila. Una cifra monstre. Quelli della provincia di Milano equivalgono a quelli dell’intera Francia. E Piercamillo Davigo, il dottor sottile del Pool, sottolineava che in Francia per ogni giudice operano 7,1 avvocati, da noi 26,4. Un rapporto malato. E lo Stato, in versione Pantalone, spende molto e male: 7,5 miliardi e mezzo per procure e tribunali. Più cara di noi c’è solo la Germania che però sventola una bandiera a noi sconosciuta: quella dell’efficienza.
Secondo Stefano Zurlo su “Il Giornale” "La prescrizione quotidiana" conta 466 processi. A testimoniare l’urgenza di una riforma ci sono le cifre impressionanti fornite dall'ex ministro Alfano. Per la scadenza dei termini negli ultimi dieci anni sono andati in fumo 2 milioni di procedimenti. È una strage silenziosa che si consuma giorno per giorno nelle aule dei tribunali. I procedimenti muoiono prima di arrivare alla sentenza e i giudici si trasformano in medici che ne certificano la morte. Uno spettacolo avvilente che colpisce migliaia di notizie di reato. L'ex ministro Angelino Alfano dà due numeri che rendono l’idea di quel che avviene: ogni 24 ore vengono cancellati in Italia 466 procedimenti, circa 170mila ogni anno. Centosettantamila su 3 milioni e 300mila fascicoli pendenti. Più del 5 per cento del totale. Dati impressionanti che diventano ancora più clamorosi se li si considera in fila: nell’arco di dieci anni sono spariti circa 2 milioni di processi. Una situazione che è figlia di un sistema che persegue troppi reati. E non funziona bene. Risultato: molti fascicoli vengono aperti dal gip, ancora in sede di udienza preliminare, quando è troppo tardi. Gli uffici dei gip archiviano, perché il tempo è scaduto, ben 117.463 procedimenti ogni 12 mesi. In pratica è nella stanza del gip il grande imbuto che porta via molte notizie di reato. Il 71,6 per cento del totale, secondo i dati aggiornati al settembre 2010. Le cifre, si sa, sono noiose, ma i magistrati non riescono a tenere il passo e sono costretti a selezionare: l’obbligatorietà dell’azione penale viene formalmente rispettata, ma di fatto si fanno delle scelte. Scelte che l’allora procuratore di Torino Marcello Maddalena aveva messo nero su bianco indicando in una famosa circolare del 10 gennaio 2007 le priorità. E di fatto condannando a morte i fascicoli più vecchi. «Ho preso atto dell’impossibilità di celebrare tutti i processi - aveva spiegato Maddalena in un’intervista al Giornale - è come con le tasse. Si devono pagare. Ma se uno non ha i soldi non le paga. Non c’è niente da fare».
Appunto. Cadono in prescrizione molti illeciti commessi dai colletti bianchi, cadono in prescrizione molti reati colposi. Quelli di cui non parla nessuno, ma che non sono meno devastanti, anzi umilianti, per chi li vive. Per esempio, le morti sul lavoro: per tanti incidenti non paga nessuno. Ci sono casi dolorosi come spilli che scompaiono dalle pagine di cronaca con due righe. Come, per citarne uno, il dramma di Niccolò Galli, giovane e promettente calciatore del Bologna, il figlio di Giovanni, per molti anni portiere del Milan. Niccolò muore il 9 febbraio 2001 a 17 anni andando a sbattere con il ciclomotore contro un pezzo del guard-rail rovinato.
Anzi, rotto, con uno spuntone che esce pericolosamente e si conficca nella pancia dello sfortunatissimo giovane. In primo grado, nel 2007, tre tecnici del Comune di Bologna e delle coop, che avevano partecipato ai lavori di manutenzione, vengono condannati per omicidio colposo. In appello, l’inevitabile prescrizione. La storia finisce in niente. La macchina giudiziaria ha girato a vuoto, ma quel che lascia sgomenti è l’atteggiamento che la giustizia ha tenuto nei confronti di una famiglia già provata dalla terribile tragedia: nessun rispetto per il dolore. La sofferenza entra nel circuito della burocrazia e non conta più nulla. Dieci anni non sono stati sufficienti. Del resto, il nostro Paese deve fare i conti con una disciplina particolare: l’archeologia giudiziaria. Si celebrano processi per reati gravissimi avvenuti venti, venticinque, trent’anni prima. Reati che non sono prescritti ma appaiono lontanissimi.
Pensiamo alla strage di Piazza della Loggia a Brescia avvenuta il 28 maggio 1974: il dibattimento di primo grado si è chiuso il 16 novembre 2010, con una raffica di assoluzioni. Per piazza Fontana è andata pure peggio: tutti assolti nel processo contro i veneti di Ordine Nuovo. Tutti assolti meno il pentito Carlo Digilio: per lui sono scattate le attenuanti e, incredibile per un fatto che è ormai nei libri di storia, è arrivata proprio la prescrizione.
Toghe, ecco le vere cifre sui fannulloni. Secondo Stefano Zurlo su “Il Giornale”: La maglia nera spetta ai gip di Catanzaro. Secondo il sistema di rilevazione voluto dall’ex Guardasigilli Castelli, nel 2008 i giudici di Bari hanno chiuso 367 processi. In Calabria? Solamente 37. Anche il Csm deve ammettere: "Un giudice su tre lavora poco". Semaforo verde a Bari, semaforo rosso a Catanzaro. L’enigma Italia raccontato attraverso i numeri della giustizia di due città vicine geograficamente, ma lontanissime quanto a efficienza. Bari è largamente in «attivo». Nel 2008 sono arrivati 25.453 fascicoli e ne sono stati smaltiti molti di più: 43.812. L’indice di ricambio che misura il rapporto fra procedimenti sopravvenuti e procedimenti definiti, è il più verde d’Italia, e si attesta al 172,13 per cento; a Catanzaro le cifre precipitano: l’indice è del 62,89 per cento, ovvero per 7.470 fascicoli nuovi ne sono stati smaltiti 4.698. È profondo rosso. Perché capita questo? È su questa pista che si era spinta negli anni scorsi la Global Brain, chiamata al capezzale della giustizia dall’allora Guardasigilli Roberto Castelli. La Global Brain non ha avuto il tempo per approfondire le cifre, ma certo se si segue la catena di montaggio dei fascicoli si scoprono altri dati sorprendenti. Se paragoniamo gli uffici del gip-gup delle due città troviamo altre incongruenze e anomalie. L’indice di ricambio a Bari è del 108,67 per cento, a Catanzaro sprofondano, ancora una volta, al 71,64 per cento. L’ufficio del gip-gup è l’imbuto in cui finiscono le inchieste della Procura. Come mai questo ritardo? Allarghiamo ancora il dettaglio: ogni gip-gup di Bari ha definito in un anno 367 procedimenti, a Catanzaro solo 37. Trecentosessantasette contro trentasette. Numeri che stridono. E che autorizzano qualche domanda impertinente sulla produttività dei singoli. E qualche proiezione ulteriore; il team di Castelli aveva calcolato la durata in prospettiva dei processi, scoprendo ancora una volta le diverse velocità: a Bari 1,23 anni, a Catanzaro 1,72. Certo, si possono sollevare altre questioni, critiche e obiezioni; si può discutere sul fatto che un procedimento non sarà mai uguale ad un altro e su mille altri punti, anche sofisticati, ma non si può sfuggire al ragionamento complessivo: si può e si deve trovare un modo per far funzionare meglio la macchina. Castelli nel 2001 aveva trovato un varco e aveva chiamato la Global Brain di Alberto Uva. Uva ha lavorato quattro anni coltivando un progetto ambizioso: sottoporre ad uno scrupoloso check up la giustizia italiana. Malandata per definizione. Una scommessa che però è stata persa: «Ci hanno attaccato in tutti i modi - racconta Uva - si è messa di traverso la corporazione dei giudici, si sono messi di mezzo alcuni burocrati del ministero, infine il colpo di grazia ce l’ha dato l’inchiesta della Corte dei conti». È la storia che il Giornale ha raccontato: il cruscotto che doveva illuminare la giustizia italiana è rimasto spento. Ma il progetto, per quanto mai decollato, era e resta valido e qualche coraggioso dirigente di via Arenula l’ha perfezionato. I dati, relativi al 2008, sono disponibili e danno un’indicazione di quel che va e soprattutto di quel che non va nel nostro apparato giudiziario. Il problema fondamentale, quello da cui era partito Castelli, è la lunghezza interminabile dei processi penali e civili. Dunque, il primo passaggio è conoscere la situazione, ufficio per ufficio, distretto per distretto, volendo giudice per giudice. Il sistema elaborato dalla Global Brain è assai semplice e suggestivo: i pallini verdi indicano quelle realtà che marciano positivamente perché il numero dei processi definiti è superiore a quello dei processi sopravvenuti.
Insomma, quelle scrivanie non producono altro debito giudiziario, ma per il loro comportamento virtuoso o, più banalmente perché hanno risorse sufficienti a disposizione, ogni anno sfoltiscono l’arretrato e dunque danno qualche certezza ai cittadini. I pallini gialli indicano quelle situazioni in stallo, né buone né cattive per usare un linguaggio un po’ forte e semplificato: qui le nuove cause equivalgono a quelle risolte. Infine, eccoci così al terzo capitolo, il più corposo, quello dell’Italia da terzo mondo: le drammatiche, talvolta scandalose situazioni di procure e tribunali che sono letteralmente sommersi da migliaia di pratiche che non riescono assolutamente ad eliminare. In queste realtà, la macchina è in grave ritardo, i procedimenti si accumulano, le cause si allungano come elastici nel tempo. È l’Italia che manda in prescrizione migliaia di fascicoli penali, è l’Italia che per una bega condominiale resta in lite dieci, quindici, anche vent’anni. «Il passo successivo - spiega Uva - sarebbe stato interfacciare questi numeri con le piante organiche degli uffici per valutare sul campo, caso per caso, le diverse situazioni». Un tribunale può essere in affanno perché le forze in campo sono insufficienti, ma naturalmente la ragione può essere anche un’altra: le energie sono dislocate male, i vertici dell’ufficio hanno organizzato le risorse in modo confuso e irrazionale. L’Italia a tre colori, dunque, a seconda delle percentuali dell’indice di ricambio, l’unità di misura studiata da Castelli e Uva per rifondare la giustizia. Una rifondazione strozzata nella culla.
PRESCRIZIONE. MANLIO CERRONI ED I 14 ANNI DI SOFFERENZA DA INNOCENTE.
Cerroni assolto dopo 14 anni di processi. L’imprenditore era accusato di associazione a delinquere, scrive Simona Musco il 7 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Non c’è mai stata un’associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti a Roma e nel Lazio. Sono serviti quasi 10 anni di indagini e quattro di processo, nonostante il giudizio immediato, per arrivare alla conclusione raggiunta lunedì, dopo otto ore di camera di consiglio, dalla prima sezione penale del tribunale di Roma: l’imprenditore Manlio Cerroni non ha commesso il fatto, dunque va assolto. Sulla testa dell’ex patron della discarica di Malagrotta pendeva l’accusa di essere capo e promotore di un sodalizio criminoso che si è arricchito smaltendo i rifiuti sin dagli anni ‘ 50, in un regime di assoluto monopolio. Reati a cui si aggiungevano la frode in pubbliche forniture, la truffa in danno di enti pubblici e la falsità ideologica commessa da pubblici ufficiali in atti pubblici. Accuse giudicate infondate e in parte prescritte, anche per quanto riguarda gli altri imputati, tra i quali l’ex presidente della Regione Lazio Bruno Landi e diversi dipendenti regionali. Per il pm Alberto Galanti, che aveva chiesto 6 anni di carcere per Cerroni, «lui determinava l’emergenza rifiuti e lui si proponeva come unica soluzione ad essa». Nulla di tutto ciò, però, secondo i giudici. Che hanno sposato, invece, la tesi della difesa di Cerroni, secondo cui la gestione dei rifiuti sarebbe stata esemplare. «Ci sono voluti 10 anni per dimostrare qualcosa sarebbe stato compreso subito se ci fosse stato un atteggiamento più dialettico da parte della Procura – spiega al Dubbio l’avvocato Alessandro Diddi -. Cerroni ha chiesto tre volte di essere ascoltato nel corso delle indagini, ma il pm non ha mai ritenuto di farlo». «L’arresto è un marchio che ti segna per tutta la vita», ha affermato in aula, prima della sentenza, il “Supremo” – come veniva definito nelle intercettazioni -, parlando di una «grande gogna mediatica» dagli «effetti devastanti». Uno «tsunami che, guidato, si è abbattuto su di me», ha dichiarato, parlando anche dello stato attuale della gestione dei rifiuti a Roma, diventata una «discarica a cielo aperto», mentre «l’Ama è prossima a Caporetto». Dal giorno dell’arresto, il 9 gennaio 2014, «è stato tutto un susseguirsi di procedimenti e fascicoli aperti nei miei confronti alla ricerca ossessiva di un reato da ascrivermi». L’ultima «umiliazione» il 21 settembre, quando si è visto interdire l’ingresso a Malagrotta dall’amministratore giudiziario nominato dalla Procura. Per il ras dei rifiuti, la batosta più grande è stata proprio l’interdittiva antimafia che ha impedito alle sue aziende di lavorare con la pubblica amministrazione, con tutto il corollario di problemi finanziari che ne è conseguito. «Ma in questo settore i rapporti si hanno solo con la pa e quella interdittiva non ha creato problemi solo a Cerroni, ma a tutta Roma – spiega Diddi -, perché gli unici impianti presenti sono i suoi. Ecco spiegato perché la città sta naufragando sotto i rifiuti». Diddi ha annunciato ricorso immediato contro l’interdittiva, «sperando che nel revocarlo abbiano la stessa velocità che ci hanno messo nell’emetterlo», ha aggiunto. E sperando anche in un totale riabilitazione del nome di Cerroni. «I giornali hanno fatto credere che il problema dei rifiuti dipendesse da Cerroni, descritto come un corruttore e un avvelenatore di falde – conclude -. Credo che questa sentenza abbia fatto chiarezza: lui non è nulla di tutto questo. La sua gestione dei rifiuti è stata legittima e se ci sono responsabilità vanno cercate altrove».
Le balle dell’ex camorrista di Fanpage su Cerroni. Manlio Cerroni: «Perrella mi accusò di fare affari con la camorra. Offrii 100mila euro al “FATTO” per avere le prove, ma non ho avuto risposta», scrive Giulia Merlo il 23 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". «Dottò, la munnezza è oro», disse il pentito Nunzio Perrella all’allora procuratore Franco Roberti. Erano gli anni Novanta e ancora si doveva scoperchiare il malaffare sulla Terra dei fuochi, lui era un ex boss di camorra del rione Traiano diventato collaboratore di giustizia. Viso sempre coperto da un passamontagna, il nome di Perrella non è mai sparito dalle cronache giudiziarie: a ventidue anni di distanza, è sua la manica che nasconde la telecamera segreta di Fanpage per l’inchiesta sui rifiuti in Campania ed era sempre sua la voce alle telecamere di Nemo e poi nell’intervista al Fatto Quotidiano, nel 2016, in cui dichiarava: «Abbiamo scaricato anche a Malagrotta, nella discarica di Manlio Cerroni». Un pentito diventato grande accusatore e agente provocatore di presunti corrotti, puntando il dito da Cerroni alla famiglia De Luca. Quando la bufera mediatica si placa, però, a terra rimangono i fatti e proprio su questi la parabola del pentito Pererella si infrange. «Il signor Perrella, dinamico e attivissimo ex camorrista, ha fatto anche me oggetto in passato delle sue “dichiarazioni di verità” ha scritto a Il Dubbio l’imprenditore Manlio Cerroni, proprietario della discarica romana di Malagrotta (il più grande sito di smaltimento d’Europa) e ancora al centro di un processo penale per traffico illecito di rifiuti-. Rilasciando un’intervista a Il Fatto Quotidiano (il 7 aprile 2016 ndr), ha parlato a ruota libera di presunti rapporti tra le organizzazioni camorristiche interessate al ciclo (illecito) dei rifiuti e la Discarica di Malagrotta a me riconducibile, dichiarandosi anche pronto a fornire prove documentali di tali asseriti rapporti». Prove che, pur richieste, non sono mai state presentate né da Perrella né da Il Fatto Quotidiano che della vicenda si è occupato. Né, in seguito alle dichiarazioni di Perrella, la magistratura ha ritenuto di aprire un fascicolo d’indagine. Al silenzio Cerroni ha risposto con una sfida, datata 6 maggio 2016 e lanciata alla redazione del quotidiano con una lettera al direttore: «Vista la vostra attitudine a occuparvi spesso di giornalismo giudiziario e visti i vostri rapporti consolidati con le Procure di tutta Italia, credo e mi auguro vogliate partecipare al concorso» con un premio di 100mila euro a chiunque dimostri con prove un suo qualsiasi rapporto diretto e indiretto con organizzazioni criminali e mafiose. «Inutile dire che nessuno ha partecipato», ha chiosato l’imprenditore. Eppure, proprio sull’attendibilità di Perrella si è fondata l’inchiesta di Fanpage: «Perrella è un pentito che le procure hanno ritenuto affidabile e utilizzato per anni. Perchè noi avremmo dovuto regolarci diversamente?», si è difeso il direttore Francesco Piccinini (indagato per istigazione alla corruzione, dopo la pubblicazione del servizio). Anche questo, tuttavia, viene smentito nei fatti dal procuratore di Brescia Sandro Raimondi, ascoltato il 31 maggio 2017 dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo del rifiuti. Il pm era titolare di un’inchiesta su un presunto interramento di rifiuti nei comuni di Brescia e Ferrara, nell’ambito della quale Perrella era stato ascoltato in seguito alla sua intervista alla trasmissione Nemo. Alla domanda diretta se il pentito sia credibile o meno, Raimondi ha dichiarato che «nel corso dell’esame, Perrella parlò molto del suo passato. Decidemmo poi di chiedere di dirci qualcosa di attuale. Fece delle dichiarazioni di principio e delle segnalazioni ma, di fatto, i nominativi che vennero da lui portati alla nostra conoscenza non ci diedero delle immediate risultanze». E ha proseguito Raimondi: «Perrella diceva di sapere i luoghi dove avevano interrato i rifiuti. Le risultanze a cui la polizia giudiziaria pervenne sono assolutamente negative, sia su personaggi (molti personaggi non vennero riconosciuti in fotografia), sia sui luoghi, che non vennero indicati». Insomma, la conclusione del procuratore è categorica: «per quella che è la mia personale opinione, egli non ha fornito allo stato elementi validi perché possano essere giustificate spese processuali di mezzi, tempo e ore uomo». In sostanza, un pentito inattendibile. L’indagine della procura di Brescia e la vicenda di Manlio Cerroni arrivano dunque alla medesima conclusione: le dichiarazioni di Perrella sono allusive, ma non reggono alla prova dei fatti. Risultato: i 100mila euro in palio del patron di Malagrotta sono ancora lì, insieme agli esiti negativi delle risultanze investigative.
MAGISTRATURA SENZA VERGOGNA.
Magistratura senza vergogna: "Sbagliato chiedere scusa oggi per il caso Tortora", scrive Gabriele Tebaldi su “Elzeviro”. A distanza di trent'anni dal caso di malagiustizia che Giorgio Bocca definì come "il più grande esempio di macelleria giudiziaria", i magistrati e giudici coinvolti continuano a darci un triste spettacolo. All'incirca una settimana fa infatti il pm Diego Marmo, il protagonista dell'accusa contro Enzo Tortora, ha rilasciato delle dichiarazioni grottesche a "Il Garantista" (un nome-invito per i magistrati?): "Adesso dopo trent'anni è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia Tortora per quello che ho fatto", così si pente il pm e ancora aggiunge "Mi feci prendere dalla foga". Una foga testimoniata dall'arringa tragicamente famosa che inchioda l'innocente Tortora con parole infamanti quali "cinico mercante di morte", pronunciate con una tale veemenza da fargli scendere una "famelica" e ben visibile bava alla bocca. Diego Marmo, auto definitosi come "assassino morale di Tortora" non ha scontato la benché minima pena per quest'errore non degno di un paese civile. Divenuto Procuratore capo di Torre Annunziata, dopo essere andato in una tranquilla e serena pensione è stato addirittura nominato Assessore alla legalità a Pompei. In questi trent'anni di idilliaca carriera non una parola di scuse nei confronti della famiglia Tortora, non un passo indietro. E le scuse di ora sembrano così un modo tardivo per pulirsi egoisticamente la coscienza. Ancora più gravi però sono le dichiarazioni di Felice di Persia, uno dei due sostituti procuratori di Napoli che diede avvio all'"impresa" giudiziaria. Non un controllo bancario, non un pedinamento, nemmeno un'intercettazione telefonica. Tutto si basò su delle testimonianze di personaggi già screditati in passato e su un nome scritto su un'agenda (che il test grafico rivelerà come "Tortona" e non "Tortora"). Questo luminare della magistratura, che divenne inspiegabilmente uno "spettabile" membro del Csm, oggi si indigna per le parole di Marmo e dice "Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che "si è pentito con trent'anni di ritardo" e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale", e ancora "Nel processo Tortora, Marmo c'entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell'accusa. A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana". Ci sembra inutile aggiungere qualcosa per commentare queste parole vergognose, pronunciate dal personaggio che ha la responsabilità diretta dell'avvio delle indagini su Tortora. Un uomo che è riuscito mettere da parte una coscienza più che sporca godendosi una gran carriera, anche lui senza una parola di scuse alla famiglia vittima di questo sopruso. Una pagina di indelebile vergogna per il mondo della magistratura, la cui responsabilità civile non è ancora regolata da legge.
La lezione choc del giudice: una toga d'onore non si pente, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. Errare, si sa, è umano. Ma perseverare, i latini insegnano, è diabolico. Perché un conto è sostenere la propria tesi. Altro però è negare l'evidenza di due sentenze, quelle che in Appello e in Cassazione hanno sancito che Enzo Tortora era innocente. Eppure Felice Di Persia, il pm che istruì con Lucio Di Pietro quel processo diventato a posteriori l'emblema della giustizia ingiusta in Italia, di questo non si cura. Anzi, con pervicace ostinazione, a trent'anni di distanza, difende (...) (...) la bontà (sic!) di quella tesi accusatoria poi franata. E non solo. L'ex pm, ormai in pensione dopo una luminosa carriera percorsa sino a Palazzo de' Marescialli, se la prende anche col pm d'udienza Diego Marmo, che con trent'anni di ritardo qualche giorno fa ha chiesto scusa alla famiglia per lo scempio della vita di Tortora. È la giustizia italiana, bellezza. La giustizia malata, oggi come allora, che può distruggere la vita di un innocente, mentre chi in toga l'ha distrutta fa carriera e non paga. Facile scusarsi adesso, come ha fatto Marmo ora che è nell'occhio del ciclone perché la sua nomina ad assessore alla Legalità a Pompei ha scatenato, visti i suoi trascorsi, le ire della famiglia Tortora. Ma facile anche non scusarsi affatto, come fa Di Persia che in un'intervista al Velino non si muove di una virgola da quella che fu la sua posizione all'epoca, quando lui, membro del Csm, fu costretto a difendersi a Palazzo de' Marescialli perché gli avvocati dell'ormai defunto Tortora chiedevano un risarcimento da 100 miliardi. Del resto, risultati alla mano, perché scusarsi? Quell'inchiesta disciplinare finì, ça va sans dire, a tarallucci e vino, con il proscioglimento di tutti e tre i magistrati finiti nell'occhio del ciclone: lo stesso Di Persia; l'altro pm istruttore, Lucio Di Pietro; e il giudice istruttore Giorgio Fontana, che però indispettito lasciò la toga per diventare avvocato. E sicuramente, per il caso Tortora, né Di Persia né i suoi colleghi hanno subito alcuna conseguenza, meno che mai stop in carriera. Anzi. Lui, Di Persia, è salito su fino in cima diventando, nel 1986, membro dell'organo di autogoverno dei magistrati, il Csm. L'altro pm che aveva istruito il processo di primo grado a Tortora, Lucio Di Pietro, è subentrato alla guida della Direzione nazionale antimafia nell'interregno tra la morte di Pier Luigi Vigna e l'arrivo di Pietro Grasso, e adesso è procuratore generale di Salerno. Per non parlare poi di Marmo, il pm che ha chiuso la carriera in toga da procuratore capo di Torre Annunziata e ora si è beccato anche il premio di consolazione, l'assessorato alla Legalità a Pompei. Il bilancio del caso Tortora, dal punto di vista delle toghe che in primo grado hanno ottenuto la condanna del presentatore, è più che positivo: nessun danno subìto, risarcimento zero ai familiari del defunto, e anzi un po' di querele vinte qua e là, contro giornalisti «rei» di avere raccontato quel processo monstre, come è accaduto nel 2011 a Lino Jannuzzi. Perché scusarsi, dunque? E infatti Di Persia, al contrario di Marmo, non si scusa affatto. Anzi, se la prende proprio con Marmo che sia pure a scoppio ritardato ha fatto mea culpa per quel «mercante di morte» attribuito a un innocente. «Non ho letto - dichiara Di Persia al Velino - quello che ha detto con precisione, ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che "si è pentito con trent'anni di ritardo" e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale». E ancora: «Nel processo Tortora, Marmo c'entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell'accusa». Infine: «A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana». Dulcis in fundo, la sentenza: «Non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura». Errare è umano, perseverare è diabolico. Marmo almeno ha sentito il bisogno di scusarsi. Di Persia invece no. Per lui il tempo si è fermato al 1988, quando Il Mattino di Napoli pubblicò le 40 cartelle dattiloscritte di cui si componeva la memoria difensiva da lui inviata all'allora ministro di Giustizia, Giuliano Vassalli. «Ministro, io sono innocente», diceva allora. E lo stesso fa oggi. E in fondo, dal suo punto di vista, ha ragione. Perché sbagliata, davvero, è una giustizia che non paga gli errori che commette.
Caso Tortora trent'anni dopo, Di Persia: “Nessun errore giudiziario”. "Se Marmo è convinto del suo pentimento deve autocancellarsi dalla vita sociale", scrive “Il Velino”. “Vuole sapere cosa penso del caso Tortora? Si legga Il Mattino di mercoledì 8 giugno 1988 quando fui costretto a difendermi in sede disciplinare e dissi Ministro anch’io sono innocente”. A primo impatto risponde così in esclusiva al VELINO Felice Di Persia il magistrato che con Lucio Di Pietro fu titolare dell’inchiesta che mise alla sbarra Enzo Tortora, il popolare conduttore televisivo. Un caso giudiziario che ancora scotta e fa discutere soprattutto alla luce delle dichiarazioni di questi giorni rilasciate al Garantista da colui che sostenne l’accusa in aula contro Tortora, Diego Marmo, oggi nominato tra le polemiche assessore alla Legalità del Comune di Pompei. Ha fatto le sue scusa per aver chiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. Da anni di Pietro e Di Persia non parlano di quel capitolo della loro storia professionale. Di Persia, contattato dal VELINO ribadisce: “Ci vogliono ore per affrontare il caso Tortora”. Dopo lunghe insistenze Di Persia commenta però le recenti dichiarazioni di Marmo. “Non ho letto quello che ha detto con precisione, ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti (compagna di Tortora, ndr) a dire che si è pentito con trent’anni di ritardo e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale. Tra l’altro avrebbe dovuto chiedere scusa anche ai circa 130 imputati del cosiddetto troncone Tortora, assolti con il presentatore". "Di quei 130 liberati, a differenza di Tortora morto in condizioni così tragiche, un numero imponente venne successivamente ammazzato in conflitti a fuoco tra clan di camorra, altri addirittura si pentirono tutti offrendo la prova ulteriore della correttezza della nostra indagine istruttoria che portò alla condanna di ben 480 imputati. Tortora fu assolto - continua Di Persia - e rispetto il dispositivo di quella sentenza perché nella dialettica processuale non ritennero le prove raccolte idonee a una condanna: questo fa parte della fisiologia del processo. Dunque non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura”. Di Persia aggiunge: “Nel processo Tortora, Marmo c’entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell’accusa”. L’ex titolare dell’inchiesta non vuole dilungarsi e conclude: “A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana. In questo caso, come fanno i pentiti, dia riscontri chiari alle sue tesi. Perché ha chiesto la condanna di Tortora? Spero lo faccia, ma non rifugiandosi però nel nome di qualcuno che non può smentirlo perché morto”.
Di Persia, un’occasione persa per tacere, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. Anche lui da molti anni non parlava della condanna inflitta a Enzo Tortora. E che Felice Di Persia abbia voluto rompere il lungo riserbo sulla vicenda, è un dato che andrebbe accolto con favore. Non fosse che l’intervista rilasciata al Velino è un’occasione perduta. Allora titolare, insieme con Lucio Di Pietro, dell’inchiesta che portò Tortora alla sbarra, Di Persia avrebbe potuto fare ammenda per un’inchiesta che portò al più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. Ferma la buona fede, la toga avrebbe potuto chiarire anche lui perché senza prove di bonifici, controlli bancari, pedinamenti e intercettazioni montò un castello di carte che fece finire in gattabuia il presentatore di Portobello sulla base delle dichiarazioni di pentiti farlocchi che sono costate la vita, a detta di Francesca Scopelliti, ma senza lo stupore di nessuno, a quel galantuomo di Enzo Tortora. Ma l’unico pentito verso il quale l’ex magistrato sembra puntare il dito è invece Diego Marmo. «Ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che si è pentito con trent’anni di ritardo», chiosa Di Persia. Ma nell’intervista che l’ex procuratore di Torre Annunziata ha dato al Garantista, è palese che sono solo ed esclusivamente le scuse ad essere arrivate in ritardo di trent’anni. “Il rammarico – ha spiegato l’ex pm al nostro giornale – c’era da tempo”. Lucio Di Persia, però, concede a Marmo il lusso di una seconda ipotesi accusatoria. «Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna – continua Di Persia – doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve autocancellarsi dalla vita sociale”. ”Autocancellarsi dalla vita sociale”, dice Di Persia. Che forse sarebbe a dire chiudersi in qualche eremo a recitare il penitentiagite per dimostrare l’autenticità del rammarico. È proprio in questa sottile e violentissima fatwa, che la magistratura appare incapace di sincero cordoglio e capacità di autoriformarsi. «A quanto pare – commenta Di Persia – Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana. In questo caso, come fanno i pentiti, dia riscontri chiari alle sue tesi. Perché ha chiesto la condanna di Tortora? Spero lo faccia, ma non rifugiandosi però nel nome di qualcuno che non può smentirlo perché morto». Marmo è trattato insomma alla stregua di un pentito che il clan pretende di allontanare dal cerchio magico per vendetta. Marmo è il reprobo dal quale si pretende di estorcere, a dimostrazione di un sincero disagio interiore, la colpa assoluta e annichilente dell’autoesclusione sociale. Non se ne comprende invece il rammarico che chi scrive, insieme a pochi come Ambrogio Crespi, reputa sincero. Di quelle scuse alla famiglia, di quelle poche note che con molta discrezione Marmo ha affidato a Il Garantista a proposito del processo, si sottolinea nient’altro che la perversa intenzione di tirarsi fuori dalla melma. Ma la vera angoscia che forse generano le scuse di Marmo, inammissibili, spiazzanti e meravigliose, è la paura di restare ammollo al sangue innocente di Tortora. Un aspetto che Diego Marmo, ancora avvezzo a decriptare messaggi in codice, non trascura di cogliere nelle dichiarazioni che affida al nostro giornale. «Nella mia intervista a Il Garantista che peraltro Di Persia dice di non aver letto con precisione – ci scrive l’ex procuratore di Torre Annunziata – non ho accusato nessuno. Mi sono limitato soltanto a dire quali erano stati i ruoli dei singoli partecipanti». Le dichiarazioni che Felice Di Persia ha rilasciato a Il Velino, sono la prova inconfutabile che le scuse di Diego Marmo alla famiglia Tortora hanno scavato un solco profondo nella coscienza dei protagonisti di quella storia giudiziaria, e nell’autopercezione che ha di se stessa la magistratura italiana. Intoccabile, unita come un sol uomo, sacerdotale, la casta dei giudici sembra di colpo cominciare a ruzzare dentro la piccola stia dei risentimenti. Le scuse del Grande Inquistore italiano, dell’ “assassino morale” di Tortora che solo su di sé aveva attratto i fulmini della storia lasciando all’asciutto tutti gli altri carnefici, devono avere mosso qualche disagio negli altri complici della “congiura”. «Le mie scuse sono vere. Se arrivano con ritardo bisogna anche considerare che il tempo fa maturare, in molti casi. Per porgerle, d’altra parte, ci doveva anche essere l’occasione», ci scrive Diego Marmo. Come bene ha detto Ambrogio Crespi su queste colonne, il tempo della rivoluzione è arrivato. E reca in effigie il volto di Torquemada.
«Taci Di Persia, sei solo una soubrette», scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. «Quando Di Persia fu eletto al Csm dopo aver condannato Tortora, l’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si rifiutò di stringergli la mano. Per Di Persia parla la storia». Raggiunta al telefono da Il Garantista Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora nel suo calvario giudiziario prima, e nelle file dei Radicali poi, non riesce a capacitarsi.
L’intervista che Felice Di Persia, il titolare dell’inchiesta che mise alla sbarra Enzo Tortora, ha concesso al Velino a proposito della condanna di Tortora, e delle scuse di Diego Marmo rivolte ai familiari del presentatore dalle nostre colonne, la lascia una volta di più esterrefatta. Dopo Diego Marmo, che ha rotto il lungo silenzio per fare le scuse ai familiari, anche Di Persia ha deciso di parlare. Che cosa ne pensa delle sue dichiarazioni?
«Penso che quanto meno, anche se non posso accettarle perché tardive e insufficienti, Marmo ha fatto le sue scuse. Spero che gli siano utili a pacificarsi con la sua coscienza. Di Persia, visto quello che ha detto, ha perso invece un’ottima occasione per tacere. Sarebbe stato più dignitoso per lui restare in silenzio».
Che cosa l’ha turbata più di tutto delle dichiarazioni di Di Persia?
«Di Persia ha confermato ancora una volta quello che allora apparve evidente a tutti: c’era il progetto di crocifiggere Tortora. C’era un piano, studiato a tavolino per fare di Enzo il condannato eccellente, da dare in pasto all’opinione pubblica in nome della vanità e dell’esibizionismo. Colpisce molto, nell’intervista concessa, la maniera in cui Di Persia commenta la sentenza di assoluzione di Tortora. ”Non ritennero le prove raccolte idonee a una condanna: questo fa parte della fisiologia del processo. Dunque non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura”. Sono parole che si commentano da sole. Di Persia non è disposto a tornare indietro, si arrocca nelle posizioni di trent’anni fa e in buona sostanza rivendica l’assurda pretesa di avere avuto ragione a perseguitare un innocente. Una questione di soubrettizzazione».
Che cosa intende di preciso?
«Basterebbe guardare i titoli e i giornali di allora per comprendere quali benefici mediatici si sono assicurati quelli come Di Persia. Si facevano ritrarre in atteggiamenti sportivi, come piccoli eroi da rotocalco o moderne soubrette. Erano diventati personaggi pubblici grazie alla persecuzione di un personaggio pubblico vero, amato, da scagliare nella polvere e umiliare. Di Persia dichiara a un certo punto che “Marmo c’entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell’accusa”. È una chiosa che aggrava ancora di più la sua posizione e che ribadisce quello che ho sempre detto. Mi fa piacere che dopo trent’anni anche Di Persia concordi con me: fa passare il pubblico ministero di quel processo come il commediante di un’enorme farsa. Esattamente quello che ho sempre pensato. Di Persia ha invitato tra l’altro Marmo, a suo dire ”il primo magistrato pentito della storia” ad autocancellarsi dalla vita sociale per dimostrare il suo pentimento. È una frase dal sen sfuggita, del tutto rivelatrice di una mentalità castale che tratta Marmo alla stregua di un pentito da isolare secondo la tipica mentalità del clan. Allora ci fu perfetta concordia tra pm e giudici istruttori. Lucio Di Pietro e Felice Di Persia inchiodarono Tortora. E ora che qualcuno ha fatto un passo indietro, si è rotto il sacro sigillo di quella istruttoria che ancora Di Persia difende senza un briciolo di rimorso. Ha infatti specificato che non ci furono errori giudiziari nella sua inchiesta. E che l’assoluzione di Tortora fa parte della dialettica processuale. Nessun cenno al carcere e alla malattia di Tortora. Ha definito l’assoluzione del presentatore come parte della “fisiologia del processo”. Espressioni di questo genere dicono ancora una volta di quanta demenziale presunzione è nutrito il personaggio di Di Persia. Più delle mie considerazioni, valgono le moltissime pagine che spinsero i giudici dell’appello a spazzare via menzogna dopo menzogna, il castello di carte costruito da Di Persia e Di Pietro. Di Persia rivendica ancora la correttezza del suo operato. Nessun rammarico, sembra. Erano eccitati dal brivido di incastrare un personaggio noto ed amatissimo da 26 milioni di persone. In nome di questo progetto ne sacrificarono sull’altare la sua innocenza per ergersi a giustizieri e prendersi le luci della ribalta. Se non fosse così protervo e arrogante, Di Persia dovrebbe aprire il dispositivo di sentenza e rileggersi parola dopo parola, le prove dell’assurdità delle sue invenzioni. Lo spiega la sentenza d’appello quale fu la qualità del lavoro di Di Persia».
Si riferisce alla famigerata ”nazionale dei pentiti”?
«Costruirono un’accusa fondata su calunnie ed infamie, alcune persino ridicole come quelle di Margutti e della valigetta di droga. È la sentenza dell’appello che meglio di me ha espresso quali considerazioni si possono fare sull’operato di Di Persia. Fu un pessimo magistrato che sparò nel mucchio e lavorò all’ammasso: colpevoli e innocenti nello stesso calderone indistinto».
Che cosa le ha raccontato di lui Enzo Tortora?
«Le riferisco soltanto un piccolo particolare. Spesso, al termine di estenuanti interrogatori, Di Persia guardava Enzo negli occhi e gli sibilava: «Buona fortuna». Gli lasciava intendere che l’avrebbe stritolato. Era come mi scriveva Enzo dal carcere: “Questi, per salvarsi la faccia, fottono me”. È quello che fecero. Nell’intervista, Di Persia dà a Marmo del ”magistrato pentito”. È come se l’ex procuratore, con le sue scuse, avesse rotto una sacra alleanza. Un gesto umano, che dal resto della casta viene letto come una sorta di tradimento, il primo della storia. La reazione di Di Persia spiega meglio di molti ragionamenti perché è impensabile sperare che i magistrati possano autoriformarsi da soli. Ma allo stesso tempo, come è evidente da anni, è piuttosto ingenuo pensare che la politica possa giungere a un’autentica riforma. Il Parlamento vive sotto ricatto. E l’intervista di Di Persia è l’ennesimo capitolo di una storia di sacro terrore verso un potere assoluto e intoccabile, che si chiama magistratura italiana.»
L’ITALIA DEI MORALISTI CON LA MORALE DEGLI ALTRI.
A distanza di oltre un secolo viene svelato l'assassino Joe Petrosino, il poliziotto italo americano venuto a Palermo per sgominare una banda di mafiosi. Il 29enne Domenico Palazzotto si vantava spesso con gli amici che a uccidere Petrosino era stato uno zio del padre. "Ha fatto lui l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino", aveva detto agli amici mentre le microspie lo registravano. L'esecuzione di Petrosino, freddato alle 20.45 del 12 marzo 1909 don tre colpi di pistola in rapida successione e un quarto sparato subito dopo, suscitarono il panico nella piccola folla che attendeva il tram al capolinea di piazza Marina a Palermo.
La vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.
Risarcimenti: 8 euro per torturarti, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Dopo la “pena sospesa” da parte della Corte Europea che, in data 28 maggio ha riconosciuto i buoni propositi dell’Italia e le ha concesso una proroga per sanare la situazione di drammatica afflizione che vivono i detenuti nelle nostre carceri, il governo Renzi partorisce un decreto: risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Un giorno di tortura, dunque, vale 8 euro. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10 %. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più fino a 21, così ritardando l’ingresso dei non più “minori” nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. Il decreto guarderebbe anche ai problemi di gestione, anch’essi derivanti da un numero di detenuti sempre in esubero rispetto agli istituti penitenziari, da parte della polizia penitenziaria, attraverso provvedimenti tesi ad aumentare la consistenza dell’organico. Un provvedimento certamente insufficiente ed inadeguato che creerà e sta già creando ulteriori momenti di tensione nelle note aree forcaiole che hanno gridato il loro sdegno per il precedente decreto, inopinatamente definito “svuota carceri”, che, nella sua originaria formulazione, in aderenza al dettato costituzionale, estendeva anche ai reati di mafia e a tutti quelli inclusi nel famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la propria valenza risarcitoria per una carcerazione inumana e degradante, prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. La legge di conversione ha stabilito che i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come “più gravi” dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono un po’ meno persone degli altri, che per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi!!! E, dunque, attendiamo le reazioni. Non possiamo però non osservare che se il governo avesse emanato provvedimenti di immediata concretezza deflattiva, non avrebbe dovuto oggi “sbloccare fondi” utili ad uscire dall’emergenza, per erogare l’elemosina degli otto euro, e per salvare dal collasso la polizia penitenziaria, fondi che in qualche modo saremo tutti chiamati a reintegrare. Il grido di amnistia e di indulto fatto proprio dal Papa e dal Presidente della Repubblica rimane inascoltato, la situazione rimane drammatica. Intanto, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece – lo stesso che affermava riguardo alla morte di Stefano Cucchi: “ i nostri colleghi che lavorano nelle camere di sicurezza del tribunale, sono persone tranquille e al di sopra di ogni sospetto” – così commenta il provvedimento sui risarcimenti ai detenuti deciso dal Consiglio dei Ministri: «Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate». E ancora: «a noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infrante e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca e mi auguro che il Capo dello Stato ed il Parlamento rivedano questa norma assurda, tanto più se si considerano quanti milioni di famiglie italiane affrontano da tempo con difficoltà la grave crisi economica che ha colpito il Paese».
Il pm Diego Marmo: “Su Tortora ho sbagliato, chiedo scusa alla famiglia, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”.
«Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. E adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Agii in perfetta buona fede».
Dopo un lungo corpo a corpo fatto di reciproci pregiudizi, di frasi smozzicate e di estrema diffidenza, Diego Marmo, il pm che inchiodò Enzo Tortora con una dura requisitoria rimasta negli annali, si è finalmente svestito della toga. Ma prima, prima di questo, c’è la foga di chiedere, di giudicare senza appello a nostra volta.
Ci sono state molte polemiche per la sua nomina ad assessore alla Legalità a Pompei. Ma ha dichiarato al Velino che il caso Tortora è un “episodio” della sua carriera. Non le pare di aver liquidato la vicenda con troppa sufficienza?
«A domanda ho risposto. Si parlava della mia nomina ad assessore a Pompei. La storia del mio coinvolgimento sul caso Tortora è tutto un altro capitolo, un capitolo di un’attività professionale lunga 50 anni, che non può essere affrontato in due minuti. La cosa è molto più complessa.»
Eppure lo ha fatto. Ha definito come “episodio” il più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. É sembrato che stesse dicendo: “Ora faccio l’assessore, e chissenefrega di Tortora”.
«In trent’anni non ho mai pensato o detto “chissenefrega del caso Tortora”. Immaginavo che potessero sorgere polemiche sulla mia nomina. Ma alla fine ho deciso di accettare perché la situazione degli scavi di Pompei mi sta particolarmente a cuore. Esercitando la funzione di procuratore a Torre Annunziata, mi sono convinto dello stato di abbandono nel quale si trova la città antica.»
Verrà pagato per questo incarico?
«Lavorerò a titolo gratuito, mi pagherò anche la benzina. E se la mia presenza dovesse provocare difficoltà al buon funzionamento della giunta, sono pronto a lasciare. Il sindaco mi ha scelto senza conoscermi personalmente perché probabilmente ha apprezzato il mio lavoro da procuratore. Ho accettato perché sono dell’avviso che la legalità non va predicata ma praticata. Ho lasciato la Procura di Torre Annunziata con amarezza.»
A che cosa si riferisce?
«Parlo dell’omicidio di Vero Palumbo. Faceva il meccanico. La notte del 31 dicembre, mentre giocava a scopa, è stato ucciso dai colpi d’arma da fuoco della camorra che festeggiava barbaramente il Capodanno. Ho promesso alla sua famiglia che avrei trovato l’assassino. Non ci sono riuscito. Questa nomina potrebbe aiutarmi a sollecitare il legislatore ad estendere i benefici che riguardano le vittime della camorra anche alla vedova e alla figlia, alle quali questo status non viene riconosciuto.»
Sembra un uomo capace di provare rammarico. Perché per Tortora non ne ha mai provato?
«È quello che ha sempre pensato il circo mediatico. Quello che avete sempre pensato tutti voi. Ma il rammarico c’era da tempo. L’unica difesa che avevo era il silenzio.»
Se provava rammarico, non era meglio manifestarlo? Perché ha taciuto?
«Perché nessuno prima d’ora me lo aveva mai chiesto. Vi siete accaniti contro di me. Mi avete condannato. Venivo sempre aggredito. Ma nessuno ha mai pensato di interpellarmi o ascoltarmi.»
È lei che ha chiesto la condanna di Tortora senza prove. La ascolto volentieri.
«Il mio lavoro si svolse sulla base dell’istruttoria fatta da Di Pietro e Di Persia. Tortora fu rinviato a giudizio da Fontana. Io feci il pubblico ministero al processo. E sulla base degli elementi raccolti, mi convinsi in perfetta buona fede della sua colpevolezza. La richiesta venne accolta dal Tribunale.»
Non avevate niente: nessun controllo bancario, nessun pedinamento, nessuna intercettazione. Solo la “nazionale dei pentiti”. Come ha potuto chiedere 13 anni per il presentatore?
«Mi vuole fare il processo?»
No,voglio delle risposte.
«A ciascuno il suo. Mi faccia rispondere di quello che ho fatto io. Gli elementi raccolti in fase istruttoria mi sembrarono sufficienti per richiedere una condanna. Ma Tortora non era l’unico imputato di quel processo. Insieme a lui c’erano altri 246 imputati. Io chiesi un terzo di assoluzioni. Si sono dette anche molte menzogne sul mio conto. Tempo fa mio figlio mi chiamò allibito. Mi disse: “Papà, in televisione hanno appena detto che hai fatto arrestare Tortora”.»
Si sente il capro espiatorio?
«Molte anime belle, e anche tanti giornalisti e colleghi, batterono allora la gran cassa contro l’imputato eccellente. Molti sono gli stessi che ancora oggi gridano allo scandalo. Ma in Italia si dimentica in fretta. E pochi sanno che in Procura mi indignai per le sfilate degli uomini in manette davanti alle telecamere. Nei trent’anni successivi di carriera, come in precedenza, non lo permisi mai.»
Incise la pressione mediatica sul processo? Perdere l’imputato eccellente sarebbe stato un duro colpo per il vostro operato?
«Facemmo di tutto per perdere l’imputato eccellente. Era una presenza che avrebbe creato una bufera. La pressione mediatica fu terrificante, lo ammetto. Ma c’era molta più sete di sangue di quanto non sembri oggi. Erano molti, in giro, i “Diego Marmo”. Ma sul banco degli imputati sono rimasto io solo.»
È vero. Ma nell’immaginario è rimasto come il carnefice di Tortora perché lo definì un “cinico mercante di morte”, un “uomo della notte” ben diverso dal bravo presentatore di Portobello. Non giudicò l’imputato, giudicò anche l’uomo. Lei andò oltre, lo ammetta.
«La requisitoria durò circa una settimana, quella nei confronti di Tortora durò alcune ore. La frase venne inserita in un contesto accusatorio. Certamente mi lasciai prendere dal mio temperamento. Ero in buona fede. Ma questo non vuol dire che usai sempre termini appropriati, e che non sia disposto ad ammetterlo. Mi feci prendere dalla foga.»
Come le venne in mente di dire che Tortora era stato eletto con i voti della camorra?
«Non l’ho detto.»
Si, lo ha fatto. Lo abbiamo sentito tutti.
«Non era quello che è stato inteso. Il mio discorso era molto più articolato. Pur precisando che né Tortora né i Radicali avevano chiesto voti alla camorra, feci notare viceversa che la malavita aveva sponsorizzato alcune candidature per trarne vantaggio. Ne ebbi riscontro dalla stampa e dai tabulati che mi consegnarono i carabinieri. Era emerso che al carcere di Poggio Reale, e nel triangolo Bagheria, Altavilla, Casteldaccia, i radicali avevano preso moltissimi voti. Ma sono altre le cose che mi rimprovero.»
Che cosa?
«Tortora si comportò da uomo vero, ma lo capii successivamente.»
Sta dicendo che ha provato ammirazione per Tortora?
«Fu un imputato esemplare. Più passa il tempo e vedo l’Italia che ho intorno, e più mi rendo conto della differenza tra lui e chi lo chiama in causa oggi a sproposito.»
Che cosa intende esattamente?
«Tortora avrebbe potuto appellarsi all’immunità ma non lo fece. Volle farsi la galera pur di difendere la sua innocenza. E mi fanno arrabbiare certi quaquaraquà di oggi che invocano il suo nome per nascondere magagne e miserie e ottenere visibilità.»
Perché chiese la condanna?
«Ripeto. Non fui il solo a reputare Tortora colpevole: la mia richiesta venne accolta. Il rispetto del mio ruolo di magistrato mi impone di non parlare di altri. Dico solo che mi sbagliai. E che dopo le sentenze di assoluzione, mi resi conto dell’innocenza di Tortora e mi inchinai.»
Non aveva mai ammesso di avere sbagliato. Mi sta dicendo che è pentito?
«Non ho mai pensato di raccontare il mio stato d’animo sino ad ora. Ho creduto che ogni mia parola non sarebbe servita a niente. Che tutto mi si sarebbe ritorto contro. Ho preferito mantenere il silenzio. Ero Diego Marmo, l’assassino morale di Tortora. E dovevo tacere.»
Ha parlato di colpa. Una parola forte per uno che ha definito la richiesta di condanna per Tortora come un “episodio” della sua carriera.
«Non ho usato quel termine in senso riduttivo. In 50 anni di lavoro gli “episodi” sono stati tanti. Molti drammatici: processi di terrorismo, camorra, vita blindata per dieci anni con inevitabili disagi per me e soprattutto per la mia famiglia. E tuttavia che cosa crede? Ho richiesto la condanna di un innocente. Porto il peso di quello sbaglio nella mia coscienza. Sono un cattolico osservante. E ho sempre pensato di dovermela vedere con me stesso, e con Dio.»
Poteva vedersela anche con i familiari di Tortora, non pensa?
«Ci ho pensato a lungo. Ma alla fine non l’ho mai fatto. Mi sono detto che non si poteva tornare indietro, e che niente che potessi fare o dire sarebbe servito a qualcosa. “Si, potrei anche provare a incontrarli”, ragionavo tra me e me. Ma temevo che il mio gesto potesse risultare sgradito.»
E forse ha paura di chiedere perdono.
«Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente. Ma adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Posso dire soltanto che l’ho fatto in buona fede.»
Grazie dottor Marmo. A me le sue parole sembrano molto importanti. Le cose che mi ha detto le fanno onore. E sbriciolano i pregiudizi sui pm visti come sceriffi implacabili. Magari avessero tutti il coraggio di ammettere i propri errori. Non l’avrei immaginato. Ci ha dato una lezione. Non come pm, ma come uomo.
Il caso Tortora trent'anni dopo. Nel giugno del 1983 l'arresto del popolare conduttore televisivo. Le accuse dei pentiti, la gogna pubblica, l'assoluzione in Cassazione, la malattia e la morte. Per quello che Giorgio Bocca definì "il più grande esempio di macelleria giudiziaria" nessuno ha mai pagato, scrive Carlo Verdelli su “La Repubblica”. Qualsiasi cosa ci sia dopo, il niente o Dio, è molto probabile che Enzo Tortora non riposi in pace. La vicenda che l'ha spezzato in due, anche se ormai lontana, non lascia in pace neanche la nostra di coscienza. E non solo per l'enormità del sopruso ai danni di un uomo (che fosse famoso, conta parecchio ma importa pochissimo), arrestato e condannato senza prove come spacciatore e sodale di Cutolo. La cosa che rende impossibile archiviare "il più grande esempio di macelleria giudiziaria all'ingrosso del nostro Paese" (Giorgio Bocca) è il fatto che nessuno abbia pagato per quel che è successo. Anzi, i giudici coinvolti hanno fatto un'ottima carriera e i pentiti, i falsi pentiti, si sono garantiti una serena vecchiaia, e uno di loro, il primo untore, persino il premio della libertà. Non fosse stato per i radicali (da Pannella al neo ministro Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo. Non fosse stato per Enzo Biagi che proprio su Repubblica, a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell'opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora (da Giovanni Arpino, "tempi durissimi per gli strappalacrime", a Camilla Cederna, "se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto") con un editoriale controcorrente: "E se Tortora fosse innocente?". Non fosse stato per l'amore e la fiducia incrollabile delle figlie (tre) e delle compagne (da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell'ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall'Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale. Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l'inizio del calvario di Enzo Tortora (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all'Hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8, tre camere più servizi), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima. Paradossali i destini dei nomi impressi sulla tenaglia che ha stritolato Tortora, uno dei volti più noti di quando lo schermo era piccolo. Immaginiamo le due ganasce. Su una stanno gli accusatori, almeno i tre principali, tutti galeotti. Il capo cordata è Giovanni Pandico, ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ci ha provato senza successo anche con padre, madre e fidanzata, "schizoide e paranoico " per i medici, diventa lo scrivano di Cutolo ed è lui a mettere nel calderone Tortora e a condizionare con la sua versione e la sua perversione molti altri affiliati: dal 2012 è un libero cittadino. Poi ci sono Pasquale Barra, detto "o 'nimale", killer dei penitenziari, 67 omicidi in carriera tra cui lo sbudellamento di Francis Turatello: è ancora dentro, ma gode di uno speciale programma di protezione. Lo stesso di Gianni Melluso, detto "il bello" o "cha cha cha", uscito di galera e rientrato nel luglio scorso, ma per sfruttamento della prostituzione: durante i beati anni della delazione contro Tortora, usufruì di trattamenti di particolare favore, come gli incontri molto privati con Raffaella, che resterà incinta e diverrà sua moglie in un memorabile matrimonio penitenziario con lo sposo vestito Valentino. Va detto che Melluso fu l'unico di tutta la compagnia, magistrati compresi, a chiedere perdono ai familiari di Tortora, in un'intervista all'Espresso del 2010: "Lui non c'entrava nulla, di nulla, di nulla. L'ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l'unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie". Risposta di Gaia, la terzogenita: "Resti pure in piedi". Stupirà, forse, che nel tiro a Tortora non compaia mai il nome di Raffaele Cutolo, il capo di quella Nuova camorra organizzata che aveva messo a ferro e fuoco la Campania per prenderne il controllo e contro cui venne organizzato il grande blitz del 1983. Tempo dopo, i due, Cutolo e Tortora, che intanto era diventato presidente del Partito Radicale, si incontreranno nel carcere dell'Asinara, dove "don Raffaé" albergava all'ergastolo. Il boss fu anche spiritoso: "Dunque, io sarei il suo luogotenente ". Poi allungò la destra: "Sono onorato di stringere la mano a un innocente". E siamo all'altra ganascia della tenaglia, quella di quei magistrati che, senza neanche l'ombra di un controllo bancario, un pedinamento, un'intercettazione telefonica, basandosi solo sulle fonti orali di criminali di mestiere, sono riusciti nell'impresa di mettere in galera Tortora e condannarlo in primo grado a 10 anni di carcere più 50 milioni di multa. I due sostituti procuratori che a Napoli avviano l'impresa si chiamano Lucio Di Pietro, definito "il Maradona del diritto", e Felice Di Persia. Sono loro a considerare Tortora la ciliegiona che da sola cambia l'immagine della torta, loro a convincere il giudice istruttore Giorgio Fontana ad avallare questo e gli altri 855 ordini di cattura, anche se incappano in 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (con l'appello, l'impalcatura accusatoria franerà un altro po', con 114 assoluzioni su 191). Contraccolpi sul piano professionale? A parte il giudice Fontana, che infastidito da un'inchiesta del Csm sul suo operato si dimette sdegnato e ora fa l'avvocato, i due procuratori d'assalto spiccano il volo. Di Pietro (nessuna parentela con l'ex onorevole e onorato Tonino) è procuratore generale di Salerno, dopo aver sostituito Pier Luigi Vigna addirittura come procuratore nazionale antimafia. Non è andata malaccio neanche a Di Persia, oggi in pensione, ieri membro del Csm, l'organo di autocontrollo dei giudici (ma Cossiga presidente pare abbia rifiutato di stringergli la mano durante un plenum). Restano ancora due indimenticabili protagonisti del primo processo di Napoli, che inizia nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l'arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985, con il presentatore che subisce la condanna ma già da deputato radicale al Parlamento europeo: il presidente Luigi Sansone, che firma una corposa quanto friabile sentenza di 2 mila pagine, in sei volumi, uno interamente dedicato a Tortora (con questa apoteosi: "L'imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui"), e il pubblico ministero Diego Marmo, arringa leggendaria la sua, con le bretelle rosse sotto la toga e una veemenza tale da fargli scendere la bava all'angolo sinistro della bocca, specie quando dipinge l'imputato come "un uomo della notte ben diverso da come appariva a Portobello" e quando erutta che i voti presi da Tortora alle Europee sono anche voti di camorristi. La conclusione, poi, è da pietra tombale sul diritto: "Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l'istruttoria". Non cadrà, almeno in quei giorni, come non cadranno Luigi Sansone, che si consolerà con la presidenza della sesta sezione penale di Cassazione, né il focoso Marmo, in pensione dal novembre scorso dopo essere stato, tra l'altro, procuratore capo di Torre Annunziata. Nessuno dei delatori sbugiardati è stato incriminato per calunnia. Quanto ai magistrati, poco prima di morire, Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire la richiesta. Il Csm ha archiviato, risarcimento zero. Archiviato anche il referendum del 1987, nato proprio sulla spinta del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65 per cento, i sì sono l'80 per cento, poi arriva la legge Vassalli e di fatto ne annulla gli effetti. Quel che resta di Enzo Tortora ("Io non sono innocente. Io sono estraneo", ripeteva come un mantra) non riposa in pace dentro una colonna di marmo con capitello corinzio al cimitero Monumentale di Milano. La colonna è interrotta a metà da un vetro. Infilata dall'esterno, un'immaginetta di un Cristo in croce con la scritta: "Uno che ti chiede scusa". Dietro il vetro, c'è l'urna dorata con le ceneri e due date (1928-1988). Sotto, un'iscrizione abbastanza misteriosa: "Che non sia un'illusione". La spiega Francesca Scopelliti, l'ultima compagna: "Enzo ha voluto farsi cremare insieme ai suoi occhiali, quelli che gli servivano per leggere e che perdeva di continuo, e a una copia della Storia della colonna infame del Manzoni, con la prefazione di Leonardo Sciascia, di cui era amico. Era venuto a trovarlo pochi giorni prima della fine. Ne scrisse subito dopo sul Corriere della sera, confidando parte di quello che Enzo gli aveva detto: speriamo che il mio sacrificio sia servito a questo Paese, e che la mia non sia un'illusione". Venticinque anni dopo quel 18 maggio 1988, dubitare è lecito, specie in un'Italia che sembra avere nel proprio Dna la caccia al mostro quale che sia, proprio come nella cronaca del Manzoni. Siamo nel1630, a Milano c'è la peste, vengono arrestati, sulla base della denuncia di alcune comari, due presunti untori accusati di spargere unguenti che propagano l'epidemia. Condannati sbrigativamente allo squartamento, sulle macerie della bottega di barbiere di uno dei due, incenerita a memento, viene eretta una colonna, a dannazione eterna dell'"infame". L'accusa, all'"infame" di Portobello, piove sulla testa, come un pezzo di marmo caduto da un balcone, venerdì 17 giugno 1983. E da quel giorno, Enzo Claudio Marcello Tortora, figlio di un napoletano che faceva il rappresentante di cotone a Genova, giornalista e presentatore televisivo in gran spolvero, diventa all'improvviso "il caso Tortora". Intanto sta nascendo a Napoli la prima bambina in provetta, la Fiat lancia la Uno, scompare Emanuela Orlandi, Federico Fellini firma la quart'ultima tappa del suo magistero con E la nave va, Vasco Rossi la prima: Vita spericolata. In televisione, spopola su RaiDue appunto Portobello, un mercatino alla londinese di varia umanità, dovesi vendono e si comprano le cose più strane, dove tra le centraliniste, guidate da "sua soavità" Renée Longarini, spuntano le acerbe glorie di Paola Ferrari, Gabriella Carlucci, Eleonora Brigliadori, dove capitano tizi come quello che propone di abbattere il Turchino per risolvere il problema della nebbia in Val Padana, dove la valletta di colore si guadagna il soprannome di "Goccia di caffè" e dove Tortora, al massimo di se stesso, governa la platea come un lord inglese, esibisce un pappagallo che si chiama Portobello, chiude le trattative con una frase entrata nella piccola storia della televisione: "Il Big Ben ha detto stop". Nella storia entrano anche i risultati del programma: 22 milioni di spettatori di media, con punte ineguagliate all'epoca di 28 milioni. "Tutta farina di Enzo. Una domenica, si era messo a leggere gli annunci sul giornale: vendo coccodrillo impagliato eccetera. Aveva cominciato a telefonare e aveva scoperto un mondo dietro quei trafiletti. Poi ci aggiunse il pappagallo, perché, mi diceva, un animale ci vuole, fa tenerezza ai bambini ". A ricordare è Gigliola Barbieri, storica assistente di Tortora, fin dai tempi (1969) della sua Domenica sportiva. Ora la "Barbi", come la chiamava lui, è produttore esecutivo a Mediaset. "La mattina che venne arrestato, il primo che mi chiamò fu Berlusconi: signora, ha saputo? Stava trattando con Enzo il suo passaggio a Retequattro. Dopo i funerali, mi ha ricontattato: signora, se vuole venire a lavorare da noi...". Parla come una vedova, la Barbi, una vedova non consolata. "Enzo aveva tanti di quei difetti che ci metterei giorni a fare l'elenco. Ma con quella cosa non c'entrava. L'hanno rovinato gratis". Il giovedì prima di quel venerdì 17 giugno 1983, che segna l'inizio della fine di Tortora, l'allora direttore del Giorno, Guglielmo Zucconi, chiamò un giovane cronista degli spettacoli, Paolo Martini, egli rivelò di aver ricevuto una soffiata su una maxi retata imminente, che avrebbe riguardato anche un grosso nome dello spettacolo. Chi? "So solo che sta nelle ultime lettere dell'alfabeto". Cominciarono a spulciare l'elenco dal fondo: Vianello, Tortora, Tognazzi. Martini si attaccò al telefono. Trovò Tortora a Roma: "Quando lo avvertii che circolava il suo nome tra i possibili implicati in un blitz di camorra, si mise a ridere. E in effetti, da quella mia chiamata all'arresto la notte successiva, non fece assolutamente niente, non chiamò il suo avvocato né qualche amico del Partito liberale in cui militava né della cerchia di Craxi, acui pure aveva accesso. Tortora era il classico signore borghese di provincia, un bel po' reazionario, lupo solitario assoluto. Non faceva serata, non beveva, aveva orrore per la delinquenza e la droga. L'unica cosa che tirava era un po' di tabacco da fiuto". Ma la soffiata era giusta. All'alba, tre carabinieri irrompono in una stanza dell'Hotel Plaza di Roma, prologo di quel che per le cronache diventerà il "venerdì nero di Cutolo": 856 ordini di cattura. Tra questi, un nome che da solo dà senso e ribalta all'operazione (non a caso battezzata in codice "Portobello"): Enzo Tortora, indicato dal pentito Giovanni Pandico come camorrista ad "honorém" (con l'accento sulla "e", come dirà al primo interrogatorio), numero 60 di una lista che viene consegnata ai magistrati di Napoli e fa scattare la retata. Mentre lo portano via dal Plaza, Tortora è ancora convinto che si tratti di un caso di omonimia e che tutto si risolverà in poche ore. Sbagliato. Aspettando l'ora buona perché si ammassassero troupe televisive e fotografi, il re di Portobello viene fatto uscire dalla caserma dei carabinieri per essere trasferito a Regina Coeli, ammanettato e con la faccia sfatta. Sente i cameraman invocare "i polsi, i polsi!", dalla folla i primi verdetti: "Farabutto, pezzo di merda, ladro". La vendetta sul "famoso" prenderà rapidamente le dimensioni della valanga. L'indimenticato "Tognazzi capo delle Br" brevettato dal Maledi Sparagna&Vincino nel 1978 viene surclassato dalla cronaca: Tortora capo della camorra. I pentiti che l'accusano si moltiplicano come nella parabola dei pani e dei pesci: da uno diventano 19, complice la fresca legge Cossiga del 1982 che, pensata per sconfiggere il terrorismo, introduce sconti di pena per chiunque collabori a qualunque titolo. È una corsa folle a chi la spara e la scrive più grossa: Tortora ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell'Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Un tornado inarrestabile, con Il Messaggero che titola: "Tortora ha confessato". Falso. Il garantismo di sinistra? Assente. Portobello è un programma da lista nera, e poi il suo conduttore, oltre ad essere un liberale di destra, è pure antipatico per il suo fare tra il lacrimoso e lo snob, e in più ha un passato da inviato della Nazione del petroliere Attilio Monti, non proprio un sincero democratico, durante il quale si è distinto per una campagna contro Valpreda e l'anarchia milanese quali responsabili della strage di piazza Fontana. Che la madre Silvia, quando andava in chiesa a pregare, trovasse spesso il foglietto lasciato da qualche anima buona con la scritta "tuo figlio spaccia la droga ", era il segno, uno dei tantissimi, che gli argini erano rotti e che poco si opponeva alla marea montante delle calunnie. Ma perché proprio Tortora, e non qualche altra star capace di attrarre la morbosa attenzione da spalti del Colosseo? Per una storia di centrini di seta. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, ne spedisce alcuni alla redazione di Portobello nella speranza che vengano messi all'incanto. Non vedendoli comparire (la trasmissione riceveva allora 2.500 lettere al giorno), Barbaro comincia a bombardare Tortora di lettere sempre più minacciose: essendo però analfabeta, gliele scrive il compagno di cella Pandico. Alla fine, esasperato, Tortora risponde pure, in tono secco, avvertendo che passerà la pratica all'ufficio legale della Rai (nel frattempo, i centrini sono andati persi), che infatti provvede a rimborsare il detenuto con un assegno di 800 mila lire. Caso chiuso? Al contrario: Pandico decide di vendicarsi di Tortora, spiega ai magistrati che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni, che il presentatore si sarebbe intascato fregando i compari. È la prima prova d'accusa presentata ai legali del presentatore, che la smontano in un secondo esibendo la corrispondenza tra Barbaro e Portobello. Risposta: "Trattasi di altro Barbaro". Ugualmente surreale la seconda prova "schiacciante": trovato il nome di Tortora nell'agendina di Giuseppe Puca, detto "'o giappone", uno dei killer di Cutolo. Ci vorranno cinque mesi perché i magistrati si arrendano all'evidenza: l'agendina è della donna di Puca, il nome scritto a mano è "Tortosa" non "Tortora", e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora. Il prefisso è 0823, "provate a chiamà, dottore...". Finisce come era impossibile finisse: Tortora condannato per camorra e spaccio. Tortora, prima della sentenza, eletto a Strasburgo con i Radicali ("sono stato liberale perché ho studiato, sono diventato radicale perché ho capito") con 451 mila preferenze (Alberto Moravia, candidato per il Pci, ne prese 130 mila). Tortora che si dimette da eurodeputato, rinuncia all'immunità e torna in Italia per farsi arrestare. Tortora che ricorre in appello, sfida la giuria prima del verdetto ("Io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi") e il 15 settembre 1986 viene assolto da entrambe le accuse (dirà laconico il giudice a latere Michele Morello: "Facemmo giustizia "), cosa che si ripeterà in Cassazione. Tortora che, venerdì 20 febbraio 1987, ricompare in tv e apre la nuova edizione di Portobello con la stessa frase che disse Luigi Einaudi quando riprese a collaborare al Corriere della sera dopo il fascismo: "Heri dicebamus". Dove eravamo rimasti. Silvia Tortora, la figlia di mezzo, la prima che Tortora chiama quando l'arrestano ("Silvia, non crederci, non crederci, tu conosci papà"), vive in un borgo antico alle porte di Roma. È giornalista, sposata dal 1990 con il turbolento e fascinoso attore Philippe Leroy, che le ha dedicato una meravigliosa frase d'amore: "Con Silvia sono tranquillo come una capra felice che gira intorno al suo palo". Due i figli: Michelle, 17 anni, e Philippe, 21. Conserva due libri, che Enzo Tortora ha scritto per Mondadori (Cara Italia, ti scrivo, 1984, dove racconta la sua vita da detenuto, e Se questa è Italia, 1987, sulla sua vita da imputato). Dice che non si trovano più. Tra tutte le cose che hanno dedicato a suo padre, strade, piazze, premi, quella che Silvia trova più giusta è una biblioteca, voluta da Walter Veltroni in una strada appena fuori Saxa Rubra. "I libri erano importanti per lui, erano lui, in qualche senso". Rabbia ancora, Silvia? "Ricordo che Manganelli, il capo della Polizia appena morto, incontrandomi mi ha detto: quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia. Hanno fatto una commissione parlamentare su tutto, persino su Mitrokhin: su Tortora no. Eppure Portobello, che ai tempi mi sembrava una schifezza di show, rivisto dopo l'ho trovato bellissimo".
I moralisti con a capo il Presidente della Repubblica. Ecco il testo integrale della lettera del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al vicepresidente del Csm Michele Vietti.
"Caro onorevole Vietti, le comunico che esprimo il mio assenso all'ordine del giorno da lei predisposto per le sedute del Consiglio superiore della magistratura del 18 e 19 giugno 2014. Con riferimento alle pratiche della Prima e Settima Commissione relative ai contrasti insorti all'interno della Procura della Repubblica di Milano, mi corre l'obbligo di evidenziare che l'argomento affrontato nelle citate proposte coinvolge delicati profili dell'organizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero, nel quadro delle attuali norme sull'ordinamento giudiziario. In occasione del mio intervento all'Assemblea plenaria del Consiglio superiore della magistratura del 9 giugno 2009, ho ricordato la necessità di superare gli elementi di disordine e di tensione all'epoca clamorosamente manifestatisi nella vita di talune Procure, ponendo in rilievo che tale superamento non sarebbe stato possibile "senza un pacato riconoscimento delle funzioni ordinatrici e coordinatrici che spettano al Capo dell'Ufficio". In tal senso mi preme sottolineare che, a differenza del giudice, le garanzie di indipendenza "interna" del Pubblico ministero riguardano l'ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato. Come è noto, ai magistrati del Pubblico ministero non si applicano le previsioni di cui all'art. 25, primo comma, della nostra Costituzione; infatti, ciò che deve caratterizzare gli Uffici di procura è l'impersonalità e l'unitarietà della loro azione, sicchè i criteri organizzativi di ogni singolo ufficio requirente non possono essere intesi come rigide regole immodificabili, in quanto deve sempre consentirsi una equilibrata elasticità nella loro applicazione, volta sempre al miglior esercizio dell'azione penale da parte dell'Ufficio nel suo complesso. Al riguardo anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 8388/2009, Novi), nel sottolineare che la riorganizzazione degli uffici del Pubblico Ministero ha costituito uno dei più significativi obiettivi della riforma dell'ordinamento giudiziario, hanno rilevato che il vigente quadro normativo si caratterizza per l'accentuazione del ruolo di "capo" del Procuratore della Repubblica, sia sul versante organizzativo sia su quello della gestione dei procedimenti, e per la corrispondente parziale compressione dell'autonomia dei singoli magistrati dell'ufficio. Proprio per tale ragione i poteri di organizzazione dell'Ufficio sono prerogativa del Procuratore della Repubblica e le funzioni di controllo e garanzia istituzionale affidate al C.S.M. devono essere indirizzate solo ad assicurare l'indispensabile flessibilità nell'applicazione dei progetti organizzativi, i quali devono, innanzitutto, rispondere alle esigenze di funzionalità ed efficacia dell'azione giudiziaria. E' pertanto opportuno che il Consiglio eviti di assumere in tale materia ruoli impropri, dilatando i propri spazi di intervento, non più consentiti dall'abrogazione dell'art. 7-ter R.D. n. 12/1941. Come ho già avuto modo di segnalare, il rischio maggiore nell'attività degli uffici di procura può derivare da una sua atomizzazione e non già dall'ordinato ed efficiente svolgersi dell'azione impersonale dell'intero Ufficio requirente, purchè si assicuri l'obbligatorietà e l'imparzialità dell'azione penale. Raccomando quindi che nell'esame e nella deliberazione conclusiva di tali pratiche l'Assemblea plenaria valuti la condotta del Procuratore della Repubblica, cui è affidato il potere - dovere di determinare i criteri generali di organizzazione della struttura e di assegnazione dei procedimenti, sotto il profilo del perseguimento delle esigenze di efficienza, uniformità e ragionevole durata dell'azione investigativa, tenendo presente anche il fondamentale ruolo di verifica che l'art. 6 del D.Lgs. 106/2006 affida ai Procuratori Generali presso le Corti di appello e presso la Corte di Cassazione in merito al puntuale esercizio dei compiti dei Procuratori della Repubblica". Nel rispetto delle determinazioni finali rimesse alla decisione dell'Assemblea plenaria, invito pertanto i consiglieri a tener conto di queste osservazioni nella trattazione delle citate pratiche, al solo fine di evitare di indebolire la credibilità ed efficacia dell'azione giudiziaria, indispensabili per salvaguardare l'indipendenza e l'autonomia della magistratura. Con viva cordialità, Giorgio Napolitano".
Così Napolitano ha piegato il Csm. I giudici hanno obbedito al Colle: nella lettera a Vietti resa nota il 27 giugno 2014 "ordina" di archiviare lo scontro in Procura a Milano, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Più che un parere, un diktat. Giorgio Napolitano, per mettere argine a «polemiche e strumentalizzazioni», rende noto il testo della lettera con cui il 13 giugno scorso è entrato a piedi uniti nello scontro in corso all'interno della Procura della Repubblica di Milano. E si scopre che le vulgate, le tradizioni orali circolate nei giorni della lettera erano in realtà ancora più caute del contenuto reale della missiva. Con un gesto senza precedenti, Napolitano ha di fatto ordinato al Consiglio superiore della magistratura di chiudere la faccenda con un nulla di fatto, senza scavare su come e perché i fascicoli di inchiesta più delicati di questi anni siano stati assegnati dal procuratore Edmondo Bruti Liberati solo e soltanto ai pm di sua fiducia. Il Csm, come è noto, ha battuto i tacchi e si è adeguato agli ordini del Colle. Di Bruti - con cui è da tempo in piena sintonia, e di cui sponsorizzò apertamente la nomina a procuratore capo - il presidente della Repubblica ovviamente non fa il nome. Non cita le indagini, da Ruby all'Expo alla Sea, che il procuratore aggiunto Alfredo Robledo ha accusato Bruti di avergli sottratto in violazione delle regole interne della stessa procura milanese, affidandole a Ilda Boccassini e agli altri pm a lui vicini. Ma è chiaro che è di questo che Napolitano parla quando scrive che «i criteri organizzativi di ogni singolo ufficio requirente non possono essere intesi come rigide regole immodificabili, in quanto deve sempre consentirsi una equilibrata elasticità nella loro applicazione, volta sempre al miglior esercizio dell'azione penale da parte dell'Ufficio nel suo complesso». In realtà nessuno, neanche Robledo, ha sostenuto che le regole siano «immodificabili». Il problema è che Bruti non le ha modificate ma semplicemente ignorate, senza mai motivare i suoi provvedimenti. Ma questo, per Napolitano, fa parte evidentemente della «equilibrata elasticità». Al vicepresidente del Csm Michele Vietti - che dopo averlo incontrato si era esibito in una irrituale intervista in difesa di Bruti - Napolitano nella lettera del 13 giugno detta insomma la linea: giù le mani da Bruti, per «evitare di indebolire la credibilità ed efficacia dell'azione giudiziaria». Il Capo dello Stato richiama la legge che ha allargato i poteri gerarchici dei procuratori, «sia sul versante organizzativo sia su quello della gestione dei procedimenti» e ha previsto «la corrispondente parziale compressione dell'autonomia dei singoli magistrati dell'ufficio». Fin dove si possa spingere la «parziale compressione» dell'autonomia dei singoli pm, e se in questo concetto rientrino anche gli ordini impartiti da Bruti a Robledo nelle inchieste su Formigoni o su Expo, il capo dello Stato non lo dice. D'altronde il passaggio chiave è un altro, quello in cui il presidente della Repubblica scrive nero su bianco che in fondo la libertà dei pm non è così importante: «le garanzie di indipendenza interna del pubblico ministero riguardano l'ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato». Per questo, con tono quasi ultimativo, Napolitano ammonisce Vietti: «È pertanto opportuno che il Consiglio eviti di assumere in tale materia ruoli impropri». L'unico ruolo del Csm, secondo il Colle, non è controllare sul rispetto delle regole da parte dei procuratori, ma unicamente «assicurare l'indispensabile flessibilità nell'applicazione dei progetti organizzativi, i quali devono, innanzitutto, rispondere alle esigenze di funzionalità ed efficacia dell'azione giudiziaria». D'altronde «il rischio maggiore nell'attività degli uffici di procura può derivare da una sua atomizzazione e non già dall'ordinato ed efficiente svolgersi dell'azione impersonale dell'intero Ufficio requirente, purché si assicuri l'obbligatorietà e l'imparzialità dell'azione penale». In realtà, è proprio sulla «imparzialità» del ruolo svolto da Bruti e dalla sua Procura che - a torto o a ragione - si incentrava l'esposto di Alfredo Robledo. Ma di questo il Csm dopo la lettera ha deciso di non occuparsi, rifiutando di trasmettere le carte alla commissione che dovrà vagliare se mantenere Bruti al suo posto di procuratore.
“Liberati e Csm: solo sbagli”, scrive Antonio Di Pietro su “Il Garantista”. Da Francesco Saverio Borrelli a Edmondo Bruti Liberati, vale a dire “c’era una volta la Procura della Repubblica di Milano”. Una Procura sempre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica italiana e soprattutto sempre in prima linea – ora come allora – nella lotta alla corruzione ed alle malefatte dei cosiddetti “colletti bianchi” (di quei personaggi, cioè, che approfittano del loro ruolo istituzionale e di potere per farsi gli affari propri in modo illecito alle spalle e con i soldi delle persone oneste). Ultimamente, però, è successo qualcosa di strano in quella Procura. Qualcosa che ha messo e sta mettendo a serio rischio la credibilità di quell’Ufficio giudiziario, anche e soprattutto perché molti soggetti esterni ad essa sono fortemente interessati a sguazzarci sopra per delegittimarla e far apparire così meno credibili agli occhi dell’opinione pubblica le delicate inchieste che i magistrati milanesi hanno portato e stanno portando avanti con grande competenza professionale ed enormi sacrifici personali. Mi riferisco allo scontro intervenuto fra l’attuale capo della Procura della Repubblica di Milano, Edmondo Bruti Liberati, ed il suo vice Alfredo Robledo, il quale è anche coordinatore dell’apposito pool di magistrati che si occupano dei reati contro la pubblica amministrazione. È successo che Bruti Liberati, forte del suo titolo di capo della Procura, ha deciso di non assegnare alcune delicate indagini riguardanti reati commessi a Milano contro la pubblica amministrazione al pool coordinato dal procuratore aggiunto Robledo (pur essendone quest’ultimo il naturale destinatario), come ad esempio l’inchiesta Ruby (ovvero quella che ha portato alla condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione per concussione e prostituzione minorile) e l’inchiesta Expo (tutt’ora in fase di indagini preliminari ma che ha già evidenziato una serie così impressionante di reati da parte di personaggi di primo piano della politica e dell’imprenditoria italiana, da far passare in secondo piano persino la famosa inchiesta Mani Pulite di vent’anni addietro). Francamente non so e non ho capito il motivo per cui Bruti Liberati l’ha fatto ma – pur senza mettere in dubbio la sua buona fede – di una cosa sono convinto: la sua decisione a me pare all’un tempo sbagliata sul piano tecnico ed inopportuna sul piano fattuale. È tecnicamente sbagliata in quanto – se è pur vero che Bruti Liberati, in quanto capo della Procura, ha pieni poteri di organizzare al meglio il lavoro dell’ufficio che dirige – è anche vero che egli non può esercitare tale suo potere in modo arbitrario e contro le regole generali previste dall’Ordinamento giudiziario per il funzionamento di uffici così delicati ed addirittura contro le specifiche regole che egli stesso ha dato per il miglior funzionamento del suo ufficio. Mi riferisco, in particolare – per quanto riguarda gli aspetti di tecnica investigativa – alla previsione ed alla concreta istituzione, presso la Procura di Milano – del cosiddetto “Pool di pm contro la pubblica amministrazione” ovvero di quel gruppo di magistrati inquirenti, appositamente costituito sin dai tempi di Mani Pulite (appunto da Saverio Borrelli più di vent’anni addietro), proprio per permettere a chi deve indagare sui reati contro la pubblica amministrazione di avere un quadro d’insieme unitario dei fatti e delle persone coinvolte ed una strategia coordinata delle relative indagini e dei necessari riscontri probatori. Orbene non capisco proprio la ragione per cui l’attuale capo della Procura di Milano Bruti Liberati non abbia voluto attenersi a queste semplicissime e collaudatissime regole di buona investigazione nei casi giudiziari sopra indicati (ed anche in altri casi simili, come ad esempio l’inchiesta sulla vendita delle azioni Sea da parte del Comune di Milano, chiusa e dimenticata in cassaforte dal procuratore Bruti Liberati per quasi un anno, senza alcun atto di indagine, con il rischio di aver pregiudicato l’esito finale di una delicata vicenda). Ma quel che più mi preoccupa è l’evidente strumentalizzazione a cui si presta questa sua decisione (ripeto, a prescindere dalla buona fede o meno per cui essa è stata adottata) da parte di chi accusa i capi degli uffici giudiziari di fare a volte specifiche “assegnazioni pilotate” per arrivare a tesi precostituite contro o a favore di questo o quel personaggio politico o comunque di rilevanza pubblica. Strumentalizzazione, peraltro, già manifestatasi con forza da parte di taluni dei diretti interessati coinvolti nelle indagini in cui Bruti Liberati non ha rispettato il criterio oggettivo dell’assegnazione al “Pool reati contro la pubblica amministrazione” e tra essi, soprattutto il solito Silvio Berlusconi, provvisoriamente condannato per la vicenda Ruby a 7 anni di carcere e che ora, in attesa del giudizio definitivo, sta ricorrendo a tutte le armi di comunicazione di massa per sostenere che egli sarebbe semplicemente una vittima della “solita” magistratura milanese. È evidente, quindi, che – alla luce di quel che è successo – il Consiglio superiore della magistratura (ovvero l’organo costituzionalmente incaricato di valutare e sindacare il comportamento disciplinare dei magistrati) aveva il dovere di esaminare approfonditamente la situazione e prendere i conseguenti provvedimenti. Senonché è accaduto quel che a me – semplice ex magistrato di campagna – appare un’altra “anomalia nell’anomalia”, ovvero l’intervento a gamba tesa del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale – forte del suo ruolo di presidente del Csm – ha inviato una lettera-diktat al vicepresidente Michele Vietti, per giunta da quest’ultimo “secretata” senza spiegarne le ragioni, invitando (si fa per dire) il Consiglio superiore della magistratura a smussare le osservazioni critiche nei confronti del procuratore della Repubblica di Milano Bruti Liberati, all’insegna del detto “quel che è fatto è fatto”, passiamoci sopra ed andiamo oltre. Una decisione questa, a mio avviso, assai poco opportuna ed anzi pericolosa sul piano dei “precedenti interpretativi e decisionali”, nel senso che – se si lascia passare, senza prendere una chiara e netta posizione sulla questione delle forme e dei limiti con cui il capo di un ufficio giudiziario possa assegnare i fascicoli al pm Tizio piuttosto che al pm Caio – si rischia di non avere più certezza sull’obiettività ed obbligatorietà delle indagini penali e sulle reali finalità per cui esse vengono attivate (o non attivate, a seconda del caso). Il fatto, poi, che – come credo nel caso di specie – il tutto avvenga in buona fede non può valere di per sé a scagionare e legittimare ogni cosa, giacché una cosa è l’errore procedurale (che, per definizione, può capitare a tutti) altra cosa è il non fare tesoro di tale errore e rimediare per tempo lasciando così la possibilità che – in un vuoto normativo e regolamentare – ciò possa accadere di nuovo e magari, la prossima volta, anche per finalità e motivazioni meno nobili.
Tonino, il povero moralista silurato dalle manette ai suoi. La legge del contrappasso punisce Di Pietro, l'ex pm diventato capopopolo in nome dell'etica: dalla Liguria al Lazio, i guai giudiziari del suo esercito lo hanno travolto, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Se fossi milanese, e non lo sono, e se avessi avuto la vena di Jannacci, avrei scritto una piccola ballata sul Pover' Tonin, nel sens' del moralista sul modello di Pover purcèl nel senso del maiale di Ho visto un re. La sua gente, il suo piccolo esercito moralista, pian piano finisce in galera e immagino quanto Di Pietro soffra. Lo dico seriamente, Milano è stata del resto il suo palcoscenico: noi cronisti di allora eravamo tutti lì nel Palazzo di Giustizia quando Tonino tuonava, sudava, arringava, arrestava, interrogava. Ho ancora due bloc notes neri, fitti delle sue imprese. Lui sembrava un Calvino di Montenero di Bisaccia. E noi giornalisti vivevano aggrappati alla sua toga come i bambini alla gonna materna. Lui allora ricopriva per intero tutte le fantasie italiane, salvo - immagino - quelle erotiche, incarnando tutti i miti possibili: era l'angelo sterminatore come Saint Just nella rivoluzione francese, il pupazzo dei presepi napoletani di San Gregorio Armeno, l'antipolitica fatta persona, il pre-Grillo, il post Masaniello e se lo avessero messo nella Nazionale avrebbe certamente vinto i mondiali. Troppa grazia, sant'Antonio (Di Pietro). Perse (è la mia opinione) la testa: aveva l'Italia ai suoi piedi e mise all'incasso il patrimonio. Così, gettò la tonaca alle ortiche, si spretò come procuratore e si fece capopopolo in Parlamento inventandosi una surreale Italia dei Valori, una sua invenzione banale e convenzionale. E così, gli venne in mente di infliggere un esperimento moralizzatore artificiale, diffuso con la sua voce sgrammaticata, tonante nel deserto della gente comune (era evidente il conflitto d'interesse con la sintassi). Ebbe intanto un bel po' di guai con una scatola da scarpe, una Mercedes che furono pessimi segni premonitori. Poi nella sua arca imbarcò di tutto: discepoli ruspanti, opportunisti di provincia, personaggi fin troppo coloriti come Razzi, e Scilipoti, paesane di bell'aspetto e la schiuma della cosiddetta società civile che si chiamava ancora popolo dei fax. Una ciurma irrequieta e un bel po' imbarazzante. Passa qualche anno e l'esperimento si chiude: la meglio moralità dipietresca finisce in manette o comunque nei guai. Inquisiti, arrestati, denunciati, una catastrofe: pover Tonin, nel senso del fallimento. Ieri l'altro, ultimo evento, gli hanno ingattabuiato anche le fresche ragazzette del nuovo che avanza, in Liguria. In quella regione le truppe di Di Pietro sono state peggio dei lanzichenecchi. Fra loro Maruska Piredda e Marylin Fusco, giovani dalle consonanti esotiche, dedite ai rimborsi spese di fantasia, stando a quel che scrivono i magistrati. Di nuovo, roba da vergognarsi. Avrebbero fatto la cresta su ogni genere voluttuario e alimentare a spese del contribuente arrivando a pagarsi il gratta vinci nonché le salsiccia con polenta. Bel risultato. Bella rivoluzione e lezione di moralità. È ovvio che Di Pietro non può chiamarsi fuori: quella roba è tutta sua. Erano tutti miei figli, come si intitolava un dramma di Arthur Miller. Che razza di figli fossero, lasciamo perdere. Lui e il suo movimento sono diventati da tempo indifendibili ma poiché facevano parte dello schieramento antiberlusconiano con la bava alla bocca, sono stati difesi ben oltre i limiti della prudenza da Marco Travaglio e da Micromega. Cioè da tutto il mondo di coloro che presumono di appartenere alla razza ariana del bene, secondo la lezione del tutto perdente dello struggente Enrico Berlinguer che era struggente come persona, ma che non solo sbagliò tutto politicamente (con lui chiuse di fatto il Pci) ma ebbe la colpa di inventare la creatura genetica dei moralisti superiori, una specie separata da quella della gente comune. Per citare Calvino (che era ligure come gli ultimi disastri causati da gente dell'Idv) Di Pietro e i suoi epigoni somigliano ai personaggi del Cavaliere Inesistente che era un guscio di latta vuoto, mentre l'umanità comune corrisponde al suo scudiero Gurdulù che aveva il torto di rotolarsi nel fango, ma il pregio di essere reale. Tonino ha avuto dunque quel che prevede la legge del contrappasso: hai speculato sul moralismo genetico e superumano? E adesso béccati non un caso isolato, ma la catastrofe etica, la rottamazione morale (chi volesse l'elenco completo delle malefatte può allietarsi su Internet). Quando era procuratore di Mani Pulite gli estorsi l'unica intervista di quell'epoca. Oggi mi piacerebbe fargliene una seconda per chiedergli: caro Di Pietro, hai visto che fine hanno fatto le tue pretese razziste (sempre nel senso etico ariano)? Nulla da dichiarare? A questa domanda dei doganieri americani Oscar Wilde rispose: «Nulla, tranne la mia genialità». Tu potresti dire altrettanto?
Ed i leghisti potrebbero dire altrettanto?
Bossi, "The Family" e il lungo paradosso della Lega, scrive Luigi Pandolfi su “L’huffingtonpost”. La politica oggi ha tempi veloci, si sa. Nell'arco di 2-3 anni sono cambiate tante di quelle cose nel nostro paese che della richiesta di rinvio a giudizio per Umberto Bossi e i suoi due figli da parte della Procura di Milano potrebbe, legittimamente, non importare a nessuno. Tra l'altro il loro partito, la Lega Nord, come in molti sostengono, avrebbe pure cambiato pelle, sarebbe ormai un'altra cosa rispetto al movimento che inventò la Padania e tenne in scacco il paese per anni con le sue menate secessioniste. Ora c'è la Le Pen, mica siamo ai tempi di Roma ladrona! In verità le affinità politiche e programmatiche, ancorché non dichiarate, con la fiamma d'oltralpe e con le altre forze dell'estrema destra europea c'erano già allora, così come c'erano già allora, alla corte del senatur, tutti gli attuali protagonisti del "nuovo corso", a cominciare dal segretario Salvini. Insomma, sarà pure vero che il tema dell'uscita dall'Euro ha preso oggigiorno il sopravvento su quello della Padania, ma vuoi mettere il significato, politico e storico, di un'inchiesta che spazza via decenni di retorica sulla "diversità leghista", sui vizi del sud e della politica "romana"? Il senatur e i suoi figli sarebbero chiamati a rispondere di appropriazione indebita di oltre mezzo milione di euro di soldi pubblici, usati per spese personali, dalle multe al carrozziere, ai vestiti, fino alla laurea in Albania di Renzo "il Trota" ed ai lavori di casa a Gemonio. Per tutte le persone coinvolte nella vicenda le accuse,a vario titolo, sarebbero di appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato per circa 40 milioni di euro. Come non andare con la memoria a quei "favolosi" primi anni novanta, quando lo spavaldo senatur tuonava: "Noi, davanti a questa banda, ai ladri di Tangentopoli, siamo qui per dire avanti Di Pietro". È noto, l'esordio della Lega, quello della ribalta sul palcoscenico della politica nazionale, coincise con il l'epopea di tangentopoli. È alle elezioni del 1992 che il Carroccio, con l'8,6%, portò in parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori, che gli varranno il pieno inserimento nelle dinamiche della vita politica italiana, il posto al sole nel grande "gioco romano". È il tempo in cui il partito padano ed il suo leader, cavalcheranno con successo le indagini del Pool di Milano, gridando alla degenerazione di un ceto politico che, da decenni, occupava le istituzioni dello Stato. Emblematico, scenico, fu, a tal riguardo, l'atteggiamento che i leghisti ebbero in parlamento, all'indomani della presentazione, da parte del governo Amato, del cosiddetto decreto Conso, quell'insieme di norme che andavano ad incidere sulla punibilità di coloro che avevano preso le tangenti, passato alla storia come il "colpo di spugna" per i reati di tangentopoli. Allorquando il Presidente del Consiglio Giuliano Amato, dopo dieci giorni dal varo del decreto, entrò nell'aula di Montecitorio, dai banchi della Lega si scatenò il finimondo: il deputato di Como Luca Leoni Orsenigo si lanciava nell'esibizione di un macabro cappio, mentre Marco Formentini, allora capogruppo alla Camera, incitava i colleghi a gridare:"Mafia, mafia, mafia!". Bei tempi. Come quando la Camera negò l'autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. Altra scena, altra bella giornata di indignazione e di lotta: "è un golpe bianco", "questa è una mascalzonata", "il regime se ne sbatte i coglioni dell'opinione pubblica", gridava in quei frangenti il capo della Lega, seguito da tutti i suoi sodali. Presto però la scena cambierà per la Lega, e le parti nella commedia si rovesceranno. Lo stesso film, bello, avvincente, coinvolgente, spericolato, si trasformerà nel giro di pochi mesi in una pellicola da incubo, per Bossi in primo luogo. Anche il partito più forcaiolo, nel senso letterale del termine, del parlamento italiano, cadrà nelle maglie dell'inchiesta di Milano (maxitangente Enimont). Una roba apparentemente inverosimile, considerato che la storia della Lega era appena iniziata, fuori e contro il sistema partitocratico della prima Repubblica. A ragion veduta, oggi, possiamo dire, nondimeno, che non fu un incidente di percorso, ma un caso significativo, premonitore, il primo di una lunga serie, che, in ogni modo, avrebbe dovuto far riflettere di più, con vent'anni d'anticipo, sulle incoerenze di questo partito. Un partito eversivo da un lato, per i suoi propositi di rottura dell'unità nazionale, e perfettamente integrato dall'altro nel sistema che diceva di voler combattere. Ora però tutto è più chiaro. E non basta l'euroscetticismo di maniera a cancellare l'onta di un imbroglio politico durato per più di cinque lustri. The Family non è solo il nome di un'inchiesta giudiziaria: è il paradigma del lungo paradosso leghista.
Rosi Mauro scagionata: chi le chiederà scusa? Accusata di malversazioni, nel 2012 era stata espulsa dalla Lega. Oggi la Procura di Milano la proscioglie: è l'ennesimo caso di gogna mediatica. Senza risarcimento, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. La Lega nord (ma anche molti, molti giornali) oggi dovrebbe chiedere scusa a Rosi Mauro: accusata di gravi malversazioni ai danni del partito (e dei fondi del finanziamento pubblico), nel 2012 era stata l'unica espulsa dal partito, insieme con l’ex tesoriere Francesco Belsito, per voto unanime del consiglio federale. Oggi la Procura di Milano chiede per lei, e soltanto per lei, l’archiviazione dall’accusa di appropriazione indebita nell’ambito dell’inchiesta «The Family» che due anni fa ha scosso il Carroccio e portato allo spodestamento di Umberto Bossi. Due anni fa l’allora vicepresidente del Senato aveva scelto di non dimettersi dalla carica, con totale disappunto del partito. «Il rancore prevale sulla verità» aveva dichiarato Rosi Mauro, parlando dell’epurazione che invece era stata temporaneamente risparmiata a Bossi e suoi figli Renzo e Riccardo, anche se «il Trota» si era poi dimesso da consigliere regionale. Ieri il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e i pm Roberto Pellicano e Paolo Filippini hanno chiesto il rinvio a giudizio per tutti i membri della famiglia Bossi e per altre 6 persone, tra cui Belsito, accusato di avere gestito con metodi da «finanza più che allegra» la tesoreria della Lega. Per Rosi Mauro, invece, magistrati hanno chiesto il non luogo a procedere: la donna infatti si era scagionata presentando lo scorso novembre alla procura una serie di documenti e di spiegazioni sui 99.731 euro che, secondo l’accusa, erano stati da lei sottratti dalle casse di via Bellerio. Mauro ha dimostrato che 16 mila euro le erano dovuti dal partito perché aveva venduto una vecchia auto che non le serviva più; che un assegno da 6.600 euro sulla cui matrice Belsito aveva scritto «Rosi» sarebbe stato un escamotage del tesoriere «per ritirare denaro contante attribuendolo ad altri»; e, infine, che non aveva speso 77 mila euro per comprare una laurea in Albania a Pierangelo Moscagiuro, un uomo della sua scorta che in realtà non era neppure diplomato. Le tesi di Mauro, scrivono i magistrati, «sono accoglibili e comunque tali da rendere assai dubbia la solidità della prospettazione accusatoria». Rosi Mauro, che nel frattempo è scomparsa dall'orizzonte politico, meriterebbe la riabilitazione. E almeno qualche risarcimento. Rosi Mauro: «Io assolta, ma dalla Lega zero telefonate, neppure Bossi».
Intervista esclusiva alla ex vicepresidente del Senato: «Così mi sono ripresa la dignità e ho saputo resistere, ad altri sarebbe venuto un infarto», scrive Paola Sacchi su “Panorama”.
"Qualcuno mi ha chiesto scusa? No, finora nessuno, ma io so aspettare, come la mia assoluzione dimostra". Dalla Lega Nord che l'aveva espulsa all’unanimità nessuna telefonata: né da Roberto Maroni (il segretario che la fece espellere e chiese pulizia fino in fondo a suon di ramazze ndr) né da Matteo Salvini, che «giovanissimo fu accanto a me consigliere comunale a Milano».
Ma forse quello che provoca più amarezza a Rosi Mauro è non aver ricevuto neppure una telefonata da Umberto Bossi, né da sua moglie Manuela Marrone. E neppure dall’ex capogruppo della Lega a Montecitorio Marco Reguzzoni, colui che insieme a «la Rosi» era descritto nelle cronache come l’altro esponente di spicco del «cerchio magico» bossiano. Silenzio anche dall’ex fedelissimo «Federico Bricolo, il mio capogruppo al Senato», che si muoveva come un’ombra dietro di lei.
«No, nessuno di loro mi ha chiamata, né ora né in questi orribili due anni e due mesi, mi sono stati vicini invece tantissimi militanti che stanno ancora in Lega. Io ancora leghista nell’anima? Ero e resto un’autonomista, non solo dei territori, ma anche della mente e delle coscienze delle persone».
Si toglie tanti sassolini dalla scarpa Rosi Mauro in questa intervista esclusiva a Panorama.it, dopo l’assoluzione piena da parte della Procura di Milano dalle infamanti accuse piovutegli addosso nell’ambito del caso Belsito, compresa quella di aver acquistato diamanti con i soldi della Lega. Rindossa i pani della festa la ex vicepresidente del Senato che resistette ai vertici di Palazzo Madama mentre tutto il partito le chiedeva di mollare. Ma lei era convinta della propria innocenza. Roberto Calderoli la definì «la sindacalessa feroce», nella stessa Lega e non solo sui giornali veniva sprezzantemente chiamata «la badante» o « la terrona» perché nata a S. Pietro Vernotico in Puglia. Maroni disse quando venne espulsa: «Finalmente avremo un segretario padano del Sinpa». Ma lei è rimasta alla guida del Sinpa a dispetto dei santi.
Senatrice Mauro, cosa prova dopo essere passata dalle stalle della gogna politica e mediatica alle stelle dell’assoluzione?
«Ho passato due anni e due mesi in una gogna mediatica senza precedenti… ho letto cose che non stanno né in cielo né in terra. Certo che in questo momento sono felice. Non posso che ringraziare la Procura. Adesso resto in attesa del decreto di archiviazione. Vivo momento per momento, sapendo fin dall’inizio come stavano le cose. Io sono andata contro la mia stessa volontà. Sono una che fino a due anni fa non era mai andata in televisione, e sui giornali, ho fatto migliaia e migliaia di comizi dal 1987 al 2012 (iniziò ragazzina come operaia metalmeccanica a Milano e delegata della Uilm nel 1985 ndr), mai un rapporto con i giornalisti….».
Avvicinarla era impossibile, per farlo bisognava essere davvero tosti…
«E certo, se lo ricorda bene. Ma semplicemente perché io facevo i miei comizi, facevo la sindacalista, erano altri che dovevano portare la linea del movimento sui giornali e andare in televisione. La cosa per me molto brutta è stata aver visto tutte quelle cose in un momento scomparire, in un attimo diventai il capro espiatorio che non ho ancora capito bene di che cosa».
Il termine più gentile nei suoi confronti fu «la badante» o «la terrona» che nella Lega era un marchio infamante o la capa del «cerchio magico»…
«Hanno detto di tutto, quanto al cerchio la capa per i giornali era la Manuela, non voglio togliere i primati a nessuno (ride ndr). Questo cerchio magico era un’invenzione dei giornalisti, perché poi chi ha portato alla disfatta si è visto».
Veramente non era solo un’invenzione dei giornalisti che invece riportavano quello che dicevano nella Lega. Lei ha resistito, come un sol uomo, parafrasando Bossi che elogiandola le disse: «Tu per me sei un vero uomo», alle richieste pressanti di Maroni che le voleva imporre le dimissioni da vicepresidente del Senato. Come ha fatto?
«Io quella sera infatti ecco perché, rompendo le mie consuetudini, andai a Porta a Porta e durante la trasmissione andò in onda la serata della ramazze a Bergamo con Maroni (andò anche Bossi piangente ndr). Mi dissi: adesso mi sveglio, perché questo è un incubo. E non capivo. Ma decisi: io non mi dimetto da vicepresidente del Senato (Mauro era il vicario del presidente Renato Schifani ndr) perché io non ho fatto niente. Ho finito i miei cinque anni a Palazzo Madama, dopodiché, mi sono detta, aspettiamo gli eventi, la giustizia farà il suo corso. Ho aspettato due anni e due mesi. E adesso attendo il decreto di archiviazione».
Nell’intervista esclusiva a Panorama nell’aprile 2012 lei fu profetica: «Non vi temo, la partita con me è solo agli inizi. Come ha passato questi due anni?
«Io penso che ad altri al posto mio sarebbe venuto un infarto. Ho continuato a fare la sindacalista, alla guida del Sinpa che esiste e non è più collegato alla Lega. Il 16 maggio 2012 andai al congresso e mi hanno rieletto segretario. Ci siamo distaccati all’unanimità dalla Lega. Dico quindi grazie ai miei iscritti, ai miei collaboratori, che mi hanno creduto perché mi conoscono da 25 anni. Dico grazie ai pochi amici che mi sono rimasti vicini e non a quelli che non si sono fatti più sentire. Il coraggio non si può comprare, lo si deve avere dentro».
Chi le è rimasto vicino?
«Della nomenclatura della Lega nessuno».
Neppure Bossi?
«No, assolutamente no. L’ultima volta che ci ho parlato ero ancora in Senato, dopodichè non ho più sentito nessuno, n-e-s-s-u-n-o (lo ripete, scandendolo ndr). Ci sono stati invece tanti militanti che mi hanno sostenuto e io non ne ho mai fatto i nomi. Qualcuno dice che non è stato un complotto, io oggi continuo a dire: è stato un complotto. E questa è la cosa che mi provoca dolore».
Bossi è stato rinviato a giudizio con i figli Renzo e Riccardo. Cosa pensa?
«Ho letto le dichiarazioni in cui afferma: siamo innocenti. Io dico: buon per loro, se hanno le prove dimostreranno la propria innocenza, come io ho dimostrato la mia. Io ho sempre aiutato tutti senza chiedere mai niente in cambio, mai, mai, mai».
Chi le ha telefonato dopo l’assoluzione?
«Tanti militanti ancora dentro la Lega ma anche tanti che sono usciti e che mi continuano a dire: non mollare. Ribadisco: dalla nomenclatura zero telefonate».
Quindi, neppure il segretario Salvini?
«No, tra l’altro Salvini è stato consigliere comunale con me a Milano nel ’93, quando era proprio un ragazzo».
E Reguzzoni?
«No. E neppure Federico Bricolo, allora mio capogruppo al Senato, che tra l’altro venne a casa mia in Sardegna e vide con i suoi occhi che sono due locali e non la mega-villa di cui parlavano i giornali. E già da allora Bricolo non disse nulla. Queste sono veramente le cose che dispiacciono di più».
Eppure Bricolo come gli altri quando lei era potente la temeva e la omaggiava, era in codazzo con lei che del resto folgorò Bossi quando ancora ragazzetta in piedi su un tavolo urlò e mise in riga un’assemblea di tranvieri inferociti…
«Se mi temevano evidentemente è perché io non ho nulla da nascondere, evidentemente sono altri che hanno qualcosa da nascondere. Io non sono mai stata né invidiosa né gelosa di nessuno, anzi ho difeso in alcuni momenti storici della Lega anche chi era indifendibile. Purtroppo è un problema loro e mi auguro che riescano a conviverci bene perché quello che hanno fatto è indegno».
Lei ora lavora?
«Faccio volontariato al Sinpa».
Come si mantiene?
«In questo momento con i risparmi miei, tant’è che ho detto ai magistrati: continuate a controllare il mio conto, controllatemi passo passo perché io possa riprendermi la mia dignità, perché hanno fatto di tutto per togliermela».
Oltre al Sinpa fa politica?
«Già quando ero in Senato ho costituito il movimento Sgc: “Siamo gente comune”, abbiamo due sedi, piano piano ci stiamo muovendo partendo dal territorio. Controllate sul sito, c’è tutto. L’altra fondatrice è Arianna Miotti, una commercialista anche lei per vent’anni in Lega da dove se ne è andata per le schifezze che mi hanno fatto».
Lei fu infangata anche nella vita privata, le attribuirono come amante il caposcorta Pierangelo Moscagiuro. Ora cosa ha da dire?
«Moscagiuro, vi prego di scriverlo in neretto, non è mai stato il mio compagno, ma era solo il mio caposcorta. Punto».
E comunque lei disse a Panorama: «Se all’alba dei miei 50 anni mi attribuiscono un uomo di 37 faccio anche una bella figura…
«Quella era una battuta spiritosa (ride ndr). Ma chi mi conosce sa che sono sempre stata legata a un uomo che ha un bel decennio più di me».
Verrebbe spontaneo chiederle per mera curiosità chi è…
«E no, non voglio più intromissioni nella mia vita privata, a meno che non sia io a parlarne. Perché quello che hanno fatto è stato tutto mirato per cercare di distruggermi politicamente ma anche personalmente. Le cose io le ho sempre fatte alla luce del sole. Da mio marito ero già separata dal 1998 e poi anche divorziata».
È stato anche scritto che lei avrebbe comprato la laurea a Moscagiuro e gli avrebbe fatto avere benefit dal Senato…
«Ma se Moscagiuro non ha neppure il diploma! E poi scrivono che non è un poliziotto quando lui lo è ancora oggi. Comunque d’ora in poi io parlo solo per me stessa. Sono rimasta talmente scottata che non metterei più le mani sul fuoco per nessuno».
Manuela Marrone l’ha più chiamata?
«Assolutamente no».
Che morale trae dalla sua vicenda?
«La mia vicenda è stata archiviata, mentre nella Lega ci sono molti rinviati a giudizio».
Si riferisce alla storia dei rimborsi spese alla Regione?
«Sì, anche per questa parte sono stata assolta. Per altri che hanno fatto invece i duri e puri nessuna archiviazione».
Lei si sente ancora leghista a dispetto del comportamento della Lega?
«A dispetto della Lega io ho creduto e credo ancora all’autonomia vera, che vale per tutti, da Nord a Sud, perché autonomia significa essere responsabili delle proprie azioni, del proprio lavoro, del proprio territorio. Ed io queste cose le ho nell’anima, non solo nelle parole. Ho fatto migliaia e migliaia di comizi dagli anni ’80, ero una ragazzina. Sono passata dalle fabbriche al consiglio regionale lombardo dove feci approvare il federalismo fiscale che poi a Roma Calderoli e Giulio Tremonti stravolsero. Ognuno deve fare i conti con la propria coscienza. La mia è a posto».
La coscienza dei magistrati è sempre a posto?
Premio Ischia a Manzo, il giornalista che intervistò Esposito. E il giudice manda una lettera alla giuria per dissuaderla, scrive “Tempi”. Esposito (non si capisce assolutamente a quale titolo) ha preso carta e penna per scrivere al presidente della giuria del premio di giornalismo Giulio Anselmi, già direttore di Espresso, Stampa, Ansa, oltre che ad altri giurati (tra i nomi che compongono la giuria ci sono i direttori del Mattino, Alessandro Barbano, dell'Ansa Luigi Contu, del Messaggero Virman Cusenza, e di SkyTg24 Sarah Varetto). Esposito è accusato di aver violato i doveri «di riserbo e di correttezza», a causa di un’intervista sulla condanna dell’ex premier rilasciata al cronista del Mattino. Per questo il magistrato gli ha chiesto 2 milioni di euro di risarcimento. «Sono a Ischia a ritirare il premio». Antonio Manzo, cronista giudiziario del Mattino, non ha altro da aggiungere a tempi.it sull’anomala decisione del giudice Antonio Esposito di lanciare un “appello” affinché non gli venga assegnato un premio giornalistico. Esposito, presidente della sezione feriale di Cassazione che condannò l’anno scorso l’ex premier Silvio Berlusconi, ha cercato di bloccare il premio al giornalista del Mattino, facendo notare ai giurati che a causa dell’intervista («gravemente manipolata», secondo il suo avvocato) rilasciata a Manzo, all’indomani della condanna di Berlusconi a 4 anni di carcere per frode fiscale, è stato messo sotto accusa dagli organi disciplinari della magistratura. Della lettera che Esposito ha inviato a tutti i giurati del premio speciale Ischia assegnato a Manzo ne parla oggi il Fatto Quotidiano. Il giudice, comunica ai lettori Marco Lillo, «ha scritto alla fondazione Valentino che organizza il Premio Ischia per chiedere che il riconoscimento sia bloccato», nonostante non vi sia, «nessuna relazione fra l’intervista di Esposito e il riconoscimento al giornalista del Mattino». Quell’intervista è «costata cara» al giudice che condannò Berlusconi, ricorda Lillo. Dopo la pubblicazione delle parole del giudice sul quotidiano di Napoli, «sono nati per lui un’azione disciplinare del Procuratore Generale e un procedimento davanti al Consiglio della Magistratura, rinviato al 3 luglio prossimo». Al giornalista del Mattino, infatti, Esposito avrebbe rivelato anticipatamente i contenuti delle motivazioni della sentenza. Lillo rivela un altro particolare della vicenda: Esposito «ha avviato un’azione civile per chiedere 2 milioni di euro di risarcimento a Manzo e solidalmente il direttore Alessandoro Barbano e l’editore Caltagirone». Il magistrato non ha chiesto risarcimenti solo a Manzo e al Mattino, ma anche al Giornale (400 mila euro), a Libero (1 milione e mezzo), a Piero Ostellino e al Corriere della Sera (150 mila euro), al Foglio e a Giuliano Ferrara (120 mila euro). Secondo il giudice e il suo avvocato, Alessandro Biamonte, Manzo non dovrebbe ricevere il premio speciale Ischia (patrocinato dalla Presidenza della Repubblica e del Consiglio) perché avrebbe commesso una «grave violazione deontologica per aver pubblicato un testo difforme da quello concordato e per di più difforme dal colloquio effettivamente avvenuto». Il Fatto Quotidiano riporta l’audio nel quale il giudice aveva tentato di schermirsi dalle domande incalzanti di Manzo dicendo: «Non mi fare esprimere giudizi sulle sentenze, ci dobbiamo esprimere con la motivazione». La frase non è poi stata riportata nell’intervista. Il giornalista del Mattino si è difeso dalle accuse di Esposito, spiegando, in una intervista a Tempi, di aver trascritto fedelmente quanto detto dal giudice Esposito. «Esposito ha detto esattamente le cose che hai letto nell’intervista – ha spiegato Manzo all’inviato di Tempi Peppe Rinaldi -. I nastri sono a disposizione, le quasi mitiche copie dei fax reciproci pure. Quando l’autorità giudiziaria ce li chiederà, se ce li chiederà, li metteremo a disposizione». Per quanto riguarda la frase omessa di Esposito, il giornalista ha ricordato, nel dicembre 2013, al procuratore generale di Cassazione, Carlo Destro, che «è perfettamente in linea con il lavoro giornalistico quello che viene definito da noi “editing” cioè il legame logico tra il parlato e lo scritto onde evitare che una acritica trasposizione, sia pure letterale e fedele, non porti il lettore a una comprensione netta e precisa delle parole che lo stesso magistrato aveva pronunciato nel corso della conversazione». Dopo la fase istruttoria, a inizio giugno, il procuratore generale di Cassazione, ha accusato il giudice che condannò Berlusconi di essere incorso in una violazione dei doveri «di riserbo e di correttezza». Esposito, secondo l’accusa, avrebbe «sollecitato la pubblicità di notizie relative alla propria attività d’ufficio e alla trattazione del processo» dinanzi alla Cassazione, «utilizzando canali personali privilegiati ai quali già in precedenza aveva fatto ricorso», nonostante «dovesse a ciò sconsigliarlo, oltre la particolare risonanza mediatica che aveva accompagnato la celebrazione del processo, l’elevata funzione svolta nell’ambito del collegio giudicante». Esposito prese «di sua iniziativa il contatto telefonico, circa un’ora dopo la lettura del dispositivo della sentenza» con il giornalista del Mattino, «affermando di non poter parlare immediatamente e accordandosi con il giornalista per il rilascio di un’intervista, “per spiegare la sentenza” entro i successivi due o tre giorni». L’intervista fu poi rilasciata il 5 agosto con una «conversazione telefonica di circa 35 minuti», nel corso della quale «il magistrato ha interloquito sia sui criteri di assegnazione del processo alla sezione feriale sia sui temi che il collegio era stato chiamato ad affrontare in quel giudizio».
Anche la coscienza di alcuni politici è sempre a posto?
Grillo minaccia il giornalista di Repubblica Ciriaco: "E' uno stalker, durerà poco". Il Comitato di Redazione del quotidiano romano: "Farneticazioni minacciose, tutta la redazione è con Tommaso. Non ci faremo condizionare". La Fnsi: "Ora basta sappia che non ci piegherà". La stampa parlamentare: "Cessi l'atteggiamento aggressivo dei 5 Stelle", scrive “La Repubblica”. Nuovo attacco di Grillo ai giornalisti. Un "wanted" sul suo sito questa volta rivolto contro il giornalista di Repubblica Tommaso Ciriaco. Ma anche qualcosa di più. Grillo parla di ricerche fatte sul nostro collega e conclude con un "quelli come lui dureraranno poco". Il cronista politico di Repubblica Tommaso Ciriaco è 'reo' di aver raccontato le divisioni in seno al gruppo europeo dei grillini. Sotto il titolo apparentemente ironico di 'Braccia rubate all'agricoltura', il blog pubblica un lungo un articolo con tanto di foto del giornalista. Un 'wanted' on line che Grillo ha già riservato ad altri cronisti, ma che stavolta svela una specie di 'indagine preventiva' fatta sul giornalista. Scrive infatti il blog: "Tommaso è calabrese, ma in Calabria non lo conosce nessuno. Pare addirittura che Tommaso non abbia mai lavorato in un giornale locale nella sua regione. In rete è invisibile, a parte un profilo Twitter, non ha un sito, non è reperibile un suo cv. Che ha fatto nella vita?" L'accusa a Ciriaco è quella di fare il suo lavoro con 'troppo zelo': "Tommaso gira per il Parlamento a fare stalking sui rappresentanti del M5S, capta battute in ascensore, li segue fino al treno, li segue in macchina, li segue in aeroporto, li segue fin dentro l'aereo. Si potrebbe pensare che sia dei servizi segreti!" La conclusione è nel consueto stile dell'invettiva: "Quanti Tommasi ci sono nel le redazioni dei giornali di regime italiani? Tanti, ma non incazzatevi perché una cosa è certa: dureranno poco. Dopo di che dovranno cercarsi un lavoro come milioni di italiani, e di questi tempi non è facile". Il Comitato di Redazione di Repubblica stigmatizza quelle che definisce le "farneticazioni minacciose" di Grillo. "Purtroppo - scrive il sindacato dei giornalisti di Repubblica - siamo costretti a tornare ad occuparci delle farneticazioni minacciose di cui un nostro collega, Tommaso Ciriaco, è stato oggetto in queste ore sul Blog di Beppe Grillo. Il merito, il tono, la viltà e l’incedere allusivamente mafioso con cui viene esposto al pubblico ludibrio un giornalista che ha la sola colpa di fare il proprio mestiere la dice lunga sul coraggio e le intenzioni dell’estensore del post. Tommaso Ciriaco sa che l’intera redazione è con lui. Chi lo insulta protetto dall’anonimato deve sapere che, non saranno le minacce a determinare la qualità del giornalismo di Repubblica e a condizionare il lavoro dei suoi giornalisti". Anche Franco Siddi a nome dell'Fnsi esprime "incondizionata solidarietà a Tommaso Ciriaco". Secondo il segretario del sindacato dei giornalisti: "Il nuovo attacco assurdo di Grillo contro un giornalista che si occupa di conoscere a fondo i fatti e di renderli pubblici ai lettori è sintomo di un'insofferenza ormai palese e della sua difficoltà ad essere un vero leader democratico". Poi Siddi lancia la sfida: " Grillo si confronti con i giornalisti e le loro rappresentanze. Per ogni giornalista da lui colpito con parole sempre più gravi e pericolose per la democrazia tanti altri continuano a scrivere con onestà e competenza. E questi crescono sempre di più, Non li abbatterà. Ci sono mele marce anche nel giornalismo e di questo siamo pronti a parlare con tutti. Se il leader dei 5 Stelle continua così sappia che non ci piegherà. Saranno sempre più i Tommaso Ciriaco che non si fermano davanti ad una dichiarazione minacciosa. Il sole della censura che lo affascina non passerà. Gli ripetiamo, accetti il contronfto pubblico nella sala tobagi della Fnsi ma se non gli piace la sede delle conferenze intitolata a un martire dell'informazione accettiamo di confrontarci anche a casa sua. Ora basta". Dura la reazione dell'Associazione stampa parlamentare che insieme alla solidarietà "auspica che da parte del Movimento 5 stelle cessi un atteggiamento aggressivo nei confronti dei cronisti che liberamente e con serietà esercitano la loro professione".
Dalle parole ai fatti. Dopo mesi di campagne virulente contro la stampa, due attivisti «disoccupati» del Movimento 5 Stelle hanno deciso di chiedere conto ai cronisti delle «menzogne» e hanno fatto irruzione nella sede del Secolo XIX, a Genova, scrive “Il Corriere della Sera”. I due, visibilmente alterati, hanno chiesto di parlare con i cronisti che avevano scritto un articolo sull’immunità e si sono filmati mentre parlavano con il portiere (mandando il video ieri su Facebook): «Devono venire qui a dare spiegazioni. Mi devo calmare? Se tutti i giorni scrivono qualcosa di falso su di te, tu ti calmi? Voi giornalisti sarete i primi a pagare...». Poi la citazione del «signor Ilario Lombardo, noto diffamatore». Non è l’unico cronista finito nel mirino dei 5 Stelle. Sul blog di Grillo compare un attacco violento contro Tommaso Ciriaco, giornalista di Repubblica. La gogna mediatica, con tanto di foto, è intitolata «Braccia rubate all’agricoltura». L’articolo, anonimo, attacca dicendo che Tommaso è calabrese, ma «in Calabria non lo conosce nessuno. Pare addirittura che non abbia mai lavorato in un giornale locale». Poi ancora: «Non ha un sito, non ha un cv in rete. Che ha fatto nella vita?». Illazioni false oltre che disinformate: Ciriaco è un cronista molto noto, che ha lavorato per anni all’agenzia di stampa Tmnews (ex Apcom), prima di approdare a Repubblica. Ma l’anonimo estensore del post insiste, definendo «stalking» l’attività cronistica e concludendo: «Si potrebbe pensare che sia dei servizi segreti». Seguono molti commenti pesanti, con lettori che si dicono pronti alle maniere forti per far cessare le menzogne. In difesa di Ciriaco si schiera il cdr di Repubblica: «Farneticazioni minacciose». Ma anche l’associazione della stampa parlamentare e molti politici di diverso orientamento (nessun 5 Stelle). Negli ultimi giorni Grillo aveva attaccato Marta Serafini, del Corriere della Sera, e un cronista dell’Ansa che aveva riportato le voci su divisioni nel gruppo europeo dei 5 Stelle, annunciando una proposta di legge per obbligare i cronisti a rivelare le fonti. Di recente, Grillo aveva spiegato che ai cronisti dovrebbe essere vietato l’accesso a Montecitorio.
STORIE DI MAFIOSI E PARA MAFIOSI.
Il pentito Iovine: “Così a Napoli si aggiustavano i processi”, scrive Emilio Lanese su “Resto al Sud”. Sentenze di condanne a trent’anni o all’ergastolo che in appello diventano assoluzioni. Per il boss pentito del clan dei Casalesi, Antonio Iovine, che di quei ribaltoni giudiziari ha beneficiato, si tratta di processi aggiustati. ”C’era una struttura che girava per il Tribunale di Napoli”, racconta chiamando in causa giudici e avvocati. I verbali delle dichiarazioni rese ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano, depositate oggi al processo per le minacce del clan allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione, aprono ora un altro fronte di indagine, dopo quelli sulla struttura “militare” del clan e sulle infiltrazioni nel sistema economico e le collusioni dei politici. Un’inchiesta di cui si sta già occupando la Procura di Roma, che procede per i presunti reati commessi da magistrati del distretto partenopeo e cha ha aperto un fascicolo per l’ipotesi di corruzione in atti giudiziari. Iovine infatti ha riferito in particolare di tre processi conclusi con assoluzioni sostenendo, sulla base di quanto gli aveva rappresentato il suo avvocato, Michele Santonastaso, che quelle sentenze favorevoli (per delitti di cui lo stesso Iovine, dopo la decisione di collaborare con la giustizia, si assumerà la responsabilità) erano in realtà state comprate. Vicende che ruotano tutte intorno alla figura discussa di Santonastaso, detenuto da diversi mesi con l’accusa di collusione con la cosca dei Casalesi e sotto processo, proprio insieme con Iovine, anche per le minacce a Saviano e Capacchione. Ebbene, Santonastaso – a dire del pentito – gli aveva prospettato il modo di venir fuori da due processi nei quali in primo grado gli erano stati inflitti rispettivamente 30 anni e l’ergastolo. Nel primo caso, a proposito del processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di “lupara bianca“, Santonastaso gli avrebbe consigliato di nominare l’avvocato Sergio Cola, ex parlamentare di AN, “che aveva un buon rapporto” con il Presidente della Corte di assise Appello Pietro Lignola. “Il discorso fu molto chiaro: mi consigliò la nomina facendo riferimento chiaramente alla sua amicizia con il presidente della Corte“, dice il pentito. Santonastaso avrebbe fatto sapere a Iovine che l’avvocato voleva 200 milioni di lire necessari per fargli ottenere l’assoluzione. “Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate di 100 milioni ciascuno”. “Santonastaso non mi ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione ma era chiaro che essa era stata ottenuta con metodi illeciti”. L’avvocato potrebbe aver millantato? O effettivamente era in grado di condizionare l’esito dei processi? Sarà compito degli inquirenti della Procura di Roma stabilire la veridicità delle dichiarazioni, relative al delitto Griffo come ad omicidi al centro di altri due processi. In uno si fa riferimento all’uccisione di Ubaldo e Antonio Scamperti, avvenuta a San Tammaro (Caserta) nel 1985: anche per tale delitto Iovine fu condannato all’ergastolo e assolto dalla stessa sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli. “Santonastaso mi chiedeva la disponibilità a dargli 200mila euro. Io diedi il via libera ed effettivamente fui assolto“. Alla domanda del pm sul perché avessero atteso il giudizio di appello e non fossero intervenuti prima Iovine ha dato una spiegazione. “Santonastaso spiegò per quanto riguarda la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere non era sua competenza, perché Santa Maria era un po’ così, faceva la differenza tra Napoli e Santa Maria”. Michele Zagaria, l’altro boss che con Iovine condivideva il comando del clan, dopo aver ottenuto un’assoluzione in appello per un duplice omicidio non volle invece pagare 250mila euro a Santonastaso che aveva promesso l’aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. Al magistrato che lo interrogava disse che di quei delitti era responsabile in prima persona ma, dopo pesanti condanne in Corte di Assise (ergastolo e 30 anni) era stato assolto in appello. Ora il pentito dei Casalesi Antonio Iovine spiega al pm della Dda Antonello Ardituro anche come avrebbe ottenuto quei ribaltoni: corrompendo i giudici, ovvero ricorrendo a una ”struttura’‘ attiva a suo dire nel Tribunale di Napoli per gli aggiustamenti dei processi. Sono soprattutto due gli episodi citati sui quali il pentito getta l’ombra del sospetto. Il più eclatante è rappresentato da un duplice omicidio avvenuto a San Tammaro, in provincia di Caserta, nel maggio 1985. Vittime: Ubaldo e Antonio Scamperti. Erano gli anni in cui i Casalesi, all’epoca guidati da Antonio Bardellino, stavano regolando i conti con gli ex alleati di un tempo, i Nuvoletta. Uno scontro per la supremazia criminale che riproduceva, su scala ridotta, la guerra di mafia in atto in Sicilia (entrambi i cartelli erano infatti rappresentati in Cosa Nostra). Il dibattimento di primo grado si era concluso con otto ergastoli. E il massimo della pena era stato inflitto anche a lui, Antonio Iovine soprannominato ‘o Ninno. Una situazione che si capovolge nel giudizio davanti alla Corte di Assise di Appello, che assolve il giovane rampollo dei Casalesi che di lì a poco avrebbe completato la scalata ai vertici dell’organizzazione, dopo la cattura dei pezzi da novanta come Francesco Schiavone, detto Sandokan, e Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ‘e mezzanotte. Quella sentenza, ha raccontato Iovine al pm Antonello Ardituro, fu in realtà aggiustata come gli spiegò il suo difensore, l’avvocato Michele Santonastaso da diversi mesi anch’egli detenuto con l’accusa di collusioni con la cosca casalese. Così come, sempre sulla base delle rivelazioni che gli avrebbe fatto Santonastaso, furono rimesse a posto le cose al processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di lupara bianca, scomparso a metà degli anni Ottanta. Griffo si era reso responsabile di un triplice omicidio senza “l’autorizzazione” del clan dei casalesi. Fu eliminato nel 1985 dal “tribunale della camorra” che punì con la morte il camorrista di San Cipriano d’Aversa e ne nascose poi il corpo. Un sistema, quello di far scomparire i cadaveri, in linea con la tendenza dei Casalesi ad agire sotto traccia ed evitare, se non in casi di assoluta ”necessità”, di rendersi protagonisti di fatti di sangue eclatanti che avrebbero richiamavano una più massiccia presenza sul territorio di polizia e carabinieri.
Il boss e i processi aggiustati «Assolto perché ho pagato». Il racconto del sistema «Nel Tribunale di Napoli c’era una struttura per corrompere». La Procura di Roma indaga su corruzione, scrive Fulvio Bufi “Il Corriere della Sera”. «Ci stava tutta una struttura che girava nel Tribunale di Napoli». Ha usato queste parole il collaboratore di giustizia Antonio Iovine, ex boss di primo piano dei clan camorristici casalesi, per spiegare ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia come sarebbe riuscito ad essere assolto in appello in due processi per omicidio che in primo grado gli erano costati condanne a trenta anni e all’ergastolo. Una struttura che aggiustava i processi, quindi, alla quale Iovine racconta di essere ricorso su indicazione del legale che lo assisteva prima del pentimento, l’avvocato Michele Santonastaso (oggi detenuto per rapporti con i clan). E aggiunge che pagò in una circostanza duecento milioni di lire e nell’altra duecentomila euro. È nell’interrogatorio del 13 maggio scorso che Antonio Iovine comincia a raccontare di sentenze pilotate al sostituto della Dda Antonello Ardituro. Lo fa a proposito dei suoi rapporti con Michele Zagaria, l’altro ex superlatitante dei casalesi, e di quando quest’ultimo si rifiutò di pagare all’avvocato Santonastaso 250 mila euro dopo una assoluzione. «Sono stato assolto e ho versato». «In altre due occasioni - racconta Iovine - l’avvocato Santonastaso mi aveva chiesto soldi per corrompere giudici in cambio di una sentenza di assoluzione per due miei processi sempre in Corte d’appello di Napoli e mi riferisco all’omicidio di Griffo Nicola e al duplice omicidio Scamperti, per i quali mi chiese e ottenne rispettivamente 200 milioni per il processo Griffo e 200 mila euro per il processo Scamperti. Il meccanismo che avrebbe portato al ribaltamento delle sentenze di condanna, Iovine lo chiarisce nel successivo interrogatorio, quello del 26 maggio. «Nell’occasione del processo Griffo - racconta - il Santonastaso mi suggeriva, nel grado d’appello, la nomina dell’avvocato Cola Sergio, perché aveva un rapporto con il presidente della Corte d’assise d’Appello, ossia Lignola (Pietro Lignola, oggi in pensione, ndr )». Iovine spiega che aderì subito all’indicazione del suo legale di fiducia e, anche «senza conoscerlo», nominò Cola come ulteriore difensore. Del resto lui stesso ammette che «Santonastaso era sempre poco chiaro, affrontando gli argomenti sensibili con un modo particolare», ma stavolta non se ne preoccupò molto. «Fatto sta che sono stato assolto ed ho versato, tramite i miei familiari, direttamente all’avvocato Cola la somma di 100 milioni (di lire, ndr )». Soldi che, aggiunge Iovine, furono richiesti «direttamente dall’avvocato (Cola, ndr ) a mia moglie ed avevano la natura di onorario, che sebbene giudicassi molto esagerata come richiesta, essendo stato assolto pagai senza problemi». Se rapporto diretto ci fu con l’avvocato Cola, altrettanto non avvenne con il giudice Lignola, secondo quello che riferisce Iovine. Fu l’avvocato Santonastaso, che lui aveva invitato «a darsi da fare per aggiustare il processo e farmi assolvere», a rassicurarlo «dicendo che poteva trovare la soluzione giusta». «Mi tranquillizzai quando seppi che era stato assegnato a Lignola». E fu sempre da Santonastaso che gli arrivò la richiesta economica: «Mi fu detto, credo da mia moglie, che l’avvocato voleva 200 milioni che erano necessari per farmi ottenere l’assoluzione. Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni ciascuna che gli furono portate da persone a me vicine. Il Santonastaso, naturalmente, non ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione, ma era chiaro che era stata ottenuta con metodi illeciti». Il nome del presidente di Corte d’Appello, Iovine dice di averlo sentito fare prima del processo, quando «il legale mi disse che c’era bisogno di far assegnare il processo alla sezione del presidente Lignola». Cosa che accadde anche per l’appello dell’omicidio Scamperti: «Quando venni a sapere che il processo era stato assegnato al presidente Lignola, mi tranquillizzai molto, ed ero fiducioso che il Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere». I verbali in cui Iovine parla delle sentenze aggiustate sono stati inviati per competenza dalla Procura di Napoli a quella di Roma che ha aperto un fascicolo e iscritto nel registro degli indagati per corruzione in atti giudiziari aggravata dall’articolo 7 (aver favorito un’associazione mafiosa) sia il giudice Lignola che gli avvocati Cola e Santonastaso».
Nel tribunale di Napoli sarebbe esistita "tutta una struttura" che si occupava di aggiustare i processi di camorra. Lo dice il pentito del clan dei Casalesi Antonio Iovine. E la Procura di Roma apre subito un'inchiesta per corruzione, scrive “La Repubblica”. Iovine ha reso le sue dichiarazioni nell'interrogatorio sostenuto il 13 maggio 2014 scorso, il primo dall'inizio della sua collaborazione con la giustizia. In un altro interrogatorio, quello del 28 maggio, il pentito ha sostenuto di aver di aver saputo dall'avvocato Michele Santonastaso, suo difensore storico oggi imputato di collusioni con la camorra, "che c'era la possibilita' di ottenere una sentenza di assoluzione - in un processo d'appello per un duplice omicidio n.d.r. - e per questo occorrevano 250 mila euro per comprare, per corrompere i giudici". Iovine - secondo i nuovi verbali depositati dalla Procura di Napoli nel corso del processo per le minacce dei Casalesi a Roberto Saviano e Rosaria Capacchione- avrebbe pagato tre volte. Il boss fa riferimento negli interrogatori a un sistema di corruzione per aggiustare processi che coinvolgerebbe magistrati, e fa i nomi di un presidente di Corte d'Appello a Napoli, ora in pensione, e di un altro avvocato penalista, ex deputato di An, oltre al suo difensore storico, Michele Santonastaso."Negli incontri con il mio avvocato - afferma fra l'altro - parlavamo di esigenze particolari legate ai processi ed in alcune occasioni Santonastaso mi ha chiesto dei soldi per aggiustare i processi e farmi avere delle assoluzioni".
L'omicidio Griffo. "Una prima volta - racconta Iovine - è accaduto a proposito del processo per l'omicidio di Nicola Griffo per il quale avevo avuto una condanna a trent'anni. L'avvocato Santonastaso mi promise che in appello avrebbe visto cosa si sarebbe potuto fare. Mi consigliò di nominare anche un altro avvocato in quanto aveva un buon rapporto con il presidente della sezione di Corte d'Appello dove si celebrava il processo. Io così feci e invitai l'avvocato a darsi da fare per trovarmi una soluzione per farmi uscire assolto. L'avvocato mi rassicurò dicendo che poteva trovare la soluzione per aggiustare il processo e farmi assolvere. Ad un certo punto mi fu detto che l'avvocato voleva 200 milioni di vecchie lire che erano necessari per farmi ottenere l'assoluzione. Io accettai e fui assolto, pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni che gli furono portate da persone a me vicine".
L'omicidio Scamperti. Un'altra occasione simile avrebbe riguardato un processo per il duplice omicidio di Ubaldo e Antonio Scamperti, a San Cipriano D'Aversa, "nel quale - racconta Iovine - fui condannato all'ergastolo in primo grado e con le medesime modalità fui poi assolto in appello". E quando il boss seppe che il processo era stato assegnato al giudice che in precedenza lo aveva già assolto, "mi tranquillizzai molto ed ero fiducioso che Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere. Mi rendevo conto che ci voleva qualche sforzo in più in quanto c'erano due pentiti che mi accusavano. Fatto sta che in prossimità della conclusione del processo Santonastaso, per il tramite dei miei familiari, credo sempre mia moglie, mi fece sapere che era tutto a posto e che mi chiedeva la disponibilità a dargli 200 mila euro, sempre in due rate".
Le dichiarazioni di Iovine sono al vaglio dell'autorità giudiziaria che dovrà valutarne l'attendibilità e trovare i necessari riscontri. Iovine viene interrogato dai pm Antonello Ardituro e Cesare Sirignano con il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. La Procura di Roma ha aperto il suo fascicolo con l'ipotesi di reato di corruzione in relazione appunto a queste dichiarazioni. Il boss del clan dei Casalesi Michele Zagaria dopo aver ottenuto un'assoluzione in appello non volle pagare 250mila euro all'avvocato che aveva promesso l'aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. E' una delle circostanze raccontate dal boss pentito Antonio Iovine, nei verbali dell'interrogatorio reso ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano. Iovine riferisce la vicenda nell'ambito delle dichiarazioni su presunti casi di corruzione per ottenere esiti processuali favorevoli. Secondo Iovine, il suo legale, avvocato Michele Santonastaso (attualmente detenuto per collusioni con il clan) si propose di "aggiustare" il processo per un duplice omicidio (Griffo-Stroffolino) in cui era imputato Zagaria. A tale proposito avrebbe organizzato un incontro in un bar di Caserta con i familiari del boss e con un "intermediario" che si era già interessato per due sentenze di assoluzione favorevoli a Iovine. "Effettivamente - racconta Iovine - questo incontro ci fu e questa persona consegnò a mia moglie un bigliettino con un numero di telefono e l'indicazione della somma di 250mila euro occorrente per ottenere l'assoluzione. Questa persona voleva che ci fosse una conferma nel caso in cui Zagaria avesse dato l'ok definitivo. Io feci recapitare questo bigliettino a Michele Zagaria...Occorreva avere una conferma immediata perchè si era in prossimità della chiusura del processo. Se non erro il giorno dopo l'assoluzione Zagaria mi incontrò e mi espresse la volontà di non voler pagare questi soldi lasciandomi intendere che a suo dire l'assoluzione non era dipesa dall'intervento di Santonastaso. Io ci rimasi molto male e questo fatto naturalmente incise sul prosieguo dei miei rapporti con Zagaria e iniziò un periodo di freddezza".
«Dinanzi ad assurde sentenze, mi sono chiesto spesso se fosse cialtroneria delle corti o complicità, scrive Roberto Saviano su Facebook. Ora Antonio Iovine confessa: 250mila euro a sentenza. 250mila euro per aggiustare un processo: giudici avvicinabili, squadre di avvocati pronti a sfruttare ogni debolezza per raggiungere il loro obiettivo. Il boss racconta di come, pur essendo responsabile di alcuni omicidi, sia stato assolto al secondo grado per aver corrotto. Sarà necessario capire gli elementi che svelerà e le prove che porterà a loro sostegno, prima di iniziare un qualsiasi ragionamento, ma per ora è importante aprire il capitolo “corruzione giudiziaria”. Sempre più la giustizia civile e quella penale in Italia risultano mercati dove il miglior offerente ottiene il risultato sperato. Se Iovine darà prove della compravendita dei giudici, si aprirà un nuovo capitolo fondamentale e trascurato: la giustizia comprata dal malaffare. Del resto, la potenza del capitalismo criminale non potrebbe esistere senza la complicità di una parte della giustizia».
POTENTE UGUALE IMPUNITO.
In Italia potente è uguale a impunito. Solo undici persone sono in carcere per corruzione. Perché le inchieste vengono cancellate in massa dalla prescrizione. E così i colletti bianchi non pagano mai per i reati che commettono, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biondani su “L’Espresso”. Gong, tempo scaduto: il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma il processo è durato troppo, per cui il colpevole ha diritto di restare impunito. Nel gergo dei tribunali si chiama prescrizione. È il termine massimo concesso dalla legge per condannare chi ha commesso un reato. In teoria è una nobile garanzia: serve a evitare che uno Stato autoritario possa riesumare accuse del lontano passato e perseguitare i cittadini con processi infiniti. Il guaio è che in tutti i Paesi civili la prescrizione è un evento eccezionale, mentre in Italia è diventata la regola per intere categorie di reati. Una scappatoia legale che premia soprattutto gli imputati eccellenti e la criminalità dei colletti bianchi. E nega giustizia al popolo delle vittime dei reati. E provoca pure danni alle casse dello Stato: le somme, in molti casi si parla di decine di milioni di euro, sequestrati agli imputati in fase di indagine perché ritenute provento della corruzione o concussione, una volta dichiarato prescritto il reato devono essere restituite agli “illegittimi” proprietari. E così, grazie alle leggi-vergogna sulla prescrizione, le tante caste, cricche, logge o lobby della politica e dell’economia possono continuare a rubare. Mentre restano senza giustizia i cittadini danneggiati da truffe, raggiri finanziari, evasioni fiscali o previdenziali, corruzioni, appalti truccati, scandali sanitari, omicidi colposi, traffici di rifiuti pericolosi, disastri ambientali, morti sul lavoro, violenze in famiglia, perfino abusi sui bambini. «L’Italia è l’unico Paese del mondo in cui la prescrizione continua a decorrere per tutti e tre i gradi di giudizio», è la diagnosi tecnica di Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani Pulite che oggi è giudice di Cassazione: «All’estero di regola il conteggio si ferma con il rinvio a giudizio o al massimo con la sentenza di primo grado, dopo di che non si prescrive più niente. Da noi invece il colpevole può farla franca anche se è già stato condannato in primo e secondo grado e perfino se è l’unico a fare ricorso, quindi è proprio lui ad allungare la durata del processo. Quando proviamo a spiegarlo ai magistrati stranieri, non riescono a capacitarsene: “Che senso ha?”». Il senso di questa anomalia italiana è una massiccia impunità: solo nell’ultimo anno giudiziario, come ha detto il primo presidente della Cassazione invocando una «riforma delle riforme», sono stati annientati dalla prescrizione ben 128 mila processi penali. Come dire che in Italia, ogni giorno, evitano la condanna almeno 350 colpevoli di altrettanti reati. La prescrizione facile è da decenni un vizio nazionale: basti pensare che i processi di Mani Pulite, nati dalle storiche indagini milanesi del 1992-1994, si erano chiusi con un bilancio finale di 1.233 condanne, 429 assoluzioni e ben 423 prescrizioni. Già ai tempi di Tangentopoli, insomma, il 20 per cento dei colpevoli riusciva a beffare la giustizia. Invece di risolvere il problema, le cosiddette riforme dell’ultimo ventennio lo hanno aggravato. Il tasso di impunità è salito alle stelle, in particolare, con la legge ex Cirielli, approvata nel 2005 dal centrodestra berlusconiano, che ha reso ancora più breve la via della prescrizione: termini dimezzati, applicazione automatica, obbligo per i giudici di concederla per ogni singolo reato, anche se il colpevole ha continuato a commetterne altri. E così, mentre la crisi economica spinge molti Stati occidentali a punire severamente i reati finanziari e il malaffare politico, in Italia i più ricchi e potenti riescono quasi sempre a sfuggire alla condanna. A documentarlo sono i dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (aggiornati al novembre 2013), raccolti in esclusiva da “l’Espresso”: sugli oltre 60 mila detenuti si contano soltanto 11 accusati per corruzione, 26 per concussione, 46 per peculato (cioè per furto di denaro pubblico), 27 per abuso d’ufficio aggravato. In Germania per reati economici finanziari vi sono in cella 8.600 detenuti. Di fronte all’enormità di un’evasione stimata nel nostro Paese di 180 miliardi di euro all’anno, in cella per frode fiscale ci sono soltanto 168 persone e appena tre arrestati per reati societari o falso in bilancio. La prescrizione all’italiana ha salvato centinaia di imputati eccellenti. L’elenco è interminabile, ma il re delle prescrizioni è sicuramente Silvio Berlusconi, che i giudici hanno dovuto dichiarare «non più punibile» prima per le tangenti a Bettino Craxi, per la corruzione giudiziaria della Mondadori (danni accertati per 494 milioni di euro) e per i colossali falsi in bilancio della Fininvest (caso All Iberian, fondi neri per 1.550 miliardi di lire) e poi, proprio grazie alla legge ex Cirielli approvata dalla sua maggioranza, per le mazzette da 600 mila dollari versate al testimone inglese David Mills, in cambio del silenzio sui conti offshore del Cavaliere. Che ora attende che si prescriva in appello anche la condanna per il caso dell’intercettazione trafugata nel dicembre 2005 per screditare il suo avversario politico Piero Fassino. Persino la prima condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale, quella che gli è costata il seggio in parlamento, è stata ridimensionata dalla prescrizione: le sentenze considerano pienamente provata un’evasione da 368 milioni di dollari, ma la ex Cirielli ha lasciato sopravvivere solo l’ultimo pezzetto di reato, per cui l’ex premier ora deve versare all’Agenzia delle Entrate solo dieci milioni. A sinistra, il miracolato più in vista è Filippo Penati, ex capo della segreteria del Pd: accusato di aver intascato tangenti per oltre due milioni di euro, aveva detto di voler rinunciare alla prescrizione, ma poi non l’ha fatto, e ora resta sotto processo solo per le accuse più recenti e difficili da dimostrare. Tra i big della finanza, autostrade e costruzioni, spicca il caso di Fabrizio Palenzona, che si è visto annullare l’accusa di aver intascato almeno un milione di euro su una rete di conti di famiglia tra Svizzera e Montecarlo, mai dichiarati al fisco e scoperti grazie alle indagini sulle scalate bancarie del 2005. Nel mondo della sanità, la sparizione dei primi reati, provocata dalla solita ex Cirielli, ha fatto tornare in libertà perfino il chirurgo della “clinica degli orrori” Pierpaolo Brega Massone, nonostante la condanna a 15 anni e mezzo. Nel pianeta giustizia, la prescrizione ha salvato l’ex giudice romano arrestato per tangenti Renato Squillante e altri magistrati con i conti all’estero. Tra i casi più recenti c’è la prescrizione ottenuta dal costruttore della “cricca” Diego Anemone per i famosi finanziamenti illeciti versati all’insaputa dell’ex ministro Claudio Scajola, che a sua volta è stato assolto nonostante siano stati usati per l’acquisto della sua casa romana. Mentre l’ex governatore del Molise, Michele Iorio, si è visto cancellare solo in Cassazione la condanna a 18 mesi per abuso d’ufficio e ora può tornare a fare politica nella sua regione. Verso la prescrizione si avviano molti altri scandali come le frodi milionarie di “Lady Asl” alla sanità laziale, le grandi truffe sui farmaci, i danni subiti da migliaia di risparmiatori con i famigerati bond-spazzatura della Cirio. La prescrizione facile, in sostanza, costringe la giustizia italiana, già rallentata da mille cavilli e inefficienze, a una corsa contro il tempo che per molti reati è perduta in partenza. E a truccare l’orologio a favore dei colpevoli sono proprio leggi come la ex Cirielli. Per capire quanto siano ingiusti e spesso drammatici gli effetti della prescrizione all’italiana, basterebbe che i politici legislatori non ascoltassero solo gli avvocati-deputati degli inquisiti, ma anche le vittime dei reati. «Mi chiamo Roberto Bicego, ho 66 anni, sono il primo paziente veneto a cui il luminare della cardiochirurgia Dino Casarotto aveva impiantato, nel novembre del 2000, una valvola-killer brasiliana, così chiamata perché scoppiava nel cuore dei pazienti. Quando si è saputo che aveva preso le tangenti dalle aziende fornitrici, il professore è stato arrestato e condannato in primo grado, ma non ha mai confessato niente, non ha chiesto scusa a noi malati, non ha risarcito nulla e in appello ha ottenuto la prescrizione. Io ho perso il lavoro, la salute, la tranquillità, ancora oggi ho dolori al torace. Il tribunale aveva accolto le richieste dei nostri legali, Giovanni e Jacopo Barcati, e ci aveva concesso un risarcimento provvisorio di 50 mila euro. Ma dopo la sentenza d’appello la direzione dell’ospedale di Padova ci ha intimato di restituirli con gli interessi. Adesso siamo noi a dover pagare i danni: roba da matti». «Sono Giovanni Tomasi, figlio di Clara Agusti, che ha 74 anni e non può muoversi da casa. I medici dicono che mia madre ha subito troppe operazioni, per cui non può più sostituire le sue due valvole cardiache, anche se una è difettosa. Facendosi corrompere, è come se il chirurgo l’avesse condannata a morte. Eppure anche lei ha ricevuto questo decreto ingiuntivo che le impone di risarcire l’ospedale. Ma che giustizia è questa?». Condanna a morte non è un modo di dire: dei 29 malati di cuore che si erano costituiti parte civile nel processo di Padova, solo uno aveva rifiutato di rioperarsi: «È morto durante il processo, il giorno dopo una visita di controllo. Gli hanno trovato pezzi della valvola-killer in tutto il corpo». «Sono Emanuela Varini, la moglie di Annuario Santi, che era un po’ il simbolo delle tante vittime di quelle valvole perché era rimasto paralizzato e seguiva tutte le udienze in carrozzella. Mio marito è morto nel 2008, non ha fatto in tempo a vedere che è finito tutto in prescrizione. Anche a Torino erano stati corrotti due chirurghi, ma hanno confessato e sono stati condannati: il professor Di Summa, quando ha visto mio marito in tribunale, è scoppiato a piangere e gli ha chiesto perdono. Il chirurgo di Padova invece non ha risarcito nessuno e dopo la prescrizione siamo ancora in causa con l’ospedale». A Roma sono cadute in prescrizione tutte le appropriazioni indebite che hanno svuotato le casse di 29 cooperative edilizie che hanno lasciato senza casa circa 2.500 famiglie. L’ex dominus del “Consorzio Casa Lazio” e i suoi presunti complici restano sotto accusa soltanto per bancarotta, ma il processo, lungo e complicato come per tutti i fallimenti a catena, è ancora in primo grado e i risarcimenti restano un sogno. «Le vittime sono migliaia di poveracci che hanno pagato gli anticipi e sono rimasti senza casa», spiega un avvocato di parte civile, Fabio Belloni: «Ci sono molte giovani coppie che avevano impegnato la liquidazione dei genitori, operai e impiegati che hanno perso tutti i risparmi: il Comune ha dovuto aiutare gli sfrattati che erano finiti a dormire per strada. Centinaia di famiglie, dopo aver versato più di centomila euro ciascuna, ora hanno solo la proprietà di un prato in periferia, neppure edificabile». A Milano è ancora fermo in appello, dopo le prime condanne e molte prescrizioni, il processo per le massicce attività di spionaggio illegale compiute dalla divisione sicurezza del gruppo Pirelli-Telecom tra il 2001 e il 2007, con la complicità di ufficiali corrotti anche dei servizi segreti: almeno 550 operazioni di dossieraggio che hanno colpito 4200 persone e decine di società private o enti pubblici. Lo scandalo aveva spinto il Parlamento a imporre per legge la distruzione dei dossier ricattatori: obiettivo raggiunto per i politici spiati, ma non per la massa di lavoratori e cittadini che avevano già subito i danni. E così, la prima vittima conclamata della banda dei super-spioni, il signor D.T., ex dirigente licenziato ingiustamente dalla filiale italiana di una multinazionale americana, non ha mai avuto giustizia, anche se l’intera maxi-inchiesta era partita proprio dal suo caso: «Sono stato spiato per mesi da una squadra di poliziotti corrotti, che per screditarmi non hanno esitato a inventarsi una falsa inchiesta per pedofilia», ricorda D.T. con voce disperata. «Sono stato mobbizzato, perseguitato per due lunghissimi anni: il manager che aveva pagato quel dossier 65 mila euro, ha diffuso quelle calunnie in tutta l’azienda, quindi i colleghi che mi erano amici hanno cominciato a chiamarmi “anormale”, a farmi passare per folle... È stato un inferno, ho avuto un gravissimo esaurimento nervoso, da allora non ho più una vita normale. Ho saputo di essere stato spiato illegalmente solo quando il pm Fabio Napoleone ha trovato la mia pratica: ero il dossier numero 323. Dopo l’arresto, le spie hanno confessato tutto, ma i poliziotti corrotti non sono stati nemmeno processati: era tutto prescritto già all’udienza preliminare. Ho perso il lavoro, la fiducia in me stesso, la serenità familiare e nessuno mi ha risarcito». La legge ex Cirielli favorisce anche i colpevoli di reati odiosi come le violenze contro i bambini. A Roma sono già caduti in prescrizione tre dei quattro processi aperti contro R.P., un padre degenere accusato di aver maltrattato e picchiato la moglie, arrivando a cacciarla da casa di notte con una neonata, in un drammatico quadro di abusi sessuali sulla figlia minorenne che lei aveva avuto nel precedente matrimonio. Condannato per tre volte in primo grado, l’uomo ha sempre ottenuto la prescrizione in appello. Nel quarto processo, il più grave, ora è imputato di violenza sessuale sulla ragazzina, nonché di averla sequestrata, alla vigilia della deposizione, per costringerla a ritrattare: tribunale e corte d’appello lo hanno condannato a quattro anni e otto mesi, ma l’udienza finale in Cassazione è stata rinviata per un difetto di notifica al prossimo marzo, quando rischia di essere tutto prescritto. «Al di là dei risarcimenti, le vittime dei reati hanno soprattutto un desiderio di giustizia che si vedono negare», spiega l’avvocata Cristina Michetelli. La ex Cirielli sta cancellando anche reati ambientali che minacciano intere comunità e compromettono la filiera alimentare. Della prescrizione facile hanno potuto beneficiare, tra gli altri, i diciannove inquisiti nella maxi-inchiesta sulle campagne avvelenate in Toscana e Lazio: sono imprenditori dello smaltimento, procacciatori d’affari e autotrasportatori che raccoglievano masse di rifiuti pericolosi, truccavano le carte, li riversavano negli impianti di compostaggio (rovinandoli) e poi li rivendevano come concimi da spargere nei terreni agricoli, che ora sono contaminati. In primo grado avevano subito condanne fino a quattro anni, con interdizione dalla professione, ma in appello la prescrizione ha cancellato anche i reati superstiti: ora sono tutti liberi e risultano incensurati, per cui possono tornare a fare il loro lavoro nel ciclo dei rifiuti. A completare il quadro dell’impunità, oltre alla prescrizione facile, sono le lacune normative che impongono di assolvere l’imputato che abbia commesso fatti considerati illeciti dai trattati internazionali, ma non dalle leggi in vigore in Italia. Un esempio per tutti: Francesco Corallo, il re delle slot machine del gruppo B-Plus-Atlantis, è riuscito a far cadere l’accusa, che lo aveva costretto alla latitanza, di aver pagato tangenti a un banchiere, Massimo Ponzellini, in cambio di prestiti per 148 milioni di euro: la Popolare di Milano infatti ha ritirato la querela, rendendo così impossibile processare entrambi per quella «corruzione privata». Anche i grandi evasori che nascondono montagne di soldi all’estero non vengono quasi mai perseguiti dall’Agenzia delle Entrate, perché le prove raccolte con le indagini penali fuori dai confini nazionali non possono essere utilizzate dal fisco italiano: tra i beneficiari di questo divieto, spiccano l’ex ministro Cesare Previti e i suoi colleghi avvocati condannati per corruzione di giudici. E fino a quando non diventerà reato l’auto-riciclaggio, non sarà possibile punire neppure i boss mafiosi che hanno nascosto o reinvestito le ricchezze ricavate con il racket delle estorsioni o i traffici di droga: il codice attuale infatti permette di incriminare solo eventuali complici esterni, ma non direttamente i padroni dei tesori criminali. Benvenuti in Italia, il Paese dell’impunità per i ricchi e potenti.
IL GIORNALISTA, SICURAMENTE FILO TOGHE, OMETTE DI DIRE CHE LA RESPONSABILITA' DEI TEMPI LUNGHI E' DELLE TOGHE.
E poi, il cittadino, quanto deve aspettare per avere giustizia e vedersi riconosciuta l'innocenza, sotto la mannaia perdurante della gogna aizzata da tesi giudiziarie strampalate?
E poi di chi ci dobbiamo fidare?!?
FIDARSI DELLE ISTITUZIONI. I CITTADINI: NO GRAZIE!! CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?
Corruzione Gdf, Pm: «Nella Finanza sistema di tangenti», scrive “Il Messaggero”. Una macchina perfetta lubrificata dalle mazzette e messa in moto dagli ufficiali della Finanza. L’inchiesta della procura di Napoli, che due giorni fa ha portato all’arresto del comandante provinciale della Guardia di Finanza di Livorno, Fabio Massimo Mendella, e all’iscrizione sul registro degli indagati del vicecomandante generale Vito Bardi, non riguarda un solo episodio di corruzione. E’ sul sistema che lavorano i pm, «sull’abitudine» con caratteristiche di «professionalità nel reato»: imprenditori disposti a pagare e militari, a tutti i livelli e senza soluzione di continuità, propensi a incassare. Da Emilio Spaziante, comandante in seconda del corpo arrestato per il Mose di Venezia, al suo successore, Vito Bardi. E a confermarlo ai pm sono anche alcuni alti ufficiali della Finanza. L’indagine è ancora ”coperta”: agli atti non ci sono soltanto le testimonianze dei fratelli Pizzicato, che hanno raccontato di avere pagato Mendella 15mila euro al mese (poi diventati 30) per evitare che gli accertamenti avessero conseguenze. Altri, come loro, hanno deciso di parlare. All’esame c’è anche la posizione di A. D’A., il proprietario degli immobili adibiti a caserme, che ogni mese incassava il massimo dei canoni. La struttura del sistema, del quale Bardi avrebbe fatto parte, emerge con chiarezza dal decreto di perquisizione a carico di Bardi firmato dai pm Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli. Si legge nel decreto che ieri ha portato proprio gli uomini della Finanza a perquisire gli uffici del capo: «Dalle indagini finora svolte è emerso lo stretto legame di ordine personale intercorso tra il colonnello Mendella, percettore di somme, illecitamente richieste asseritamente per sé e altri, e il generale Vito Bardi, attuale comandante in seconda della Guardia di Finanza. Diverse fonti testimoniali - di cui si omette allo stato il riferimento nominativo per ragioni di cautela processuale, potendo le stesse in ragione del ruolo rivestito da Bardi essere oggetto di iniziative inquinanti - hanno riferito sia dei rapporti di stretta vicinanza tra Mendella e Bardi, sia dei rapporti di familiarità di quest’ultimo con imprenditori partenopei (e non) a loro volta oggetto delle presenti e più ampie investigazioni». E ancora: «Tali ultime circostanze sono state riferite anche da appartenenti alla stessa Guardia di Finanza collocati ad alti livelli gerarchici sentiti come persone informate (di cui parimenti si omette il riferimento nominativo allo stato per le medesime ragioni in precedenza esposte). Altri soggetti hanno riferito di rapporti ispirati a richieste di favori di rilievo economico riguardanti Bardi, oggetto delle presenti investigazioni». All’esame dei pm sono finiti anche i canoni d’affitto pagati alla Solido Property dell’imprenditore napoletano A. D’A., per alcuni immobili adibiti a caserme. In base alle risultanze, l’Ufficio tecnico erariale aveva fissato i canoni più bassi nelle tabelle di locazione ma, proprio Bardi, contrariamente alle indicazioni dell’Ute, avrebbe dato l’autorizzazione per pagare il prezzo massimo previsto. Inoltre, la sede della società di D’A., esattamente come quella dei fratelli Pizzicato, sarebbe stata spostata da Napoli a Roma in coincidenza con il trasferimento di Mendella. Gli avvocati dell’imprenditore, Roberto Guida, Luigi Petrillo e Luigi Pezzullo, precisano che «le società del gruppo di A. D'A. hanno sede in Roma dal settembre del 2004, epoca antecedente al trasferimento dell'ufficiale, che sarebbe avvenuto solo nel 2012». E aggiungono che la vicenda degli affitti era già stata oggetto di un’indagine chiusa con un’archiviazione. In realtà, l’inchiesta del 2012, poi archiviata, riguardava alcuni immobili che la società di D’A. aveva venduto a prezzi fuori mercato ai familiari dell'ex capo del Sismi Niccolò Pollari e del generale della Finanza Walter Cretella Lombardo.
Fiamme Gialle travolte dagli arresti ai vertici. Riemerge il caso: chi controlla i controllori? Alti ufficiali della Guardia di Finanza fermati, perquisiti e indagati che gettano ombre sull'impegno dei militari onesti. E, come venti anni fa, si ripropone il problema della prevenzione: come impedire che i funzionari corrotti facciano carriera, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Chi controlla i controllori? Per la seconda volta in pochi giorni, le istruttoria coinvolgono ufficiali di alto livello della Guardia di Finanza. Ieri è stato arrestato per corruzione il colonnello Fabio Massimo Mendella, attualmente comandante delle Fiamme Gialle a Livorno, ma soprattutto è stato perquisito l'ufficio del numero due del Corpo, il generale Vito Bardi, anche lui indagato. Non era mai successo prima. Il comando generale della Finanza non era stato perquisito nemmeno nella tempesta del 1994, quando Mani Pulite coinvolse decine di graduati e ufficiali che in Lombardia avevano alimentato un sistema di bustarelle. La scorsa settimana, la piena del Mose aveva investito con violenza l'istituzione. L'ex generale Emilio Spaziante è stato arrestato, con un'accusa ancora più grave delle bustarelle per chiudere un occhio sulle verifiche fiscali: secondo i magistrati avrebbe ottenuto oltre due milioni di euro per garantire alla macchina di quattrini veneziana la protezione dalle inchieste penali. Una circostanza mai accaduta durante la vecchia Tangentopoli. Con lui sono stati perquisiti Mario Forchetti, ex generale a tre stelle nominato garante per la trasparenza degli appalti Expo, e il colonnello Walter Manzon, ex comandante di Venezia: entrambi non risultano indagati. Spaziante è stata fino a pochi mesi fa una figura di primissimo piano, arrivata fino alla carica di capo di stato maggiore e comandante dell'Italia Centrale. Un ufficiale a dir poco discusso. Le intercettazioni del faccendiere Valter Lavitola avevano rivelato le pressioni nel 2009 su Silvio Berlusconi per farlo arrivare al vertice del Corpo. «No, non per fare il numero uno. Per fare una mediazione e lui fare il numero due», diceva Lavitola al premier: «La mediazione la sta facendo il ministro (dell'Economia Giulio Tremonti, ndr) ed è quasi fatta. Lei mi autorizzò a parlargliene. Lui mi ha detto che teneva tutto fermo fino a quando lei non si muoveva e noi si rischia il caso che da persone proprio amiche amiche amiche rischiamo insomma quanto meno che gli diventiamo antipatici». Il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di finanza indagato per corruzione, intervistato a Bari nel 2012 spiega i principi del finanziere modello: ''Un cittadino non avulso dal contesto che lo circonda, di sani principi e pronto ad affrontare le difficoltà'' (immagini da AntennaSud). Nonostante questo, Spaziante è riuscito nel 2013 ad arrivare alla poltrona caldeggiata da Lavitola, grazie agli automatismi che regolano le carriere. Poco dopo è esplosa un'altra inchiesta, questa volta della procura antimafia di Roma, che ha registrato gli interventi sull'ufficiale di un'industriale di Ostia per ottenere un documento, con cui realizzare un falso e farsi assegnare un bene demaniale. Una vicenda in cui compariva anche un ruolo dello studio professionale di Giulio Tremonti, chiamato a mediare su un finanziamento da 100 milioni di euro che doveva essere stanziato da Unipol. Guarda caso, la stessa società da cui pochi mesi fa Spaziante ha ottenuto una consulenza dopo avere lasciato l'uniforme. Adesso l'ex generale è agli arresti. Secondo gli accertamenti, condotti dalle stesse Fiamme Gialle, Spaziante e la sua convivente hanno complessivamente dichiarato entrate per poco più di 2 milioni di euro, mentre sono state scoperte uscite pari a quasi 3,8 milioni. Scrivono i pm: «In questo caso emerge inequivocabile l’elevatissimo tenore di vita. Dalla scheda patrimoniale risultano auto sportive, barche di lusso, villa con piscina, prestigiosi immobili, nonché la frequentazione di costosissimi alberghi per i suoi spostamenti in Italia. Soggiorni settimanali a Milano in hotel da mille euro a notte». E durante le perquisizioni nella residenza della sua convivente, gli investigatori hanno trovato 200 mila euro con banconote sporche di terra che sembravano essere state appena dissepolte. La correttezza dell'istituzione non viene messa in discussione. Sono i militari delle Fiamme Gialle a condurre le istruttorie più delicate del momento. Ed è stato proprio un ufficiale, il colonnello Renato Nisi, a impedire che Spaziante venisse a conoscenza della rete di microspie che hanno smascherato la ragnatela di tangenti dell'Expo. Anche il procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo, che ha ordinato la perquisizione nel comando generale, ha detto: «Confermiamo l'assoluta fiducia nel lavoro della Guardia di Finanza, ovviamente a partire dai suoi vertici». Gli ultimi sviluppi mostrano però con chiarezza l'esistenza di un problema di prevenzione, che riguarda tutta la pubblica amministrazione. Quali strumenti esistono per impedire che la corruzione dilaghi? La questione era stata posta venti anni fa, quando Mani Pulite aveva fatto finire in carcere decine di militari e di funzionari degli uffici fiscali. Allora erano stati proposti organismi di controllo, banche dati sui beni e altre iniziative, rimaste lettera morta. E adesso tutto si ripropone. Uno dei punti chiave, che anche in questo caso riguarda l'intera pubblica amministrazione, è l'assenza di efficaci meccanismi disciplinari per valutare il comportamento dei funzionari. Prima delle sentenza definitiva, non vengono quasi mai presi provvedimenti. Ma il verdetto della Cassazione arriva dopo parecchi anni e la prescrizione cancella quasi sempre le ipotesi di reato per i colletti bianchi. Come ha evidenziato due mesi fa un'inchiesta de “l'Espresso”, in Italia l'impunità per la corruzione è praticamente garantita. E nel frattempo le carriere proseguono, fino ai piani più alti delle istituzioni. Figure come Spaziante o come Bardi erano già state segnalate a vario titolo in diverse istruttorie: nell'estate 2011 entrambi erano citati nelle intercettazioni sulla cosiddetta P4. All'epoca i pm avevano ricostruito una fuga di notizie sulle indagini, che aveva permesso di mettere in guardia Gianni Bisignani, uomo chiave del potere romano. Ma non c'erano state ripercussioni. Così come nulla è stato fatto per arginare le frequentazioni molto interessate tra ufficiali e politici, in quella commistione tra affari e nomine che è diventata il pilastro della nuova Tangentopoli, da Milano a Venezia. Ora è necessario che questa nuova lezione si trasformi in misure concrete, per evitare che accada ancora. E per impedire che la corruzione di pochi getti ombre sull'attività di centinaia di militari delle Fiamme Gialle, che tutti i giorni si impegnano con rigore e onestà per difendere quel che resta della legalità nel nostro Paese.
Gdf, indagato per corruzione il comandante in seconda Bardi. L’inchiesta della Procura di Napoli ha portato anche all’arresto del comandante di Livorno Mendella per presunte verifiche fiscali «pilotate» nel capoluogo partenopeo, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Indagato per corruzione il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza. Si tratta dell’ultimo sviluppo dell’inchiesta che ha portato - nella mattinata di mercoledì- anche all’arresto del colonnello Fabio Massimo Mendella, comandante della Guardia di Finanza di Livorno accusato di aver percepito un milione di euro per «pilotare» verifiche fiscali favorendo alcune società di imprenditori «amici» quando era in servizio a Napoli. Bardi è sospettato di aver ricevuto parte di quella somma oltre ad alcuni regali e favori. Nell’ambito dell’inchiesta i pm di Napoli Piscitelli e Woodcock hanno disposto una perquisizione degli uffici di Bardinella sede del Comando generale della Gdf in viale XXI Aprile a Roma. Il colonnello Mendella - comandante provinciale della guardia di finanza di Livorno - è finito in carcere insieme a un commercialista napoletano Pietro de Riu. I reati ipotizzati dalla Procura di Napoli sono concorso in concussione per induzione e rivelazione del segreto d’ufficio. In particolare De Riu avrebbe incassato per conto di Mendella, responsabile del settore verifiche del Comando provinciale di Napoli dal 2006 al 2012, oltre un milione di euro per evitare verifiche ed accertamenti fiscali.
Bufera giudiziaria sulla Finanza. Arrestato per concussione il comandante Gdf di Livorno: tangenti in cambio di verifiche fiscali addomesticate. Indagato il generale Bardi. Il provvedimento a carico di Fabio Massimo Mendella nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Napoli. Fermato anche il commercialista napoletano De Riu. Perquisiti gli uffici romani del numero due della Guardia di Finanza che risulterebbe sotto inchiesta per corruzione in vicende collaterali, scrivono Dario Del Porto e Conchita Sannino su “La Repubblica”. Tangenti in cambio di verifiche fiscali addomesticate. Finiscono in carcere l'attuale comandante provinciale della Finanza di Livorno, colonnello Fabio Massimo Mendella e il commercialista napoletano Pietro De Riu. Nell'inchiesta risulta indagato il generale Vito Bardi, numero due della Guardia di Finanza: i suoi uffici romani sono stati perquisiti. I pm Vincenzo Piscitelli ed Henry John Woodcock ipotizzano per gli arrestati il reato di concorso in concussione per induzione e di rivelazione del segreto d'ufficio. Per l'accusa, l'importo delle dazioni di denaro e di varie utilità incassate dagli indagati ammonta, in totale, ad un milione di euro. Somme che, è scritto in una nota della Procura di Napoli, sarebbero state "asseritamente richieste ed incassate da De Riu per conto di Mendella". I fatti, stando alle indagini condotte dalla Digos napoletana con la direzione centrale della polizia criminale e dai finanzieri del Comando provinciale partenopeo e della Tributaria di Roma, si riferiscono a rapporti intercorsi negli anni tra il 2006 e il 2012, quando Mendella era responsabile del settore Verifiche al comando provinciale di Napoli, e successivamente trasferito a Roma. A beneficiare dei presunti favori della Finanza sarebbero stati due fratelli imprenditori napoletani della società Gotha. Secondo la tesi accusatoria, il legame tra quel colonnello e quella società, saldata attraverso l'opera del commercialista, era così forte che quando il colonnello fu trasferito nella capitale, anche la Gotha cambiò sede, pur di continuare ad usufruire di quei vantaggi illeciti. Nell'ambito dell'inchiesta sono stati perquisiti gli uffici del comandante in seconda della Guardia di Finanza, generale Vito Bardi, che risulterebbe indagato per corruzione in vicende collaterali. Il generale di corpo d'armata, in pratica il numero due del corpo, è subentrato al generale Emilio Spaziante che è andato in pensione ed è stato arrestato con l'accusa corruzione nell'ambito della maxi inchiesta sulle tangenti del Mose. Bardi, 63 anni, è originario di Potenza. Ha ricoperto, tra l'altro, l'incarico di comandante interregionale dell'Italia meridionale. Il procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo, dopo una lunga telefonata con il comandante generale della Guardia di Finanza, Saverio Capolupo, tiene a ribadire: "Confermiamo l'assoluta fiducia nel lavoro della Guardia di Finanza, ovviamente a partire dai suoi vertici, tanto che abbiamo affidato congiuntamente ad essa e alla Digos l'esecuzione delle misure, e l'attività integrativa continua ad essere svolta dalle Fiamme Gialle insieme all'ufficio della Digos". Tra gli episodi della vicenda giudiziaria viene riportata anche una festa in barca con Vip per Mendella. Il colonnello, nell'estate del 2006 partecipò alla festa di compleanno dell'imprenditore Paolo Graziano assieme ai calciatori Ciro Ferrara e Fabio Cannavaro (i tre sono del tutto estranei alla vicenda; il solo Graziano è stato sentito come persona informata sui fatti). La festa si svolse sulla barca di Graziano, attuale presidente dell'Unione industriali di Napoli. La circostanza viene riferita dal gip Dario Gallo solo come elemento di riscontro delle dichiarazioni accusatorie dell'imprenditore Giovanni Pizzicato, che sarebbe stato indotto da Mendella a pagare somme di denaro per evitare verifiche ed accertamenti fiscali. Nell'estate del 2007, invece, sia Mendella, accompagnato dalla fidanzata, sia il commercialista De Riu avrebbero trascorso le vacanze in Sardegna a spese di Pizzicato. Trasferito da Napoli a Roma, il colonnello Mendella - dice l'inchiesta - suggerì agli imprenditori Giovanni e Francesco Pizzicato di trasferire nella capitale anche la loro società Gotha spa. Dopo appena due giorni dal trasferimento della società, l'ufficiale propose ai suoi superiori una nuova verifica fiscale, che necessitava di una specifica autorizzazione a derogare dagli ordinari criteri di competenza. L'autorizzazione giunse 24 ore dopo. La tempistica dell'operazione, sottolinea il gip, è un decisivo elemento di conferma dell'ipotesi accusatoria: in quella circostanza spuntò il coinvolgimento di "due generali". Anche le modalità di concessione della deroga appaiono sospette, dal momento che non fu interessato il comando generale della Guardia di Finanza ma solo quello provinciale, mentre nè nella richiesta nè nell'autorizzazione erano specificate le circostanze eccezionali per derogare dai criteri di competenza. Nella sua denuncia, l'imprenditore Giovanni Pizzicato ha riferito di avere appreso dal commercialista Pietro De Riu, anche lui arrestato oggi, che la verifica "aveva richiesto una speciale autorizzazione da parte di due generali, uno dei quali mi fu detto essere il generale Spaziante". In quella circostanza, De Riu chiese a Pizzicato 150.000 euro "perchè a suo dire erano stati coinvolti, data la natura straordinaria dell'iniziativa, i generali". Il generale della Gdf Emilio Spaziante, oggi in pensione, è stato arrestato la settimana scorsa nell'ambito dell'inchiesta sul Mose.
Terremoto Gdf: arresti, perquisizioni ed incredulità. Arrestato il comandante della Finanza di Livorno, Mendella, con l'accusa di concussione ed indagato il comandante in seconda Bardi a Roma per corruzione. Lo sgomento delle fiamme gialle, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. "...è davvero impossibile". Diverse telefonate, identico però il tono e quel filo di voce di chi davvero ha preso un pugno nello stomaco. Sono le reazioni (anonime) dei militari delle Fiamme gialle di Livorno dopo l'arresto del comandante provinciale della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella, accusato di concorso in concussione nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Napoli. Il colpo è davvero tremendo: in caserma, nella città di Livorno e anche a Roma. In pochi hanno voglia di parlare. Mendella era arrivato al comando provinciale livornese neanche un anno fa, nel luglio del 2013, guadagnandosi immediatamente la stima del personale. Anche alti ufficiali della Finanza, raggiunti telefonicamente da Panorama.it, manifestano stupore ed incredulità. Oltre ad una profonda tristezza e smarrimento: E' impossibile per Mendella e ancora di più per il generale Bardi. Sembra quasi una voglia di colpire il Corpo.. cosa pensano di trovare all'interno di un ufficio di un comandante in seconda che cambia continuamente..” Poi qualcuno prosegue: "Mai una voce su Mendella..non è mai stato un collega chiacchierato come a volte ci può essere". Infatti, mentre la Digos di Napoli stava arrestando il comandante di Livorno, la procura di Napoli stava effettuando una perquisizione, sempre nell’ambito della stessa indagine che ha portato all’arresto del colonnello, nell’ufficio del generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza presso il Comando generale in viale XXI Aprile a Roma. Il generale Bardi, al momento, risulterebbe indagato per corruzione. Ma perché il colonnello Mendella sarebbe finito in carcere? E perché perquisire le stanze del Comando Generale di Roma? Secondo i pm napoletani, Piscitelli e Woodcock, gli imprenditori partenopei avrebbero versato oltre un milione di euro tra il 2006 ed il 2012 al commercialista Pietro De Riu, anche lui finito in manette questa mattina, che faceva da tramite con il responsabile verifiche ed accertamenti del Comando provinciale Guardia di Finanza di Napoli, ovvero il colonnello Fabio Massimo Mendella. Mendella, dopo sei anni nel capoluogo campano, fu trasferito dal Comando di Napoli a Roma. E in concomitanza con il suo trasferimento anche la holding "Gotha s.p.a.", oggetto di una verifica pilotata eseguita dall'ufficio coordinato dal colonnello, avrebbe trasferito la propria sede legale nella Capitale. Se l’arresto del comandante di Livorno ha destato non poco stupore, meno “impatto”, tra alcuni finanzieri, ha avuto la notizia della perquisizione a carico del generale. Il generale Vito Bardi, infatti, non è nuovo alle vicende giudiziarie. Nel 2011 era stato indagato con le accuse di favoreggiamento e rivelazione di segreto nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta P4. L'anno successivo, tuttavia, la sua posizione fu archiviata dal gip su richiesta dello stesso pm Henry John Woodcock. Al centro dell'inchiesta era l'ex deputato del Pdl Alfonso Papa, per il quale ora e' in corso il processo. Secondo l'ipotesi accusatoria, l'ex parlamentare riceveva notizie coperte da segreto su indagini in corso e se ne serviva per ricattare alcuni imprenditori dai quali riceveva cosi' denaro o altre utilita'. Nell'inchiesta era coinvolto anche l'uomo d'affari Luigi Bisignani che ha patteggiato la pena. Ma la tristezza di moltissimi alti ufficiali della Finanza è dettata anche dal susseguirsi, di accuse verso gli appartenenti al Corpo o graduati ormai in pensione. E’ il caso del generale Emilio Spaziante rientrato nella maxi inchiesta, pochi giorni fa, sulle tangenti del Mose, a Venezia. Emilio Spaziante, in qualità "di Generale di Corpo d'Armata della Guardia di Finanza" è stato arrestato perché "influiva in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Consorzio Venezia Nuova" e avrebbe ricevuto dal presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati, in cambio, la promessa di 2 milioni e 500 mila euro. E' quanto stato scritto nell'ordinanza del gip dove si precisa anche che la somma versata fu poi di 500 mila euro divisa anche con Milanese e Meneguzzo. Le indagini della Procura di Napoli che hanno portato all'arresto di Mendella, sono state condotte dalla Digos partenopea con il contributo della Direzione centrale di Polizia criminale e anche del Comando Provinciale e del nucleo di Polizia tributaria della stessa Guardia di Finanza di Roma.
Ci sono imprenditori che collaborano, ma a parlare sono soprattutto ufficiali e sottufficiali, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Uomini della Guardia di Finanza che accusano i loro superiori di aver preso tangenti. E svelano al procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e al sostituto Henry John Woodcock l’esistenza di un «sistema» di corruzione che ha già fatto finire in carcere il colonnello Fabio Massimo Mendella, mentre sono indagati il comandante in seconda Vito Bardi e il suo predecessore Emilio Spaziante, tuttora agli arresti per lo scandalo del Mose di Venezia. Non sono gli unici. Ci sono nomi ancora coperti, componenti di quella «rete» che avrebbe preteso soldi, vacanze, favori e forse, ma su questo i controlli sono tuttora in corso, appuntamenti con alcune escort. È l’ordine di perquisizione notificato ieri al generale a svelare gli elementi raccolti dai pubblici ministeri facendo emergere un quadro di testimonianze incrociate: «Dalle indagini finora svolte è emerso lo stretto legame di ordine personale intercorso tra il colonnello Mendella, percettore di somme illecitamente richieste asseritamente per sé ed altri, ed il generale Vito Bardi, attuale comandante in seconda della Guardia di Finanza. Diverse fonti testimoniali - di cui si omette allo stato il riferimento nominativo per ragioni di cautela processuale, potendo le stesse in ragione del ruolo rivestito da Bardi essere oggetto di iniziative inquinanti - hanno riferito sia dei rapporti di stretta vicinanza tra Mendella e Bardi, sia dei rapporti di familiarità di quest’ultimo con imprenditori partenopei (e non) a loro volta oggetto delle presenti e più ampie investigazioni. Tali ultime circostanze sono state riferite anche da appartenenti alla stessa Guardia di Finanza collocati ad alti livelli gerarchici sentiti come persone informate (di cui parimenti si omette il riferimento nominativo allo stato per le medesime ragioni in precedenza esposte). Altri soggetti hanno riferito di rapporti ispirati a richieste di favori di rilievo economico riguardanti Bardi, oggetto delle presenti investigazioni». Tra gli imprenditori interrogati c’è A. D’A., in passato legato al generale Nicolò Pollari e poi molto vicino a Bardi. Sono soprattutto due le circostanze emerse dagli accertamenti affidati agli investigatori della Digos. Il primo riguarda l’affitto della caserma di Napoli dove ha sede il Comando provinciale delle Fiamme Gialle e altri stabili che l’immobiliarista avrebbe concesso proprio ai finanzieri. I canoni vengono fissati dall’Ufficio tecnico erariale, ma per questo caso si è deciso di fare un’eccezione. E dunque Bardi avrebbe stabilito di concedere all’amico il massimo possibile ottenendo una contropartita che sarebbe già stata svelata e sulla quale sarebbero tuttora in corso le verifiche. Ma a destare sospetto è anche la decisione presa dallo stesso D’A. di spostare la sede di una delle sue società da Napoli a Roma proprio in seguito al trasferimento di Mendella nella capitale. Esattamente come accaduto per la «Gotha spa» dei fratelli Pizzicato che collaborano con i magistrati e hanno raccontato di aver ricevuto il suggerimento proprio dal colonnello. I difensori dell’imprenditore mettono le mani avanti sostenendo che «le società del gruppo hanno sede nella capitale sin dal 2004». Al fascicolo di inchiesta è stato allegato il verbale dell’imprenditore Mauro Velocci, già coinvolto insieme ad Angelo Capriotti nell’inchiesta sugli appalti all’estero gestiti dal faccendiere Valter Lavitola. Il 23 luglio scorso l’uomo viene interrogato da Woodcock e dichiara: «Mi chiedete se Capriotti mi abbia mai riferito di rapporti con ufficiali della Guardia di Finanza e di eventuali richieste avanzate da questi ultimi. Posso dire che intorno al 2006 Capriotti mi mandò negli uffici del generale Bardi per consegnargli un esposto denuncia. Ricordo che io e Capriotti andammo una prima volta insieme dal generale Bardi nel suo ufficio di Napoli e poi Capriotti mi mandò da solo sempre negli uffici del Comando regionale. In questa occasione prese una copia del mio esposto e mi disse che avrebbe seguito lui direttamente la vicenda, tuttavia non abbiamo saputo più nulla. Credo un anno dopo Capriotti mi disse che il generale Bardi gli aveva fatto delle richieste “strane” ovvero richieste di utilità, se non sbaglio riferite all’acquisto o alla locazione di un posto barca ad Ostia». L’8 marzo scorso viene intercettata una telefonata tra Mendella e un amico avvocato, Marco Campora. Il colonnello dovrebbe aver appreso di avere i telefoni sotto controllo e dunque usa il legale come tramite per incontrare il commercialista Pietro De Riu. Per questo i pubblici ministeri vogliono adesso accertare se l’incontro con la donna sia effettivamente avvenuto o se invece fosse una «finta» per mascherare invece un appuntamento.
Mendella : ué Marco! Ti chiamo dopo
Campora : no, no Fabio! Perché ti stavano aspettando
Mendella : ma chi?
Campora : no là ... quella ragazza che ti volevo presentare a piazza dei Martiri là, quindi ti aspetto un quarto d’ora
Mendella : no e non ce la faccio a venire. Oggi non ce la faccio
Campora : eh ... ma scusa questo ti ... cioè qua sta figa qua, ti sta aspettando Fabio
Mendella : non ce la faccio!
Campora : ... una figura di merda. Sta amica di Cristiana qua devi
Mendella : ma non ce la faccio dai, sto al Vomero!
Campora : e devi venire per forza, che cazzo! Cioè
Mendella : dai, non ce la posso fare. C’ho pure ... adesso è arrivata pure Catia
Campora : eh no e Fabio dai, vieni, vieni! Fammi sta cortesia perché ... vieni, vieni capisci... Perché questo mò ti vo ... ti voleva sc.. mò, qua ... se ti dico vieni è perché devi venire, insomma, capito? Sennò mica ti dicevo cazzate ... hai capito?
I soldi in contanti gli sarebbero stati consegnati nelle scatole dei telefonini cellulari, continua la Sarzanini. Ma evidentemente quei 30 mila euro al mese non bastavano. E allora il colonnello della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella si faceva pagare anche le vacanze in Sardegna, oppure le gite in barca a Capri con i calciatori del Napoli. Atteggiamento spregiudicato che i magistrati di Napoli inseriscono in un vero e proprio «sistema» di corruzione che avrebbe avuto tra i referenti il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza. Il sospetto degli inquirenti è che proprio a lui possa essere finita una parte dei soldi versati dai fratelli Pizzicato, amministratori della «Gotha spa» che si occupa di metalli e gestori di alcuni locali notturni napoletani per evitare le verifiche fiscali. Non è l’unico. Anche altri alti ufficiali tuttora in servizio - oltre all’ex numero due delle Fiamme Gialle Emilio Spaziante - potrebbero aver partecipato alla spartizione delle «mazzette» pagate dagli imprenditori. Un dubbio alimentato da quanto raccontato al procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e al sostituto Henry John Woodcock proprio da Giovanni Pizzicato che sostiene di aver ricevuto anche notizie sulle indagini in corso, compresa la decisione «di mettere sotto controllo 42 utenze». «Fondi in Romania e Lituania». È il 14 novembre scorso quando l’imprenditore decide di collaborare. E dichiara: «Nel 2005 venni avvicinato da un mio collega Pietro Luigi De Riu e mi disse che sarebbe stato bene che per la mia attività incontrassi un suo amico, il maggiore Fabio Massimo Mendella, con il quale fu organizzata una cena presso uno dei locali che all’epoca gestivamo, “La Scalinatella” di Napoli... De Riu ci propose di trovare un accordo economico con Mendella, in misura proporzionale al volume d’affari della società. Mi fu detto che con 15 mila euro al mese avremmo potuto star tranquilli... Cominciai quindi a pagare, ma poi nel tempo i versamenti sono cresciuti a 20 mila e poi fino a 30 mila euro. Non abbiamo avuto mai alcun controllo generale o comunque mirato dalla Guardia di Finanza. Complessivamente avrò versato oltre l milione di euro. Questi versamenti sono stati tutti quanti effettuati a Napoli... in qualche circostanza io avevo messo i soldi contanti in una confezione di un cellulare richiedendo alle mie segretarie di consegnarli al dottor De Riu. L’ultimo dei pagamenti è avvenuto a settembre, ottobre del 2012. Il contante lo abbiamo ritirato in banca in Italia fino al 2011 più o meno, poi ho utilizzato somme che venivano prelevate dai conti presenti in Lituania e Bulgaria». «Soldi ai due generali». Fila tutto liscio, poi Mendella viene trasferito a Roma. Ma lì avrebbe trovato la soluzione: trasferire nella capitale la sede della «Gotha spa» in modo da poter far partire una verifica «pilotata». Racconta Pizzicato: «De Riu mi aveva detto che questa verifica per poter essere autorizzata, in quanto di competenza territoriale di altro Comando, aveva richiesto una speciale autorizzazione concessa da due generali, uno dei quali mi fu detto essere il generale Spaziante. De Riu mi disse anche che successivamente c’era stata una segnalazione da parte del colonnello Baldassari di Napoli. Quest’ultimo, poi trasferito anche lui a Roma, aveva segnalato questa anomalia richiedendo spiegazioni al Comando generale sul perché la verifica era stata aperta dal Comando di Roma. In proposito devo aggiungere che il De Riu, in relazione a questa verifica mi aveva richiesto la somma di euro 150 mila perché a suo dire erano stati coinvolti, data la natura straordinaria dell’iniziativa, i generali che avevano autorizzato la stessa. Io anche in questa occasione ritenni di dover pagare». In barca con i calciatori. Ci sono le «mazzette», ma anche gli svaghi. L’imprenditore ha svelato di aver «pagato nel 2007 una settimana di soggiorno al residence “Smeraldina” di Porto Rotondo dove alloggiarono sia il De Riu che il Mendella, che era con la sua compagna, e io, che ero presente, pagai tutte le cene della settimana». Ma anche di aver organizzato nel 2006 una gita «a Capri con il presidente degli industriali napoletani, Paolo Graziano, amico di Mendella, che festeggiava a bordo della sua barca il suo compleanno. La barca di Graziano era un Mangusta e a bordo della stessa c’era l’ex calciatore del Napoli Ciro Ferrara con la famiglia di Fabio Cannavaro, quest’ultimo a bordo della sua barca. La barca del Graziano fu da noi raggiunta con un gommone che era di proprietà di mio cugino, Sergio Reale. Noi partimmo da Ischia dove io ero con la mia barca, a bordo della quale c’era Mendella con la sua compagna, oltre De Riu con la sua fidanzata dell’epoca». Nell’ordinanza il giudice elenca gli elementi di riscontro ai viaggi. E poi allega le intercettazioni di conversazioni durante le quali il colonnello Mendella fa finta di incontrare «belle donne» quando invece vede il commercialista De Riu per farsi consegnare le tangenti.
INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI? UNA BALLA. LO STRAPOTERE DEI MAGISTRATI E LA VICINANZA DEI GIUDICI AI PM, OLTRE LA CORRUTTELA.
Lo strapotere dei giudici nasce dall'uso pubblico del bagnasciuga del mare, scrive Transatlantico su “L’Occidentale”. L’Italia è il paese dove si può finire sotto processo per una denuncia non circostanziata che la magistratura usa per cercare conferma a un’ipotesi investigativa; dove si può essere condannati in primo e secondo grado e dopo 15 anni vedere annullata la sentenza in Cassazione per sette capi su otto e per l’ottavo vederla confermare nonostante una legge in discussione (e approvata qualche mese dopo) non consideri più il fatto come reato. L’Italia è il Paese dove i pubblici ministeri che hanno sostenuto quell’accusa e i giudici che hanno deciso quei processi hanno fatto regolarmente la carriera, uno addirittura tentando quella politica, un altro divenendo ispettore presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Questo per evitare di ribadire che l’Italia è il Paese dove il pm e i giudici di Enzo Tortora sono invecchiati solo in preda all’eventuale ansia per il rimorso delle loro coscienze. Come faranno quelli di Giovanni Mercadante. Il problema di molti processi italiani è il "libero convincimento del giudice", insindacabile al punto da non potersi neppure accertare, a posteriori, se in realtà esso si sia formato sulla base di un giudizio etico (quando non politico) anziché giuridico. Il "libero convincimento" (implicazione del monopolio interpretativo della legge da parte della Cassazione) si accompagna all’obbligatorietà dell’azione penale e al diritto dei magistrati di essere giudicati per i loro errori da un Organo di rilievo costituzionale nel quale sono in maggioranza rispetto ai componenti designati dal Capo dello Stato e dal Parlamento. Nel 1948 furono pensati quali giusti contrappesi per garantire l’indipendenza della magistratura e l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge stante un Parlamento in grado di incidere sullo status di magistrati/funzionari dello Stato (stipendi, regole per la carriera, eccetera) e protetto contro accuse improvvide o pretestuose grazie all’immunità riconosciuta ai suoi membri. Oggi però sono fonte di squilibrio istituzionale. Negli anni Ottanta iniziò a diffondersi il sospetto, poi rivelatosi fondato, che molta classe politica eccedesse nel coltivare interessi propri in nome altrui e che i partiti di opposizione sapessero. La verità era che tre decenni addietro i partiti dell’arco costituzionale avevano siglato un "patto" in forza del quale alla DC competeva l’esclusiva di governare e al PCI di decidere distribuzione dei costi e vantaggi sociali e ambedue si impegnavano a non fare riforme che potessero mettere in discussione l’impianto giuridico-ideologico della Costituzione repubblicana. Coerentemente negli anni Settanta/Ottanta, Centro e Centrosinistra si erano concentrati sull’occupazione dello Stato e delle sue articolazioni industriali e finanziarie mentre la Sinistra sulla penetrazione nei settori dell’istruzione, della giustizia, dei beni culturali e degli enti locali, finendo per dotarsi, democraticamente e legittimamente, di una controstruttura pubblica motivata politicamente. La Sinistra aveva compreso che col tempo la DC si sarebbe compromessa nel tentativo di conciliare interessi concorrenti che presiedevano altrettante scelte di vita aventi pari diritto e si stava preparando a sostituirla. Quella intuizione regalò alla Sinistra il governo del territorio, dell’istruzione (superiore e universitaria) e... della Giustizia ma non il governo del Paese di cui si sentì scippata da Silvio Berlusconi nel 1994. La liason tra Sinistra e Magistratura ebbe inizio, negli anni Settanta, con la decisione del pretore Amendola sull’uso pubblico del bagnasciuga del mare. La sentenza, nonostante le ricadute sulle regole di edilizia e urbanistica, sulla proprietà privata e alcune attività imprenditoriali, fu snobbata dalla DC come atto, politicamente inerte, di un pretore d’assalto. Alla sinistra non sfuggì invece che offriva la prova della possibilità della via giudiziaria alla riforma della società italiana. E soprattutto intuì che indicava come creare fra Magistratura e una parte della società civile (quella di volta in volta interessata) il feeling indispensabile per facilitare il suo avvento al potere. Tangentopoli doveva segnare il punto di svolta ma Berlusconi convinse gli Italiani che alcuni Magistrati avevano ceduto alle sirene del PDS (ex PCI) pronto a rappresentare i loro interessi corporativi in cambio del sostegno alla conquistare il potere. La sentenza di Amendola fu decisiva anche dal punto di vista ideologico perché affermava il diritto del metro etico/politico per la formazione del "libero convincimento del giudice". Con quella sentenza l’Ordine giudiziario affermò inoltre il suo diritto/dovere di far prevalere i principi costituzionali (come il principio di eguaglianza sostanziale) sulla legge vigente attraverso l’interpretazione provocatoria (più che creativa) delle norme. Qualche anno dopo altre sentenze sul rapporto di lavoro dipendente (cui seguì lo Statuto dei lavoratori) dissolse i residui dubbi sulla praticabilità della via giudiziaria alle riforme. Da allora molto è cambiato, rimane però intatta la potestà dei giudici di formare il proprio "libero convincimento" su personali parametri etico/politici di qualificazione giuridica dei fatti dunque di compensare i deficit normativi, che ritengono esistenti, ricorrendo a una giurisprudenza ermeneuticamente progrediente. Ma questa facoltà, in una Democrazia con sovranità popolare, non può essere riconosciuta a un Ordine Giudiziario privo di rappresentatività e la cui coscienza democratica e onestà intellettuale sono valutabili solo attraverso gli atti, non giudicabili e tantomeno sanzionabili, dei suoi componenti. Se poi il 70% degli Italiani chiede oggi alla Politica di riequilibrare il rapporto fra potere e responsabilità dei giudici (inquirenti e decidenti), è della scomparsa di sintonia con i cittadini che la Magistratura dovrebbe preoccuparsi, non di una legge che nascerà minus quam perfecta visto che a decidere sulla responsabilità dei giudici saranno comunque i colleghi.
"Giudici troppo vicini ai pm. È ora di separare le carriere". Il presidente nazionale delle Camere penali accusa anche la politica: "Si inseguono gli umori della piazza invece di fare una vera riforma", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. «Se fosse lei il difensore di Claudio Scajola si strapperebbe i capelli?», chiedo all'avvocato Valerio Spigarelli, presidente nazionale delle Camere penali e massimo esperto degli umori che serpeggiano tra i penalisti italiani. Le Camere penali sono 120, nelle maggiori città. Volendo parlare di una cosa avvilente come la giustizia penale in questo Paese, consola avere di fronte uno come Spigarelli. Ha lo sguardo fermo, folti capelli da strappare in caso di necessità e la giusta foga per affrontare il pantano. Covava fin da giovanetto la passione per i diritti dell'imputato. Ora ha 57 anni e un grosso studio nel centro di Roma, la sua città. «Diciassettenne, digiuno di diritto, già manifestavo contro la legge Reale (dura legge antiterrorismo del 1975, ndr)», dice, mentre in cravatta e maniche di camicia cerca di capire con chi ha a che fare prima di rispondere alla domanda su Scajola. Profitto, per sondarlo anch'io: «La peggiore malagiustizia in cui si è imbattuto?». «Non una, cento», risponde e si capisce che considera il mestiere di difensore un campo minato con una trappola al giorno. Poi, per dire che tipo è Spigarelli, improvvisamente si stufa dei preamboli e sbotta: «Le dico il punto debole della giurisdizione penale e potrei anche finire l'intervista. Tutto discende da lì». «Prego», gli dico incuriosito da questa prodigiosa capacità di sintesi.
«Il sistema giudiziario è squilibrato. Il giudice non è equidistante tra accusa e difesa».
Il giudice parteggia?
«È più vicino al pm, per ciò che l'accusa rappresenta: la pretesa punitiva dello Stato; piuttosto che al diritto di libertà dell'imputato».
Partito preso?
«Dato culturale. Giudice e pm sono contigui e hanno la stessa formazione. Ecco perché è necessario separare le carriere. I pm si oppongono, sentendosi sminuiti. La separazione serve ad avere un giudice libero, non un pm a metà».
Torniamo a Scajola: da difensore tremerebbe?
«Non penso proprio. Poi è ben assistito».
Intanto è in galera e non si intravede la fine.
«La magistratura intende la custodia cautelare, non come una cautela per ragioni processuali, ma come un'anticipazione di pena».
Maramaldeggiano?
«Temono che l'imputato sfugga alla condanna e presentano subito il conto: pochi, maledetti e subito. Che però è un detto di commercianti».
Su Scajola, arrestato per vicinanza a Matacena, ora piovono accuse su accuse. Dal solito concorso esterno, all'inedito «omicidio per omissione» di Marco Biagi...
«Un classico per chi è in carcere. Ricordi accuse e pentiti che si moltiplicarono per l'innocente Enzo Tortora».
Vale ancora il detto «male non fare, paura non avere»?
«Realisticamente, no. La legge impone al pm di non portare in giudizio un imputato se non sia convinto che ne otterrà la condanna. Poiché assoluzioni e condanne in uno stesso processo si accavallano, è chiaro che la norma è disattesa».
In più, la gogna delle intercettazioni di cui è vittima anche l'incolpevole.
«Pratica da Stato autoritario. Contraria alla legge che le regola e alla sentenza della Consulta che, nel '74, fissò i casi in cui sono ammesse».
Il «reato» di concorso esterno in associazione mafiosa è illegale.
«Invenzione giurisprudenziale, sconosciuta al Codice penale».
Ha fondamento questa invenzione per persone come Totò Cuffaro e Marcello Dell'Utri?
«Questo reato è spesso una forzatura: permette di criminalizzare i comportamenti più vari. La contiguità con la mafia può andare da uno a cento e si penalizza uno come cento».
Chi è responsabile di tanta illegalità nella Giustizia?
«I politici. Hanno l'enorme colpa di non avere fatto una vera riforma della Giustizia in questi vent'anni, inseguendo invece gli umori della piazza».
E le toghe sono dilagate.
«Un magistrato che fa un comizio politico contro il presidente della Repubblica (Ingroia, ndr). Quattro pm che vanno in tv per ammonire il governo a non fare una legge (pool di Milano ai tempi di Mani pulite, ndr). Settanta pm che mandano un fax al Parlamento ingiungendogli di bloccare la riforma della Giustizia (ai tempi della Bicamerale, ndr). Abbastanza per dire che c'è un enorme problema di separazione dei poteri che la politica non affronta».
Il Guardasigilli, Orlando, è all'altezza?
«Di buono ha che è un politico. Loro, prima o poi, capiscono. Se alla Giustizia mettiamo un giurista, è peggio. Il problema è quello manzoniano (Il coraggio, uno non se lo può dare, ndr).
Il Parlamento autorizza addirittura il carcere preventivo dei suoi, come con Genovese del Pd.
«Che quattro giorni dopo era ai domiciliari perché il giudice non ha ritenuto necessario il carcere. Che penseranno di sé i parlamentari che ce lo hanno spedito?».
Per dire il Paese: la sera delle manette, Crozza in tv ha fatto il pirla su Genovese (e mesi prima su Cosentino).
«Facile fare dello spirito sulla pelle degli altri. Ma se tocca a noi, cambiamo registro. Mai visto nessuno con tanta sfiducia nei giudici, quanto i magistrati che incappano nelle attenzioni dei colleghi».
Il carcere duro si concilia con lo Stato di diritto?
«Il 41 bis è una tortura democratica. Un trattamento disumano vietato dalla Costituzione».
La trattativa Stato-mafia, cara alla Procura di Palermo, attiene alla sfera giudiziaria o politica?
«Il reato di trattativa non esiste. Ci sono arrivati anche antimafiosi doc, come Marcelle Padovani, biografa di Falcone, e Giovanni Fiandaca, studioso pd del fenomeno. Pur di evitare che mettano una bomba all'Olimpico, io parlo anche con Belzebù».
Come se ne esce?
«Con la ventilazione della magistratura».
Frullarla via?
«Aprire ad altri l'accesso in magistratura: professori e avvocati. Aria fresca in una corporazione chiusa. E...».
E?
«Dopo la laurea, una Scuola superiore delle tre professioni giudiziarie per una comune cultura della giurisdizione. Poi si sceglie: chi avvocato, chi giudice, chi pm. Prima però, quindici giorni di carcere per tutti. Bugliolo, pane e acqua, ispezioni corporali».
"I magistrati forzano le leggi. Ormai è scontro con lo Stato". Giorgio Spangher, esperto di Procedura: "L'esempio di conflitto è il processo a Napolitano sulla trattativa Stato-mafia. Non c'è più equilibrio tra le parti, nei processi i giudici stanno con l'accusa", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Quando incontri una persona, c'è un prima e un dopo. Il prima è l'infarinatura che hai di lei senza conoscerla. Il dopo è quando ti sta davanti agli occhi. Del professor Giorgio Spangher sapevo che è un numero uno della Procedura penale di cui, dopo averla insegnata a Sassari e Trieste (sua città natale), è ordinario alla Sapienza di Roma, supremo punto d'arrivo universitario. Al telefono mi ero fatto anche l'idea che fosse autoritario, perché di poche parole e ipermattiniero al punto che ho rischiato un appuntamento alle 7.30, spostato alle 8,30 con abile trattativa. Alla fine mi sono detto che a settant'anni, tanti ne ha Spangher, ha il diritto di essere bacchettone. Con questo bagaglio cognitivo, mi sono presentato da lui. Incontro uno di quei settantenni che madre natura moltiplica ai nostri giorni: dimostra a stento cinquant'anni. Ha parlantina torrentizia, è caratterialmente cordiale e propone, da bon vivant, di andare nel giardino a goderci il sole romano anziché starcene nella hall del suo albergo come due grami mediatori d'affari. Mentre sediamo, è lui a ricordarmi ciò che ho omesso nella presentazione. Ossia che, oltre a essere docente, è anche preside della Facoltà di Legge. Però lo dice solo per pregarmi di non scriverlo - ma come faccio? - perché lui, parlando di Giustizia, vuole farlo a nome suo, senza le cautele cui una veste istituzionale, come quella di preside, lo costringerebbe. Insomma, è unicamente il prof che parla. Stavo per fargli una domanda scemetta, tanto per rompere il ghiaccio, quando metto meglio a fuoco il suo aspetto. Ha barba nera, occhi vigili e un paio di jeans. Sembra il personaggio di un western. Così, adattandomi alla scoperta, ho sparato a bruciapelo una domanda micidiale: «Se fosse incriminato, direbbe: "Ho la massima fiducia nella magistratura?"». Spangher reagisce con un sorriso tirato, ci pensa su e dice: «Non mi sbilancerei con una affermazione così netta». Vuole dire che, se gli capitasse, sarebbe stravolto, conoscendo i suoi polli. Ma usa garbate circonlocuzioni. Lo farà spesso. È quindi utile che vi dica subito come ho capito io che la pensa Spangher, anche quando si esprime in modo cripitico-docenziale. Il professore è più che convinto che la Giustizia sia malata e i magistrati eccedano. Ma anche che la gente è dalla loro parte e non accetta distinguo. È furiosa per le ruberie dei politici, tanto più odiose in tempi di crisi. Invoca la ramazza e osanna chi la usa. Perciò, pensa con amarezza Spangher, è il momento peggiore per sognare riforme garantiste. Leggete dunque l'intervista con queste lenti.
Il giudice è più vicino al pm che ai diritti della difesa?
«Sostanzialmente vero. Il grande problema del processo è l'equilibrio dei poteri, tra difesa, pm e giudice».
Equilibrio che manca.
«Spesso il giudice si schiera più sulle tesi accusatorie. Ma c'è anche un altro equilibrio in crisi».
Cioè?
«Quello tra la magistratura e gli altri poteri dello Stato. Quando nasce un conflitto tra Procura di Palermo e capo dello Stato (trattativa Stato-mafia, ndr) o tra Procura di Milano e Governo (sul segreto di Stato nel caso Abu Omar, ndr), significa che il livello di guardia è superato».
C'è abuso del carcere prima del processo?
«Il nuovo codice di procedura aveva sostituito la carcerazione preventiva, ossia l'anticipo della pena, con la custodia cautelare, semplice misura di precauzione che non sottintendeva la probabilità della condanna. Ma le leggi successive ci hanno, di fatto, riportati al carcere preventivo. La galera non è più l'ultima ratio».
C'è abuso di intercettazioni?
«Spesso non sono rispettati i presupposti di legge per farle».
I giudici violano le leggi?
«Le forzano. Di fronte alle obiezioni della difesa, vanno avanti per la loro strada. Se nei codici c'è scritto immediato, che per me significa subito, il giudice interpreta dieci giorni; se c'è scritto assolutamente indispensabile, il magistrato interpreta opportuno, utile».
Pura illegalità. Bisognerebbe scendere in piazza.
«Ci andrebbe da solo. La gente no, perché capisce che si sta facendo pulizia. Sentito parlare della Rivoluzione francese? Quelli che andavano a vedere le esecuzioni? Siamo lì. Il processo penale è sensibilissimo a questi umori».
È tollerabile la legislazione speciale per i mafiosi, dai processi di massa al carcere duro?
«Il doppio binario è accettabile. Ci ha fatto uscire dal terrorismo, vincendolo per via giudiziaria, pur piegando le norme con leggi di emergenza. Ha consentito di restare nella legalità. Altri hanno impiccato i terroristi in carcere».
Con la scusa dei mafiosi si è finito per colpire i non mafiosi con il reato inventato del concorso esterno. Costituzionale?
«Dirmi perplesso è un eufemismo. I poliziotti, per esempio, per svolgere i loro compiti, devono navigare in una zona grigia: il caso Contrada».
Cuffaro e Dell'Utri hanno sette anni a testa per concorso esterno.
«Il diritto penale deve distinguere tra l'illecito e il grigio. Il cosiddetto concorso esterno non è nella zona illecita, ma in quella grigia. Come tale, non è sanzionabile».
L'Università come si schiera di fronte a queste bestiali forzature?
«Salvo eccezioni, sviluppa una linea garantista. Guarda al sistema, non all'emergenza. Docenti e studenti hanno metabolizzato i principi di garanzia della Convenzione Ue».
La magistratura dilaga dalla politica industriale (Ilva) alla camera da letto (Ruby). Perché?
«Vuole moralizzare la società, mentre dovrebbe solo applicare la legge».
Le colpe della politica per le invasioni di campo?
«Enormi! Ha delegato alle toghe funzioni proprie. Ma, soprattutto, con la sua corruzione, fa sempre più emergere la magistratura».
L'ultimo Guardasigilli degno del nome?
«Giuliano Vassalli. Introdusse il nuovo codice di procedura penale».
Separazione delle carriere tra giudici e pm?
«Certo. Nella logica dell'equilibrio dei poteri. Oggi, i muscoli sono solo da una parte: quella delle toghe contro i difensori».
Pensiero finale.
«Grande confusione sotto il cielo».
Tanto fanno parte tutti della grande mangiatoia. Lo scandalo del doppio lavoro: busta più ricca per mille toghe, scrive Stefano Sansonetti su “Il Giornale”. Un festival di incarichi extragiudiziari. Per un cospicuo numero di toghe italiane, a quanto pare, la cuccagna non accenna a finire. Negli ultimi tempi sono letteralmente fioccate le collaborazioni che i magistrati riescono a ottenere da un'infinita serie di enti pubblici e privati. Inutile dire che tutti questi lavori extra, svolti cioè al di fuori della missione tipica di giudici e pubblici ministeri, si portano appresso un bel corredo di compensi che vanno a cumularsi ai già lauti stipendi. Il fatto è che l'organo di autogoverno della magistratura, guidato dal vicepresidente Michele Vietti, ha appena sfornato un «volumone» di 362 pagine che contiene l'ultimissimo aggiornamento delle attività extragiudiziarie autorizzate dal 14 novembre 2013 al 13 maggio del 2014. A impressionare è il loro numero: parliamo di 1.085 incarichi, più che raddoppiati rispetto ai 466 del semestre precedente e comunque in aumento rispetto ai 961 autorizzati nello stesso semestre di un anno fa (ovvero dal 14 novembre 2012 al 13 maggio 2013). Molti incarichi vengono assegnati da società private di consulenza e formazione, per non parlare di veri e propri centri di potere come la Luiss, l'ateneo della Confindustria guidato dall'ex numero uno degli industriali Emma Marcegaglia, che per questa via si trova a pagare numerosi giudici. E qui restano di grande attualità due questioni. Innanzitutto la montagna di incarichi rischia di sottrarre ore preziose di lavoro a un sistema-giustizia stritolato da pendenze sempre più difficili da smaltire. E poi la «vitale» questione della terzietà: siamo sicuri che ricevere compensi da Confindustria e gruppi privati, seppur autorizzati dal Csm, garantisca l'imparzialità della toga nel momento in cui è chiamata a svolgere il suo «vero» lavoro? Nelle 362 pagine gli esempi si sprecano. Si prenda Paolo Sordi, presidente della sezione lavoro del tribunale di Roma, che per lezioni di diritto del lavoro ha ottenuto la bellezza di 9 incarichi: 4 ore dalla Scuola nazionale dell'amministrazione per complessivi 600 euro, 3 ore dalla Scuole superiore dell'economia e delle finanze per 390 euro, 2 ore dall'Università Roma Tre per 200 euro, 40 ore dalla Lumsa per 4 mila euro, ancora 4 ore da Roma Tre per 480 euro, un'ora dalla società di formazione Optime srl per 400 euro, un'ora dalla Synergia Formazione srl per 500 euro, 20 ore dalla Scuola di specializzazione in professioni legali della Sapienza per 3.600 euro e 6 ore dalla Fondazione dell'avvocatura pontina per 750 euro. Oppure la situazione di Angelo Spirito, consigliere della Corte di Cassazione che ha ottenuto 5 incarichi per docenze di procedura civile dal gruppo Altalex: due da 14 ore e 2.600 euro ciascuno, un altro da 14 ore per 2.450 euro e due da 5 ore ciascuno per complessivi 1.450 euro. Poi c'è il caso della Luiss, l'università di Confindustria che direttamente o per il tramite della sua Scuola di specializzazione in professioni legali ha assegnato nel semestre incarichi a 10 magistrati. Tra questi c'è Domenico Carcano, capo dell'ufficio legislativo del ministero della giustizia, che per 45 ore di lezione di diritto processuale civile prenderà 6 mila euro. A seguire il sostituto procuratore di Roma Barbara Sargenti, con 36 ore di lezioni di diritto penale dell'informatica pagate 4.500 euro. Ancora, tra le toghe più dinamiche si segnala Gaetano Ruta, pm di Milano, il castigatore degli stilisti Dolce e Gabbana. In questo caso parliamo di 5 incarichi per lezioni di diritto penale: 5 ore per 650 euro dalla Scuola superiore dell'economia e delle finanze, 2 ore per 325 euro dalla Cattolica di Milano, un'ora per 400 euro da Synergia Formazione srl e 2 ore da 500 euro l'una da Informa srl. Un altro pm milanese, Carlo Nocerino, sempre per docenze di diritto penale ha ottenuto 20 ore dall'Università Bicocca per 2.064 euro, un'ora da Optime srl per 400 euro e un'ora da Paradigma srl per 800 euro. Tra i più impegnati a livello di ore ci sono anche Bruno Giordano, giudice del tribunale di Milano, e Marcello Buscema, giudice del tribunale di Roma. Il primo ha ottenuto dall'università di Milano e dal Consorzio interuniversitario per il diritto allo studio 50 ore di docenza per complessivi 7 mila euro. Il secondo 42 ore dall'onnipresente Scuola superiore dell'economia e delle finanze per 5.460 euro. Dall'elenco emergono i profili di alcune società private di formazione che la fanno da padrone. Optime srl, Paradigma srl, Synergia, Wolters Kluwer e Altalex pagano decine di magistrati. Anche se la maggior parte degli incarichi arriva dalle Scuole di specializzazione nelle professioni legali delle varie università italiane. È bene ripetere che si tratta di incarichi regolarmente autorizzati dal Csm, che però non spazzano via le questioni «tempo» e «terzietà» del magistrato. Del resto lo stesso Csm è consapevole del problema se solo si considerano le circolari che si sono succedute sul tema. In sostanza oggi si individuano tre tipologie di incarichi extra: espletabili senza autorizzazione, inderogabilmente vietati e soggetti ad autorizzazione. Il fatto è che ogni norma viene interpretata, ed è soprattutto la linea di confine tra le ultime due categorie a rischiare di rivelarsi labile.
Ma tutto questo alle toghe di tutti i ranghi non basta. Mose, politici e magistrati: mazzette per tutti, scrive “L’Unità”. I conti segreti e criptati all’estero li hanno già trovati nelle prime due tranche di questa inchiesta (2013). Ora salta fuori «Il fondo Neri», fondo comune di danaro contante versato pro-quota dalle imprese. Il meccanismo arriva al punto «di integrare in un'unica società corrotti e corruttori». Di più: «A volte la mazzetta viene pagata anche quando il pubblico ufficiale corrotto ha accettato l'incarico e quando il politico ha cessato il suo ruolo a livello locale, quale rendita di posizione che prescinde dal singolo atto illecito commesso e che trova giustificazione solo nel ruolo rivestito dal pubblico ufficiale e nella possibilità, che egli comunque mantiene, di poter influire sfruttando le proprie conoscenze e relazioni personali con i funzionari che - scrive ancora il gip - permangono in servizio». Il sistema L'ex presidente della Regione Giancarlo Galan e l'ex generale della Gdf Vincenzo Spaziante, i dirigenti del magistrato delle acque Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva, l'assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso: «Ciascuno di essi, per anni e anni, ha asservito totalmente l'ufficio pubblico che avrebbe dovuto tutelare, agli interessi del gruppo economico criminale, lucrando una serie impressionate di benefici personali di svariato genere». Scrive il gip che Giovanni Mazzacurati, il presidente del Consorzio Nuova Venezia (CvN) «dopo aver concordato» con i principali componenti del Consorzio «la necessità» di pagare tangenti, dal 2005 al 2011 avrebbe corrisposto - tramite l'assessore Chisso (che a sua volta riceveva il denaro o direttamente dallo stesso Mazzacurati o dai collaboratori di quest'ultimo) - a Galan, «non solo lo stipendio annuo di un milione, ma anche 1 milione e 800 mila per il rilascio di due pareri favorevoli ai progetti». In particolare 900 mila euro tra il 2007 e il 2008 e altri 900 mila tra il 2006 e il 2007 «per il rilascio del parere favorevole della Commissione Via della Regione Veneto, sui progetti delle scogliere esterne alle bocche di porto di Malamocco e Chioggia». La campagna per le comunali Il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni entra nell'inchiesta sui fondi neri delle aziende legate agli appalti del Mose per aver ricevuto, secondo l'accusa, oltre 110mila euro in più occasioni a sostegno della campagna elettorale delle comunali nel 2010. Orsoni avrebbe ricevuto i fondi tramite «contributi formali» di aziende che a loro volta ottenevano il denaro dal Cvn sulla base di false fatturazioni. Le ditte coinvolte, a vario titolo, sarebbero Mazzi, Grandi Lavori Fincosit, Mantovani e Covela, Consorzio Italvenezia e Società italiana condotte d'acqua, Coveco, San Martino e Clodia. Secondo il gip queste società partecipavano al sistema di false fatturazioni «consapevoli della destinazione a fine di finanziamento illecito di esponenti politici del denaro sovraffatturato in favore del Cvn per la realizzazione del Mose». I postini delle somme sarebbero stati Luciano Neri e Federico Sutto, uomini di fiducia dell'ex presidente del Cvn, Mazzacurati, entrambi arrestati. I passaggi sono tre: i primi due riguardano l'emissione di due fatture per 500 mila euro emesse da Coveco e da San Martino a favore del Cvn. Il terzo passaggio riguarda la dazione vera e propria, che sarebbe avvenuta con tre consegne a uomini di fiducia di Orsoni, per un totale di 110 mila euro». La domanda è se Orsoni fosse o meno consapevole delle provenienza di quel danaro. In una delle intercettazioni, Nicola Falconi (ai domiciliari), uno degli imprenditori del CvN, riferisce che Orsoni gli ha detto: «Siete dei veri amici, sono meravigliato dello sforzo addirittura superiore alle attese e ti ringrazio molto». E quella per la regionali Tra gli arrestati anche Giampietro Marchese, consigliere regionale veneto del Pd. Avrebbe ricevuto un finanziamento illecito di 33mila euro per la campagna delle regionali 2010. Il finanziamento risulterebbe confermato dall’imprenditore Pio Savioli (già arrestato nel 2013), consigliere del CvN e consulente della cooperativa Coveco nella cui contabilità è stato rintracciato il passaggio di denaro. «Finanziamento ufficiale» (con relativa fattura) si difendono gli indagati. Per l’accusa, invece, «frutto dei pagamenti del CvN sulla base di false fatturazioni Coveco». Nelle carte dell'inchiesta c’è un appunto scritto a mano sequestrato a luglio 2013 ad una dipendente del Coveco con le «erogazioni» effettuate dalla cooperativa fino all'11 ottobre 2011. Ci sono i nomi di Marchese, del consigliere regionale del Pd Lucio Tiozzo (33mila euro), della Fondazione Marcianum (100mila euro), il polo pedagogico-accademico dell'allora patriarca di Venezia Angelo Scola, il Pd provinciale di Venezia (33mila) e il Premio Galileo a Padova (15mila euro). Il giudice Giuseppone della Corte dei Conti, prima a Venezia e poi a Roma, «avrebbe percepito uno stipendio annuale oscillante tra i 300mila e i 400mila euro che gli veniva consegnato con cadenza semestrale a partire dai primi anni duemila sino al 2008». Tra il 2005 e il 2006 la dazione aumenta: «Non meno di 600mila tra il 2005 e il 2006». I soldi, afferma ancora il gip, servivano per «accelerare le registrazioni delle convenzioni presso la Corte dei Conti da cui dipendeva l'erogazione dei finanziamenti concessi al Mose e al fine di ammorbidire i controlli sui bilanci e sugli impieghi delle somme erogate al Consorzio Venezia Nuova». Il generale e le Fiamme Gialle Tra gli arrestati anche l’ex, ormai è in pensione, generale di corpo d’armata Emilio Spaziante. Secondo il gip, per «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del CvN», avrebbe ricevuto la promessa di 2 milioni e 500 mila euro. La somma versata poi è solo di 500 mila euro divisa anche con Marco Milanese (indagato), allora collaboratore politico del ministro Tremonti e parlamentare della Commissione Bilancio. La cifra sarebbe stata versata tra aprile e giugno 2010, «per influire sulla concessione dei finanziamenti del Mose».
Inchiesta Mose. "Comprati anche giudici del Consiglio di Stato, fino a 120 mila euro per sbloccare i lavori". Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan, ha detto ai pm che delle mazzette era incaricato un avvocato. E ha fatto anche il nome del del presidente del Tar del Veneto, Bruno Amoroso, scrive Giusepep Caporale su “La Repubblica”. Gli imprenditori del Mose compravano le sentenze. E per farlo si affidavano ad un avvocato cassazionista, Corrado Crialese, ex presidente di Fintecna (la finanziaria pubblica per il settore industriale). Si occupava solo di questo Crialese, pagare i giudici. Sia quelli del Tribunale amministrativo regionale, sia quelli del Consiglio di Stato. Agiva per conto delle ditte del Consorzio Venezia Nuova. È quanto mettono a verbale Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan (onorevole di Forza Italia ed ex governatore del Veneto) e Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, primo socio del Consorzio Venezia Nuova. Una sentenza costava tra gli 80 e 120mila euro. Ma non è tutto. Durante due interrogatori- confessione spunta anche un nome: quello del presidente del Tribunale amministrativo del Veneto Bruno Amoroso. È la Minutillo la prima a parlarne, quando i tre magistrati Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini il 19 marzo 2013 le chiedono conto di una mazzetta di 20mila euro. "Poi, signora, a un certo punto registriamo all'interno del suo ufficio la consegna di una somma di denaro che lei dà a un suo dipendente, da portare a Roma. Siamo nel febbraio del 2013... Insomma, qualche settimana fa, poco prima del suo arresto" dice il pm Buccini. "Sì lo ricordo - risponde la Minutillo - quel giorno, venne in ufficio da noi Corrado Crialese che ha una serie di rapporti importanti, tant'è che lui proprio lui una volta mi disse: sai, forse adesso viene il mio amico Amato, forse lo fanno Presidente della Repubblica. Fu il giorno della grandissima nevicata. E io dissi a Piergiorgio Baita: guarda che forse questo qua viene perché vuole qualcosa. E infatti era così. Bisognava corrispondergli 20mila euro che lui avrebbe fatto avere, diceva, al suo amico presidente del Tar del Veneto, Amoroso". Chiede il pm Tonini: "Perché essere consegnata questa somma?". "Così si poteva influire sui ricorsi - risponde la Minutillo - su alcuni che erano in atto, in particolare quelli sull'Autostrada del Mare. E vincemmo noi. Ma ce n'erano stati anche altri. Maltauro aveva fatto ricorso contro di noi sulla Valsugana, e so che era anche in crisi per questo. Perché (il giudice, ndr) era amico sia di Mantovani (attraverso Crialese) che di Maltauro. Alla fine Maltauro ritirò il ricorso e si misero d'accordo Mantovani e Maltauro. In realtà i ricorsi servivano proprio a questo: un concorrente li fa per costringerti poi a tirarlo dentro. Funziona quasi sempre". La interrompe il pm Ancilotto: "Ecco, ma allora perché pagare?". "Perché questo è un sistema consolidato, nel senso che avviene anche ai più alti livelli oltre che al Tar..." risponde l'ex segretaria di Galan. "Senta, è l'unico pagamento fatto ad Amoroso o in passato ne vennero fatti altri dal Baita?" chiede ancora uno dei tre inquirenti. "Ce ne furono altri, come questo cui ho appena accennato: il ricorso della Valsugana, che infatti vincemmo". Anche Baita, nell'interrogatorio del 28 maggio 2013 conferma tutto. E va oltre. "Conosco Crialese quando come vicepresidente di Fintecna si offre di fare il mediatore nell'acquisto dell'area ex Alumix, dove avevamo un progetto di piattaforma logistica presso il Porto di Venezia. Per favorire la vendita lui chiede una parte in nero, credo 160mila euro. Gli affidiamo poi degli incarichi anche come avvocato per le cause amministrative e oltre al pagamento della parcella ci chiede sempre una parte in nero". "E come la giustifica questa parte in nero?" chiedono i magistrati. "Che lui ha i suoi rapporti da... pagare ". E poi fa la lista delle mazzette per i giudici: "Abbiamo pagato sia per alcune sentenze del Consiglio di Stato che del Tar del Veneto. Per la sentenza sulla Pedemontana Veneta 120 mila euro. Per vincere il ricorso contro Sacyr che poi, però, abbiamo perso, 100mila euro... In quel caso qualcun altro deve dato di più. Poi anche per un ricorso contro Maltauro sulla Valsugana. E contro Net Engineering credo altri 80 o 100mila euro. E ancora per la vicenda Jesolo Mare al Consiglio di Stato. Pagavamo sempre, perché Crialese diceva che se non glieli davamo avremmo perso...". Crialese ora per lo scandalo del Mose è agli arresti domiciliari con la sola accusa di millantato credito.
Sbirri venduti e magistrati corrotti: il sistema Mose. Il generale Spaziante chiese 2 milioni di euro per orientare le indagini. La guerra nella Gdf, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. La Guardia di Finanza ha dovuto indagare su se stessa nell’inchiesta sul Mose di Venezia dove è stato arrestato il generale Emilio Spaziante. Ma anche nell’indagine sull’Expo 2015 di Milano l’ex Dc Gianstefano Frigerio, il professore della cupola, millantava rapporti con il capo generale delle fiamme gialle Saverio Capolupo. Non è un caso che l'operazione veneziana si chiamasse in codice "Antenora" (come ricordato dal quotidiano IlPiccolo), seconda "delle zone in cui è distinto il cerchio nono dell'Inferno dantesco", quello dei traditori. «In essa sono puniti coloro che hanno tradito la fede spezial (If XI 63) creata dall'appartenenza alla stessa patria o allo stesso partito politico». Gli scandali che stanno terremotando il Nord Italia in queste ultime settimane, colpendo esponenti del Pdl o del Pd, tirano in ballo non solo i ladri, ma anche «le guardie» (copyright Matteo Renzi). E oltre ai guardiani delle legalità, personaggi spesso impegnati in interviste tese a condannare la corruzione, a finire in arresto ci sono anche magistrati della Corte dei Conti, come Vittorio Giuseppone o giudici del consiglio di Stato e del Tar, persino funzionari come il Magistrato delle Acque di Venezia che dovrebbero garantire la legalità delle opere pubbliche. Non solo. In entrambe le inchieste compare l’ombra dei nostri servizi segreti (in particolare in relazione all'imprenditore Enrico Maltauro, costrutture di caserme e basi militati statunitensi in Italia ndr), altro tassello funzionale a garantire sicurezze giuridiche e a far viaggiare spedito il giro di appalti, mazzette e conti all’estero con l’aiuto di uno come Roberto Meneguzzo, numero della Palladio Finanziaria, la Mediobanca del Nord-Est. Del resto non è la prima volta che la nostra Guardia di Finanza viene travolta dalle inchieste della magistratura. Già nel 2011 il generale Spaziante, insieme con l'ex capo di stato maggiore Michele Adinolfi comparve per alcune soffiate nell'inchiesta sulla P4 di Luigi Bisignani. E a ben guardare i protagonisti sono sempre gli stessi e riportano a galla una guerra che si consumò nel 2008, quando nel cambio della guardia tra il governo Prodi a quello Berlusconi, l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti fece fuori tutti gli uomini dell’ex numero uno di via XX settembre Vincenzo Visco. Il deus ex machina di quella operazione di spoil system fu Marco Milanese, ex Gdf, ex braccio destro, indagato nell’inchiesta sul Mose e accusato di aver intascato una mazzetta da 500mila euro. Ma la vera mente dell’operazione di occupazione del potere da parte dei tremontiani fu Vincenzo Fortunato, ex magistrato, potente capo di gabinetto del ministero dell’Economia per quasi dieci anni, che caso vuole sia stato fino al marzo del 2014 “collaudatore” proprio del Mose, del sistema di dighe mobili che dovrebbe salvare la laguna dalle maree. A nominarlo nel 2011 insieme a Pietro Ciucci, presidente di Anas, fu il Magistrato dell’Acque di Venezia, allora ancora di nomina della cricca del capo supremo, Giovanni Mazzacurati. Grazie alla Gdf gli indagati sapevano di essere intercettati. Spaziante, arrestato giovedì scorso all’Hotel Savoia di Milano, secondo gli inquirenti, è stato un tassello fondamentale per la cricca bipartisan che gestiva il giro delle tangenti su un’opera faraonica da svariati miliardi di euro. Perché oltre a collaborare insieme a Milanese per sbloccare i fondi del Cipe, teneva informati i sodali della cricca sulle indagini della Guardia di Finanza. Non solo. Consigliò pure a Mazzacurati di acquistare un blackberry con una nuova scheda telefonica per evitare di essere ascoltato. Nell’ordinanza di custodia cautelare i magistrati spiegano nel dettaglio le richieste che i vertici del Consorzio Nuova Venezia volevano sapere sulle inchieste in corso. E’ l’allora generale della Gdf della provincia di Venezia, Walter Manzon, perquisito nei giorni scorsi, ad attivarsi. E a chiedere al colonnello Renzo Nisi, l'ufficiale che per primo ha indagato sul Cvn scoprendo il marcio delle acque veneziane, di fornirgli le informazioni delle ultime indagini in corso. Nisi è il cosiddetto «buono» di tutta la vicenda, grazie al suo operato l'inchiesta non è stata insabbiata. Nel 2013 è stato trasferito a Roma e prima di andarsene disse: «La pietra ha cominciato a rotolare e presto diventerà una valanga». Come si legge nei verbali agli atti, Nisi, uomo appunto integerrimo, non avendo in quel momento «alcun tipo di sospetto trattandosi di dati richiesti da suo diretto superiore gerarchico» fornì i dati. E’ il 26 ottobre del 2010. Grazie all’intervento di Speziante e Manzon la cricca viene a sapere tutto. «Il nominativo dei soggetti nei cui confronti sono in corso le indagini tecniche e la qualifica»; il tipo di intercettazioni in corso, se ci fossero cimici o fossero solo intercettati i cellulari; le utenze monitorate dalla fiamme gialle per conto della procura. Per questo motivo Mazzacurati e Spaziante non parlano mai al telefono, perché sanno di essere intercettati. Ma il 3 dicembre del 2010 una microspia piazzata nell’ufficio delll’ex presidente del Cvn svela che il gran burattinaio del Mose conosce la situazione. Ne parla con un ex diplomatico, Antonino Armellini. E svela: «Mi hanno detto di una telefonata che hanno registrato con il dottor Letta, una con Matteoli...le hanno registrate». L'accordo con la Guardia di Finanza trovato nella casa di Baita: 2 milioni di euro per orientare le indagini. Il sodale di Mazzacurati è Piergiorgio Baita, l’ex top manager della Mantovani costruzioni, Il re del project financing arrestato lo scorso anno, altra gola profonda nell’inchiesta. È nella sua casa che gli inquirenti trovano in un'agenda la conferma dell’accordo con il relativo importo delle spese a «risultato raggiunto». E nel corso dell'interrogatorio Mazzacurati spiega che non solo Milanese ringraziò dopo aver ricevuto una tangente di 500mila euro («Io ho un po’ di ritegno su queste cose, mi colpì» dice ai magistrati), ma che dopo si trovò a dover fronteggiare le richieste di Spaziante che per «orientare le indagini» chiedeva una tangente di 2 milioni di euro. Di questi soldi Mazzacurati ne verserà solo un quarto in due tranche, nel 2011 e 2012. «Mi rifiutai di corrispondere altro denaro, anche per le difficoltà di reperire una somma quale quella richiesta» afferma durante l’interrogatorio del 9 ottobre del 2013. Servizi segreti e magistrati. Oltre a Giuseppone della Corte dei Conti, anche lui arrestato e anche lui addetto, secondo gli inquirenti, a dare una mano al Consorzio Nuova Venezia, nelle carte dell'inchiesta ci sono pure i magistrati del Tar. E' soprattutto Claudia Minutillo, ex segretaria del Doge Giancarlo Galan, a raccontare ai magistrati delle lotte interne alla burocrazia italiana, alla Gdf e ai Servizi. La Minutillo racconta anche degli intrecci tra Baita, Corrado Crialese, avvocato cassazionista e numero uno di Adria Infrastrutture già in Fintecna, e Bruno Amoroso, presidente del Tar di Venezia. Lo stesso Baita conferma a più riprese di aver pagato giudici del Consiglio di stato fino a 120 mila euro per avere sentenza favorevoli. Se nelle carte dell'Expo 2015 spunta il nome del numero uno del Dis Giampiero Massolo, in quelle sul Mose è sempre la Minutillo a raccontare altri dettagli sull'assuzione di una figlia «di uno dei servizi segreti». Si legge: ««I cognomi di queste due ragazze sono significativi: una si chiama Splendore, il cui padre è comandante dei Servizi segreti (si tratta del direttore dell'Aise del Triveneto Paolo Splendore ex Sisde noto alle cronache per aver lavorato con Bruno Contrada ndr), che evidentemente si pensava potesse avere un ruolo nell’ambito delle indagini in corso; e l’altra si chiama A., il cui padre è un importante funzionario della Regione del Veneto, che ha un ruolo fondamentale in molte attività del Gruppo Mantovani, come per esempio tutte le opere di bonifica e di salvaguardia della Laguna. Per esempio: successe che un giorno andai da Chisso per chiedere chiarimenti su un accordo di programma che non si faceva e A. doveva seguire la questione. “Ma voi non gli dovevate assumere la figlia? Lui su questa cosa è molto arrabbiato, tu assumi la figlia e vedrai che le cose si risolvono”, mi disse».
1. MOSE, LE MAZZETTE-VITALIZIO: “PAGA FISSA, VIAGGI E HOTEL”, scrive Paolo Berizzi per “La Repubblica”. Mose ha aperto le acque, sotto c’è il baratro di Venezia. Un fondale melmoso dove hanno strisciato per dieci anni politici squali affamati di tangenti «anche dopo il pensionamento», tipo vitalizio, «pacchetti e pacchettini» per «ristrutturare la villa» come è riuscito a Giancarlo Galan al quale, bontà sua, non bastassero i muratori pagati dalla Mantovani spa, casualmente nella torta Mose, era assicurato «uno stipendio annuo di 900mila euro». Più morigerato, ma forse è solo questione di ruoli e di tempi, il sindaco Giorgio Orsoni: 560 mila. Una tantum anzi no, a rate. «In tre mesi ho portato i soldi a casa sua», confessa Giovanni Mazzacurati. Il «capo supremo», il «re», il «monarca», l’«imperatore», il «doge». Lo chiamano così i sottoposti, le iperboli che si addicono a chi presiede il consorzio a cui è stata affidata un’opera da 5miliardi, «il progetto più grande del mondo». «Il capo supremo era scoglionato... ma poi è diventato tutto arzillo dopo la cena con il mio amico di Padova » (il sindaco di Padova Zanonato, ndr), dice del suo dominus uno dei più fidati collaboratori. Avevano addosso gli occhi dei sindacati: «C’è uno che al Tg3 ha detto: “È ora di finirla, questi qua fanno soldi con il Mose, poi vengono qua e si comprano la sanità pubblica”». Questi qua sono loro, il branco di piranha che s’addensava intorno agli squali. I «loro» imprenditori. Quelli che «prima li paghiamo — i politici — e poi andiamo a batter cassa». Dice ancora l’ingegnere Mazzacurati: «Adesso con i tagli grossi vengono pacchetti piccoli... ». Glieli portava direttamente lui i soldi al consigliere regionale Pd Giampiero Marchese, invero non il più ingordo giacché il «meccanismo », come lo chiamano i magistrati nelle 710 pagine di ordinanza del gip Alberto Sacaramuzza, si accontentava di piccole tranches «da 15 mila euro a volta». Più che un’idrovora una cerniera, Marchese. «Era il collettore di soldi del Consorzio Venezia Nuova (Cvn) per la sinistra. Galan e Chisso (Renato Chisso, assessore regionale forzista alle Infrastrutture, ndr) lo erano per la destra». C’è un codice più o meno sofisticato che i mazzettari della Laguna osservavano per tessere la loro rete. È fatto di «dazioni obbligate», «rendite di posizione», «fondi neri» che qui, splendido anagramma della corruzione, diventano «fondo Neri» (dal nome di Luciano Neri, il “cassiere” di Mazzacurati” del Cvn). Bisogna leggere attentamente le parole del gip. «Il meccanismo — annota — arrivava al punto di integrare in un’unica società corrotti e corruttori». Un abisso «talmente profondo che non sempre è stato possibile individuare il singolo atto specifico contrario ai doveri d’ufficio». Eccoli gli ingranaggi del meccanismo. C’è un sindaco che nella sua bella casa di San Silvestro, due passi dal ponte di Rialto, riceve il corruttore: il «grande amico» Mazzacurati. Un caffè veloce? «Ho saturato la cifra richiesta», ammette il costruttore. «Anche tranches da 150 mila euro». Non è uno che va per il sottile il «doge». «Tutti i nostri amici gonfiano», ammonisce al telefono. Fatturazioni off shore, «esterovestizione» per dirla con l’economichese della polizia tributaria. Ma anche di carta igienica si parla. Racconto di Pio Savioli, responsabile del Consorzio per i rapporti con le cooperative: «Il magistrato alle Acque era in subordine al Consorzio Venezia Nuova... cioè Venezia Nuova li comprava... sudditanza psicologica e anche operativa... Cioè gli comprava anche la carta igienica, è vero, non è una battuta». Tutto nello stesso contenitore che tiene dentro squali, piranha e pesci piccoli. «Le nomine del Magistrato delle Acque da sempre le ha fatte l’ingegnere Mazzacurati — dice Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan e imprenditrice del cemento — Cioè faceva in modo che venisse nominata una persona a lui gradita, gradita al Consorzio». Non manca nessuno nel canovaccio di questa commedia dell’arte (di rubare). Il sindaco (Orsoni). L’assessore (Chisso). Il “governatore” (Galan). Gli altri politici da oliare (Marchese, Lia Sartori eurodeputata Pdl non rieletta). Poteva mancare il generale della Guardia di Finanza in pensione? No, infatti è spuntato lui, Emilo Speziante. «Con Mazzacurati si incontrano nella residenza romana dell’imprenditore ». Residence Ripetta, via di Ripetta. Il doge gli chiede un occhio di favore. E qualche soffiata. Speziale è richiesto di «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Cvn». Tutto bene oliato con «la promessa di 2,5 milioni di euro». Il sistema Mose sapeva essere riconoscente. Anche quando uno lasciava il suo incarico. Anche dopo la pensione. «A volte la mazzetta viene pagata anche quando il pubblico ufficiale corrotto ha cessato l’incarico o quando il politico ha cessato il suo ruolo a livello locale», recita l’ordinanza del gip. Si chiama «rendita di posizione». Un «conguaglio», o «stipendio fisso» che «prescinde dal singolo atto illecito commesso». Così ingrossava il conto Vittorio Giuseppone, ex magistrato della Corte dei conti. Così Orsoni e Chisso e Lia Sartori potevano farsi le campagne elettorali ma non solo. «Orsoni prima ha fatto una cifra e poi l’ha aumentata», dice Mazzacurati che del primo cittadino veneziano ricorda, in alcune occasioni, la prudenza. «Chiedeva di consegnare denaro a qualcuno che lo copriva». I «pacchettini» sono scivolati di mano in mano dal 2003 a oggi. Ognuno riceveva in base a quanto era in grado di dare. Ecco, se esiste un asso pigliatutto quello potrebbe rispondere al nome di Giancarlo Galan. «Era a libro paga dei costruttori del Mose», scrive il gip. Tra 2005 e 2008 l’ex governatore e fedelissimo berlusconiano si è messo in tasca emolumenti per 900 mila euro l’anno. Un affarista il Galan che esce dalle carte. Tra conti a San Marino e pacchetti azionari nelle società coinvolte negli affari della Regione, con il suo fidato assessore Chisso faceva lavorare «imprese con le quali era in debito». «Galan ha continuato a chiedermi denaro anche dopo la scadenza del suo mandato in Regione», dice l’ad della Mantovani spa Piergiorgio Baita. VERA E PROPRIA LOBBY. Questo era il Consorzio Venezia Nuova. «Un gruppo di pressione per ottenere le modifiche normative d’interesse», scrive il gip. «Buste bianche» e «bigliettoni». E poi viaggi. Viaggi per agganciare i big della politica. Come Tremonti, allora superministro, a cui Mazzacurati prova a arrivare attraverso il suo braccio destro Marco Milanese oliato con 500mila euro. «Prenotami una stanza al Grand Hotel», chiede il “Doge” alla sua segretaria. «Sì, che in quei due giorni c’è Matteoli che parla». Non gli è andata giù, a Mazzacurati, che il governo abbia nominato Ciriaco D’Alessio presidente del Magistrato alle Acque. «Oggi vedo il Dottore», promette sior Giovanni. Il Dottore è Gianni Letta. Lo riceva a Roma il 23 settembre 2011. Ma forse Letta non basta. «Lì ci vuole un atto di imperio di Berlusconi». Così parlo l’uomo del Mose prima che le acque si aprissero.
2. IL MANAGER REO CONFESSO “AL GENERALE SPAZIANTE TRECENTOMILA EURO” - MAGISTRATI E 007 A LIBRO PAGA PER SPIARE LE INDAGINI, scrive Paolo Colonnello per “La Stampa”. «Questo incontro che Mazzacurati aveva fatto con Meneguzzo avrebbe comportato il pagamento di due milioni e mezzo alla Guardia di Finanza, di cui 300 mila subito e il conferimento a Meneguzzo (ad di Palladio Holding, ndr) di 300 mila euro all’anno, più 400 mila euro di fee… Seppi poi che la Guardia di Finanza a cui si riferiva era il generale Emilio Spaziante e, oltre ai 300 mila euro, ne furono richiesti altri 200 mila…». Parola di Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani Costruzioni, grande reo confesso di questa vicenda. Per esempio: «Se il presidente della Regione mi dice: “Mi dai una mano?”, lei gliela dà, non si chiede perché». Chiede il pm: quindi lui chiedeva e voi davate? «Per forza, come fai a dire di no?… Sì ma, voglio dire, Galan non era più governatore, era ministro, eh!…». Non c’è scampo: un milione all’anno «di stipendio», più lavori in villa pagati. Ricatti, intrighi, spionaggio, tangenti: c’è di tutto in questa marea di schifezze che sta sommergendo Venezia. Confronto alla cricca maneggiona e un po’ millantatrice che ruotava intorno all’Expo, questi del Mose sono un’organizzazione di geometrica potenza il cui fine «era quello di una sistematica e continuativa condotta corruttiva di pubblici ufficiali, sia in qualità di funzionari che di politici… essendo la corruzione finalizzata all’ottenimento di finanziamenti e di lavori da parte delle società consorziate rientranti nel gruppo Mantovani». Un gruppo che, a partire dall’ingegner Baita, finito nel mirino anche nelle inchieste milanesi di Expo, per arrivare al «Grande Vecchio» del Consorzio Venezia Nuova, l’ingegner Giovanni Mazzacurati, (liquidato l’anno scorso dalla società pubblica con 7 milioni di euro) si era strutturato perfino con un servizio di «controspionaggio» per intercettare le inchieste che li riguardavano. Ed è questo, forse, il dato più inquietante che emerge dall’indagine e che si riassume nel nome del generale di corpo d’armata Emilio Spaziante, un passato nei Servizi Segreti, fino a due mesi fa numero due della Guardia di Finanza, che ieri gli ha messo le manette. Al generale, per «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Consorzio Venezia Nuova», vengono promessi da Mazzacurati 2 milioni e mezzo di euro, di cui 500 mila versati e spartiti con Marco Milanese, altro personaggio plurinquisito (è indagato nell’inchiesta Bpm), ex braccio destro del ministro delle Finanze Giulio Tremonti, e con Roberto Meneguzzo, Ad di Palladio Holding, gruppo finanziario vicentino molto noto. D’altronde la torta da spartire era quasi illimitata: 5 miliardi di euro per salvare Venezia dalle sue acque ma non dagli squali, e avere in concessione la quasi totalità degli appalti senza gara, senza concorrenza, senza alcun confronto tra costi e progetti alternativi. Nelle carte è documentato un incontro tra il generale e Meneguzzo nella sede di Palladio a Milano l’8 settembre 2010 per ricevere una parte dei soldi. Scrivono i giudici: «Ecco che proprio nel momento in cui riceve i soldi, Spaziante chiama per 4 volte il comandante del Nucleo della Gdf di Venezia che stava svolgendo attività di verifica, per dimostrare… di essere in grado di acquisire notizie riservate sulle indagini». Del resto, i benefici effetti del rapporto tra il presidente del Consorzio Mazzacurati e Spaziante, mediato da Meneguzzo, si vedono in fretta: «Sei mesi di registrazioni… il mio telefonino, mi hanno detto è ancora sotto controllo fino alla fine dell’anno», spiega Mazzacurati all’ex diplomatico Antonio Armellini. «Mi hanno detto, che mi hanno registrato una telefonata con Matteoli (l’ex ministro di An finito sotto inchiesta, ndr) e col dottor Letta… pensi che la telefonata che mi hanno raccontato io me la ricordavo benissimo…». Secondo i magistrati la rete di spionaggio comprendeva di tutto: da magistrati contabili, a poliziotti, a funzionari dei Servizi. L’acqua marcia di Venezia.
3. MOSE, LA SEGRETARIA DI GALAN AI PM: “PER LUI UNO STIPENDIO DALLE AZIENDE”, scrive Mario Portanova per "Il Fatto Quotidiano". “La cosa era molto variabile, si può considerare un milione l’anno”. Così, agli atti dell’inchiesta della Procura di Venezia sul Mose, che ha portato all’arresto di 25 persone, tra le quali il sindaco Giorgio Orsoni, è descritta la retribuzione di Giancarlo Galan, già presidente della Regione Veneto e attuale deputato di Forza Italia, da parte delle aziende che si sono aggiudicati i lavori del sistema di dighe mobili destinato a proteggere la città lagunare dall’acqua alta. Un affare da oltre 5 miliardi di euro. A raccontarlo ai pm, nell’interrogatorio del 31 luglio 2013, è Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, che raccoglie appunto quelle imprese. Una conferma arriva ai magistrati da Claudia Minutillo, segretaria di Galan all’epoca dei fatti, poi passata alla Mantovani costruzioni, grande protagonista dei lavori del Mose: ”Era un sistema, cioè ogni tot quando loro potevano gli davano dei soldi”. Dall’ordine di custodia – che per quanto riguarda l’onorevole Galan dovrà essere esaminato dalla Camera – emergono tanti altri pagamenti. Un milione e 100mila euro per ristrutturare la villa sui Colli Euganei; 200mila euro consegnati nel 2005 all’Hotel Santa Chiara di Venezia da Piergiorgio Baita, allora presidente della Mantovani Costruzioni, diventato la gola profonda dell’inchiesta con ampie confessioni, per finanziare la sua campagna elettorale. E ancora: 50mila euro, nello stesso anno, versati in un conto corrente presso S.M. International Bank Spa di San Marino. Più altri finanziamenti per altre campagne elettorali consegnati sempre da Baita alla Minutillo. Ed è ancora la segretaria a raccontare ai pm che un’ulteriore ricompensa consisteva nell’”intestare quote di società che avrebbero poi guadagnato ingenti somme dal project financing a prestanome dei politici di riferimento”, Galan in primis. Qual era, secondo l’indagine, la contropartita di retribuzioni così sostanziose? Dalla Regione, per procedere con i lavori, il Consorzio Venezia Nuova doveva ottenere essenzialmente la Valutazione d’impatto ambientale e la salvaguardia per la realizzazione delle dighe in sasso. Da qui, secondo l’accusa, la necessità di ungere abbondantemente le ruote. In interrogatorio, a proposito dei soldi versati a Galan e all’assessore regionale alle infrastrutture Renato Chisso (Forza Italia), Baita parla di “fabbisogno sistemico” e afferma: “Credo che noi abbiamo pagato tra Adria e Mantovani 12 milioni di euro. Penso che ne siano stati retrocessi sei”. Galan ha un ruolo fondamentale: è lui ad accompagnare Mazzacurati, presidente del Consorzio, al cospetto di Gianni Letta, quando quest’ultimo è sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo di Silvio Berlusconi. Nel 2006, ricostruisce il gip Alberto Scaramuzza, “la giunta regionale - presidente Giancarlo Galan, relatore Renato Chisso – individuava nel segretario alle Infrastrutture Silvano Vernizzi il ruolo del presidente della Commissione di valutazione di’impatto ambientale. In violazione della legge regionale 10/1999″, che assegna il compito “al segretario regionale competente in materia ambientale”. Passo successivo, “l’estromissione” di un ente di controllo terzo, l’Ispra, emanazione del ministero dell’Ambiente, sostituito dalla Regione medesima per iniziativa, ancora, di Chisso. Dice Baita nell’interrogatorio del 28 maggio 2013: per “l’approvazione da parte della Commissione Via della regione Veneto delle dighe in sasso, Mazzacurati mi disse che gli era stato richiesto dall’assessore Chisso a nome di Galan il riconoscimento di 900mila euro. Altro episodio specifico è stata l’approvazione in Commissione di salvaguardia del progetto definitivo del sistema Mose per il quale, sempre attraverso l’assessore Chisso, ma a nome del presidente Galan, fu richiesta la somma di ulteriori 900mila euro”. Era Chisso a farsi portavoce delle richieste, “perché Galan lo pressava”. E ancora Baita, il 27 settembre 2013, a precisare ai pm che le somme non erano per il partito, ma “per il singolo lucro del singolo destinatario”. Da qui l’accusa di corruzione, e non di finanziamento illecito. Il comportamento del presidente della Regione, scrive il gip, ha “particolannente danneggiato l’interesse pubblico alla tutela ambientale“. Secondo Baita, i versamenti a Galan sono continuati anche quando il politico padovano non era già più presidente del Veneto. Lo conferma in interrogatorio, il 19 marzo 2013, l’ex segretaria dello stesso Galan, Claudia Minutillo, secondo la quale i pagamenti non erano finalizzati a ricompensare i singoli passaggi amministrativi del Mose. “Le procedure andavano avanti (…), ma era un sistema, cioè ogni tot quando loro potevano gli davano dei soldi”. “Come fosse uno stipendio“, chiede il pm? “Sì, di fatto”. Tanto che “Baita a volte si lamentava di quanto veniva a costare Galan”. Soldi comunque ben spesi, a quanto spiega ancora Minutillo: “A fronte dei pagamenti, il governatore e l’assessore Chisso agevolavano il Gruppo Mantovani nella presentazione e nell’iter burocratico relativo al project financing che le società del gruppo Serenissima Holding presentavano in Regione. Quasi sempre era la Mantovani a presentare il progetto, ma i tempi di presentazione, i lavori in relazione ai quali presentarli erano concordati con il Galan e il Chisso da parte del Baita”. Tale era poi il controllo di Galan su “commissioni e assessorati”, che qualunque progetto passava senza “alcun tipo di intoppo o di obiezione”. E’ Mazzacurati a ricordare, per esempio, quella volta che Galan tornò precipitosamente in sede per far approvare un’opera in laguna, funzionale al cantiere Mose, “contrastata dai Verdi”. Fra le contestazioni a Galan c’è quella di aver ottenuto il pagamento della ristrutturazione della propria villa di Cinto Euganeo, nel padovano. Nel 2007/2008 venne ristrutturato il corpo principale del casale e nel 2011 la “barchessa”. Per portarli a termine, la Tecnostudio Srl “sovrafatturava alla Mantovani alcune prestazioni effettuate presso la sede e per il Mercato Ortofrutticolo di Mestre”. La ristrutturazione della villa quindi a Galan non costò nulla: con le fatture false a pagare era la Mantovani Costruzioni. Il politico di Forza Italia, più volte ministro e attuale parlamentare, si dichiara estraneo a tutta la vicenda. “Dalle prime informazioni che ho assunto e da quanto leggo sui mezzi d’informazione, mi dichiaro totalmente estraneo alle accuse che mi sono mosse, accuse che si appalesano del tutto generiche e inverosimili, per di più, provenienti da persone che hanno già goduto di miti trattamenti giudiziari e che hanno chiaramente evitato una nuova custodia cautelare”.
EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
Editoria e censura. Sarah Scazzi ed i casi di cronaca nera. Quello che non si deve dire. Quando gli autori scomodi sono censurati ed emarginati. Il caso che ha sconvolto l'Italia e ha cambiato per sempre la cronaca nera in due libri-dossier precisi e dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo. “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese.” E “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. La Condanna e l’Appello”. Sono i libri che Antonio Giangrande ha scritto in riferimento al caso nazionale. In questi libri l’avetranese Giangrande ripercorre da testimone privilegiato in prima persona tutte le tappe del caso: gli interrogatori, lo studio degli incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per entrare nella dinamica del delitto. Da giurista e da sociologo storico inserisce la vicenda in un sistema giudiziario e mediatico che ha trattato vicende similari e che non lasciano spazio ad alcuna certezza. Di Sarah Scazzi si continuerà a parlare a lungo. La vicenda, tra le più controverse nella cronaca recente del nostro Paese, è stata costantemente seguita, commentata e interpretata, anche a sproposito. Antonio Giangrande in questi libri compie un viaggio meticoloso e preciso all'interno delle prove e delle contraddizioni sia del caso giuridico, che dei suoi controversi protagonisti. Antonio Giangrande è un punto di riferimento, è il destinatario della tua prima telefonata per capire cosa sia successo. Le sue analisi sono sempre schiette, appassionate, cristalline. Mai scontate o banali. Puoi anche non essere d'accordo, ma dal confronto ne esci più sapiente. Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia, per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Questo è un dazio che egli paga in termini di visibilità. Ogni kermesse, manifestazione, mostra o premio a carattere culturale è in mano agli editori. Premi e vincitori li scelgono loro, non il lettore. I giornali e le tv dipendono dagli editori e per forza di cose sono costretti a promuovere gli autori della casa. Il web è uno strumento per far conoscere gli autori sconosciuti. Antonio Giangrande usa proprio il web per raccontarsi. «Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!» Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Si è mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per far sapere quello che non si sa? E questo al di là della convinzione di sapere già tutto dalle proprie fonti? – conclude Giangrande – Si provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Si scoprirà cosa succede veramente in un territorio o in riferimento ad una professione. Cose che nessuno dirà mai. Non si troveranno le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Si troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non si potrà più dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.» “L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri ecc. Libri da leggere anche a costo zero. Se invece volete dargli una mano, regalate un libro di Antonio Giangrande. Scoprirete tutto quello che non si osa dire.
FINANZA E GIUSTIZIA.
«L’archiviazione, falla al più presto per il mio amico Berneschi». Anche l’avvocato Andrea Baldini nelle intercettazioni della maxitruffa: il banchiere lo pressava perché facesse chiudere il caso, scrive Cristina Lorenzi su “La Nazione”. Un pasticciaccio brutto che ha coinvolto banchieri, magistrati, avvocati, professionisti. L’arresto di Giovanni Berneschi, ex presidente di Carige e vice della Cassa di risparmio di Carrara, e di altre sei persone per una presunta truffa ai danni della banca ha avuto come effetto domino una ricaduta su procuratori e avvocati della nostra zona coinvolti dalle intercettazioni telefoniche a ambientali. Nello specifico Berneschi avrebbe avuto un trattamento di favore dal procuratore della Spezia Maurizio Caporuscio, attraverso la gentile intercessione dell’avvocato di Pontremoli Andrea Baldini e della moglie di quest’ultimo Pasqualina Fortunato, detta Lilly, giudice del lavoro alla Spezia. Casus belli il nostro articolo sulla cronaca di Carrara della Nazione attraverso cui lo stesso Berneschi sarebbe venuto a sapere di essere indagato in seguito a una denuncia di Gianfranco Poli, ex titolare della Meg tre, una società specializzata nella produzione di abrasivi. Poli denunciò alla Procura, e sul nostro giornale, di essere stato rovinato, fino al pignoramento di tutti i suoi beni di famiglia, circa 2 miliardi di lire, dallo stesso Berneschi, da Araldo Michelini, funzionario di Carige, e dal figlio di quest’ultimo il commercialista Enrico, adesso irraggiungibile. Dalle intercettazioni emerge che Baldini sarebbe stato incaricato da Berneschi di informasi a che punto era in Procura la denuncia di Poli. In una conversazione registrata i finanzieri annotano: «Sono andato a parlare con Caporuscio...il quale procuratore... al consiglio al quale mi sono presentato e gli ho detto... ehm... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi.... che è stato coinvolto e rappresentato... nei giornali... in questa porcheria... vediamo subito!... Ha aperto il computer sì... sì la pratica è qua è nelle mani di Alberto Cossu quindi è riservatissima... me l’ha data solo perchè son io eh!...». Successivamente il 14 aprile scorso Baldini rassicura Berneschi. «Grazie all’intervento di Lilly (sua moglie, ndr) è stata inoltrata una richiesta di archiviazione della posizione di Berneschi». Non si sa se le dichiarazioni di Baldini abbiano riscontri di verità o se, come riferisce di lato lo stesso avvocato, abbia «raccontato un sacco di balle per rassicurare una persona depressa, agitata e instabile», di fatto sulla denuncia per truffa di Poli dalla Procura della Spezia era già partita la tanto attesa richiesta di archiviazione. Richiesta che non avrebbe nemmeno avuto bisogno di tante spinte dal momento che Poli riferisce di fatti avvenuti 20 anni fa e quindi facilmente soggetti a prescrizione. Tuttavia la denuncia sembra bruciasse particolarmente a Berneschi visto che lo stesso Baldini si prende la briga di rassicurarlo: «E’ il più bel giudice che c’è a Spezia... intelligente e buona. Vado da lei a parlarle e le dico Oriana... il mio amico Berneschi... C’è l’archiviazione, falla al più presto possibile. Lei lo archivia e a questo punto siamo liberi di fare tutto quello che vuoi». E Berneschi risposte: «Il giornalista che scriva quattro righe. Sulla diffamazione gli voglio far paura eh». Con Berneschi, 77 anni, sono finiti nei guai anche l’ex numero uno di Carige Vita, Ferdinando Menconi, 67 anni, l’imprenditore immobiliare Ernesto Cavallini, 66, sono tutti e tre ai domiciliari. L’avvocato svizzero Davide Enderlin, 42 anni, l’imprenditore Sandro Calloni (61), il commercialista Andrea Vallebuona (51) e la nuora di Berneschi Francesca Amisano (48) sono invece in carcere. Le ipotesi di reato vanno dalla truffa al riciclaggio.
Carige - Indagine su 4 magistrati talpe di Berneschi: nomi e dettagli, scrive “Oggi Notizie”. Se nei giorni scorsi si diceva che era partita la caccia alla cosiddetta talpa in Procura che avrebbe aiutato Giovanni Berneschi, quando era presidente del Cda di Carige Spa a portare a termine la truffa e il riciclaggio ai danni della stessa banca, ora, mentre le indagini procedono serrate, ecco che si scopre come le talpe, in realtà, sarebbero state almeno quattro, e le procure coinvolte tre. La Procura di Torino ha infatti ricevuto da quella di Genova gli atti relativi a sospetti contatti tra magistrati vicini a Berneschi. Le procure interessate sono quella di La Spezia, Savona e Milano. Nello specifico Berneschi, secondo quanto emerge dalle indagini della Guardia di finanza di Genova nel merito della presunta truffa a Carige e Carige Vita Nuova, attraverso l'avvocato di Pontermoli Andrea Baldini e la moglie di quest'ultimo, Pasqualina Fortunato, detta Lilly, magistrato del lavoro a Spezia, avrebbe avuto un trattamento di favore dal procuratore della Spezia Maurizio Caporuscio. A Savona il procuratore Francantonio Granero, procuratore capo, il cui figlio Gianluigi Granero è consigliere del Cda di Carisa, avrebbe offerto suggerimenti processuali a Berneschi nell'ambito del crack Geo Costruzioni in cui risulta indagato. A Genova l'ex vice presidente di Carige Vita Nuova Ferdinando Menconi avrebbe assunto informazioni da un "vice procuratore" sull'indagine sulla Carige. Tutto ciò si evince dalle intercettazioni telefoniche e ambientali sviluppate dalla Finanza (coordinata dal procuratore aggiunto Nicola Piacente e dal sostituto Silvio Franz). A La Spezia Berneschi aveva appreso il primo marzo del 2013 da un articolo della Nazione di essere indagato in seguito ad una denuncia di Gianfranco Poli, ex titolare della Meg tre, una società specializzata nella produzione di abrasivi. Un funzionario di Carige lo avrebbe portato alla rovina, giungendo al pignoramento di tutti i suoi beni di famiglia. E lui, ad un passo dal tracollo, aveva denunciato tutti, anche Berneschi. Baldini era stato incaricato di informarsi sul caso. In una conversazione registrata i finanzieri annotano: "Sono andato a parlare con Caporuscio... procuratore... al consiglio al quale mi sono presentato e gli ho detto... ehm... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi.... che è stato coinvolto e rappresentato... nei giornali... in questa porcheria... vediamo subito!... Ha aperto il computer si... si la pratica è qua è nelle mani di Alberto Cossu quindi è riservatissima... me l'ha data solo perchè son io eh!... Cossu... mi son consultato con lui dico... inc.le... io mi appoggio a Gianardi... va benissimo?". Successivamente il 14 aprile scorso Baldini rassicura Berneschi. "Grazie all'intervento di Lilly (sua moglie) - dice - è stata inoltrata una richiesta di archiviazione della posizione di Berneschi". A Savona, Berneschi è coindagato nell'ambito del crack della Geo Costruzioni. Convocato per un interrogatorio e si era avvalso della facoltà di non rispondere. Dell'episodio l'11 novembre 2013 Berneschi riferisce a Baldini, i finanzieri annotano: "Sono andato a Savona e il giudice mi dice: ma... non risponda per favore (si sente Berneschi ridere) si avvalga della facoltà di non... solo per far casini... e gli ho detto giudice lo dice lei, però se permette le dico anche fuori verbale dico due tre cose... quindi, non ho risposto però però gli ho già detto tutto...". Il giudice è il procuratore Francantonio Granero titolare dell'inchiesta sul crack Geo Costruzioni con Ubaldo Pelosi. Poi Genova. Ferdinando Menconi il 13 febbraio del 2014 dice al telefono: "Il vice procuratore di Genova... mio carissimo amico mi ha detto te non sei... stattene fuori" invitandolo a discostarsi dagli affari in e con Carige. Qualche giorno prima, in un'altra conversazione, Menconi dice: "Ma comunque io credo che a Genova sorprese... c'è il procuratore capo... già procuratore capo momentaneamente... di Di Lecce... che tra l'altro lui mi ha detto che è di sinistra, di magistratura democratica... aver fatto una domanda, allora fra un anno e mezzo va in pensione... chiedo a lui... quello che lo è già stato due anni adesso è vice capo... quasi tutti i sabati beviamo un caffè e tutto... non credo... non credo... poi tutto può.. in quest'Italia, figurati...". Il procuratore di Genova Michele Di Lecce ha affermato di avere inviato questi atti a Torino, procura competente su presunti reati commessi da magistrati liguri.
Carige e lo scandalo talpe, indagine su 4 giudici, scrive "Il Secolo XIX". L’inchiesta sulla maxi-truffa a Carige si trasforma in uno tsunami per pezzi da Novanta della magistratura ligure. La Procura di Genova invia infatti a Torino tutte le intercettazioni nelle quali banchieri, immobiliaristi e prestanome arrestati giovedì scorso, chiamano in causa almeno quattro fra giudici e pm quali presunte “sponde” nella loro ricerca di protezioni e informazioni segrete. È un passaggio cruciale, che si consuma mentre vengono depositate nuove carte nel fascicolo che ha portato ai domiciliari in particolare l’ex presidente di Carige Giovanni Berneschi, l’ex numero uno del comparto assicurativo Carige Vita Ferdinando Menconi e l’immobiliarista Ernesto Cavallini. I primi due, secondo l’accusa, erano soci occulti dell’imprenditore, e facevano comprare a Carige Vita immobili e società di Cavallini a prezzi spropositati; poi si dividevano la “cresta”, che nascondevano all’estero tramite vari prestanome. Dai nuovi documenti si capisce meglio quali erano, potenzialmente, «le inquietanti entrature» di Berneschi e Menconi «in ambienti giudiziari in tutta la Liguria». Partendo da Genova, il primo magistrato su cui si concentrano gli accertamenti è l’attuale procuratore aggiunto Vincenzo Scolastico. È Menconi a circoscriverne la figura parlando con Walter Malavasi, che di Carige Assicurazioni è stato condirettore generale. Non lo nomina direttamente, ma definisce «carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato» il magistrato che ha retto la Procura genovese prima dell’insediamento di Michele di Lecce, e che attualmente gli fa da vice. Solo Scolastico corrisponde a quel ritratto e al Secolo XIX risponde: «Non si fa mai il mio nome; inoltre, io ho la scorta e si potranno facilmente verificare i miei movimenti. Conoscere Menconi? In Liguria si può sapere chi sono i massimi dirigenti di una banca, ma escluso un rapporto di frequentazione come quello descritto in quelle conversazioni». «Situazione delicatissima», per sua stessa ammissione, è quella dell’attuale procuratore capo della Spezia Maurizio Caporuscio. Un colloquio telefonico fra l’avvocato spezzino Andrea Baldini (ex componente cda Carige) e Berneschi rivelerebbe come proprio Caporuscio fece in modo che fosse fornita all’ex numero uno dell’istituto genovese la copia d’una denuncia «riservata», che l’imprenditore Gianfranco Poli sporse contro lo stesso Berneschi per truffa. Non solo. Sempre Baldini spiega a Berneschi che grazie all’intercessione «della Lilly» (per i finanzieri si tratta di sua moglie Pasqualina Fortunato, magistrato del lavoro di nuovo alla Spezia) la Procura chiederà l’archiviazione del fascicolo. «Al momento non voglio aggiungere altro - conclude Caporuscio - risponderò a chi mi verrà a chiedere conto». Baldini rifiuta invece commenti su di lui e la moglie: «Siete molto cari - dice al telefono - arrivederci e tante grazie». In un altro stralcio si fa riferimento a un terzo magistrato spezzino, una donna dal nome forse travisato nelle registrazioni, che avrebbe favorito l’archiviazione. L’ultimo capitolo preso in esame sul fronte toghe chiama in causa capo dei pm savonesi Francantonio Granero. Berneschi, discutendo con il manager Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio cui doveva essere sottoposto a Savona, dov’è indagato per la bancarotta del costruttore Andrea Nucera, dice che Granero gli avrebbe suggerito di non rispondere. E ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi Granero, membro del cda della Cassa di risparmio di Savona (controllata da Carige). «Tutto falso - replica Francantonio Granero - e sporgerò querela semplicemente perché non l’ho mai incontrato».
Talpa in Procura anche Torino indaga su Carige. Si cerca chi anticipava le mosse degli inquirenti. Nelle carte sequestrate il piano “Mungi la mucca”. Teodoro Chiarelli su “La Stampa”. La caccia alla talpa può partire. Gli atti sull’informatore all’interno della procura di Genova sul quale potevano contare l’ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi, e l’ex boss della controllata Carige Vita Nuova, Ferdinando Menconi, arrestati con altre 5 persone per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e al riciclaggio, sono in partenza per la procura di Torino, competente sui magistrati del capoluogo ligure. Lo conferma il procuratore capo, Michele Di Lecce, che ha affidato il coordinamento delle indagini dalla Guardia di Finanza all’aggiunto Nicola Piacente e al pm Silvio Franz. «Devo uscirne perché sento odore di procure - dice, intercettato, Menconi -. Ho delle previsioni... il viceprocuratore di Genova, mio carissimo amico, mi ha detto... stattene fuori». Menconi però si sente le spalle coperte e qualche tempo dopo parlerà dei magistrati che hanno in mano l’inchiesta Carige: «Quello lì - dice riferendosi al pm Silvio Franz - sogna di risolvere un problema che non ha risolto in sette anni, in realtà non risolve un cazzo». Previsione errata: passa qualche mese, Menconi viene arrestato. Nelle 122 pagine dell’ordinanza del gip Adriana Petri ci sono anche altri riferimenti. Primo novembre 2013, Berneschi dice all’avvocato toscano Andrea B.: «Devi farmi un piacere, devi vedere se a Genova c’è qualche contenitore a nome mio, mi segui? Mi hai capito?». Risponde il legale: «No, per ora mi risulta che è tutto contro ignoti». Ed ecco la telefonata fra Menconi e Sandro Maria Calloni, prestanome di Berneschi: «Lo trasmettono due miei amici che son venuti qua due volte... il capo della sala operativa a Roma dell’Interpol, se gli chiedi... gli dai un nome e un numero, data di nascita, nome e cognome ti leggono la vita e tutto... Prima avevo anche la Legione Carabinieri, l’Investigativa qui di via... dove c’è la Questura... Il numero uno... a prendere il cappuccino più volte... poi lo abbiamo aiutato... andato ai Servizi... Ma quello là, l’accertatore è un carabiniere, chiamo loro e gli dico chi è questo testa di cazzo, sai quello che minacciava... l’han buttato fuori». La gestione disinvolta e truffaldina ha finito per creare una voragine nei conti, mentre il titolo in Borsa è crollato nel giro di due anni, bruciando i risparmi di migliaia di piccoli azionisti. Duecento di questi hanno promosso una class action e si sono affidati all’avvocato Mirella Viale dello studio legale bolognese Galgano. Ieri la sesta sezione del tribunale civile di Genova avrebbe dovuto decidere sull’ammissibilità dell’iniziativa: si è invece dichiarata incompetente, rimandando la questione alla prima sezione. Se ne riparla fra una decina di giorni. Sempre ieri la nuora di Berneschi, Francesca Amisano, è stata interrogata per due ore in carcere dal Gip. «Ha risposto a tutte le domande - dice il suo avvocato, Enrico Scopesi - Ha detto di non sapere nulla della provenienza del denaro. E di essersi limitata a eseguire regolari operazioni di compravendita». Il lavoro degli inquirenti, intanto, si allarga. Durante le ultime perquisizioni nelle case degli indagati sono stati trovati appunti, accordi e anche il business plan dell’operazione “Mungi la Mucca”, quella che secondo gli inquirenti ha portato Banca Carige, guidata dall’ex padre-padrone Berneschi, a ripianare i debiti del ramo assicurativo, nominare ad Menconi e farlo diventare filtro di acquisizioni supervalutate. L’operazione serviva per costituire le plusvalenze che, tramite la società dell’immobiliarista Ernesto Cavallini, finivano in Svizzera. “Mungi la Mucca”, appunto. Ossia Carige Vita Nuova che comprava alberghi, quote societarie, società intere, proprietà immobiliari che venivano stimate da un commercialista che era anche consulente di Carige (Andrea Vallebuona, arrestato) che provvedeva a gonfiarne il prezzo. Nell’inchiesta ci sono altri quattro indagati per riciclaggio in concorso: le mogli di Menconi (Adriana Westerweel) e Calloni (Maria Imelda Bellini Dominguez), il commercialista Alfredo Averna, collega di Vallebuona (arrestato) e l’avvocato Ippolito Giorgi di Vistarino. Nell’inchiesta “madre” su Carige, nata dalla relazione di Bankitalia, ci sono invece una decina di indagati: ostacolo alla vigilanza e falso in bilancio.
Carige, nel 2002 inchieste archiviate. Il gruppo era sponsor della squadra del GIP.
Dall'ordinanza che ha portato all'arresto dell'ex presidente Berneschi emergono rapporti strettissimi con giudici e forze dell'ordine. Entrature grazie alle quali poteva verificare l'esistenza di procedimenti a suo carico e addirittura condizionarne l'andamento. E sui dipendenti a rischio diceva: "Quelli si mandano via", scrive Ferruccio Sansa da Il Fatto Quotidiano di sabato 24 maggio 2014. “Sento odore di Procure… io c’ho delle previsioni… il vice procuratore di Genova… mio carissimo amico… mi ha detto che non sei… stattene fuori…”, così dice al telefono Ferdinando Menconi, ex numero uno di Carige Vita Nuova e braccio destro di Giovanni Berneschi indicato dai suoi amici come il “Magro”. A Genova vacilla anche il Palazzo di Giustizia. Si apre il capitolo sui rapporti della magistratura con un potere per anni risparmiato dalle inchieste. E la Liguria si scopre malata fino al midollo. Sono finiti in manette gli uomini che hanno dominato la regione, quelli cui tutti – a destra e a sinistra – baciavano la pantofola. Prima Claudio Scajola, re del Ponente. Poi Luigi Grillo, che dominava a Levante. Quindi Giovanni Berneschi, che con la sua Carige (dove sedevano mezza famiglia Scajola, amici del centrosinistra e uomini della Curia) teneva i cordoni della borsa e distribuiva centinaia di milioni di finanziamenti (come all’operazione immobiliare degli Erzelli, voluta dal centrosinistra e sponsorizzata da Giorgio Napolitano). Intanto l’amico Ior comprava – e rivendeva – cento milioni di bond Carige. Liguria, primatista di scandali. Qui sono in ginocchio la Lega di Francesco Belsito e l’Idv di Giovanni Paladini e Marylin Fusco. Quasi mezzo consiglio regionale è nei guai per i rimborsi. Le “entrature” negli ambienti giudiziari – Ora tocca alla magistratura. Come mostra l’ordinanza che ha portato all’arresto di Berneschi, Menconi e altre cinque persone (ci sono dieci nuovi indagati). Così il gip Adriana Petri motiva l’arresto di Berneschi: “Il pericolo di inquinamento probatorio è testimoniato da intercettazioni che hanno evidenziato presunte entrature negli ambienti giudiziari di Genova e di La Spezia per tramite dell’avvocato Andrea Baldini (originario di Pontremoli, marito di magistrato e considerato vicino alla famiglia del suo concittadino, il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, ndr), al quale egli avrebbe ripetutamente chiesto di verificare se vi sono procedimenti giudiziari a suo carico”. Il gip parla di “inquietante scenario… del legale che apprende da personale addetto agli uffici giudiziari e che ha accesso ai terminali riservati della Procura”. Il 28 ottobre 2013 Berneschi chiama Baldini: “Devi vedere se a Genova ci sono contenitori (fascicoli, ndr) a nome mio”. E Baldini: “Qui non c’è ancora aperto niente!… No, per ora non c’è… Da quello che mi risulta dalla persona che si è mossa, è tutto contro ignoti”. Interpol, carabinieri, servizi: solo millanterie? – Ce n’è anche per carabinieri, Interpol e servizi. “Menconi – annota il gip – cita le sue numerose conoscenze presso esponenti di vertice delle varie forze pubbliche”. Ecco l’intercettazione: “…se poi ricade nel penale… gli viene trascritto all’Interpol e lo ricevono anche là! Lo trasmettono due miei amici… son venuti qua due volte… il Capo della Sala Operativa a Roma dell’Interpol, se gli chiedi… prima c’avevo anche la Legione Carabinieri… c’è l’Investigativa dei carabinieri, il numero uno… a prendere il cappuccino più volte… poi lo abbiamo aiutato… andato ai Servizi… ma quello là che fa l’accertatore è un carabiniere, chiamo loro e gli dico…”. Millanterie? I magistrati sono convinti di no. Scrive il gip: “Per ragioni diverse i procedimenti penali che si sono occupati di tale fenomeno si sono chiusi senza che fosse esercitata l’azione penale”. Quali sono le “ragioni diverse”? In Tribunale c’è chi ricorda che proprio la società assicuratrice della Carige, guidata da Menconi e Berneschi, era sponsor della squadra di volley dell’allora capo dell’ufficio gip Roberto Fucigna. Lo stesso, ma è certo un caso, che nel 2002 – dopo un lavoro immane del Gico – archiviò inchieste a carico dei vertici della banca su false fatturazioni e affari immobiliari. Fucigna oggi è in pensione, indagato a Torino per presunte false sponsorizzazioni della sua squadra. Tra i cronisti c’è chi ricorda le reprimende di passati vertici della Procura in occasione di inchieste giornalistiche su imprenditori legati al centrosinistra e soci di Carige, che erano sponsor della squadra di Fucigna oltre ad avere legami di amicizia con gli allora vertici della Procura e della Corte d’Appello. I vertici del Palazzo di Giustizia ora sono cambiati. I 140 dipendenti? “Quelli si mandano via” – Ma le carte genovesi contengono altro. A cominciare dalle operazioni che avrebbero provocato a Carige un danno di 34 milioni. Con il padre padrone della banca che, secondo le accuse, spenna la sua creatura come un pollo: “Vengano a far tutte le indagini che vogliono… non mi possono accusare di riciclaggio, perché è una vita, da 35 anni che accumulo”. Così ecco, a sentire la Finanza e i pm Nicola Piacente e Silvio Franz, il tentativo di Berneschi di ripescare il consuocero morto per usarlo come prestanome quando scopre di essere indagato per altri 13 milioni scudati: “Va bene, io approfitterò del tuo cognome”. La donna (arrestata) si allarma: “Nonno, per favore, qualsiasi cosa ne parliamo un attimino”. Intanto, sostiene l’accusa, la “banda del magro” avrebbe investito dalle Canarie alla Cina, soprattutto nei porti. Fino al progetto di trasferirsi a Panama. Pagine che faranno rabbrividire i dipendenti Carige. Mentre la “banda del magro”, incassati 34 milioni, si scanna per consulenze da 200mila euro, la Carige Vita Nuova rischiava di licenziare: “L’ideale… è che società così… vadano in commissariamento, il commissario manda via i dipendenti… mi preoccupa il fatto c’ha 140 persone…”, dice Menconi. Berneschi, annota il gip, non sembra preoccuparsi: “Quabielli si mandano via”. Il commercialista Vallebuona: “Io i milioni in tasca li ho infilati” - Ecco in 127 pagine il ritratto dell’Italia delle banche, della Liguria del potere. Con frasi inconsapevolmente geniali, come quando Berneschi definisce Menconi “testa di pera”. Come quando parla dei milioni come di “ragazze” e poi di “vecchie un po’ rincoglionite”. Come la “banda del magro”. O quella breve autobiografia stile Blade Runner del commercialista Andrea Vallebuona: “Io qualche cazzatina nella mia vita l’ho fatta… passare un confine con duecentomila… milioni in tasca infilati, io l’ho fatto, morendo di paura… ho capito che poi certe cose era meglio non farle, però le ho imparate sulla mia pelle”. O forse su quella dei dipendenti Carige.
Carige e i regali allo Ior, "Anche il Papa chiamò per avere spiegazioni". Dalle intercettazioni spuntano gli affari con la banca vaticana Il manager: "Assunte 28 persone tra parenti o amanti di giudici", scrivono Giuseppe Filetto e Marco Preve su “La Repubblica”. Anche papa Francesco ha "indagato" su Carige e lo Ior. Le intercettazioni dell'inchiesta che ha portato agli arresti l'ex presidente della banca genovese, confermano l'esistenza di quell'asse bancario Genova-Vaticano che nasconde ancora segreti. Rivelano un inquietante intreccio di rapporti tra l'istituto diretto dal vicepresidente nazionale dell'Abi Giovanni Berneschi e la magistratura ligure: "C'avevamo dipendenti dentro 28 persone, figli, fratelli, padri o amanti di magistrati liguri " dice Ferdinando Menconi ex ad del comparto assicurativo anche lui ai domiciliari. In un'intercettazione dell'11 novembre del 2013, racconta il verbale dei finanzieri della tributaria che "Berneschi parla di papa Francesco che avrebbe chiamato i tre vescovi del ponente ligure a Roma per chiarire la faccenda legata allo Ior. Due giorni fa Berneschi dice di aver ricevuto monsignor Luigi Molinari il quale per conto di Bagnasco (Angelo, cardinale di Genova e presidente Cei, ndr) voleva sapere cosa era successo tra la Fondazione e lo Ior". Si tratta dell'operazione del 2010 voluta dal presidente di Fondazione Carige Flavio Repetto (nemico giurato di Berneschi). In pratica 100 milioni di euro di obbligazioni acquistate dallo Ior che però non si trasformarono in azioni come preventivato e vennero poco dopo rilevate dalla Fondazione la quale, peraltro, non incassò i diritti visto che "aveva deliberato di metterli a disposizione dello Ior". Berneschi si confida con l'attuale vicepresidente della Fondazione Roberto Rommelli: "Lo Ior, non puoi regalare da 7 a 9 milioni al... Papa, no, non c'entra il Papa.. a Bertone, mi segui?". Sull'operazione il ministero delle Finanze ha chiesto chiarimenti, anche alla luce delle elargizioni, 2008 e 2010, della Fondazione ad ambienti vicini al cardinale Tarcisio Bertone: 300mila euro alla Lux Vide per i dvd della fiction La Bibbia e 90mila euro per le stole dei vescovi. Dal sacro al profano, ossia le relazioni "proibite" tra il potente banchiere e i magistrati. L'episodio più inquietante è quello che riguarda La Spezia. Berneschi utilizza l'avvocato Andrea Baldini, ex consigliere Carige, affinché si interessi della querela presentata contro di lui da un imprenditore della Val di Magra, Gian Paolo Poli. Il legale lo aggiorna: "Sono andato a parlare con Caporuscio (Maurizio, procuratore capo, ndr) e gli ho detto... ehm ... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi vediamo subito! ... ha aperto il computer sì ... sì la pratica è qua, è nelle mani di (segue nome di un pm, ndr) quindi è riservatissima... me l'ha data solo perché son io eh!". Baldini informerà successivamente Berneschi che è stata chiesta l'archiviazione e lui andrà dalla gip che "tra l'altro è una f...". La moglie, il giudice Pasqualina Fortunato, interviene nel colloquio spiegando che non è riuscita a convincere una segretaria ad ottenere informazioni e allora ha detto al marito: "Andrè, va a parlà tu cò Maurizio direttamente". Altro fronte imbarazzante quello genovese dove Menconi al telefono con un amico spera che l'attuale procuratore capo Michele Di Lecce vada presto in pensione e spiega che gli è stato detto da "quello che (procuratore) lo è già stato due anni e adesso è vice capo... quasi tutti i sabati beviamo un caffè". Il riferimento sembra essere a Vincenzo Scolastico, unico ad aver ricoperto la funzione, che però nega categoricamente tale frequentazione. Sembra invece pura millanteria il riferimento ad un colloquio che Berneschi dice di aver avuto con il procuratore di Savona Francantonio Granero (il figlio Gianluigi è consigliere della controllata Carisa) quando il banchiere venne indagato per la prima volta. Granero nega di aver mai incontrato Berneschi. Parlando della polemica tra la Coop e Esselunga che a Genova incontrò grandi difficoltà ad aprire un punto vendita, Menconi dice "l'artefice del rinvio è stato Berneschi... la sinistra, c'avevamo dipendenti dentro 28 persone, figli, fratelli, padri, amanti di magistrati liguri". Berneschi racconta invece di quando fu processato e assolto per la scalata alla Bnl: "Sulla pratica Bnl... non ho sbindato di una virgola, però ... se avessi avuto paura e dicevo "eh si quelli dell'Unipol mi hanno fatto delle pressioni" il signor Cimbri (Carlo, ad Unipol, ndr) era morto".
Anche l’Ing De Benedetti è intoccabile, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Anche mia nonna invecchiando si fece un po’ più dura. Ma mai quanto Carlo De Benedetti. La sua è una parabola micidiale. Sembra quel cartone animato, Cattivissimo me. Nella fiction il cattivone è un buono, ha solo l’aria dello spregiudicato delinquente. Deb, l’Ing, Cdb, insomma il Nostro, invece sta diventando proprio cattivello. Proviamo a citare i suoi ultimi bersagli. «A Marchionne darei un voto 4 in sincerità, a Romiti zero, a Elkann il voto dei nipoti. Colaninno? Un poveraccio. Agnelli? Un pessimo imprenditore. Il Vaticano una fogna. Tronchetti? Un incapace». E poi ancora sulla gestione Telecom da parte di Mtp: «La comunicazione è fatta bene, la rapina ancora meglio». Ma guai a replicare. Ci ha provato, incautamente, Tronchetti e si è beccato una querela e un’inchiesta da parte della Procura di Milano per diffamazione a mezzo stampa, con annessa aggravante della continuità del reato. Insomma Mtp rischia il carcere perchè Carletto non tollera la seguente frase: «Se anche io raccontassi – si legge nell’avviso di conclusioni indagini, in riferimento ad una dichiarazione rilasciata all’Ansa da Tronchetti – la storia delle persone attraverso i luoghi comuni e gli slogan, potrei dire che l’ingegner De Benedetti è stato molto discusso per certi bilanci Olivetti, per lo scandalo legato alla vicenda di apparecchiature alle Poste italiane, che fu allontanato dalla Fiat, coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano, che finì dentro per le vicende di Tangentopoli…». Abbiamo cercato di ricostruire punto per punto i casi citati da Tronchetti per capire dove ci fosse la diffamazione o il sanguinario insulto da dover lavare con una pena massima, comprese le aggravanti, di sette anni.
LO SCANDALO LEGATO ALLE POSTE. Se c’è una cosa sicura come il sole sono le tangenti pagate dalla Olivetti, guidata da De Benedetti, per fornire apparecchiature alle Poste. Non è un luogo comune, è una certezza. E a confessarlo, assumendosene la responsabilità, è lo stesso De Benedetti. In questo senso Tronchetti è fin troppo generoso. Una domenica mattina, in piena bufera Tangentopoli, Deb si presenta in una caserma dei carabinieri (è il 16 maggio del 1993) e ammette davanti a Di Pietro di aver pagato stecche per una ventina di miliardi di lire, di cui solo 10 per forniture alle Poste. Presenta un memoriale in cui racconta la rava e la fava. Repubblica, di sua proprietà, in un famoso titolo detta la linea della casa: «Era un clima da racket, o pagavi o non lavoravi». De Benedetti pagò. Eccome. Solo dopo un paio di giorni rilascia un’intervista al Wall Street Journal, sperando, forse, che De Pietro non avesse il tempo di leggerla, o non capisse l’inglese. La reporter, Lisa Bannon, nota: «De Benedetti non chiede scusa per le tangenti pagate e dice che lo rifarebbe, perchè queste erano le regole del gioco negli anni 80». Cdb, tra le virgolette, dichiara: «Lo rifarei con lo stesso disgusto con cui l’ho fatto negli anni passati». Insomma è il contesto che gli fa fare quelle cose brutte. Ohibò. Chissà se oggi, per fare un esempio, l’Expo può ispirare medesime giustificazioni. Il filo tra concussione e corruzione è sempre sottile. Come quello che c’è tra dichiarazione spontanee e paracule. Cdb all’epoca disse di essersi liberato da un macigno nel fornire il suo dossier a Di Pietro. Eppure nel medesimo documento scrive, riguardo alle tangenti alle Poste: «Ho visto che è circolato il nome Olivetti». Inoltre avevano già pizzicato tal Lo Moro, il grande collettore delle mazzette Olivetti. Insomma il cerchio si stava chiudendo. La dichiarazione è spontanea, ma giusto un attimo prima…Quanto è valso all’Olivetti di De Benedetti sottoporsi a questo racket? In cinque anni circa 600 miliardi di lire. Nel 1987 Ivrea fatturava 2 miliardi con le Poste, l’anno dopo 205 miliardi. Già nel 1983 Olivetti aveva predisposto una bella voce di bilancio per l’abbisogna. La dicitura era: spese non documentate. Insomma si erano preparati contabilmente a subire quei mascalzoni dei politici. Indro Montanelli su questo giornale scrisse: «Forse i piccoli e indifesi devono subire, ma per i grandi che avrebbero avuto tutti i mezzi – compresi i più autorevoli organi di stampa – per resistervi, la corsa al Principe era non solo voluttuaria, ma anche voluttuosa». Tronchetti non si preoccupi, la memoria sulle tangenti viene e va all’Ing. Due settimane prima della consegna del memoriale a Di Pietro, lo stesso Ingegnere davanti all’assemblea degli azionisti e in conferenza stampa giurava: «Non ho mai pagato tangenti». Dopo due settimane mise nero su bianco il contrario. In seguito Cdb provò a difendersi: queste cose «si dicono prima ai magistrati e poi alla stampa». Ahi ahi ahi, non ci siamo anche con questa. Circa dieci anni prima, il 16 giugno del 1985, lo stesso Ingegnere, meno rispettoso evidentemente delle prerogative della magistratura, urlò al mondo intero: «Per l’affare Sme mi hanno chiesto tangenti». Dopo qualche settimana fu ovviamente convocato dal magistrato Pasquale Lapadura all’oscuro di tutto, che dopo poco archiviò. Come la mettiamo con la storiella delle tangenti che prima si raccontano ai magistrati e poi alla stampa? Qualcuno può forse contestare che «la vicenda di apparecchiature alle Poste» non sia stata scandalosa? E soprattutto qualcuno ha il coraggio di slegarla da Carlo De Benedetti, dopo che proprio lui ammise tutto con un memoriale e un’intervista cazzuta al Wall Strett Journal?
L’INGEGNERE FINI' DENTRO PER TANGENTOPOLI. Anche questa affermazione è vera. Della tangentopoli postale abbiamo abbondantemente parlato. Sergio Luciano, in un’intervista per la Stampa, il 18 maggio del 1993 chiese al Nostro: «Oltre che fornire prodotti alle Poste, l’Olivetti ha avuto molti altri rapporti con la pubblica amministrazione. Ha dovuto pagare anche per questo? Risposta di Cdb: «Non posso rispondere, c’è il segreto istruttorio». Bene così. Poche settimane prima uno dei manager di punta delle sue aziende (la Sasib) aveva ammesso di aver pagato due miliardi estero su estero a Dc e Psi, relativamente ad alcuni appalti per la metro milanese. Si parlò di stecche per i pc dei magistrati e del sistema informatico dell’Inps. Ma il punto fondamentale è: l’Ingegnere finì o non finì in galera? Per una giornata, per una benedetta giornata, la risposta è sì. A Roma, a Regina Coeli. Dal memoriale, cosiddetto spontaneo, sono passati solo sei mesi. Il 31 ottobre del 1993 due magistrati romani, Maria Cordova e il gip Augusta Iannini, spiccano un mandato di cattura. A Milano l’Ing è indagato; a Roma temono che possa inquinare le prove o reiterare il reato. La Repubblica ci dice che entra in carcere con doppiopetto grigio e camicia celeste e che, dopo le formalità del caso e l’ufficio matricola, gli verrà consentito di mantenere la fede al dito. Il cronista, con enorme sprezzo del pericolo, nota come lo psicologo di Regina Coeli «sia rimasto colpito dalla chiacchierata con De Benedetti e che alla fine i due si sono salutati come vecchi amici». Più dura la Iannini che spiega i motivi del provvedimento per la «pericolosità sociale» e il rischio di reiterazione del reato. Il pm lamenta che ci sono fatti nuovi: macchinari scadenti accatastati al ministero. Gli arresti si tramutano dopo poco in domiciliari. Il processo finirà con assoluzioni e prescrizioni. Ma una cosa è certa: l’Ing tecnicamente dentro c’è finito. E lo diciamo senza alcun compiacimento. La Iannini recentemente alla nostra Anna Maria Greco ha detto: «L’ordinanza di custodia cautelare emessa su richiesta della Procura nel confronti dell’Ingenger De Benedetti è abbondantemente motivata, mettendo in luce una serie di elementi esistenti a carico dell’indagato» che nell’interrogatorio di garanzia aveva ammesso di aver pagato «alcuni miliardi per corrompere al ministero delle Poste chi aveva garantito all’Olivetti l’acquisto di telescriventi obsolete». Comprendiamo sia duro ricordare l’episodio alla ex tessera numero uno del Pd, come all’epoca fu duro per Eugenio Scalfari ammettere che De Benedetti non fosse quel «cavaliere solitario non intaccato da nessuna macchia e nessun compromesso» che il direttorone sperava.
DE BENEDETTI E' STATO DISCUSSO PER MOLTI BILANCI OLIVETTI. La parola discusso è il minimo che si possa dire. L’ingegnere De Benedetti è stato indagato per false comunicazioni sociali, falso in bilancio e insider trading. E se non fosse stato per le cosiddette (proprio dal gruppo De Benedetti) leggi ad personam fatte da Silvio Berlusconi, oggi probabilmente avrebbe la fedina penale meno linda. Un po’ di discussione la concediamo dunque? Sarebbe erroneo dire che l’Olivetti sia tecnicamente fallita. Ma che i suoi bilanci siano stati un colabrodo questo è provato. Nell’estate del ’96 succede il patatrac. Negli ultimi tre anni Ivrea aveva perso ai livelli di un ubriaco al tavolo della roulette: 3mila miliardi di lire. Nel settembre del 1995, l’ubriaco aveva chiesto ai soci risorse fresche per 2.250 miliardi. A luglio del 1996 l’Ingegnere si dimette da amministratore delegato per lasciare il posto a Francesco Caio che si porta con sè come capo della finanza Renzo Francesconi. Dopo poche settimane di lavoro i due capiscono che le cose sono peggio del previsto, l’azienda è in coma etilico, e vogliono nuovi quattrini e un piano di salvataggio da parte di Mediobanca. Caio mette nero su bianco le sue considerazioni pessime sui conti. Il titolo crolla. La semestrale post aumento di capitale brucia 440 miliardi. L’uomo dei numeri sbatte la porta e dice: «Sul piano strategico si possono fare mediazioni, sui numeri e la cassa, no». La Procura di Ivrea e la Consob iniziano ad indagare. Che sta succedendo nei bilanci di Olivetti? Passa qualche settimana e i giudici di Torino aprono un fascicolo per insider trading. L’Ing. avrebbe venduto allo scoperto titoli Olivetti prima della semestrale, per poi ricomprarli a valori più bassi dopo la stessa. Giulio Anselmi sulla prima del Corriere della Sera il 18 settembre di quell’anno scrive: «Tutti ricordano nel caso Olivetti quattro bilanci consecutivi accompagnati da promesse di pareggio. C’è da stupirsi se diffidando della trasparenza contabile delle aziende italiane si dà credito ai giudici». E ancora «il dato più grave e sconcertante è il fatto che l’ipotesi di enormi perdite occulte nei conti del gruppo di Ivrea non sia apparsa immediatamente inverosimile, ma sia stata considerata da tutti, analisti finanziari, banchieri, gestori di patrimoni tristemente possibile fino a prova contraria». La storia finisce con un patteggiamento per l’insider trading che gli costerà 50 milioni. Anche la partita del falso in bilancio si conclude con un patteggiamento. Ma la sentenza nel 2003 viene revocata. Sapete perchè? Grazie alla revisione del reato di falso in bilancio introdotta nel 2002 da Berlusconi. E non diteci che sui bilanci di Deb e sui falsi non ci sia stata alcuna discussione. Tronchetti, se proprio vogliamo, si è dimenticato il caso di insider. Su cui la discussione si è chiusa con un patteggiamento.
DE BENEDETTI COINVOLTO NELLA BANCAROTTA DEL BANCO AMBROSIANO. Vi diciamo subito che questa vicenda è davvero intricata. E a beneficio degli avvocati dell’Ingegnere che, come si è capito, sono dal grilletto facile, bisogna dire che il Nostro alla fine ne è uscito pulito. Chiaro? Pulito. Assolto dalla Cassazione. Ma il punto resta. Tutto si può dire tranne che l’Ing. non sia stato coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano. Se non si può dire neanche questo, bisognerebbe fare una legge speciale per la quale appena si nomina l’Ing. si inizi a cospargere di petali il suolo e si declami: bello, bravo e buono. Vi risparmiamo i dettagli. Ma la cosa è semplice. De Benedetti fa un passaggio veloce nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Ci rimane, come vicepresidente e azionista, per una sessantina di giorni. Lui sostiene di esserne uscito senza una lira di plusvalenza. L’universo mondo pensa che abbia realizzato un guadagno di 30 miliardi. Peppino Turani dalla Repubblica sintetizzò: «Calvi si è dichiarato pronto a riacquistare le sue azioni (51,5 miliardi più gli interessi) e a comprare le azioni Brioschi, di futura emissione, per 32 miliardi. De Benedetti non ha potuto rifiutare l’affare». I magistrati di Milano prima ipotizzano l’estorsione: Deb sapeva dei conti in profondo rosso del Banco e per il suo silenzio e uscita di scena, si è fatto profumatamente liquidare. La tesi viene respinta dal Tribunale. Ma si insinua un nuovo reato: la bancarotta fraudolenta. L’Ing. si fa liquidare sapendo del prossimo fallimento della banca. Viene condannato in primo grado a sei anni, in secondo ridotti a quattro. La Cassazione casserà per una illogicità procedurale. Ma è netta, poichè neanche rinvia ad un possibile riesame. De Benedetti ne esce pulito. Per scappare dal Banco ci mette 65 giorni, per liberarsi da questo gorgo giudiziario nove anni. Vi risparmiamo le dure critiche ai giudici che lo hanno condannato, alle insinuazioni e alle ispezioni che sono state fatte ai magistrati dell’accusa. Tutto troppo simile al caso Berlusconi, con la drammatica differenza del diverso esito in Cassazione. E allora si può dire che l’Ingegnere sia stato coinvolto nella bancarotta dell’Ambrosiano? Decidete voi. Con una postilla d’obbligo (prima di sparare, avvocati dell’Ing., leggete): e cioè De Benedetti è stato alla fine assolto. Buon per lui.
DE BENEDETTI FU ALLONTANATO DA FIAT. Un signore che conosce bene la Fiat di quegli anni, per averci lavorato, mi dice: «nel 1976, quando De Benedetti diventa amministratore delegato della Fiat e azionista al 5%, i soci erano debolissimi. Io non so se l’Ingegnere avesse in mano le carte per una scalata, di cui pure molto si parlò. In molti, all’epoca, pensavano che un golpe in Fiat si potesse fare. Anzi si può dire che ci furono solo due grandi manager Fiat che non ebbero questa ambizione: Romiti e Valletta. D’altronde De Benedetti poi, in Société Générale de Belgique, una scalata dalle modalità simili la mise in piedi». l nostro resterà al Lingotto per una centinaio di giorni e ne uscirà con un bel gruzzoletto. Appena arrivato non perde tempo, va dall’Avvocato, allora presidente del gruppo, e gli dice: «Bisogna mandare via 20mila persone e 500-700 dirigenti». L’avvocato fece un rapido passaggio per i palazzi romani tornò a Torino e replicò: «Non se ne parla proprio. Nella situazione attuale del Paese non è compatibile un’operazione del genere». Chi allontana chi, allora? Cesare Romiti, l’uomo di Mediobanca in Fiat e anch’egli amministratore delegato del gruppo in quegli anni (due galli in un pollaio, che sciocchezza) in un’intervista rilasciata nel 2013 dice: «De Benedetti piaceva all’Avvocato, ma cominciò presto ad assumere atteggiamenti antipatici: diceva in giro di essere il primo azionista individuale di Fiat. Cosa vera perchè gli Agnelli erano tanti e lui era entrato vendendoci molto bene la sua azienda, la Gilardini. Quando poi mi disse che bisognava cacciare via i dirigenti a lasciare a casa 50mila persone, l’Avvocato rispose: «Mi spiace non si può fare». «Allora me ne vado». «Va bene se ne vada» fu la risposta». E sulla possibile scalata, Romiti dice: «Non escludo che ci pensasse». Scalata o non scalata, anche in questo caso, come in quello del Banco Ambrosiano, è sempre difficile stabilire la verità. Ci sono sfumature che si giocano e nascondono in conversazioni che rimarranno sempre private. Ma pensare che De Benedetti, con le sue idee, potesse essere accettato e anestetizzato in azienda dall’Avvocato è davvero difficile.
RESPONSABILITA' DELLE TOGHE? LA SINISTRA: NO GRAZIE!!!
E' CHIARO CHE LA SINISTRA E' A FAVORE DEI MAGISTRATI E CONTRO I CITTADINI, LORO VITTIME DESIGNATE. SI APPALESA CHI E’ CONTRO I CITTADINI PER TUTELARE LE TOGHE.
Chi sbaglia paghi: anche i giudici si adeguino, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In tutti i settori della vita pubblica occorre una nuova rivoluzione che metta al centro il principio della responsabilità e il contrappeso dei poteri. Chi controlla i controllori? Gli arresti e le inchieste ai vertici della Guardia di Finanza offrono una risposta semplice: la magistratura. Ma chi controlla i magistrati? Qui la risposta diventa più complessa, perché non è risolutivo che a controllare i magistrati siano altri magistrati. Le toghe formano una casta o corporazione che dietro lo scudo dell’indipendenza nasconde una struttura e meccanismi di potere politico-correntizio che con l’esercizio della “giustizia” hanno poco a che vedere. Intanto, infuria la polemica per l’inaspettato “sì” a un emendamento leghista alla Camera dei deputati che introduce la responsabilità civile dei magistrati, equiparandoli a tutti gli altri cittadini nell’obbligo di risarcire le vittime degli errori commessi , nel loro caso per “violazione manifesta del diritto” oppure con dolo o colpa grave. Una norma che sarebbe di civiltà, e in linea con un’esplicita e grave condanna europea nonché col referendum che nel 1987 consegnò alle urne la volontà dell’80.2 per cento di italiani favorevoli al principio che “chi sbaglia paga” anche per i giudici, e se non cadesse in coda alla ventennale polemica sull’uso strumentale, politico, della giustizia. Che il dibattito sia inquinato dall’attualità dello scontro politico è provato non soltanto dalla ormai pluridecennale querelle berlusconiana, ma dall’imbarazzo di Matteo Renzi che il 27 ottobre 2013 lanciò la riforma della giustizia portando a esempio “la storia di Silvio”. Che non era Silvio Berlusconi ma Silvio Scaglia, patron di Fastweb che noleggiò un aereo privato per rientrare in Italia e spiegare la propria posizione ai giudici che lo indagavano, ma finì in carcere innocente per 3 mesi, più 9 ai domiciliari. Oggi Renzi dissente dalla responsabilità civile per i magistrati, dall’Asia fa sapere che la norma sarà ribaltata al Senato. Cioè, la riforma può aspettare. L’eguaglianza fra i cittadini anche. Ma il problema è più vasto di quello che può sembrare.
Chi controlla i controllori? Questo è il punto. Interrogativo che si pone per qualsiasi posizione “di controllo”. La parola chiave è proprio “controllo”. Nelle società di cultura anglosassone il metodo applicato alla formazione delle istituzioni e alla giurisdizione è quello che risale a Montesquieu e va sotto il nome di “checks and balances”, ossia “controlli e contrappesi”. È il principio per cui il sistema non riserva a alcun potere una licenza assoluta, incontrollabile e incontrollata. Il succo della democrazia, in paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, sta proprio nel contrappeso tra poteri che si controllano a vicenda. In Italia lo sbilanciamento è sotto gli occhi di tutti e insieme allo strapotere della magistratura (che giudica e sanziona se stessa in termini di carriera e procedimenti disciplinari), emerge il problema della effettiva indipendenza e credibilità. Non basta che un magistrato che ha esagerato nel disprezzo delle regole sia sottoposto a vaglio disciplinare. Occorre che i controllori siano anch’essi controllati e al di sopra di ogni sospetto. La politica deve riconquistare dignità e autorevolezza. Vanno superati dogmi inattuali e smentiti dai fatti (in ultimo dall’inchiesta sul Mose che ha coinvolto il sindaco Pd di Venezia) riguardo a una supposta e inesistente “superiorità morale della sinistra”. Bisogna che accanto a un’effettiva applicazione del principio del “checks and balances” si affermi un altro principio, quello dell’“accountability”. Cioè della verifica. I controllori sono gli insegnanti nelle scuole o professori nelle Università? Bene, chi li valuta? Chi ne controlla i risultati? Chi tiene l’inventario dei risultati concreti e misurabili? Per esempio, qual è il numero di laureati di quella Università che trovano lavoro e ottengono un successo? Qual è il numero di diplomati di un certo istituto che ha conseguito la laurea, e la specializzazione, e il dottorato? E se i controllori sono i super manager di aziende pubbliche, potrà mai esserci una relazione diretta tra la carriera e i risultati anche nel loro caso, o conferme e siluramenti dipenderanno ancora una volta dalla rete di amicizie e dai clan politici? Nella pubblica amministrazione, quando si passerà dal concetto dei premi come parte integrante e automatica dello stipendio, a quello di “premio” realmente selettivo e ponderato, fondato sul conseguimento di obiettivi verificati? In tutto il mondo, specialmente nelle compagnie private, vige il principio dei risultati da conseguire. Si fissano gli obiettivi, a posteriori si valuta se siano stati centrati. Altrimenti non si viene pagati, o addirittura si viene “fired”, licenziati. Non rinnovati. Forse appartiene a questa mentalità anche la sanzione che peserebbe di più sui pubblici funzionari infedeli: la perdita del diritto alla pensione. Se mai il processo sancirà che un reato è stato commesso, perché i pubblici funzionari dovrebbero conservare il diritto alla pensione visto che loro per primi hanno tradito il loro ruolo? Controlli e contrappesi. Verifica dei risultati. Premi e sanzioni. A quando la rivoluzione culturale? Gli italiani favorevoli alla responsabilità civile dei giudici.
Un sondaggio rivela come l'87% vuole che i magistrati paghino per i propri errori, scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Il governo è stato battuto a favore di un emendamento che modifica l'articolo 2 della legge 117/88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. Cos'è la 177/88? E' la cosiddetta Legge Vassalli sul "risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati". Comporta che, al pari di altre professioni, i magistrati possano rispondere risarcendo il danno qualora compiano un atto con dolo o colpa grave, parificando la loro responsabilità a tutti gli impiegati civili dello Stato. In caso di colpa semplice o errore è lo Stato a risarcire le vittime. Una legge che, quando promulgata, venne giudicata troppo morbida da diverse parti e, soprattutto, che travisava i risultati del referendum dell'anno precedente. Referendum che stravinse con l'80% dei "Sì". Referendum presentato dai Radicali allo scopo di abrogare le opportune norme per stabilire che ci esistesse una responsabilità civile anche per i giudici. Del resto, dopo oltre venticinque anni, i casi di risarcimento effettivo da parte di magistrati si possono contare sulla punta delle dita. Invece, i cittadini sono oggi della stessa opinione di venticinque anni fa. Sia quelli che sono nel frattempo invecchiati, sia quelli che nel 1987 non erano ancora nati. Più precisamente il nostro ultimo dato a rilevato lo scorso anno ci dice che l'87% degli italiani maggiorenni è d'accordo con l'affermazione: “un magistrato che sbaglia dovrebbe essere responsabile della propria azione”. Il dato è perfettamente concorde con la nostra rilevazione precedente del 2010, i cui risultati davano 86%. Sul tema, dunque, il pensiero degli italiani è chiaro e non muta almeno da un quarto di secolo. Ma non ce l'anno fatta vincendo un referendum e non ce l'anno fatta con un Berlusconi fortissimo. Ci riusciranno oggi?
Sbatti l'azienda in prima pagina. Troppo spesso la magistratura è entrata a gamba tesa nella vita delle imprese, lanciando inchieste che poi si sono sgonfiate. Lo dimostrano le accuse della Procura di Parma sul caso Lactalis-Parmalat. Un copione che potrebbe ripetersi su Unipol-Sai e Ilva. Come ha chiesto Giorgio Squinzi, è un problema che va finalmente affrontato, scrive Oscar Giannino su “Panorama”. In nessun paese avanzato asset industriali restano per anni sotto il pieno controllo della magistratura. Il tema è stato seccamente posto da Giorgio Squinzi, all’ultima assemblea annuale di Confindustria. Poiché l’Italia ha tra i suoi numerosi nervi scoperti quello della legalità, i più hanno finto di non sentire. Ma è un errore di ipocrisia. Il tema andrebbe invece affrontato. Seriamente. Non è solo una questione di principio, visto che per dato di fatto i magistrati non hanno la competenza adeguata per giudicare piani aziendali, esaminati invece da periti delle Procure "attenti", come ogni perito di parte, ai fini del committente. Basta esaminare tre casi eclatanti in corso da anni, per capire che il problema esiste. Parmalat, Ilva e Unipol-Sai. In Parmalat, società quotata e dal luglio 2011 controllata dalla multinazionale francese Lactalis, solo il 26 maggio la Corte d’Appello di Bologna ha posto fine a un anno e mezzo di reiterate pronunzie della Procura di Parma volte alla revoca del cda e del consiglio sindacale, a seguito delle indagini civili e penali per l’acquisto di Lactalis America nel 2012. I procedimenti civili sono ora estinti, quelli penali no. A fine 2013 il cda si è dimesso, ad aprile in assemblea ne è stato eletto uno nuovo. Ma nell’anno e mezzo di scontro giudiziario nessun peso sembravano avere i risultati che Parmalat accumulava: nuove acquisizioni in Australia e Brasile, 24 prodotti nuovi nei 31 paesi in cui il gruppo opera, crescita del fatturato a parità di perimetro dai 4,4 miliardi del 2011 ai 5,7 nel 2013, aumento del margine operativo lordo da 374 a 493 milioni. Per l’Ilva, a luglio saranno due anni dall’arresto dei Riva. Da allora, una sfilza di provvedimenti giudiziari e molti divergenti nel merito, due decreti ad hoc dei governi Monti e Letta. Ma siamo al punto che il commissario straordinario Enrico Bondi ha un piano industriale che non convince né i privati né il pubblico, visto che il premier Matteo Renzi ha detto "così non va", promettendo novità a breve. La sopravvivenza delle produzioni è più che mai in gioco, le bonifiche e i relativi capitali ancora da vedersi. Per le indagini aperte dalla Procura di Milano sui concambi tra Unipol e Fonsai, è stato il senatore pd Massimo Mucchetti, di certo non sospettabile di pregiudizi avversi ai pm e favorevoli alla Consob di Giuseppe Vegas, a scrivere su Repubblica tutti i suoi dubbi, sul fatto che il magistrato possa far sicura questione di diritto partendo da opinabili valutazioni sulle analisi quantitative dei prezzi. Servirebbero interventi di legge. Volti a porre argini a una deriva cominciata con la legge 231 del 2011, che estende all’impresa, ai suoi manager e controllanti responsabilità amministrative e penali per reati compiuti da dipendenti. E che poi via via, con ordinanze e decreti ad hoc sui singoli casi aziendali, ha esteso le facoltà della magistratura di nominare commissari giudiziali che diventano capiazienda, e di inibire cda regolarmente nominati. La magistratura deve fare il suo dovere, non sostituirsi a proprietà e manager. Eppure in Italia c’è sempre chi, per ideologia o per timore di ritorsioni, è genuflesso alle toghe. Ue, il governo delle toghe battuto alla Camera sulla responsabilità civile toghe toghe. Norme più dure per gli errori dei giudici
Insorgono Anm e Csm: "A rischio la nostra indipendenza". Duro scontro Pd-5S. Renzi: "Correggeremo in Senato", scrive “La Repubblica”. Il governo e la maggioranza sono stati battuti, in un voto a scrutinio segreto, nell'esame sulla legge europea 2013-bis alla Camera sulla responsabilità civile delle toghe. E' infatti passato un emendamento della Lega, a prima firma di Gianluca Pini, e a cui governo e relatore avevano dato parere contrario. Riscrive l'articolo 26 sulla responsabilità civile dei magistrati, inasprendo di fatto le pene nei confronti dei giudici. I voti favorevoli sono stati 187, mentre 180 i contrari. Sette voti di differenza che pesano, visto che alla Camera governo e maggioranza contano su un ampio sostegno. L'emendamento modifica l'articolo 2 della legge dell'88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati. Una questione sulla quale il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricorda che l'indipendenza dei giudici non è un privilegio. Il premier Matteo Renzi però, parlando con i suoi da Pechino, del voto con il quale la maggioranza è stata battuta, minimizza:"E' una tempesta in un bicchiere d'acqua, il voto segreto è occasione di trappoloni, ma le reazioni che vedo sono esagerate", dice il premier per il quale la norma sarà modificata a scrutinio palese al Senato.
Sabelli (Anm): "Fatto grave". Dura la reazione dell'Associazione nazionale magistrati che ha definito il voto "un fatto grave". Il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli, ha detto che : "in un momento che vede la magistratura fortemente impegnata sul fronte del contrasto alla corruzione nelle istituzioni pubbliche, questa norma costituisce un grave indebolimento della giurisdizione". Con l'emendamento votato oggi "si vorrebbe reintrodurre ciò che non si riuscì ad approvare nel 2012 - sottolinea Sabelli - cioè un'introduzione dell'azione diretta di responsabilità civile che non ha eguale in nessun ordinamento occidentale e che presenta evidenti profili di incostituzionalità". Parte all'attacco anche il vice presidente del Csm, Michele Vietti che dice: "E' in gioco non un privilegio, ma l'indipendenza di giudizio del magistrato". Mentre, secondo l'Associazione magistrati della Corte dei conti "l'emendamento all'art. 26 della legge comunitaria, che prevede l'azione diretta di responsabilità civile nei confronti del magistrato, rileva come la stessa, oltre ad essere non in linea con la legislazione della maggior parte degli Stati membri dell'Ue, costituisce un gravissimo vulnus all'autonomia e all'indipendenza dei giudici". Critico anche il legale Gianluigi Pellegrino. "Si crea un cortocircuito che può bloccare ogni giudizio. Se è giusto, come chiede l'Europa prevedere sistemi più efficaci di ristoro per gli errori giudiziari, è assurdo e tribale prevederlo con azioni dirette della parte contro i giudici e peraltro anche per mero errore di diritto - spiega l'avvocato Pellegrino - . Piuttosto bisogna proporre un ulteriore rafforzamento del controllo disciplinare per tutte le giurisdizioni e nel rispetto dei principi di autogoverno". Nell'emendamento approvato dall'assemblea si legge, che "chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto". "La norma è passata con almeno 80 voti del Pd, quindi prima di sfidare la volontà popolare invito i democratici a sfidarsi internamente, mettendo d'accordo la parte destra del cervello con quella sinistra, per poi formulare una proposta alternativa sul tema", ha detto Pini, dopo il voto. Prova a gettare acqua sul fuoco il Pd: il provvedimento deve "ancora passare al Senato e lì modificheremo la norma", garantisce in Aula Ettore Rosato. Mentre Roberto Speranza, presidente dei deputati Pd parla di "un vero e proprio colpo di mano del centrodestra con la complicità del M5S". "In parlamento esistono proposte sulla responsabilità civile dei magistrati e ritengo siano maturi i tempi affinchè la questione venga affrontata in modo serio e rigoroso - aggiunge Speranza - . Penso sia oltremodo sbagliato trattare tale tema in modo frettoloso, attraverso un emendamento alla legge comunitaria". Forza Italia, come del resto la Lega, esulta. "Quando il centrodestra trova i contenuti batte il parlamento e batte anche Renzi", dice la deputata azzurra Daniela Santanchè, che aggiunge: "Al bando dunque le poltrone e gli organigrammi della sinistra, la forza delle nostre idee riflette fedelmente la volontà degli italiani. D'altro canto, l'astensione del M5S è del tutto vergognosa e ribadisce la natura giustizialista dei grillini". Anche i 5 Stelle mostrano soddisfazione: "La nostra decisione di astenerci ha tirato fuori tutta l'ipocrisia del Pd", dice il grillino Andrea Colletti.
A fine aprile era stato bocciato il disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati, voluto dal centrodestra. I senatori del Pd, i parlamentari grillini e gli ex 5 Stelle avevano approvato, in commissione Giustizia del Senato, l'emendamento del M5S che cancella l'art.1, cioè il cuore del testo. Giudici, Giachetti (Pd): "Ho votato sì perché norma non colpisce magistrati perbene". "Pensiamo ai casi di Tortora e Scaglia", dice il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, Pd, che oggi ha contribuito con il suo voto (palese) a far passare l'emendamento leghista sulla responsabilità civile dei giudici e qiundi a battere il governo, 187 a 180. "Il tempo per una scelta è maturo anche nel Partito democratico", aggiunge, "non so perché nel gruppo non ci sia stato un dibattito. Nessuno scambio con il centrodestra".
E comunque in ogni giornalista c'è il comunista che è in sè, ed in queste occasioni esce fuori. Camera, passa la responsabilità civile dei Pm. Il "messaggio" della politica alle inchieste. La responsabilità civile dei magistrati, contro il parere del Governo, passa a Montecitorio con 187 sì e le decisive astensioni di M5S e Sel. Il centrodestra esulta, il Pd annuncia cambiamenti al Senato. Ma già nel 2012, con la maggioranza di centrodestra, l'emendamento era stato approvato, scrive Susanna Turco su “L’Espresso””. L’Anm parla di fatto grave, il centrodestra esulta, il Pd piuttosto imbarazzato fa sapere che al guasto si riparerà al Senato, senz’altro, mentre il senatore Maurizio Gasparri promette di combattere “strenuamente” per tenerlo così come è. Pare una giornata d’altra epoca, alla Camera. Proprio mentre la giunta per le Autorizzazioni, presieduta da Ignazio La Russa, apre il faldone relativo alla richiesta di arrestare Giancarlo Galan (e dal sì all’arresto di Francantonio Genovese è passato meno di un mese) in Aula, contro il parere del governo, i deputati approvano una norma che introduce la responsabilità diretta dei magistrati. Il principio, cioè, secondo cui se un magistrato sbaglia ci si può rivalere direttamente su di lui, invece che sullo Stato come accade ora secondo la procedura (peraltro complessa) della legge Vassalli. Il magistrato che ha sbagliato paghi: è uno dei caposaldi classici del berlusconismo che fu, mentre i democratici - pur concordando sulla necessità di rinnovare la norma del 1988 - hanno tutta un’altra idea su come farlo. A presentare il testo incriminato, come emendamento alla legge comunitaria in discussione a Montecitorio, è il leghista Gianluca Pini. Ma la sua approvazione in Aula, con 187 sì contro 180 no, e l’astensione dichiarata dei Cinque stelle, suona almeno in parte come una risposta della politica all’accanirsi della magistratura con inchieste di ogni ordine e grado, dall’Expo e Mose in avanti. “In questo momento, questa norma costituisce un grave indebolimento della giurisdizione”, dice il presidente Anm Rodolfo Sabelli. “Un vero e proprio atto intimidatorio”, aggiunge il presidente Pd in commissione Giustizia Donatella Ferranti, puntando l`indice contro chi, “proprio ora, cerca di intimorire i magistrati che con coraggio hanno aperto vari fronti di indagine sui fenomeni corruttivi dilaganti negli appalti pubblici”. Interpretazione, questa, valida fino a un certo punto. E’ tragicamente vero, infatti, che lo stesso testo sulla responsabilità dei magistrati, sempre firmato da Gianluca Pini, sempre come emendamento alla legge comunitaria, era stato presentato ed approvato poco più di due anni fa. Era il 2 febbraio 2012, a Palazzo Chigi regnava Monti, e l’Aula di Montecitorio dava il via libera al testo Pini con 264 sì e 211 no (un solo astenuto). Allora come ora il voto era segreto. Ma il rapporto di forze tra centrosinistra e centrodestra era invertito. E i Cinque Stelle, in Parlamento, nemmeno ci stavano. Dunque se è vero che si tratta di un segnale ai magistrati, è un segnale più trasversale e meno legato al momento di quanto non paia sulle prime. Tanto più che, mentre la responsabile giustizia del Pd Alessia Morani giura che oggi il gruppo è stato compatto nel votare contro, è pur vero che il vicepresidente democratico della Camera Roberto Giachetti rivendica il suo sì (quella sulla responsabilità civile è una antica battaglia radicale), e soprattutto che i deputati del centrodestra presenti in Aula, secondo i calcoli del forzista Simone Baldelli che è uno preciso, non sono più di ottanta. Per arrivare a 187 mancano, dunque, un centinaio di voti all’appello: e anche mettendo un punto interrogativo sui vari gruppi minori, i conti non tornano. La crepa, comunque, sarà sanata. Al Senato la norma verrà cancellata dalla legge comunitaria, in attesa che il tema sia affrontato a parte. I numeri ci dovrebbero essere perché anche i Cinque stelle, tutti contenti per il blitz che ha “permesso di svelare l’ipocrisia del Pd”, dicono che al Senato torneranno a votare no alla responsabilità civile diretta dei magistrati, come hanno fatto a fine aprile a Palazzo Madama, in asse col Pd e contro il centrodestra. Finirà insomma come due anni fa: anche allora la norma Pini fu cancellata dall’altro ramo del Parlamento. Resta da capire quando è che Renzi si deciderà a dare il via libera alla riforma di questo come di altri punti dolenti del capitolo giustizia. Proprio a fine aprile, a Porta a porta, il premier - pur favorevole a cambiare la Vassalli - spiegò che “finché c’è un clima da derby” e “finché ci sarà chi dice che la magistratura è il cancro dello Stato”, “non ci potrà essere nessun intervento sulla giustizia”. Ecco, insomma, un altro punto sul quale il rapporto con Berlusconi contiene una pericolosa ambivalenza.
I sinistroidi vogliono tutelare i magistrati incapaci ed in malafede.
Truffa Carige, indagati per abuso d'ufficio i magistrati liguri coinvolti. Indaga la procura di Torino sulle presunte interferenze di pm e giudici di Savona e La Spezia. Il fascicolo è stato trasmesso dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta, scrive Ottavia Giustetti su “La Repubblica”. L'ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi (ansa)Sono indagati per abuso d'ufficio e violazione del segreto i tre magistrati liguri coinvolti nell'inchiesta sulla maxi inchiesta per truffa a Banca Carige. Maurizio Caporuscio, pm a La Spezia, Pasqualina Fortunato, giudice del lavoro a La Spezia, Francantonio Granero procuratore capo di Savona. Sulle presunte interferenze dei magistrati liguri indaga la procura di Torino che ha ricevuto il fascicolo dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta su Carige. Lunedì il pm torinese Marco Gianoglio è stato a Genova per partecipare a una riunione organizzativa. Da lì era partito un paio di settimane fa il fascicolo sulle presunte rivelazioni e le interferenze. Già in Liguria la procura aveva iscritto i tre magistrati accusandoli di abuso e violazione del segreto. Caporuscio è nei guai per una telefonata tra l'avvocato spezzino Andrea Baldini, ex componente del Cda di Banca Carige, e Berneschi. Parlando Baldini racconta che il magistrato fece in modo che fosse fornita al banchiere la copia di una denuncia 'riservata' che l'imprenditore spezzino Gianfranco Poli aveva presentato contro l'ex numero uno di Carige per truffa. E sempre le dichiarazioni di Baldini accusano la moglie, Pasqualina Fortunato. L'avvocato ha spiegato infatti a Berneschi che grazie all'interesse di Lilly (per gli inquirenti è la moglie) sarebbe stata chiesta l'archiviazione del fascicolo. Berneschi, discutendo con il manager di Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio che doveva affrontare nell'autunno scorso a Savona, dove è indagato per la bancarotta del costruttore Andrea Nucera, dice che il procuratore Ganero gli ha suggerito di non rispondere e ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi, membro del cda di Cassa di risparmio di Savona, controllata da Carige e uomo di spicco delle cooperative. Granero aveva detto "Tutto falso, presenterò querela". E gli inquirenti sospettano che le frasi di Berneschi siano state pronunciate per comprometterlo. Non sono stati inviati invece a Torino gli atti che chiamano in causa il procuratore aggiunto di Genova Vincenzo Scolastico. Il suo nome, dedotto da alcune conversazioni telefoniche ma mai citato espressamente, era stato chiamato in causa come un possibile altro sospettato di aver favorito il gruppo che faceva riferimento a Berneschi. Ferdinando Menconi, ex manager di Carige Vita Nuova, ne descriveva la figura e diceva presumibilmente di lui "... carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato". Ma sul suo conto non sarebbero stati riscontrati comportamenti scorretti e dunque è caduto nei suoi confronti ogni sospetto.
LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO.
La sinistra e le toghe d'assalto: la vera storia del patto di ferro. La ricostruzione nel saggio di Cerasa: dalla nascita di Magistratura democratica a Mani pulite, gli eredi del Pci hanno reclutato le Procure. Diventandone succubi, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Ha cominciato a chiamarmi l'Anm. «Non sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore, abbiamo bisogno della Ferranti alla Giustizia». E io ho risposto obbedisco ai magistrati, mica al Pd». La richiesta dell'Associazione nazionale magistrati, rivelata (e poi smentita, come da prassi) dal catto-dem Beppe Fioroni nei primi giorni del governo Letta, è stata accontentata. Alla presidenza della commissione Giustizia della Camera siede proprio lei, Donatella Ferranti, ex magistrato, e di una corrente non a caso, Md (Magistratura democratica), le toghe di sinistra. L'interlocutore più gradito all'Anm, a costo di un'invasione di campo plateale. Che però non sorprende perché conferma un dato storico, l'alleanza tra sinistra e magistratura italiana. Un «ammanettamento» che ha radici lontane, dalla nascita di Md - nel clima del '68 - che nella sua assemblea nazionale si assegna il compito di «costruire un rapporto costante e articolato con le forze politiche di sinistra», alla «questione morale» come bandiera del Pci di Berlinguer (delegata poi alle Procure), al pool di Mani pulite che opera già come un'unità politica. Un processo ricostruito da Claudio Cerasa nel suo Le catene della sinistra, facendo parlare i testimoni di questa mutazione genetica (doppia: dei giudici e della sinistra). Racconta Sergio D'Angelo, ex magistrato schierato con Pci e poi Ds, a lungo in Md da cui poi ha preso le distanze: «Dopo Tangentopoli la politica ha iniziato a guardare al magistrato come ad una guida spirituale. E i magistrati di sinistra, che esercitano un'egemonia culturale nel mondo delle procure, hanno sposato la causa della rivoluzione politica». Una minoranza («un settimo sui 9mila magistrati in servizio», dice D'Angelo) diventata maggioranza culturale dentro la corporazione, al punto da dominarla e influenzarne anche le sentenze. Ammette un altro magistrato, Francesco Misiani: «Non posso negare che nelle mie decisioni da giudice non abbia influito, e molto, la mia ideologia». Ma quando scatta l'ammanettamento tra sinistra e toghe? Cerasa lo domanda a due magistrati di un'importante Procura, che per riservatezza non si svelano. Ma rispondono e indicano due tappe. La prima, Tangentopoli: «Lì molti di noi si sono convinti di avere una missione salvifica, di dover non solo combattere la corruzione ma di redimere l'Italia. E la sinistra si illude di poter prendere il potere con la magistratura». Il secondo, Berlusconi: «Assegnare alla magistratura il compito di eliminare Berlusconi - racconta uno dei due pm - ha dato alla magistratura un potere enorme che forse neanche la magistratura intendeva ottenere. Ma di fatto, da quando Berlusconi è in campo, bisogna riconoscere che la magistratura di sinistra è diventata un azionista importante, per non dire prioritario, dell'universo del centrosinistra». La saldatura è visibile dappertutto. Nelle carriere politiche di molti pm d'assalto, a cominciare da quelli del famoso pool. Di Pietro ministro del governo Prodi, Gerardo D'Ambrosio senatore del Pd, Borrelli supporter della segreteria Veltroni. «Ma il mondo di centrosinistra è pieno di magistrati che una volta poggiata la toga all'attaccapanni si sono buttati in politica» ricorda Cerasa. I nomi più noti: Anna Finocchiaro, Luciano Violante, Michele Emiliano, Pietro Grasso, ma pure i senatori Casson, Carofiglio e Maritati, la deputata Pd Lo Moro e poi la Ferranti. Magistrato è anche un consigliere Rai indicato dal Pd, Gherardo Colombo, anche lui ex pool. Proprio il Colombo che anni fa sulla rivista Questione Giustizia teorizzò la missione politica della magistratura. «Ritengo - scriveva l'ex pm - impraticabile una prospettiva di ritorno alla terzietà (per la magistratura, ndr), che risulterebbe soltanto apparente». Il giudice insomma, riassume Cerasa «ha il compito, quando necessario, di sostituirsi all'opposizione parlamentare». Il magistrato diventa militante, e la sinistra si consegna - manette ai polsi - alla sudditanza verso le Procure. Chi ha analizzato a fondo questo fenomeno è Violante, che da ex magistrato ha conosciuto entrambi i percorsi e il loro intreccio pericoloso. Il margine di libertà che i pm più schierati politicamente hanno per orientare un'inchiesta è enorme, dice Violante intervistato nel libro. I cardini sono due: l'obbligatorietà dell'azione penale (che diventa «uno scudo per giustificare indagini spericolate, fragili, ma efficaci sul piano politico») e poi «il controllo di legalità», cioè la funzione di ricerca del reato, di controllo della legalità, che spetta «alla polizia, allo Stato, alla politica». L'effetto è la sinistra che si ammanetta da sola al giustizialismo, la politica che si consegna alle Procure. Ai magistrati, aggiunge l'ex presidente della Camera, che «non ne rispondono a nessuno».
LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.
Carnevale: "I magistrati? Politicizzati e pigri". L'ex presidente di Cassazione: "Appartenendo alla giusta corrente si ha carta bianca. Doveroso separare le carriere", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Essendo stato il giudice più bravo d'Italia e il più perseguitato, Corrado Carnevale è contemporaneamente esperto di giustizia e malagiustizia. Ha indossato la toga nel 1953, quando fu primo assoluto al concorso. L'ha deposta nel 2013, sessant'anni dopo. Nel mezzo, la sospensione dal servizio con l'accusa di mafiosità gettata lì da Gian Carlo Caselli, capo della Procura di Palermo. Era il 1993 e a calunniare era il pentito Gaspare Mutolo. L'ostracismo durò sei anni e mezzo. Finché fu assolto con formula piena. Poi, per recuperare il tempo ingiustamente perduto, Carnevale è tornato in Cassazione, circondato dalla massima deferenza, fino a 83 anni compiuti. La penombra in cui il giudice tiene l'appartamento, ci protegge dalla calura. Da quando un decennio fa è morta la moglie, Carnevale non ha mosso una sedia. Questa scomparsa è il suo unico cruccio. Sulle mascalzonate subite, fa il filosofo. «Che sentimenti ha verso Caselli?», gli ho chiesto. «Nessuno», ha detto col tono di chi non dà spazio al superfluo. Il mobbing giudiziario lo ha inseguito anche nello studio dove sediamo. Un giorno scoprì che il telefono era isolato. Avvertì la Sip e vennero due tipi che armeggiarono un po'. «Quanto devo?» chiese alla fine. «È gratis, giudice», fu la risposta. «Come facevano a sapere che ero giudice?», sorride oggi Carnevale. Così, intuì che era stato un trucco per mettergli delle cimici e spiarlo in casa, non avendo potuto scoprire nulla con le normali intercettazioni. Fatica sprecata: anche le cimici confermarono il galantuomo. Carnevale è passato alla storia come l'Ammazzasentenze per avere annullato, da presidente di Cassazione, sentenze infarcite di svarioni. Alcune riguardavano mafiosi, il che scatenò polemiche. Ma la caratteristica di Carnevale è di essere inflessibile sul rispetto integrale della legge. Ho isolato le seguenti frasi della nostra chiacchierata che sono il cuore del suo credo: «Un giudice che ha dubbi su una norma, può chiedere alla Consulta di cancellarla. Ma finché la norma c'è, la deve rispettare. Gli piaccia o non gli piaccia. Non può scegliere, le deve rispettare tutte. Non può inseguire le sue chimere (salvare il mondo, ndr), fossero anche le più nobili. Suo unico compito è applicare tutte le regole che l'ordinamento si è posto». Da scolpire nella pietra.
Il punto molle del processo penale è la troppa vicinanza del giudice al pm, a scapito della difesa.
«Il nodo è chi ha permesso questa vicinanza. Ossia la politica che ha consentito all'Anm di tutto e di più. Non c'è ormai alcun controllo sull'idoneità dei magistrati. Basta che appartengano alla giusta corrente e hanno carta bianca».
Che rapporto ha avuto con l'Anm?
«Mi dimisi nel 1957, quattro anni dopo l'ingresso in magistratura. Capii subito che non si battevano per la giustizia ma per soldi e prebende, nonostante il loro trattamento fosse già il più favorevole».
Separazione delle carriere?
«Per farlo, bisogna cambiare la Costituzione. Ma nulla vieta di impedire da subito a pm e giudici di passare da una funzione all'altra, come oggi sciaguratamente succede».
Una scuola post-laurea per pm, giudici, avvocati?
«Perfettamente inutile. Il problema è di cultura generale, non di cultura giuridica».
Più ingressi di prof e avvocati in magistratura?
«Non serve a nulla, come dimostra il Csm in cui un terzo dei membri è composto di docenti e avvocati, scelti dal Parlamento, che però si adeguano puntualmente all'andazzo».
A che serve il Csm?
«Alla carriera dei magistrati appartenenti alle correnti giuste».
Come va riformato?
«Estraendo a sorte i membri. Che oggi sono invece scelti dalle correnti di Anm tra i più supini ai loro diktat».
Com'è che lei, considerato un cannone, invece di essere il fiore all'occhiello dei colleghi ha rischiato da loro la galera?
«È accaduto appena ho diretto uffici. Terminavo in tre mesi, ciò che gli altri facevano in un anno. Ero la prova che i loro alibi - scarsità di mezzi, troppe liti, mancanza di carta igienica - era il tentativo di addebitare alla politica le proprie lacune».
Per questo volevano rovinarle la vita?
«Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell'invidia».
Quello di Caselli, dopo le calunnie di Mutolo, fu atto dovuto o smania di annichilirla?
«Atti dovuti non esistono. L'attendibilità dei mafiosi va controllata con rigore, nonostante la teoria di Falcone che i pentiti dichiarano sempre la verità. Si voleva colpire me».
In un grado del processo prese sei anni per concorso esterno. Che pensa di questo reato?
«Che non è configurabile. Il concorso esterno è un'invenzione che ha sostituito il terzo livello con il quale si pensava di colpire i politici».
Il fantomatico terzo livello...
«Il terzo livello non funzionò e si cambiò col concorso perché aveva una parvenza più giuridica. In diritto esisteva già la categoria del concorso e, a orecchio, lo si estese a esterno».
Se in Cassazione si fosse trovato davanti Dell'Utri, condannato a sette anni per concorso esterno, che avrebbe detto?
«Che non era ravvisabile quel reato perché la legge non lo prevede. Ciò non esclude però che i suoi comportamenti potessero avere un rilievo penale diverso».
Ai mafiosi si applica un diritto speciale: 41 bis, ecc. Costituzionale?
«Assolutamente no. I cittadini sono uguali davanti alla legge».
Contro il Cav c'è stato un eccesso di zelo?
«Berlusconi, come tutti i magnati, compreso Agnelli, è stato disinvolto, ma da imprenditore fu ignorato da Mani pulite. Entrò nel mirino da politico. Segno della politicizzazione della magistratura».
Come ricondurre le toghe nell'alveo?
«Oltre all'estrazione a sorte del Csm, va introdotta la responsabilità civile personale dei magistrati. Esattamente ciò contro cui si batte in queste ore l'Anm».
Giudizio finale sullo stato della giustizia?
«Siamo tutti esposti a iniziative giudiziarie capricciose da Paese incivile. Un brutto modo di vivere il tempo che ci è dato su questa terra».
SENTIAMO KARIMA EL MAHROUG, DETTA RUBY.
In occasione della prima udienza del processo d'appello per il caso Ruby, Franco Coppi, difensore di Silvio Berlusconi, ha commentato le pesanti esternazioni fatte dal suo assistito a Napoli, dove è stato sentito come teste al processo Lavitola. "Non l'ho sentito né prima né dopo, ma se ha fatto quelle dichiarazioni avrà avuto un motivo. Ed è stato sicuramente tirato per i capelli dal presidente, che poteva avere più garbo", ha concluso Coppi. A scatenare la furia dei magistrati è stata una frase del Cav pronunciata in Aula: "Magistratura incontrollabile. E impunita". Lo sfogo del Cav è arrivato dopo che la presidente della Corte aveva affermato: "Lei - rivolgendosi a Berlusconi - non deve capire il senso delle domande, deve rispondere". Terminata la testimonianza, Silvio ha parlato in Aula anche del ruolo dei giudici: "La magistratura è incontrollabile, irresponsabile e gode di immunità". L'esternazione del Cav arriva dopo una provocazione del giudice Giovanna Ceppaluni che gli aveva rivolto delle domande il Cav aveva chiesto spiegazioni in merito. La risposta del giudice però è stata piccata: "Lei non deve capire il senso delle domande". Il diverbio lo ha chiuso il magistrato affermando che "la magistratura è ancora tutelata dal codice penale".
Ruby: "Berlusconi condannato per nulla". La giovane: "Se mi avesse dato 5 milioni non dovrei chiedere soldi ai suoceri per fare la spesa", scrive Luca Fazzo “Il Giornale”. Lei non ci verrà, al processo che porta il suo nome, anche perché stavolta non l'hanno nemmeno invitata come «parte offesa». Parte stamattina 20 giugno 2014 il processo d'appello a Silvio Berlusconi, e per tutto il mondo è il «processo Ruby».
«Un soprannome che mi sono inventata quando avevo nove anni, e che adesso mi pesa. Vorrei liberarmene, vorrei tornare a essere Kharima, voglio essere la ragazza che vendeva tappeti in spiaggia a Catania. Ma non mi viene permesso, vengo massacrata in continuazione. So che il vero bersaglio non sono io ma è Berlusconi. Ma lui è maggiorenne e vaccinato, io invece devo pensare a difendere me stessa e mia figlia. E mi domando: quanto deve durare questo massacro?».
Converrà, signora el Mahroug, che una mano a questo putiferio lo ha dato anche lei. Nelle sue intercettazioni diceva di avere avuto rapporti con Berlusconi, «l'altra è la pupilla e io il c...». E ai pm quando l'hanno interrogata ha descritto le sere di Arcore in modo abbastanza colorito.
«Avevo diciassette anni, ero totalmente allo sbando, e in quelle telefonate mi attaccavo ad amiche che poi amiche non erano, e mi inventavo cazzate per darmi arie. Errori di gioventù che non credo di dover pagare in eterno. Il problema vero è quello che è successo dopo, quando sono arrivati i pm a interrogarmi, e ho capito subito che di me non gli interessava assolutamente niente, volevano solo e a tutti i costi questo signor Berlusconi, e io gli ho dato quello che volevano. Sono stata anche pittoresca, certo. Faccio mea culpa, va bene? Ma da qui a prendere per oro colato le parole di una ragazzina di diciassette anni scappata di casa ce ne corre».
E allora qual è la verità? Quella dei verbali, delle intercettazioni, degli interrogatori in aula?
«La verità è che Berlusconi mi ha rispettato più di tutti gli uomini che ho incontrato nella mia vita precedente nei locali e nelle discoteche. Gli hanno dato sette anni per nulla».
Per avere sostenuto questa versione durante il processo di primo grado, lei è stata incriminata per falsa testimonianza e oggi è sotto inchiesta per corruzione in atti giudiziari. I giudici dicono che Berlusconi ha comprato il suo silenzio.
«Io di essere sotto inchiesta l'ho saputo solo dai giornali, perché nessuno mi ha detto niente. È dall'inizio di questa storia che leggo tutto sui giornali. Sono sotto inchiesta? Bene. Io sono tranquilla, perché se Berlusconi mi avesse dato i cinque milioni di cui parlavo nelle intercettazioni, non sarei ridotta adesso a chiedere ai miei suoceri i soldi per fare la spesa. Invece quando cerco lavoro, anche come commessa, trovo solo porte chiuse perché la gente pensa "ma come, questa ha cinque milioni di euro e vuole lavorare, chissà cosa c'è sotto". Adesso forse ho trovato un posto in un ristorante a Milano. Se va male anche lì, andrò dalla Boccassini a chiederle di prendermi come donna delle pulizie».
Ilda Boccassini non è stata tenera con lei, nella sua requisitoria. L'ha accusata di «furbizia orientale».
«Io l'ho incontrata per la prima volta in aula, al processo, quando dovevano interrogarmi e poi non mi hanno interrogata. Poi ho letto quella frase e mi ha lasciata di sasso. Diciamo che non mi è sembrata per niente garbata né nei miei confronti né delle donne orientali. Mi è sembrata una frase razzista. E soprattutto mi ha lasciata incredula che una persona del livello della Boccassini non sapesse che il Marocco non è in Oriente. Magari adesso faccio una colletta e le regalo un atlante o un mappamondo».
Io sarei più cauto.
«Io sono stanca. Sono finita dentro una macchina da guerra, davanti a gente che non voleva sapere la verità ma solo perseguire un obiettivo, l'interesse non era per me ma per una persona che aveva un ruolo infinitamente più grande. Quando sono entrata in aula e ho letto scritto sul muro che la legge è uguale per tutti mi è venuto da ridere, perché in questi quattro anni ho potuto toccare con mano come per colpire una persona abbiano rovinato la vita e la psiche di una ragazza di diciassette anni. Grazie a loro sono stata coperta di spazzatura mediatica, ho dovuto cambiare città, a volte faccio ancora fatica a girare per strada. Mi sento trattata come un killer mentre i veri killer sono a piede libero».
SENTIAMO CESARE BATTISTI.
Scordatevi le leggende sul rifugio dorato in Brasile. Cesare Battisti vive con la moglie e la figlia in un modesto bilocale fuori San Paolo perché la vita in città è troppo cara, scrive Angela Nocioni su “Il Garantista”. Magro, pallido, all’apparenza più giovane dei suoi cinquantanove anni, l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo (Pac) – condannato per quattro omicidi avvenuti negli anni Settanta dei quali si è sempre dichiarato innocente – sembra sereno, ma non in pace. Non cerca grane, ma parla con rabbia della tortuosa vicenda dell’estradizione chiesta dall’Italia e negata dal Brasile il 31 dicembre del 2010 per decisione dell’allora presidente Lula da Silva.
«Se il governo italiano avesse mentito meno, probabilmente avrebbe ottenuto la mia estradizione», dice Battisti. «Lula non l’ho mai visto, non ha nessuna simpatia per me. Ma quando dall’Italia sono cominciate ad arrivare notizie contraddittorie e assurde sulla mia vicenda, Lula ha deciso di prendere informazioni per conto suo. A un certo punto nel governo di qua si sono sentiti presi in giro dall’Italia, mica sono scemi i brasiliani».
Battisti giura di non aver ucciso nessuno. Non ha mai visto le quattro persone per il cui omicidio è stato condannato, dice. E di passare per un criminale scampato alla galera grazie a una premurosa gentilezza del governo brasiliano, proprio non gli va. O questo, quanto meno, gli piace raccontare.
Se attraversi la frontiera puoi essere arrestato. Ti pesa non poter uscire dal Brasile?
«Non ci penso neppure ad attraversare la frontiera. Spero di fermarmi qui. L’Italia da almeno quarant’anni non è casa mia. Restava la Francia per me, ma ormai nemmeno quella. Non tornerei più neanche lì. Tornare indietro tanti anni dopo, non funziona. Hai lasciato una realtà che non esiste più, tutto si è modificato. Torni con un’idea del posto che non corrisponde più alla realtà. Ho visto cosa è successo ai rifugiati italiani a Parigi che poi sono tornati in Italia. Nessuno ha resistito. Dopo sei mesi rientravano in Francia di nuovo.»
Dicevi di voler appellarti al presidente Napolitano per tornare in Italia. Non era vero?
«Non era un’invenzione. E’ che Napolitano fa tanto il furbetto. Alla fine, vediamo un po’, volete farmi un processo? E fatemelo! Io ci sto. Sono loro che non ci starebbero mai. Sono stato processato in contumacia, senza avvocati, dovrebbero essere considerati nulli i processi che mi hanno condannato.»
Sei stato processato in contumacia perché eri latitante. E’ stata una tua scelta.
«Ah sì? Dovevo andare in Italia a farmi un ergastolo, o a farmi ammazzare. Certo, come no…»
Ti consideri un perseguitato dalla giustizia?
«No, mi considero una persona che ha fatto quello che doveva fare negli anni Settanta. Con errori o con meriti, questo è un altro discorso. Ma la giustizia con la lettera maiuscola non ha niente a che fare con l’attitudine dello Stato italiano in quegli anni lì. Sono un perseguitato dalla vendetta dello Stato italiano degli anni Settanta.»
Come consideri adesso la tua militanza politica di allora nei Pac?
«La considero un’esperienza positiva. Perché quello era un gruppo che si era formato allontanandosi dallo stalinismo delle Brigate rosse e aveva uno sguardo sulla società molto più ampio rispetto al marxismo leninismo di altri gruppi. A me ha insegnato molto.»
E’ vero che ti sei politicizzato in carcere dopo l’arresto per rapina?
«E’ un’altra stronzata. Vengo da una famiglia comunista, militavo da sempre. I miei genitori erano del Pci, mio fratello era stato eletto nelle liste del Pci. Io ho fatto parte di Lotta continua, poi di Autonomia operaia. Sono finito dentro per una rapina, era un esproprio. Gli espropri non si rivendicavano. Non mi sono politicizzato in carcere, semmai in carcere ho conosciuto persone attraverso le quali sono entrato nei Pac.»
Hai partecipato a qualcuna delle azioni armate in cui sono stati commessi i quattro omicidi per i quali sei stato condannato?
«Non facevo più parte dei Pac quando sono stati commessi quegli omicidi. Sono stato giudicato in Italia e condannato a 12 anni e mezzo per associazione sovversiva e detenzione di armi, dopo che gli omicidi erano già avvenuti. Nessuno mi ha mai interrogato riguardo quegli omicidi. Nello stesso processo in cui io sono stato condannato a 12 anni e mezzo, sono stati condannate alcune persone per quegli omicidi. Il mio nome non è mai stato fatto, neanche dai torturati. Durante l’operazione Torreggiani alcune persone sono state torturate, queste persone hanno parlato sotto tortura e neanche lì il nome di Cesare Battisti è mai venuto fuori. Quando ero in Messico hanno rifatto il processo grazie alle dichiarazioni false di Pietro Mutti. Una delazione premiata, solo che lui ha mentito. E mi hanno condannato all’ergastolo senza prove. Non c’è una prova tecnica contro di me, non c’è un testimone, non c’è niente.»
E le prove documentali?
«Le prove documentali mostrano la mia innocenza. La pistola che avrebbe sparato l’agente della Digos è stata trovata a un altro che avrebbe anche confessato, per esempio. Nessuno mi ha mai accusato, nessuno.»
E perché ti avrebbero coinvolto?
«Quello che ha messo in mezzo me è uno solo, si chiama Pietro Mutti. Scaricando tutto su di me, invece di prendere alcuni ergastoli, ha preso pochi anni di galera, ubbidendo alle indicazioni di un procuratore della repubblica abbastanza famoso che continua a perseguitarmi. E chiudiamola qui perché non c’è bisogno di fare nomi già noti.»
Hai mai sparato?
«Contro persone no.»
E a chi sparavi? Agli uccelletti?
«Agli uccelletti, agli alberi, alle persone mai.»
In nessuna di quelle quattro azioni armate sei stato presente fisicamente?
«Non facevo più parte dell’organizzazione.»
Ma c’eri o no?
«No! Non facevo più parte dei Pac, come facevo ad esserci?»
Se ti fossero garantite delle condizioni di incolumità personale e un processo imparziale, torneresti in Italia?
«Lo rifarei il processo perché non hanno nessuna possibilità di vincerlo. Nessuna. Il problema è che non mi fido dell’Italia, servirebbero degli osservatori internazionali, perché non me l’hanno mai fatto un processo, non sono mai stato interrogato riguardo questi omicidi da un poliziotto, da un giudice. Mai.»
Se non fossi fuggito ti avrebbero interrogato.
«Che Paese è un Paese in cui si fa un processo e si condanna qualcuno senza interrogarlo?»
Cosa è successo con Alberto Torregiani?
«Ma che ne so, avevo una corrispondenza con lui, avevamo una buona relazione, l’ho aiutato anche a scrivere un libro, lui sa benissimo che io non c’entro niente con la morte del padre, ma poi è stato minacciato.»
Da chi?
«L’hanno minacciato di togliergli la pensione e lui ha eseguito gli ordini e si è messo a urlare contro di me. Ha cambiato idea all’improvviso, si è messo a dire che io sono un criminale quando sa benissimo che non c’entro io con la morte di suo padre.»
Non c’è nessuno in Italia di cui ti fidi, qualcuno su cui conti?
«Ho molti amici, associazioni che mi aiutano anche economicamente.»
Francesi o italiane?
«Francesi e italiane, amici, scrittori soprattutto.»
E’ vero che quando ti hanno arrestato a Rio de Janeiro nel marzo del 2007, ti hanno preso seguendo una persona che ti stava portando dei soldi?
«No. Sapevano che ero qui da quando sono arrivato. Mi controllavano continuamente.»
E perché a un certo punto hanno deciso di arrestarti?
«Perché evidentemente era arrivato il momento, conveniva a qualcuno.»
Ti eri accorto di essere seguito?
«Era chiaro, non si sono mai nascosti.»
Allora perché ti nascondevi tu?
«Non mi sono mai nascosto io. Tutti sapevano che ero a Copacabana, come facevo a nascondermi se la polizia mi stava sempre dietro? Ci parlavo con i poliziotti.»
In carcere in Brasile come sei stato trattato?
«Come tutti gli altri. Il periodo in cui sono stato in una cella di un commissariato centrale è stato un inferno perché non c’era posto. Si dormiva a turni. In celle da due stavamo in dieci. Lì sono stato un anno e mezzo. Poi mi hanno trasferito in un carcere normale, è durato molto, ma poi sono uscito.»
Nel governo brasiliano chi ti ha aiutato di più? L’allora ministro della giustizia Tarso Genro?
«A me una mano non l’ha data nessuno. A un certo punto quelli che avevano deciso a priori di estradarmi, si sono resi conto che le cose non stavano come gli avevano raccontato e hanno cominciato ad investigare.»
Parli di Lula?
«Sì, di Lula e di Genro. L’intenzione di Lula e di Genro all’inizio era di estradarmi perché avevano ricevuto informazioni dall’Italia completamente pompate, assurde. Poi si sono accorti che qualcosa non filava. Un esempio: quando si tratta di condannarmi, si usa la legislazione sul terrorismo e mi si tratta come un terrorista. Ma poi quando si tratta di chiedere l’estradizione, mi si tratta come un delinquente comune. Aho’, ma questi mica sono scemi! E hanno fatto quello che dovevano fare, si sono informati autonomamente, ci hanno messo quattro anni, ma l’hanno fatto.»
Perché dici che non ti hanno aiutato? Genro si è molto esposto per te, ti ha anche concesso lo status di rifugiato nel 2009 infilandosi in un guaio, o no?
«Genro all’inizio voleva estradarmi. Quando si è accorto che gli italiani stavano mentendo, ha cambiato posizione. A quel punto ha voluto vederci chiaro, ha chiesto aiuto, ha usato dei consiglieri. Li ha fatti viaggiare, ha fatto fare delle ricerche. Cosa che ha fatto poi anche Lula per conto suo. Se gli italiani al governo fossero stati furbi, se avessero mentito meno, gli sarebbe andata bene probabilmente, non l’hanno avuta vinta perché hanno esagerato.»
Secondo te il governo brasiliano si è indispettito?
«Beh, di certo non ha gradito che gli si raccontasse dall’Italia che negli anni Settanta da noi non c’è stata guerriglia. Ma insomma, stiamo parlando a un capo di Stato di un grande Paese, al suo ministro della giustizia, A gente, tra l’altro, che la lotta armata l’ha fatta. Gli raccontiamo una stronzata del genere?»
Non sarà che invece Lula si è trovato in mano il tuo caso quando ormai il dossier Battisti era diventato già una patata bollente, quando la sfida tra lui e il Tribunale supremo era aperta, e a quel punto gli è toccato tenerti in Brasile?
«Lula è uno statista e da statista si è comportato. Ha messo in moto una serie di persone per capire chi ero io veramente. Ha investigato il periodo in cui stavo in Messico, il periodo in cui stavo in Francia e il periodo in cui stavo in Italia. Ha ricevuto intellettuali e politici, tantissimi, di vari Paesi.»
Compresi gli amici tuoi francesi…
«Compresi i francesi. E poi ha preso la decisione di farmi restare. Quando Genro decise all’inizio di darmi lo status di rifugiato, Lula era già d’accordo sul farmi restare in Brasile. E non gli stavo simpatico. Se avesse potuto mi avrebbe estradato.»
Quindi non ti consideri il regalo che Lula, alla fine del suo secondo mandato, ha fatto all’ala sinistra del suo partito?
Lula non fa regali a nessuno. Lula è una volpe. Accettare la richiesta italiana di estradizione avrebbe potuto essere una decisione per lui sconveniente. Senti, la giustizia italiana sa benissimo che io non c’entro niente con quei quattro omicidi, sa benissimo che è tutta una pagliacciata. Io ho fatto parte di un movimento, rivendico di aver fatto parte di questo movimento. E basta. Se poi vogliamo stare alle regole dei tribunali, ci stiamo. Allora però devono mostrare le prove. Non ce l’hanno le prove. Sono loro che devono dimostrare che sono colpevole, non io che sono innocente. Gli autori di quegli omicidi avevano confessato. La verità sta nei processi. Sta tutto lì scritto. Sono stato condannato con una legge retroattiva, una cosa del genere non esiste neanche in Paraguay.»
A fuggire dalla Francia ti hanno aiutato i servizi?
«Mi sono aiutato da solo. Tra Chirac e il governo italiano il patto era fatto, mi hanno venduto come merce, io l’ho saputo e sono andato via. Cosa dovevo fare? Aspettare che mi venissero a prendere?»
Contrordine compagni: Battisti resta in Brasile (e può fuggire altrove). Il giudice Fux, fautore dell'asilo, congela con un cavillo l'estradizione: si decide il 24. Forse, scrive Paolo Manzo, Domenica 15/10/2017, su "Il Giornale". Rappresenta una boccata d'ossigeno per Cesare Battisti la decisione di Luiz Fux, il giudice della Corte Suprema brasiliana relatore del suo caso, di sospendere ogni azione per estradare, espellere o arrestare nei prossimi giorni il latitante più famoso d'Italia. Almeno un paio le anomalie della decisione di Fux che - è bene ricordarlo - aveva già votato a favore della decisione di Lula di concedere asilo a Battisti l'ultimo giorno del suo secondo mandato, il 31 dicembre del 2010, e deve la sua nomina a giudice della Corte Suprema all'ex guerrigliera Dilma Vana Rousseff. La prima stranezza è che ci si attendeva che Fux decidesse solo dopodomani e, invece, ha fatto gli straordinari sino a tardi un venerdì 13 nel bel mezzo di un ponte festivo (il 12 ottobre il Brasile si ferma per celebrare la sua santa patrona, la Nostra Signora di Aparecida). La seconda anomalia è che, invece di chiudere subito la vicenda, Fux ha trasmesso tutta l'analisi dell'habeas corpus preventivo presentato lo scorso 27 di settembre dai difensori dell'ex terrorista - una misura cautelare che garantisce a chi teme il carcere di assicurarsi comunque la libertà ancor prima dell'arresto - al plenario della Corte Suprema, che si riunirà tra 9 giorni. Non è però affatto detto che il prossimo 24 ottobre la massima istituzione giuridica verde-oro decida qualcosa di definitivo e - come già accaduto tra 2007 e 2011 - gli undici togati verde-oro che compongono il plenario potrebbero andare avanti per mesi e/o anni discutendo di cavilli degni dell'Azzecca-garbugli manzoniano. In teoria la Corte Suprema dovrebbe solo decidere se accogliere o meno la richiesta di habeas corpus preventivo e, su questo, Fux ha sollecitato «tempi brevi». Peccato solo che, nel motivare la sua decisione, abbia altresì machiavellicamente chiarito che «bisogna verificare se esista la possibilità per l'attuale Presidente della Repubblica di annullare una decisione presidenziale anteriore». E proprio qui sta il busillis perché tutto lascia intendere che se l'ultima volta, con Lula alla presidenza, la Giustizia verde-oro che pur aveva concesso l'estradizione si sottomise alla volontà del massimo potere politico, oggi ci si trovi invece di fronte ad una situazione diametralmente opposta. Ovvero con un presidente come Michel Temer che vorrebbe sì estradare Battisti ma che - indebolito dai sondaggi e soprattutto da un paio di inchieste sulla corruzione che lo chiamano direttamente in causa - potrebbe doversi piegare davanti ad una Corte Suprema stavolta contraria tanto a sottomettersi al potere politico di turno quanto all'estradizione dell'ex terrorista. Non a caso ieri il ministro della Giustizia del Brasile, Torquato Jardim, intervistato dal quotidiano Estado de Sao Paulo ha sì ribadito quanto già detto il giorno prima a BBC Brasil - ovvero che «Battisti ha rotto il rapporto di fiducia che aveva per rimanere in Brasile», ma ha tenuto a sottolineare che «la decisione è sub judice» e che «si deve attendere la decisione della Corte Suprema». Al di là delle modalità e dei tempi con cui potere politico e giudiziario brasiliano affronteranno la «patata bollente» Battisti in ballo ci sono anche le relazioni con l'Unione europea che dopo oltre 25 anni di negoziati starebbe finalmente per chiudere l'accordo commerciale con il Mercosur di cui il Brasile è il paese più potente - da ieri l'ex terrorista dorme sicuramente sonni più tranquilli. Con la possibilità, se mai la sua estradizione verrà concessa da Brasilia, di fuggire in un altro paese disposto a dargli rifugio come, ad esempio, la Bolivia o il Venezuela.
"Anarchici irriducibili" Ecco chi sono i fan di Battisti. Gli investigatori: «Gli autori delle scritte a favore del terrorista? Animati dal voler essere sempre contro», scrive Paola Fucilieri, Venerdì 13/10/2017, su "Il Giornale". Per gli investigatori milanesi si tratta di «groppuscoli isolati», animati non da veri e propri ideali quanto dal desiderio di «avere un pretesto» per essere sempre e solo «contro il sistema, lo status quo». Sarebbero comunque e senza dubbio anarchici milanesi, attraverso una serie di scritte apparse sui muri del quartiere di Affori nei giorni scorsi, a inneggiare alla libertà del 62enne Cesare Battisti, il terrorista dal 31 dicembre 2010 formalmente asilante con visto permanente in Brasile e arrestato qualche giorno fa proprio dalle autorità brasiliane ai confini con la Bolivia mentre tentava di fuggire in quel paese. Un fatto, quest'ultimo, che - anche dopo le sue dichiarazioni provocatorie, nelle quali Battisti sostiene di non temere alcunché perché «protetto dall'asilo e da un visto permanente» - ha riportato prepotentemente a galla tutte le polemiche legate alla sua mancata estradizione, richiesta quindi di nuovo e con forza, dai ministeri della Giustizia e degli Esteri attraverso un mandato all'ambasciatore italiano in Brasile. Alle spalle di Battisti quattro omicidi - due commessi da sé, due con altri - oltre a vari reati legati nientemeno che alla lotta armata. Una vita e un bilancio da brividi - senza il beneficio del minimo dubbio - «suggellati» da una condanna a ben quattro ergastoli, sentenza emessa in contumacia e diventata definitiva nel 1993. Eppure, come testimoniano proprio quelle scritte tra via Litta Modignani e via Ippocrate - «Battisti libero», «No all'estradizione», «Assalto al potere», accompagnate da simboli anarchici - c'è ancora chi a Milano, «tifa» per il terrorista, seppure lontanissimo dalle posizioni, ad esempio, degli occupanti del centro sociale «Villa Litta», perché dichiaratosi sempre di area marxista leninista. Una realtà, quella dei suoi «supporter» milanesi, che stride ancora di più se si pensa che, già militante del gruppo «Proletari Armati per il Comunismo», Battisti è accusato di essere il co-autore del delitto di Pierluigi Torreggiani, avvenuto il 16 febbraio 1979 in via Malpighi, in zona Buenos Aires. Un agguato nel quale il figlio del gioielliere, Alberto, allora 15enne, dopo un colpo di pistola alla colonna vertebrale, rimase tetraplegico. E da sempre chiede che il terrorista venga consegnato alla giustizia italiana. Battisti, fuggito prima in Francia, si trova in Brasile dal 2004: qui fu arrestato nel 2007 e l'Italia ne chiese l'estradizione. Nel 2009 la Corte suprema brasiliana aveva autorizzato il provvedimento, ma si trattava di una decisione non vincolante, che lasciava l'ultima parola al capo dello Stato. L'allora presidente brasiliano Lula negò quindi l'estradizione concedendo a Battisti lo status di rifugiato politico. Una decisione che pare non possa essere annullata nemmeno da Miguel Elias Temer, presidente del paese sudamericano dall'agosto dell'anno scorso.
Chi è Cesare Battisti, il terrorista e assassino sempre protetto dai potenti. Il rapinatore e killer, diventato poi scrittore di successo, è stato arrestato e poi scarcerato mentre cercava di andare in Bolivia. Ma ora il presidente brasiliano potrebbe revocarne lo status di rifugiato. Un passo importante per l'estradizione in Italia, da cui è scappato 36 anni fa, scrive Paolo Biondani il 12 ottobre 2017 su "L'Espresso". Uno scrittore perseguitato per le sue idee politiche? No, un terrorista pluri-omicida rimasto impunito per volontà del leader di un partito corrotto. Cesare Battisti è stato arrestato, e poi rilasciato, nei giorni scorsi mentre cercava di fuggire dal Brasile alla Bolivia. Una "gita per pescare", secondo lui; molto più credibilmente un tentativo di fuga per evitare di essere rimandato in Italia. Sì, perché dopo anni di "rifugio" in Brasile, Battisti ora rischia di vedersi revocato lo status di rifugiato politico, passo fondamentale per la sua estradizione in Italia. Ridotto ai fatti comprovati, liberato dai fumi ideologici, il caso di Cesare Battisti è la strana storia di un assassino condannato dalla giustizia, ma salvato dalla politica. La giustizia è quella italiana, che gli ha inflitto l’ergastolo per quattro omicidi. Sentenza mai eseguita perché l’ex terrorista rosso è scappato in Brasile, dove il 31 dicembre 2010 l’allora presidente Lula, carismatico leader della sinistra, ha messo il veto all’estradizione, con l’ultimo atto del suo mandato. Uno schiaffo all’Italia: i processi documentano che era lui a impugnare le armi. E le sue vittime furono quattro innocenti ammazzati per vendetta. Ma invece è stato il rapinatore-killer, diventato un romanziere intoccabile, a essere presentato come vittima della repressione italiana negli anni di piombo. Il primo fatto certo è che Cesare Battisti viene arrestato con altri complici a Milano, nel giugno 1979, in una casa dove ha nascosto un arsenale: mitra, pistole, fucili. Sono armi dei “Proletari armati per il comunismo”, che teorizzano un’alleanza “anti-capitalista” con i rapinatori comuni. Da quel covo parte l’indagine che in luglio porta in carcere anche Giuseppe Memeo, il protagonista della foto-simbolo degli anni di piombo: l’autonomo che spara per strada contro la polizia. «Battisti era un rapinatore comune, per soldi, che si è politicizzato in carcere», ha scritto il pm Armando Spataro per «ristabilire la verità» dopo il primo stop brasiliano. Nell’ottobre 1981, mentre sta scontando la prima condanna per banda armata, Battisti evade dal carcere di Frosinone e scappa in Francia. Dove diventa un giallista di successo, difeso da illustri intellettuali. In Italia le indagini continuano e fanno crollare il muro di piombo. Numerosi terroristi confessano. Tra le prove contro Battisti c’è perfino la testimonianza di un cittadino che ha avuto il coraggio di inseguire un commando di terroristi-killer. Battisti viene condannato in tutti i gradi di giudizio per quattro omicidi. Un’escalation spaventosa. Il 6 giugno 1978 ammazza personalmente un maresciallo di Udine, Antonio Santoro. Il 16 febbraio 1979 la sua banda uccide un gioielliere di Milano, Pierluigi Torregiani, il cui figlio Alberto resta paralizzato: è la vittima che protesta da anni contro l’impunità del terrorista. Battisti ha organizzato quel delitto, ma non partecipa all’esecuzione perché lo stesso giorno va a fare da copertura, armato, ai complici che sopprimono un negoziante di Mestre, Lino Sabbadin, “giustiziato” come il gioielliere perché si era opposto a precedenti rapine. Il 19 aprile 1979 è Battisti in persona ad uccidere, a Milano, il poliziotto della Digos Andrea Campagna. Nel 2004 Battisti viene arrestato a Parigi. In giugno i giudici francesi concedono l’estradizione: non è un perseguitato. Battisti però è già tornato libero e fugge in Brasile. Dove viene riarrestato nel 2007. Intanto la Corte europea boccia il suo ricorso: il terrorista in Italia ha avuto processi giusti, con ogni mezzo di difesa e avvocati di fiducia. In Brasile, prima la Procura generale e poi la Corte suprema autorizzano la riconsegna all’Italia. Ma nel 2009 il ministro Tarso Genro gli concede asilo politico. E alla fine Lula ferma l’estradizione. Pochi giorni fa, anche alla luce della fine dell'era Lula in Brasile, l'Italia ha consegnato una nuova richiesta di estradizione per Battisti che sembrerebbe aver trovato l'appoggio dell'esecutivo verdeoro. Una evoluzione diplomatica che avrebbe portato il terrorista a fare le valigie in fretta.
Intervista a Cesare Battisti: “Ho pietà per tutte le vittime del terrorismo, ma io non c’entro: i pm hanno torturato il mio accusatore”, scrive Angela Nocioni il 14 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Parla l’ex militante dei Pac: “Il mio arresto a Curumbà è stato illegale, è stata una trappola”. “Non si può ottenere la mia estradizione senza costringere il Brasile a violare le sue leggi”. No. Non è un fuggitivo di lusso che aspetta in un rifugio tropicale dorato di riuscire a bloccare la sua estradizione. E’ un sessantatreenne in canottiera, controllato a vista dalla Policia federal, barricato in un appartamentino prestatogli fuori San Paolo. E’ circondato dai fantasmi anni Settanta di un militante dei Proletari armati per il comunismo, vecchi poster di Carlo Marx e amici devoti del giro degli esiliati per ragioni politiche in Brasile che, come satelliti amorevoli, ruotano da anni attorno a lui. Che di loro è il più famoso, il più esposto, l’unico sull’orlo di una detenzione con fine pena mai. Cesare Battisti, condannato in Italia all’ergastolo per quattro omicidi dei quali si dice innocente, dichiara che la testimonianza di Pietro Mutti, l’elemento con cui è stato condannato, è una testimonianza falsa “ottenuta con la tortura”. Perché Mutti accusò lui e non un altro? “Perché i procuratori gli ordinarono di denunciare me e non un altro”. Dice di avere pietà per le vittime della lotta armata. “Ho già detto alla stampa brasiliana, più di dieci anni fa, che riconosco la mia responsabilità per aver fatto parte della lotta armata. Mi dispiace, certo che mi dispiace, della sofferenza di tanta gente. L’ho detto. Sembra però che tutto quello che ho detto in Brasile non meriti molta attenzione da parte dei politici italiani”. Sulle vicende di questi giorni: “L’ambasciata italiana voleva che rimanesse segreto l’accordo col Brasile per mettermi di corsa su un aereo per l’Italia. Non volevano darmi la possibilità di difendermi. Doveva essere una estradizione express per impedirmi di difendermi. Il mio arresto a Curumbà è stato illegale, è stata una trappola”. “Non si può ottenere la mia estradizione senza costringere il Brasile a violare le sue leggi. Nel giugno del 2011 il plenum del Tribunale supremo ha approvato per 6 voti contro 3 il decreto di Lula che negava l’estradizione. Solo dopo quel voto io sono uscito di prigione. Si tratta di una decisione dell’esecutivo, giudicata e approvata dal massimo organo giudiziario del Brasile. Estradarmi significherebbe violare un diritto acquisito e violare la decisione presa dal plenum del Tribunale supremo, violare una decisione giudiziaria che prevale su qualsiasi decisione politica”.
Ha detto che teme di essere ucciso in Italia. Per volere o su mandato di chi dovrebbe essere ucciso e perché?
«Sono più di dieci anni che diversi politici, poliziotti, membri dei sindacati delle guardie carcerarie e altri mi fanno arrivare minacce. D’altra parte, se l’ex ministro della difesa Ignazio La Russa ha detto che mi avrebbe voluto torturare personalmente… L’ha detto ai giornalisti. Ma non è nessuna gran notizia. Molti detenuti politici sono morti nelle prigioni italiane. Molti si sono suicidati, sono caduti dalle scale, questo è noto. Le autorità italiane che negano queste morti cercano di nascondere un’informazione già nota. Organizzazioni i diritti umani hanno denunciato per decenni questi strani decessi».
Pietro Mutti è il suo unico accusatore, lei hai sempre detto che Mutti avrebbe dichiarato il falso. Chi non le crede dice: “Ammettiamo pure che Mutti abbia mentito per ottenere dei benefici personali, ma perché ha accusato Cesare Battisti? Perché non un altro?”. Perché l’ha fatto? Si può sapere perché Mutti ce l’avrebbe dovuta avere con lei?
«Mutti era mio amico, ma nessuno può resistere alla tortura compiuta con ferocia. E’ una questione fisica, biologica, non è necessariamente qualcosa che riguarda la morale. Perché denunciò me e non un altro? Perché i procuratori gli ordinarono di denunciare me, non di denunciare un altro! La persona torturata deve obbedire a chi ordina la tortura. Può rimanere il dubbio sul motivo per il quale i procuratori scelsero me. Io ero, di tutto questo gruppo, l’unico che scriveva cose che venivano lette in diversi paesi. Io per molto tempo ho fatto dettagliate denunce riguardo la scomparsa di detenuti politici, le torture e gli abusi. E guardate, dopo quarant’anni la persecuzione continua».
Ha sempre denunciato di essere stato condannato all’ergastolo senza prove. Anzi, “nonostante l’esistenza di prove documentali che mi scagionano e solo attraverso una testimonianza falsa” m’ha detto in passato. Perché allora non chiede la revisione del processo?
«L’Italia ha sempre detto che il mio processo non sarà rivisto».
Il governo italiano dice che vuole la sua estradizione “anche per restituire in parte ciò che è stato tolto alla nostra comunità e ciò che è stato inflitto alle vittime del terrorismo”. Vorrei la sua opinione.
«Beh, dovrei sapere intanto se parlano del terrorismo fatto dai fascisti, la Banca dell’agricoltura, l’Italicus, piazza della Loggia, la stazione di Bologna. Quelle stragi fecero centinaia di vittime. Senza contare gli studenti uccisi, gli operai, le femministe, i militanti di alcuni partiti politici. Se si riferiscono a questo terrorismo, la miglior informazione la potrebbero ottenere dalle forze fasciste e mafiose che sostennero quei governi».
In Italia l’accusano, tra l’altro, di non aver mai pronunciato una parola di pietà per le vittime del terrorismo. Non parlo delle persone morte nei quattro omicidi per i quali è stato condannato, ma delle vittime della lotta armata degli anni Settanta.
«Io ho già detto alla stampa brasiliana, più di dieci anni fa, che riconosco la mia responsabilità per aver fatto parte della lotta armata. Mi dispiace, certo che mi dispiace, della sofferenza di tanta gente. L’ho detto. Sembra però che tutto quello che ho detto in Brasile non meriti molta attenzione da parte dei politici italiani».
Se arriva il via libera del giudice del Tribunale supremo, cosa faranno i suoi avvocati? I reati per i quali è stato condannato sono prescritti in Brasile. Il decreto presidenziale di rifiuto dell’estradizione sarebbe immodificabile per legge dopo cinque anni dalla firma e ne sono passati quasi sette. Lei è padre di un minore, cittadino brasiliano, e non potrebbe per questo per legge essere estradato. Cosa pensa di fare la sua difesa?
«Mio figlio ha quattro anni. I miei avvocati stanno usando tutti gli elementi legali contro l’estradizione, che sono molti. Lo continueranno a fare sempre. Già hanno denunciato che il decreto di Lula non può essere modificato. Sono protetto dallo statuto dello straniero. I miei avvocati denunciano di non aver ricevuto informazioni che avrebbero dovuto ricevere e chiedono d’essere ascoltati».
Cosa farà se verranno a prenderla?
«Confido nella giustizia brasiliana. Il Brasile non ordinerà l’arresto di una persona che è stata liberata da una decisione della giustizia brasiliana. Una nuova detenzione illegale, come quella che m’è toccata finora, penso che sia quasi impossibile. La trappola degli arresti montati, costruiti a tavolino, è diventata pubblica».
Può descrivere cosa è esattamente avvenuto durante il primo controllo di polizia il 4 ottobre, prima che la fermassero una seconda volta nello stesso giorno alla frontiera brasiliana con la Bolivia per poi arrestarla?
«Hanno fermato l’auto in cui viaggiavo due volte. Duecento chilometri prima della frontiera ci ha fermato la Policia Federal Rodoviária. Hanno guardato dentro ogni angolo dell’auto. Sembrava la volessero smontare. E non hanno trovato nulla. Poi ci ha fermato di nuovo, molto prima della frontiera con la Bolivia, un gruppo speciale della polizia federale. Non era polizia di frontiera! Non hanno fermato nessun’altra macchina, solo noi! Ero con due amici. Ci hanno chiesto di mostrare il denaro che avevamo con noi. Ciascuno di noi ha dato il suo, 25 mila reais in tutto. Abbiamo spiegato che volevamo comprare vino, aricoli in cuoio e per la pesca, lì costano meno. A Cananeia, dove vivo, pescatori amici ci avevano chiesto di fare acquisti per loro. Ci hanno portato al commissariato. Un poliziotto ha messo tutti i soldi in una scatola, fotografandola come si fa quando si sequestra una grande quantità di denaro. Diceva che era illegale perché il massimo che ciascuno può portarsi dietro è 10 mila reais (quasi tremila dollari n.d.r.). Tutti e tre gli abbiamo detto che era il denaro di tutti e tre, lui diceva di no. I miei amici hanno protestato, hanno spiegato che loro hanno soldi loro, propri redditi. Li ha zittiti. Poi li ha liberati. Mi ha trattenuto due giorni in cella, ho dormito per terra. Mi hanno accusato di esportazione di valuta e riciclaggio di denaro. Mi ha giudicato un giudice per videoconferenza. Mi ha accusato di violare le leggi sui rifugiati. Io non sono un rifugiato. Dal 2011 sono un residente permanente, un immigrato con documenti regolari di permesso di residenza, documenti che il giudice conosceva perché fanno parte del dossier. Un immigrato può entrare e uscire dal Brasile, deve chiedere il permesso solo se vuol restare fuori più di due anni. Il giudice mi ha strappato in faccia, davanti al monitor della videoconferenza, la richiesta di scarcerazione che gli era arrivata dal mio avvocato e l’ha buttata nella spazzatura. Solo dopo, leggendo i giornali di San Paolo, ho saputo che c’era un aereo della polizia federale pronto là per portarmi dalla cella di Curumbà direttamente a Roma. I soldi sono rimasti a Curumbà».
Cosa ha pensato quando ha saputo che “O Globo” dava per fatto l’accordo tra l’ambasciata d’Italia e il governo brasiliano per cancellare il decreto presidenziale con cui l’ex presidente Lula da Silva il 31 dicembre del 2010 respinse la richiesta della sua estradizione chiesta dall’Italia? Crede sia stata una trappola?
«Fino a che la notizia non è uscita su “O Globo” non si sapeva nulla dell’accordo. Tutto stava avvenendo segretamente, senza informazioni alla stampa, ancora meno agli avvocati. L’Italia voleva impedire la possibilità della mia difesa legale. Nel marzo del 2015, quando mi sequestrarono di fatto ad Embù das Artes, la polizia mi stava portando direttamente in aeroporto. Solo che il mio avvocato arrivò prima. Per questo motivo, questa volta avevano chiesto il silenzio assoluto. La divulgazione del piano poteva pregiudicare la estradizione express. Senza dubbio è stato un piano preparato nel dettaglio».
Ha avuto l’impressione di essere sorvegliato nei giorni precedenti al viaggio? E lungo la strada? Prima che fermassero l’auto in cui stava viaggiando?
«Nei giorni prima del viaggio non ho notato niente. Non ho l’abitudine di vivere pensando tutto il tempo che c’è qualcuno che mi perseguita. Ma quando ci siamo messi in viaggio era molto evidente che ci stavano seguendo. Era una trappola preparata. La polizia non ha fermato nessun’altra auto, non ha controllato a nessun altro i documenti. Vorrei chiarire che non siamo mai arrivati alla frontiera con la Bolivia. Non c’era motivo per fermarci prima del posto di controllo».
YARA E' SEMPRE. SBATTERE IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Venti domande ai magistrati del caso Yara poste da Marco Ventura su “Panorama”. Sono ancora tante, troppe, le cose che non tornano di quest'inchiesta. E finché i giudici non le chiariranno, rimarrà sempre un dubbio sulla colpevolezza di Bossetti. A qualche domanda dovranno pur rispondere magistrati e investigatori, O davvero vogliamo credere che il caso di Yara Gambirasio e del “presunto” assassino, Massimo Bossetti, sia chiuso e la conclusione di questa orribile storia già consegnata agli annali di criminologia? Parlano tutti. E parlano troppo. “Un’indagine pazzesca, faticosissima”, ha detto il pubblico ministero Letizia Ruggeri in conferenza stampa. Passate al setaccio 120mila utenze telefoniche dopo il ritrovamento dei resti della povera Yara tra gli arbusti di un campo incolto a Chignolo d’Isola, tre mesi dopo la scomparsa il 26 novembre 2010. Da lì s’è partiti per estrarre il Dna del cosiddetto “Ignoto 1”, trampolino per uno “screening altissimo di Dna dei residenti della zona”. Diciottomila, pare. E “l’individuazione del nipote del Guerinoni”. Il cadavere di quest’ultimo, autista a Gorno, riesumato si è rivelato quello del padre di “Ignoto 1”, il presunto assassino il cui codice genetico combacerebbe con la piccola traccia organica rinvenuta negli slip di Yara. E ancora: gli investigatori raccontano lo sconforto quando hanno capito che l’“assassino” non era un figlio legittimo ma andava trovata la madre naturale fra 500 donne con le quali Guerinoni aveva avuto contatti. E alla fine eccola, anziana, sposata, con figli. Ed ecco il figlio, e quel Dna “carpito” dalla saliva in un boccaglio, con la scusa dell’etilometro. È Massimo Bossetti, sposato e padre di tre figli fra gli 8 e i 13 anni. “Una indagine da scuole di polizia giudiziaria”, dice Raffaele Grassi capo dello Sco, il Servizio centrale operativo. “Un’operazione di assoluta avanguardia nel settore”, conferma il capo del Ros (carabinieri), Mario Parente. “Il Dna è stato il faro alla luce del quale proseguire le indagini, il puzzle è quasi completato”, conferma la Ruggeri. “Ho gioito come uomo, ma soprattutto come rappresentante di giustizia”, insiste il procuratore capo di Bergamo, Francesco Dettori, di solito così prudente. Il test del Dna “inchioderebbe” il carpentiere di Mapello. I risultati sono stati formalmente comunicati, spiega una nota dell’Università di Pavia cui appartengono i genetisti che hanno svolto le analisi, lunedì 16 giugno. Il giorno stesso Angelino Alfano, ministro dell’Interno, dava in pasto ai media “l’assassino”. In caserma Bossetti veniva ascoltato, e fuori c’era già chi gli urlava contro: “Bastardo, devi morire”. Eppure, manca tutto il resto: l’arma del delitto, il movente, il contesto, riscontri decisivi. Perfino la convalida del fermo, che poi non c’è stata in quanto il Giudice delle indagini preliminari ha stabilito che non c’era pericolo di fuga (ma, vista la gravità del delitto, ha disposto la custodia cautelare).
Le domande sorgono spontanee.
1. È vero che la traccia organica sugli indumenti di Yara era talmente piccola che il test non è più ripetibile ed è perfino incerto che si tratti di sangue o altro?
2. È vero che la cella alla quale si è agganciato il telefonino di Bossetti circa un’ora prima della sparizione di Yara nella zona della palestra potrebbe coprire pure la casa dove Bossetti sostiene di essere rimasto quella sera (col cellulare scarico, in carica)?
3. Se è vero che è stato fatto lo screening genetico a 18mila persone e il cellulare di Bossetti era stato “captato” nella zona della scomparsa, perché il suo Dna non è stato analizzato in precedenza?
4. E se lo è stato, che risultati ha dato?
5. Qual è l’arma del delitto?
6. Perché si parla di ferite punta-taglio? Giovanni Arcudi, direttore di Medicina legale dell’Università di Roma Tor Vergata, contesta che si possano riscontrare dopo tre mesi su un corpo in quelle condizioni.
7. Se un processo accertasse che la traccia è di Bossetti, in assenza di altre prove il colpevole dev’essere per forza lui? (Nel delitto di Via Poma, il test del Dna non ha fatto condannare Raniero Busco, l’ex fidanzato, e in altri processi importanti lo scenario è cambiato nei gradi di giudizio, nel caso Meredith o in quello di Garlasco).
8. Posto che centinaia di casi passati in giudicato in base a test del Dna negli Stati Uniti e in Gran Bretagna sono stati poi inficiati da ulteriori indagini, si può dire che il Dna sia infallibile, o sia da solo una prova assolutamente certa? NB: gli stessi genetisti di Pavia parlano soltanto di “probabilità estremamente elevata, dal punto di vista statistico”.
9. Non è strano che Bossetti sia arrivato a 44 anni, avendo compiuto un delitto così terrificante, senza che mai vi sia stata nei suoi confronti una denuncia, una segnalazione, un gossip per patologie o reati sessuali?
10. Perché Bossetti in tre anni e mezzo non si è trasferito e anche negli ultimi tempi, con la madre sottoposta al test del Dna e lui stesso fermato per la rilevazione dell’etilometro, è rimasto tranquillamente al suo posto?
11. Perché la madre, sapendo, si sarebbe sottoposta tranquillamente al test? È vero che Bossetti lo sapeva e non l’aveva fermata, anzi?
12. Manca la prova di un contatto diretto tra Bossetti e la vittima. Possibile?
13. Se le prove sono così schiaccianti, perché Bossetti si ostina a proclamarsi innocente, estraneo, col conforto di tutta la famiglia?
14. Era proprio necessario trascinare nella pubblicità “negativa” tutte le famiglie coinvolte, compresi i figli minorenni?
15. Perché non sono state prese precauzioni per non calpestare la privacy di persone che col delitto non c’entrano nulla, per esempio il padre anagrafico di Bossetti, la stessa madre, e la vedova dell’autista di Gorno con relativi figli, fratelli, nipoti, etc.?
16. Che senso ha andare a perquisire la casa di Bossetti, dove vive tutta la sua famiglia, a tre anni e mezzo dal delitto?
17. Il Pm, Letizia Ruggeri, ha ricordato che secondo il fratellino, Yara era infastidita da un uomo che la guardava in chiesa. Possibile che ricordi qualcosa di utile un bambino che oggi ha 13 anni e allora ne aveva 9, e al quale sono attribuiti svariati ricordi (ultimo, quello di un uomo “col pizzetto” che osservava la sorella)?
18. È giusto e legittimo fare a qualcuno (non indagato) il test dell’etilometro per un uso del suo Dna diverso da quello previsto? (Attenzione: questa domanda afferisce a diritti fondamentali).
19. Una pressione così forte della pubblica opinione, del governo e delle gerarchie di magistratura e investigatori, può aver indotto a una forzatura delle tracce, a un accanimento investigativo, come emerge anche dalle interviste a poliziotti e carabinieri (anonimi)? (NB: in passato un marocchino, Mohamed Fikri, è finito in carcere come l’assassino di Yara per la traduzione sbagliata di una telefonata ed è rimasto indagato per 2 anni e 8 mesi!).
20. Perché trasferire alla pubblica opinione questo spettacolo di irritazione, gara a chi arriva primo e diversità di vedute, col ministro dell’Interno che annuncia la cattura dell’”assassino”, bacchettato dal procuratore capo di Bergamo che chiede riserbo e a sua volta usa toni di prudenza discordanti rispetto a quelli trionfalistici del procuratore generale di Brescia per il quale il caso è “chiuso” (mentre il questore di Bergamo lo smentisce)?
L'ULTIMO AFFRONTO AD ENZO TORTORA.
L’ultimo smacco a Enzo Tortora, scrive Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Questi sono alcuni estratti testuali della requisitoria del pm Diego Marmo nel luglio 1985:
“Enzo Tortora ha sempre accusato la giustizia napoletana di averlo coinvolto in questa vicenda, non capisco bene perché, non è un mistero per nessuno che io sono convinto della responsabilità di Tortora ma non perché ne fossi convinto nel momento in cui ho messo piede in quest’aula ma perché me ne sono convinto leggendo gli atti, valutando il comportamento processuale ed extra processuale dell’imputato che mi serve non al fine di criminalizzare Tizio, Caio, Sempronio o Mevio, assolutamente no, ma mi serve soltanto il comportamento dell’imputato al fine di valutare la personalità dell’imputato”.
“Lo sappiamo tutti purtroppo che se cade la posizione di Enzo Tortora si discredita tutta l’istruttoria, questo lo sa Tortora ma lo sanno anche coloro che mandano i vari compagni a immolarsi su questo altare per potere screditare questa accusa”.
“Di Monaco, interrogato dal giudice istruttore Spirito che cosa dice: “Lo Iaculli mi fece il nome del presentatore Enzo Tortora”. Cioè significa che non ci può essere errore, non ci può essere dubbio, Enzo Tortora è uno solo, è l’uomo di Portobello, è l’uomo di Cipria, è il presentatore della televisione. Però poi si dirà che Enzo Tortora è Enzo Berri, ma io napoletano non lo conosco, non l’ho mai visto, gli auguro di avere la stessa notorietà di Enzo Tortora ma sicuramente non ha la stessa notorietà di Enzo Tortora”.
“Se prima ci poteva essere equivoco, adesso l’equivoco non c’è più. “Ecco il nostro compare”, perché gli altri detenuti sapevano, non si può giustificare diversamente, non si può dire che c’è stato errore di persona. Vuol dire che dietro queste lettere c’è un regista, c’è Enzo Tortora che fa di tutto per salvarsi da questa imputazione, e lo capisco perché lo fanno tutti gli imputati, ma non ha il diritto assolutamente di dire io combatto per voi, no, lui combatte solo per se stesso”.
“Di Enzo Tortora deputato non mi interessa assolutamente niente, e ci tengo a precisare ma non per giustificarmi, perché le istituzioni sono dalla mia parte, perché il fatto che il capo del mio ufficio abbia ribadito la sua fiducia nei miei confronti è un fatto che mi onora profondamente, quando sarò chiamato nelle sedi istituzionali dirò le mie ragioni. Però quando io ho parlato del voto camorrista non intendevo criminalizzare le centinaia di migliaia di persone che hanno votato Tortora, nemmeno mia madre che probabilmente ha votato Enzo Tortora. Però insisto nel dire che il voto del carcere di Poggioreale significa voto camorrista. Io analizzavo solo quella parte del voto, per dire che è un camorrista che ha chiesto l’appoggio degli altri camorristi, il signor Enzo Tortora è un camorrista, io sto qua per scalzare la presunzione di innocenza, é il mio mestiere quando me ne convinco, e ne sono convinto”.
“Questo Enzo Tortora è quello che ha detto sempre: “Io uscirò dal carcere solo se assolto perché sono innocente”, e se così avesse fatto io l’avrei rispettato veramente perché i signori d’onore io li rispetto, il signor Tortora invece ha pensato che il processo fosse uno spettacolo. Si è verificato che ha chiesto quello che tutto sommato chiedono tutti i detenuti, adombrato delle situazioni di salute per poter uscire dal carcere, con questo non voglio dire che un imputato deve morire in carcere, chi è malato deve essere curato, lo Stato deve attrezzarsi per curare i detenuti. Enzo Tortora ci dice che è malato, e che non può stare in carcere, non faccio della facile ironia, e sarebbe facile farlo sul carcere di Bergamo, la perizia conclude in un certo modo, il giudice disattende, il tribunale della sorveglianza concede. Però se andate a rileggere quelle cartelle cliniche, vedete che quell’imputato viene presentato come uno veramente malato. È quello stesso imputato che ha una vita frenetica, io che sono iperteso non riuscirei a fare un decimo di quello che fa questo signore. Allora sei malato o non sei malato, è vero o non è vero. Tortora non fa una vita tranquilla, in questo lo invidio, ben per lui, hai detto che uscirai dal carcere o libero o con i piedi davanti e invece fai di tutto per uscire dal carcere”.
“Sapete perché Tortora è in questo processo? Perché più si cercavano le prove della sua innocenza e più uscivano le prove della sua colpevolezza. Gli accusatori sono tanti e tutti hanno una estrazione diversa, il signor Tortora abbia la dignità di dire ho sbagliato e di chiedere clemenza”.
Cosa è successo da quel lontano 1985 a oggi?
- Ieri 19 giugno 2014 il pm Diego Marmo è stato nominato assessore per la Legalità a Pompei, ma avrà anche la delega alla Difesa del patrimonio archeologico e ambientale.
- Lui, insieme con gli altri giudici istruttori del processo Tortora, non ha subìto alcun procedimento disciplinare.
- I delatori del conduttore tv non sono mai stati incriminati per calunnia.
- La citazione di Tortora nei confronti delle toghe è stata archiviata dal Csm.
- Il referendum a favore della responsabilità civile dei magistrati non ha avuto alcun seguito.
- E naturalmente Tortora non era un camorrista.
C’è da indignarsi o no?
Lui è Diego Marmo, ed è il pubblico ministero del processo a Enzo Tortora, che venne arrestato il 17 giugno 1983 con l'accusa di associazione camorristica e traffico di droga, scrive “Libero Quotidiano”. Una delle più clamorose storie di malagiustizia in Italia, quella di Tortora. Una storia alla quale però non seguirono né scuse né autocritiche da parte del pm che lo accusava. Una storia di cui si ricorda il travaglio dell'innocente Tortora, i suoi problemi di salute, le violente campagne di stampa, la sofferenza del carcere e una carriera professionale completamente distrutta. Una storia che in qualche modo continua anche oggi: Marmo, infatti, è stato scelto dal sindaco di Pompei per diventare assessore. Nando Uliano, il sindaco neoeletto, lo ha chiamato a far parte della sua squadra: l'ex pm sarà uno dei cinque assessori, si occuperò di legalità e sicurezza ma avrà anche la delega alla Difesa del patrimonio archeologico ed ambientale. Marmo è in pensione dopo una lunga carriera, che lo ha visto anche essere procuratore aggiunto di Napoli, prima di assumere la guida della procura di Torre Annunziata. Nel 2012 curò l'inchiesta sui crolli della schola armaturarum e della casa del moralista. Sulla nomina ad assessore ha spiegato al Corriere del Mezzogiorno: "Quando ho sentito della proposta il mio primo impulso è stato dire no. Poi ha prevalso il fascino della parola Pompei. E quindi mi sono detto che non era giusto rifiutare. Ho deciso di metterci la faccia".
Marmo, il pm del caso Tortora ora è assessore alla legalità, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Si chiama Diego Marmo ed è stato nominato assessore alla legalità del Comune di Pompei. Che c’è di strano? Che Diego Marmo è un ex Pm e non è un ex Pm qualunque: è quel Pm che spedì in carcere Enzo Tortora, ce lo tenne mesi e mesi, si fidò di pentiti bugiardi, non gli indizi e definì Tortora un cinico mercante di morte. Va bene difendere coi denti la non-responsabilità civile dei giudici; va bene esaltare i meriti della magistratura; va bene pretendere autonomia indipendenza e insindacabilità. Va bene tutto, ma addirittura divertirsi ad esaltare la figura del pm che perseguitò Enzo Tortora, lo calunniò in modo feroce, cercò di annientarlo, e poi fu censurato da una clamorosa sentenza di assoluzione, diventando il simbolo dei simboli della giustizia ingiusta e della persecuzione, e decidere, proprio nell’anniversario del barbaro arresto del presentatore, di nominare questo ex pm assessore alla legalità del comune di Pompei…beh, è un po’ esagerato. Credo che persino molti magistrati perbene, onesti, seri, considerino offensiva la decisione del sindaco di Pompei che ha stabilito di affidare questo incarico all’ex pm Diego Marmo. Figuratevi se non siamo favorevoli al diritto all’oblio, anche per i giudici che sbagliano clamorosamente un processo. Figuratevi se siamo noi del Garantista a chiedere pene o vendette. Per carità! Però il valore simbolico di certe scelte non può essere negato. E l’ex pm Marmo è stato nominato assessore alla Legalità proprio nell’anniversario (il trentunesimo) dell’arresto di Enzo Tortora e dell’inizio del calvario che lo portò prima al linciaggio morale e al carcere, poi alla malattia e alla morte. Gli eroi non esistono, naturalmente. Però Enzo Tortora è un po’ un eroe del nostro tempo. Ha sopportato con incredibile dignità la persecuzione e non ha mai rinunciato a lottare. E’ riuscito a sgretolare il castello di accuse e a dimostrare la sua innocenza. Non ha mai perso i nervi, neppure quando il pubblico ministero Diego Marmo lo definì , testualmente, «un cinico mercante di morte», e neanche quando lesse il capo di accusa per colpa del quale gli mettevano le manette e lo chiudevano a San Vittore: ”associazione camorristica e traffico di droga”. Il caso-Tortora lo conoscete tutti: è stato un caso giudiziario vergognoso. Tra l’altro, i radicali proposero il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati proprio come risposta a quella incredibile ingiustizia, dovuta alla superficialità dei magistrati dell’accusa. E vinsero il referendum: i cittadini decisero che i giudici avrebbero dovuto rispondere dei loro errori, come tutti gli altri cittadini, ma poi il governo cancellò quella decisione, stravolgendola. Tortora, al processo di appello, prima che la Corte si riunisse per emettere la sentenza, la sfidò pronunciando parole famosissime: «Io sono innocente. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi». I giudici che emisero la sentenza, per fortuna, erano innocenti: e assolsero Tortora senza l’ombra di un dubbio. Adesso, senza eccessi di polemiche, vorremmo rivolgerci anche all’Anm. Con una domanda sommessa: non vi sentite, in qualche modo, offesi anche voi da una decisione così sfacciata? Non credete che, ingiustamente, si finisce in questo modo per offuscare la buona reputazione di tanti magistrati forti e seri, dando a un pm che si porta addosso l’immagine e la responsabilità di quel clamoroso errore giudiziario, addirittura l’incarico di vigilare sulla legalità? Che messaggio si vuole trasmettere? Che la legalità si realizza meglio perseguitando un po’ alla cieca?
LA REPUBBLICA DEI MAGISTRATI.
La repubblica dei magistrati. Quello dei giudici è un ordine che occupa tutti i gangli cruciali del potere pubblico. E che sancisce nascita e morte di politici e partiti, ma che ha correnti come un partito. Un ordine che fa politica e che fa paura, scrive Marco Ventura su “Panorama”. C’è un governo invisibile, diffuso, potentissimo, che fa le leggi, stabilisce che cosa è giusto e sbagliato, fa la fortuna o la sfortuna di aziende, città e categorie sociali, che disegna l’architettura dello Stato e riforma la legge elettorale (o si oppone alla sua riforma). Un governo che non è eletto, anzi non ha alcuna base rappresentativa, che risponde solo a se stesso e concede ai propri membri gli stipendi che desiderano. Un governo, un ordine, che occupa tutti i gangli cruciali del potere pubblico. Un governo che è anche un autogoverno. Che sancisce nascita e morte di politici e partiti, che ha correnti come un partito. Che fa politica, nelle grandi come nelle piccole cose. Che interviene nei casi di coscienza, sui temi etici, sociali, e siede su un gradino più alto rispetto ai rappresentanti del popolo e agli scienziati. Un governo che può proclamare la prevedibilità dei terremoti. Che vive crisi temporanee di potere solo per lo scontro fratricida dei suo esponenti più in vista. È il governo dei magistrati. Un governo i cui risultati, stando alla sua “ragione sociale” di garantire la giustizia, è fallimentare secondo gli standard europei (l’Italia è all’ultimo posto nella UE per numero di arretrati nella giustizia civile e al penultimo per durata media dei processi). L’Europa è scandalizzata dalla “irresponsabilità” per legge dei magistrati italiani che non pagano di persona per i propri errori, a differenza dei loro colleghi. La magistratura governa l’Italia, fa le veci di Palazzo Chigi ma anche del Parlamento. Costringe quasi l’Ilva a chiudere e il governo a fare decreti per evitare il tracollo dell’industria siderurgica italiana e di tutta una regione (la Puglia). Impone la costruzione delle moschee nelle città. Oggi ha smantellato con una sentenza della Cassazione la legge 40 che vieta la fecondazione eterologa. L’altro ieri ha sancito che è illegittimo licenziare un dipendente che usi i computer aziendali per navigazioni private. Il suo potere discrezionale è così ampio da poter decidere quasi a piacere sui licenziamenti in base al famoso articolo 18. È una magistratura che a distanza di anni può bocciare una legge elettorale e consacrare la non rappresentatività di governi e parlamenti, in più le sue sentenze si trasformano di fatto in nuove leggi elettorali (pur folli e lontane dalla volontà del Parlamento). Una magistratura che può bocciare il blocco gli aumenti automatici ai magistrati, cioè a se stessa, a dispetto della crisi epocale che l’Italia sta attraversando e della difficoltà di fare la spending review. Alla faccia, soprattutto, di chi non arriva alla fine del mese. Infine, una magistratura che dopo vent’anni di braccio di ferro con Berlusconi, oggi leader dell’opposizione, è riuscita a condannarlo e a fargli scontare una pena che in una misura o nell’altra lo costringerà a limitare la propria campagna elettorale (e a non candidarsi). Non so perché ma mi tornano alla mente due brani del grande scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt. Nel primo (“La panne”) un ex magistrato si rivolge a un malcapitato rocambolescamente trasformato in imputato di un processo-gioco: “Carissimo signor Traps… noi quattro, seduti attorno a questo tavolo, siamo in pensione e ci siamo liberati dalla inutile farragine delle formule, dei protocolli, delle scribacchiature, delle leggi e di tutta quella robaccia che opprime le nostre aule di tribunale. Noi giudichiamo senza alcun riguardo alla meschinità dei codici e dei paragrafi”. L’altro da “Il sospetto”: “La legge è la legge. X = X. La frase più spaventosa che sia mai salita verso quel cielo eternamente sanguinante, eternamente notturno che sta appeso sopra di noi. Come se esistesse una determinazione indipendente dalla forza e dal potere che ciascuno detiene! La legge non è la legge, la legge è il potere”.
Chiudiamo l'Italia, comandano i giudici. Tempo fa proposi provocatoriamente di chiudere Montecitorio, Palazzo Madama e perfino Palazzo Chigi, delegando tutto il potere - legislativo ed esecutivo - al Quirinale. In tempi di spending review forse si può fare qualche cosa di meglio e cioè chiudere anche la presidenza della Repubblica, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Tirando giù le serrande di parlamento, governo e anche dell'edificio che ospita il capo dello stato risparmieremmo circa 2,5 miliardi di euro l'anno, più o meno ciò che Renzi recupera da Iva e banche, con la differenza che il taglio non sarebbe una tantum, ma definitivo. Pensate un po': non esisterebbe più neppure il parametro dei 239 mila euro cui fermarsi per limare gli stipendi dei manager pubblici (a proposito, ma a 88 anni Napolitano ha ancora bisogno di un simile appannaggio? Non potrebbe fare il beau geste di rinunciarvi, accontentandosi della pensione?) e dunque i boiardi potrebbero essere pagati ancor meno e gli italiani si risparmierebbero un sacco di complicazioni burocratiche che i Palazzi del potere partoriscono ogni giorno. Proposta provocatoria? Mica tanto. Del resto a che serve il baraccone istituzionale che ci teniamo da oltre sessant'anni? In fondo ormai in questo paese decidono tutto i giudici, dunque meglio cambiare la Costituzione e stabilire che la Repubblica è fondata non sul lavoro ma sulla magistratura, ordinaria, amministrativa e perfino speciale. Esagerazioni? Macché: nei fatti è già così. Prendete ciò che è successo in questi giorni, a cominciare dalla vicenda che riguarda Silvio Berlusconi. Il destino di una forza politica che è stata fino a ieri maggioranza nel Paese e ad oggi è un elemento determinante della vita politica e del processo di riforme della Repubblica è in mano alle toghe. Tocca a loro decidere per il pollice verso, ovvero per il divieto al Cavaliere (ex) di fare politica. Loro, non gli elettori saranno determinanti nella decisione che riguarderà l'uomo politico che ha guidato l'Italia per anni. E, sempre loro, stabiliranno se gli italiani potranno sentire il loro leader o vederlo impegnato nella prossima campagna elettorale. Si dirà, Berlusconi è stato condannato e la giustizia fa il suo corso. Vero, ma chissà perché quando si tratta del leader del centrodestra è un corso che viene percorso in fretta, tanto in fretta che perfino il direttore del Fatto quotidiano ha suggerito di rallentare, rinviando ogni decisione a dopo le elezioni europee. Ma tant'è. Il Cavaliere ha quasi settantotto anni, è un pericoloso criminale e non si può lasciare a piede libero, pena il rischio che reiteri il reato e rivinca le elezioni. Ma non è tutto. A conferma che la nostra è una Repubblica giudiziaria ci sono altri fatti. Il primo è quello che riguarda la decisione della Corte costituzionale sulla fecondazione eterologa. Siccome il Parlamento in passato aveva approvato una legislazione restrittiva, ci hanno pensato i supremi giudici a renderla più ampia. Via i divieti e fecondazione assistita per tutti. Chi se ne importa delle decisioni dei rappresentanti del popolo, quelli che contano sono i rappresentanti della Consulta, i quali ormai si sono sostituiti al Parlamento, bocciando e modificando tutto ciò che non gli garba. A ciò si aggiunge che le toghe, massime o minime non fa differenza, non modificano soltanto le norme che riguardano principi etici come il dono della vita e la possibilità di procreare secondo natura, ma mettono mano anche altrove, ad esempio su coppie di fatto e matrimoni gay. Camera e Senato si attardano e non approvano la legge che consente la regolarizzazione delle unioni omosessuali (per altro provvedimento che dovrebbe essere preso al più presto, proprio per evitare che la giustizia faccia da sè)? Niente paura, ci pensa il giudice, che ordina al comune di registrare le nozze fra due uomini celebrate all'estero. La legislazione italiana non lo consente? Fa nulla, il giudice dispone l'ordinanza e se il comune si opporrà a decidere sarà la Corte costituzionale, cioè quelli della fecondazione eterologa e il Parlamento si adeguerà. Altra dimostrazione? La faccenda Emirates che raccontiamo oggi su Libero. La compagnia araba decide di scommettere sull'Italia e di inaugurare un volo Roma-New York, ma alla concorrenza non piace, così - in barba agli inviti agli stranieri a venire a investire nel nostro paese - interviene il Tar, che sospende il volo e lascia a terra gli aerei di Dubai. E poi dicono non sia vero che la giustizia tarpa le ali all'Italia. All'Alitalia no, ma alla Emirates si. Potremmo continuare per pagine e pagine a raccontarvi di sentenze che scavalcano le leggi e cambiano le carte in tavola: dall’eutanasia (vedi caso Eluana) ai rapporti tra famigliari. Ma ci siamo capiti. Dunque, visto che comandano i giudici e che decidono loro sia in materia di leggi, che di politica e concorrenza, meglio darci un taglio. Resteremo sempre sudditi, ma almeno avremo la consolazione di risparmiare due miliardi e mezzo. Giudicate voi se è poco.
GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.
Giustizia e politica “Made in Sud”, scrive Giuseppe Mele su “l’Opinione”. È vero, come ricorda Giacalone, che negli ultimi decenni hanno governato uomini e donne del Nord. Non è una novità. In un secolo e mezzo, poche sono state le eccezioni (Moro, Nitti, Crispi, De Mita, Leone, D’Alema, Segni, Orlando, Salandra, Cossiga). D’altro canto, l’impressione che lo Stato e la sua burocrazia siano ampiamente meridionalizzati e borbonici è una solida realtà. La partitica apicale è nordista, ora come agli inizi di Cavour, Rattazzi e Ricasoli. La mentalità dello Stato nelle sue branche centrali e locali è, invece, meridionale. Simbolo e vertice di questa mentalità è la giustizia, dove la maggioranza dei 10mila togati proviene da sotto il Tevere. Dopo un lungo periodo di mitizzazione, in cui la magistratura è apparsa rivestire i superpoteri dei fumetti della Marvel, questa leadership è stata consacrata al secondo ruolo istituzionale del Paese. Tale secondo potere, meridionale, del Paese, conduce con successo, da un trentennio, una guerra interna, dall’alto di una sorte di opricnina, un governo a latere, svincolato dal resto dell’ordinamento. Forte di questa indipendenza, ha promosso al massimo grado tutti i difetti intellettuali, che da un certo punto di vista sono tradizionalmente caratteristici proprio della borghesia mediterranea, dall’azzeccagarbuglismo all’amore per le grida spagnole, dall’istigazione alla litigiosità spicciola, dall’ampio familismo all’interpretazione di tutta la vita sociale secondo i canoni delle regioni più arretrate dell’arretrato Sud, alla consuetudine della pluralità di incarichi, al controllo totale della gestione burocratica della grazia e della giustizia, oltre che delle carceri. Ogni anno i vertici togati a livello centrale e periferico con piacere sarcastico snocciolano i dati di un triste fallimento. Lo fanno con foga e passione, come se la gestione e dunque la responsabilità non fosse loro. La giustizia è di per sé tra le macchine pubbliche meno costose, anche per il numero limitato di personale coinvolto. I magistrati erano nel 1980 quasi 7mila e oggi sono quasi 9mila (con un picco di 9200 nel 2011), gli onorari sono 4mila, i giudici di pace 2300 (dopo il picco del 2002 di 4200). A questi 15mila si aggiungono 40mila secondini (nel 1980 erano 14mila) e 47mila impiegati (23mila nel 1979, con un picco di 54mila nel 2001). Centomila addetti per una giustizia che costa 7 miliardi (2013), l’1,30% del bilancio rispetto allo 0,85% del 1980 (con un picco di quasi 9 miliardi nel 2009). La Francia spende la metà, la Germania il doppio. Invece sulle carceri l’Italia spende il doppio dei due Paesi europei, malgrado che la quota relativa di spesa sia scesa dalla metà al 40%. I detenuti d’altra parte sono raddoppiati, da 30mila a 66mila, soprattutto per l’aumento esponenziale di quelli in attesa di giudizio. Prima i condannati erano 27mila, la grande maggioranza; ora lo sono solo 38mila detenuti. Il 43% della popolazione carceraria non è ai sensi di legge colpevole. Il disastro massimo sta nei processi in corso, non smaltiti, 2,7 milioni civili e 5 milioni penali, in trent’anni cresciuti di tre volte dai 1,3 e 1,3 milioni del 1980. Processi della durata di 8 e 5 anni medi, secondo una prudente ricostruzione degli uffici del Senato, molto più lunghi secondo i dati europei. Com’è noto sul settore giustizia l’Italia viene sistematicamente condannata, sia per le violazioni dei diritti degli accusati che per l’uso del carcere come strumento di tortura; le condanne sono saldate in termini di miliardi, sia come risarcimento a detenuti che come multe a Bruxelles, dall’erario. Le uniche giustificazioni plausibili a questo status disastroso stanno nel naturale alto tasso di litigiosità, il cui record è diviso tra Roma e Madrid e nel limitato numero di togati, inclusi i non professionisti, che sono in Italia 16 ogni 100mila abitanti, 55 in Francia e 154 in Germania. D’altro lato, negli altri Paesi europei la conciliazione è un’alternativa effettiva e cogente rispetto al tribunale, che invece in Italia resta l’unico sbocco reale delle controversie. La malandata situazione nei decenni ha prodotto tentativi di riforma, polemiche politiche al calor bianco e referendum anti-toga. Per parte propria l’associazione nazionale togata si è asserragliata nel fortino catilinario dell’etica, con intercambiabili alleati sia di sinistra che di destra, dando più volte l’assalto alla partitica, addirittura con un proprio partito delle procure, giungendo nei momenti di maggiore difficoltà ad appellarsi anche all’Onu per i “progetti di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che vogliono sminuirne l’indipendenza”. Neanche si trattasse di una minoranza etnica o repubblica autonoma. Mai un dubbio che lo “sfacelo giustizia” sia conseguenza delle modalità di gestione e, in ultima analisi, della stessa visione economica e sociale della vita del Paese. Non c’è aspetto e attore economico, industriale, istituzionale, finanziario, tecnologico, sindacale, politico che non sia stato in questi decenni pesantemente influenzato, artefatto, sconvolto, drogato, salvato, cancellato dall’indipendenza togata, al punto che per controbilanciarne gli effetti ci vorrebbe un apposito Antitrust. L’assolutismo togato, sciolto da qualunque limite, sorse quasi per caso, sullo scalino della scaletta che doveva portare l’ultimo re in esilio. Non fu la Repubblica, né la Resistenza e neppure il primissimo ministro di Giustizia nel II e del III Governo De Gasperi, il comunista Fausto Gullo per il quale l’obbligo era mandare assolte le vendette di Bube e fratelli. L’assolutismo togato fu un regalo, un bon bon regale del “re di maggio”, probabile padre dell’attuale monarca quirinalizio. L’ultimo e unico atto legislativo di Umberto, consumatosi il 31 maggio del 1946, fu la legge delle guarentigie, che vennero estese, oltre al Papa ed ai Vescovi, anche ai magistrati, resi inamovibili e indipendenti dal relativo ministero. Un caso unico in Europa. All’epoca, si volle considerare il provvedimento come una rivalsa anticipata alla grande amnistia attuata un mese dopo, che mandò liberi mandanti e autori della mattanza dei 50mila in odore di fascisti. Si immaginava che la Costituente avrebbe cassato la strana norma che poneva 20mila dipendenti dello Stato su un altro pianeta. Cattolici e comunisti non avevano una buona opinione dei togati, né della loro associazione che, anche se sciolta dal fascismo, appariva una congrega massonica, governativa, conservatrice, meridionale, impegnata in una guerra civile meridionale di cui i maxi processi antimafia erano caratteristica costante da quelli di Viterbo del 1912 (e poi del 1952). In fase di redazione, a difendere la drole de loi fu uno capi dei laici, il leader repubblicano Conti, che aveva passato gli anni del regime da un cielo a scacchi all’altro ed era uno degli ultimi per i quali “Repubblica” era sinonimo di eversione al sistema. La Malfa senior, invece, aveva passato gli anni fascisti con Mattioli da direttore dell’ufficio studi della Banca Commerciale ed in Treccani da seguace dell’ideologo, mezzo rosso e mezzo nero, del corporativismo Spirito. Siciliano, La Malfa aveva seguito l’oro dei consigli materni, che l’aveva indirizzato al disprezzo per le terre natali e alla carriera di successo nella finanza al nord. Di fronte al collega di partito Conti (che dopo la prodezza scomparve dalla storia patria) e alle sue vere stimmate carcerarie, il repubblicano siciliano tacque. Così il partito più filoamericano italiano si rese responsabile di sostenere le ubbie corporative di quelle terre meridionali, temute come un gorgo passatista capace di risucchiare in sé ogni progresso. Questa è stata d’altronde la storia degli uomini più intelligenti, più preparati, più autorevoli; dei laici, da Croce a La Malfa, dai liberali agli azionisti, fino ai Bobbio ed al partito Repubblica; la storia del continuo tradimento del proprio campo naturale, la storia della guerra alla parte migliore del Paese e ai programmi più evoluti. Una storia rovesciata che tutt’oggi rimpiange d’essere stata “ingenua” e di non essere riuscita “tra il 1992 e il 1994, con 1408 condanne definitive, ad estirpare dal potere la corruzione”. Parola del già senatore casertano Ds e Pd (2006 e 2008) Gerardo D’Ambrosio, magistrato tra il 1957 ed il 2002, capace di assolvere la polizia per il malore attivo dell’anarchico Pinelli, il Pci per il terrorismo rosso ed i finanziamenti, Pisapia dall’ex comunismo ma non Freda e Ventura, non Calvi, non la Parenti che indagava sul tesoriere Pds, non Mastella, reo di indulto nel luglio 2006 e di calcoli sbagliati (uscirono 25mila detenuti e non 12mila). Condoglianze a D’Ambrosio, testé deceduto, simbolo di un’epoca, di una generazione e di un potere che perpetua i suoi difetti, contraddittoriamente ossessionato dal disinteresse per la terra natia e da un improbabile atlantismo di sinistra, dalla fede nell’opulento occidentalismo e nell’oscuro dirigismo austero e sparagnino dell’anticapitalismo della burocrazia e dell’usura. Che mantiene stile, buona educazione e distinzione. Senza che ciò basti, come ricordano gli imputati suicidi e gli attori economici travolti, ad ottenere un titolo di galantuomo.
COLPEVOLE DI ESSERE INNOCENTE.
Colpevole di essere innocente. «E dovete sperare bene anche voi, o giudici, dinanzi alla morte e credere fermamente che a colui che è buono non può accadere nulla di male, né da vivo né da morto, e che gli Dei si prenderanno cura della sua sorte. Quel che a me è avvenuto ora non è stato così per caso, poiché vedo che il morire e l’essere liberato dalle angustie del mondo era per me il meglio. Per questo non mi ha contrariato l’avvertimento divino ed io non sono affatto in collera con quelli che mi hanno votato contro e con i miei accusatori, sebbene costoro non mi avessero votato contro con questa intenzione, ma credendo invece di farmi del male. E in questo essi sono da biasimare». Si chiamava Socrate, era nato ad Atene nel 469 a.C. da Sofronisco, abile scultore, e Fenarete, apprezzata levatrice. Fu coraggioso combattente, eroe di guerra, membro del Consiglio dei Cinquecento, filosofo e bevitore. Morì innocente. Condannato dai giudici che sapevano di condannare un innocente, scrive Nino Spirlì. Ah, quanto bene scrisse di lui il Grande Platone. Quanti insegnamenti, da un condannato. Eppure… Fosse stato per i suoi concittadini e, soprattutto, per coloro che lo trascinarono in tribunale, noi posteri non avremmo dovuto nemmeno conoscerlo, quel nome. Invece, Socrate ha cavalcato e cavalcherà i secoli, mentre di loro, di quegli infami, non resta ricordo. Sappiamo solo che quella massa senza nome si fece rappresentare da un certo Meleto, poetucolo di piccola fama, pubblico accusatore, che ebbe al proprio fianco un cuoiaio, Anito, e un demagogo, Licone. L’accusa? Socrate corrompe i giovani, offende gli dei della città e ne crea di nuovi. La verità? Socrate spingeva il popolo a pensare, a chiedersi il perché, a rileggere la propria esistenza, partendo dall’assunto “So di non sapere”. E questo lo rendeva nemico del Potere. Perché, di per sé, era Potere. La Libertà è, infatti, la sola Forza della Natura. E, dunque, esercitarla, goderla, ricercarla, e offrirla è già una dichiarazione di guerra verso il Palazzo. Con Socrate, e con molti dopo di Lui, non è mai stata in pericolo la democrazia, ma il Potere sì. Perché la democrazia è voce di popolo, mentre il Palazzo è terrore e mistero. Segreti e interessi. Poteva, il Palazzo di quel tempo, e può, Quello di oggi, sopportare che esistano Uomini Liberi, non assoggettati, mai schiavi delle logiche di potere? Sarebbe un suicidio del Palazzo stesso. Una sorta di condanna a morte. E, quindi, il processo, fra tanti, al Giusto. Che accetta la condanna, nel rispetto della Legge, pur conoscendo la propria innocenza. Che decide di non scappare. Di scontare la pena, per non dover mortificare il proprio pensiero sul doveroso rispetto di quella Legge. Che beve la cicuta, amaro calice, croce divina, per amore di Verità. E’ la storia di certi processi. Da Socrate in poi, passando per Gerusalemme, fino a noi.
CHE INGIUSTIZIA PERO'!!! DAI CARABINIERI ENTRI VIVO E NE ESCI MORTO O SCONTI LA PENA NELLA CELLA ZERO.
Varese, il tribunale riapre il caso Uva: "Processate per omicidio poliziotti e carabinieri". Il gip ha respinto la richiesta di archiviazione e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia dell'operaio che morì in ospedale, nel giugno del 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore dai carabinieri, scrive Sandro De Riccardis su “La Repubblica”. Giuseppe Uva Il caso Uva non è chiuso. C'è ancora la speranza di arrivare alla verità sul decesso di Giuseppe Uva, l'operaio di 43 anni morto al pronto soccorso dell'ospedale di Varese, il 14 giugno 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore nella caserma dei carabinieri. Il giudice delle indagini preliminari Giuseppe Battarino ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dai pm Agostino Abate e Sara Arduini e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia, che tramite l'avvocato Fabio Anselmo e Alessandra Piva chiedevano nuove indagini, soprattutto sui fatti accaduti in caserma, e un nuovo processo. Il gip ha stabilito l'imputazione coatta di tutti gli imputati per omicidio preterintenzionale (più altri reati minori). Già il tribunale monocratico di Varese assolvendo il medico del pronto soccorso, Carlo Fraticelli, indagato per omicidio colposo, aveva demolito l'impianto accusatorio della Procura, chiedendo che si cercasse la verità non sul comportamento dei medici del pronto soccorso, ma nelle tre ore precedenti trascorse dalla vittima nella caserma dei carabinieri. Una pista mai battuta dal pm Abate, che non ha sentito l'unico testimone portato in caserma insieme con Uva, Alberto Biggioggero, l'amico del 'Pino'. Biggioggero è stato interrogato solo poche settimane fa da Abate, a cinque anni dalla tragedia, lo scorso 26 novembre 2013, e solo dopo che il ministero della Giustizia aveva presentato richiesta di azione disciplinare. Poi anche la Procura generale della Cassazione aveva stigmatizzato il comportamento del pm Abate, che aveva chiesto l'archiviazione degli otto fra agenti di polizia e carabinieri indagati per lesioni personali, iscritti in un nuovo fascicolo. Nella sentenza con cui aveva assolto il medico, il tribunale aveva chiesto di indagare sulla caserma "perché tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti all'interno della stazione dei carabinieri" e ignoti sono "i fatti nella stazione dei carabinieri al cui esito Uva, che mai aveva avuto problemi psichiatrici, verrà ritenuto necessitare di un tso", il trattamento sanitario obbligatorio. E proprio Biggioggero aveva raccontato di "un viavai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Giuseppe che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo. Urla per circa un'ora e mezzo". Dalla caserma, Uva arriva al pronto soccorso alle 6 di mattina e prende i farmaci che - secondo la Procura - lo portano alla morte. Per il tribunale però le quantità somministrate "sono assolutamente inidonee a causare il decesso". Restano senza risposta invece i tanti interrogativi di quella notte: quali traumi hanno provocato il sangue sui jeans Rams di Uva "fra il cavallo e la zona anale"? Chi ha fatto sparire gli slip di Uva, rimasto con "un pannolone e una maglietta"? Perché le scarpe sono "visibilmente consumate" davanti - mette a verbale il poliziotto in servizio in ospedale - come per "un'estenuante difesa a oltranza dell'uomo"? Interrogativi a cui la nuova inchiesta, con tutti gli ostacoli legati al tempo trascorso, potrebbe dare una risposta.
Da tempo i familiari dell'artigiano, 43 anni, morto il 14 giugno 2008, denunciavano che aveva subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l'allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero titolare dell'indagine. Il giudice: "E' stato percosso", scrive Il Fatto Quotidiano. Il giudice per le indagini preliminari di Varese Giuseppe Battarino ha ordinato l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale e arresto illegale degli otto rappresentanti delle forze dell’ordine, due carabinieri e sei agenti di polizia, indagati in relazione al caso di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno 2008 all’ospedale di Varese dopo avere trascorso parte della notte nella caserma dell’Arma. Per il giudice Uva “è stato percosso da uno o più dei presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali”. La morte sarebbe quindi “causamente connessa in particolare con la prolungata costrizione fisica associata a singoli atti aggressivi e contenitivi”. Il giudice nel corso dell’udienza ha respinto quindi la richiesta di archiviazione presentata del pm di Varese Agostino Abate. Secondo i familiari, Uva avrebbe subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l’allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero. Uva, 43 anni, venne fermato dai carabinieri a Varese assieme a un amico perché, a detta dei militari, i due – ubriachi – stavano chiudendo una strada con alcune transenne. Accompagnati in caserma, l’artigiano venne interrogato mentre l’amico aspettava in un’altra stanza. E fu proprio lui a chiamare, di nascosto, l’ambulanza del 118 poco dopo. Perché, a suo dire, dalla camera dell’interrogatorio si sentivano le urla di Giuseppe, chiari segnali di un pestaggio. Uva giunse nel reparto psichiatrico dell’ospedale varesotto alle 5,45 del mattino, alle 10,30 morì. La famiglia denunciò subito quelle che sembravano lesioni provocate da violente percosse. Tra l’altro l’uomo indossava un pannolino sporco di sangue e dei suoi slip non c’era traccia. “Gli infermieri mi dissero che l’avevano dovuto lavare – raccontò a suo tempo Lucia –. Ma lavare da cosa, visto che mio fratello era uscito di casa pulito?”. A dare la svolta a questa vicenda è stata di fatto l’assoluzione, il 24 aprile 2012, di tre medici. Il giudice assolvendo i tre camici bianchi aveva ordinato “la trasmissione degli atti al pubblico ministero in sede, con riferimento agli accadimenti occorsi tra l’arresto dei carabinieri e l’ingresso di Giuseppe Uva nel pronto soccorso dell’ospedale”. In seguito alla decisione del gip la Procura dovrà formulare entro 10 giorni la richiesta di rinvio a giudizio. Oltre all’omicidio preterintenzionale e all’arresto illegittimo il giudice ha ipotizzato anche l’accusa di abuso di autorità contro arrestati o detenuti. La sorella di Giuseppe Uva, Lucia, assistita dall’avvocato Fabio Anselmo, ha esultato dopo la lettura dell’ordinanza. “Finalmente la verità sta venendo a galla – ha spiegato commossa – ora chiediamo che il caso venga affidato a un nuovo pm”. “Finalmente, dopo sei anni di occultamento della verità a opera del pubblico ministero, Agostino Abate, incomincia a emergere, nella maniera più nitida, la verità sulla morte di Giuseppe Uva. Il giudice per le indagini preliminari ha deciso per l’imputazione coatta nei confronti dei due carabinieri e dei sei poliziotti che si trovavano nella caserma di Varese dove, per quasi tre ore, è stato trattenuto illegalmente Giuseppe Uva” dice il presidente della commissione per la Tutela dei diritti umani Luigi Manconi. “Anni di menzogne – aggiunge – vengono finalmente ribaltate e ciò si deve all’intelligenza e alla tenacia di Lucia e degli altri familiari di Uva e alla loro fiducia nella giustizia”. “Siamo sorpresi – ha spiegato Luca Marsico, legale dei poliziotti e dei carabinieri – mi lascia perplesso la pesantezza delle accuse ipotizzate nei confronti dei miei assistiti, mai contestate in altri casi simili”.
LA CELLA ZERO.
Poggioreale, l'incubo "cella zero". Le denunce sui pestaggi dei detenuti. Dopo l'inchiesta dell'Espresso di qualche mese fa, con il racconto di un ex detenuto su botte e minacce ricevute da un gruppo di guardie carcerarie, ora sono diventate oltre cinquanta le confessioni raccolte dai magistrati napoletani sui maltrattamenti nella famigerata "cella zero", scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. C’è “melella”, che si è guadagnato questo soprannome perché “quando beve le guance gli diventano rosse come due mele mature”. C’è “ciondolino”, che quando arriva nelle celle, a notte fonda, lo riconosci da lontano per via di quel tintinnio “proveniente da un voluminoso mazzo di chiavi che gli ciondola attaccato ai pantaloni”. Poi c’è “piccolo boss”. Non è molto alto di statura, è silenzioso, però “picchia forte e zittisce tutti”. Insieme sono “la squadretta della Uno bianca”. Almeno, è così che li chiamano i carcerati di Poggioreale, il carcere di Napoli. In memoria di un terribile caso di cronaca nera degli anni Novanta. Solo che in questa vicenda i protagonisti non sono feroci killer che vestono la divisa della polizia di Stato ma un piccolo gruppo di agenti della penitenziaria che – secondo le testimonianze di alcuni detenuti – si sarebbe reso responsabile di ripetuti pestaggi notturni, minacce, vessazioni e umiliazioni nei confronti dei carcerati “disobbedienti”. Rinchiusi nudi e al buio per ore intere, in una cella completamente spoglia ribattezzata la “cella zero”. Sono salite a 56 le denunce dei detenuti del penitenziario napoletano che hanno messo nero su bianco, davanti ai magistrati della Procura di Napoli, le presunte violenze subite dietro le mura di una delle carceri più sovraffollate d’Europa. La punta di un iceberg fatto di sistematiche violazioni dei diritti umani che l’Espresso aveva documentato già lo scorso gennaio , riportando tra l’altro la testimonianza esclusiva di una delle vittime, un ex detenuto di 42 anni che ha riferito di aver subito durante la sua permanenza di cella “pestaggi e trattamenti disumani in una cella con le pareti sporche di sangue”. Il corposo dossier presentato due mesi fa dal garante dei detenuti della regione Campania, Adriana Tocco, nel frattempo si è dunque arricchito di decine di altre testimonianze, sempre più drammatiche e sempre più ricche di dettagli. Per l’esattezza, si tratta di 50 nuove denunce e altri 6 esposti, contenute in due diversi fascicoli che ora sono al vaglio dei procuratori aggiunti Gianni Melillo e Alfonso D’Avino. Un’inchiesta, questa, che potrebbe far vacillare i vertici dell’istituto penitenziario partenopeo e gettare nell’imbarazzo l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, proprio alla luce dell’ennesima stroncatura ricevuta pochi giorni fa dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, con la quale Strasburgo ha mandato a dire al nostro Paese – senza tanti giri di parole – che i provvedimenti presi finora dall’Italia per sanare la piaga carceri (il recente decreto approvato da Camera e Senato) sono insufficienti a riabilitare il nostro sistema carcerario. E così a maggio il nostro Paese – condannato un anno fa con la storica sentenza Torreggiani – potrebbe vedersi costretto a pagare una maxi multa. Le deposizioni dei detenuti ed ex detenuti napoletani, intanto, sono già iniziate e continueranno anche nelle prossime settimane. Testimonianze ancora tutte da verificare, questo è certo, ma che per ora sembrano dipingere un abisso di soprusi e vessazioni. Nei loro racconti davanti alle toghe i carcerati ricostruiscono la punizione della “cella zero” – una cella completamente vuota che si trova al piano terra del carcere - con tanto di linguaggi in codice da parte del gruppo di agenti che avrebbe preso parte alle violenze. Un gruppo ristretto di “mele marce”, visto che a onore del vero la maggior parte dei poliziotti in forza al carcere partenopeo viene descritta dagli stessi detenuti come “sana” e composta da agenti coscienziosi e votati al sacrificio che non si risparmiano con ore e ore di straordinari in condizioni usuranti. Questa piccola squadretta, invece, avrebbe compiuto negli ultimi anni abusi di potere continui. “La punizione della cella zero”, raccontano i detenuti nelle loro denunce, “consiste nell’essere confinati in una cella isolata, completamente vuota, nudi e al buio, per intere ore, sottoposti a pestaggi e minacce”. Poi c’è qualche terribile eccezione. Uno dei detenuti che ha da poco presentato un esposto davanti ai magistrati napoletani, infatti, un ragazzo italiano di 35 anni finito in carcere per reati di droga, racconta di essere stato rinchiuso nella cella zero “tre giorni consecutivi”. La dinamica appare la stessa per tutti i detenuti. “Ci portano lì dentro di notte, quando molti di noi già dormono”, raccontano, “e ci picchiano uno per volta”. “Tempo fa”, mette nero su bianco un ex detenuto, “ci hanno portati lì in otto, ma poi il ‘trattamento’ è stato fatto uno per volta”. Già, ma in cosa consiste – esattamente – questo “trattamento”? I detenuti lo raccontano con tragica naturalezza. Innanzitutto, parte l’ordine: Scinne a ‘stu detenuto, “fai scendere questo detenuto”. In pochi minuti, il prescelto viene portato nella cella zero, e viene spogliato di tutto. La cella è umida, vuota, ha le pareti e il pavimento sporche “di sangue ed escrementi”. A questo punto secondo i racconti partirebbero le percosse. “Ci picchiano a mani nude o con uno straccio bagnato, per non lasciare segni sul corpo”, verbalizza nella sua denuncia uno dei detenuti, “alcuni di loro hanno in mano un manganello, ma lo usano solo per spaventarci”. Mentre incassano le botte, i detenuti iniziano a sanguinare. La paura di entrare in contatto con liquidi infetti è enorme. Ecco perché “tutti gli agenti mentre picchiano indossano guanti di lattice”. Ai pestaggi seguirebbero quindi le minacce. Racconta un detenuto: “Uno di loro mi ha detto: “se provi a riferire quello che hai visto te la faccio pagare’”. Quindi, a botte concluse, da parte degli agenti della penitenziaria arriverebbe anche un’offerta: “Vuoi andare a farti medicare in infermeria?”. “Inutile aggiungere che nessuno di noi ha il coraggio di farsi portare dagli infermieri ma sopporta il dolore in silenzio”, racconta uno dei detenuti negli esposti, “o al limite si fa medicare alla meno peggio dai compagni di cella”. La squadretta secondo i detenuti sarebbe composta da tre o quattro agenti, ai quali i carcerati hanno assegnato appunto diversi soprannomi. Come “ciondolino”, “melella”, “piccolo boss”. Tutti riconoscibilissimi, visto che avrebbero agito a volto scoperto. Questo è il motivo per cui i magistrati napoletani vogliono proteggere con grande discrezione l’identità dei testimoni in attesa di verificare che le loro accuse siano attendibili, precise e concordanti. Anche confrontando la cronologia dei presunti pestaggi subiti dai detenuti con i fogli di turno e i registri di presenza degli agenti. Di sicuro, secondo i racconti dei detenuti, a far divampare la rabbia delle “guardie” basterebbe un pretesto. Una risposta sbagliata, un atto di disobbedienza, un banale battibecco. Ed eccoli scaraventati nell’inferno “cella zero”. Uno scenario nero che nelle prossime settimane potrebbe arricchirsi di nuove testimonianze e accuse e che quasi certamente culminerà con un’ispezione carceraria a Poggioreale.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti.
IL CARCERE E LA GUERRA DELLE BOTTE.
Detenuto registra frasi shock: "Le botte ti saranno utili, la Costituzione non vale in questo carcere". Le parole degli agenti penitenziari: "Tanto da qui tu e gli altri uscirete più delinquenti di prima", scrive Maria Novella De Luca il 04 dicembre 2015 su “La Repubblica”. "Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?". "Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c'è bisogno che ti picchio anch'io". Botte. E ancora botte. Sevizie. Perché con i detenuti, parole di agente penitenziario, "ci vogliono il bastone e la carota". Un giorno di pugni e l'altro no, "così si ottengono risultati ottimi". E la paura tiene buoni. Lividi, percosse, le ossa rotte, inutile nascondersi sotto la branda. Tanto "il detenuto esce dal carcere più delinquente di prima", e, dice ancora il brigadiere, "non perché piglia gli schiaffi, ma perché è proprio il carcere che non funziona". La registrazione è così nitida da far sentire il freddo sulla pelle. Chi parla è Rachid Assarag, detenuto marocchino quarantenne, che sta scontando una pena di 9 anni e 4 mesi nelle carceri italiane. E chi risponde sono gli agenti, ora di un penitenziario ora di un altro. La conversazione è una testimonianza agghiacciante di quanto succede nei nostri istituti penitenziari. Dove il detenuto Rachid (condannato per violenze sessuali) viene ripetutamente picchiato e umiliato dagli agenti addetti alla sua custodia. La prima volta nel carcere di Parma, racconta Rachid, dove in quattro (guardie) lo seviziano con la stampella a cui si appoggiava per camminare. Lui denuncia, ma chi crede alle parole di un detenuto? Così Rachid, assistito dall'avvocato Fabio Anselmo, mentre viene trasferito in undici carceri diverse dal 2009 (Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella), inizia a registrare tutto. Conversazioni con la polizia penitenziaria, medici, operatori e magistrati. Voci dall'inferno. Come quando le guardie entrano nella sua cella per "scassarlo" di botte, o il sovrintendente ammette: "questo carcere è fuorilegge, dovrebbe essere chiuso da 20 anni, se fosse applicata la Costituzione". Agente con accento napoletano: "Mi hai fatto esaurire, ti sei anche nascosto sotto il letto". Rachid: "Perché mi volevate picchiare". "Se ti volevamo picchiare era più facile che ti prendevamo e ti portavamo giù". Giù. Dove forse nessuno sente e nessuno vede. Sono le botte la rieducazione, come dice chiaramente qualcuno che Rachid chiama "brigadiere". Probabilmente un sovrintendente della polizia penitenziaria. Rachid registra e registra. Incalza anche: "Voi qui non applicate la Costituzione". La risposta del brigadiere (lo stesso che teorizzava una seconda razione di botte per Rachid che chiedeva "fermati" all'agente che lo stava picchiando) è incredibile: "Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent'anni. In questo carcere la Costituzione non c'entra niente...". Le registrazioni di Rachid escono dal carcere, e l'associazione "A buon diritto" di cui è presidente Luigi Manconi, decide di renderle pubbliche. Conversazioni acquisite dai magistrati, e che testimoniano quanto gli abusi sui detenuti siano una (atroce) prassi abituale nei nostri penitenziari. Dai quali, come ammettono gli stessi agenti "si esce più delinquenti di prima, ma non per gli schiaffi che prendono, o quantomeno non solo, ma perché è l'istituzione carcere che non funziona". Commenta Luigi Manconi, presidente, anche, della Commissione per i diritti umani: "Il carcere per sua natura e per sua struttura produce aggressività e violenza, e come dice il poliziotto penitenziario si trova in uno stato di permanente illegalità. Riformarlo è ormai un'impresa disperata. Si devono trovare soluzioni alternative". Rachid: "Devo uscire dal carcere più cattivo di prima? Dopo tutta questa violenza ricevuta, chi esce da qui poi torna". E il "superiore" invece di smentirlo difende l'uso della violenza come metodo rieducativo. "Le botte? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi". Tanto da dietro le sbarre nessuno parla, come dimostra il caso di Stefano Cucchi. Da anni Rachid Assarag registra e fa esposti. Ma quasi nulla accade. Anzi mentre le denunce degli agenti nei suoi confronti avanzano, quelle di Rachid si arenano. Assarag da un mese è in sciopero della fame, ha perso 18 chili. Di recente è stato di nuovo denunciato per aver bloccato le ruote della carrozzina in cui ormai viene trasportato, per aver insultato le guardie e rovesciato la branda in cella, "disturbando il riposo e le normali occupazioni degli altri detenuti". Rachid, qualunque sia il reato di cui un detenuto si è macchiato, testimonia con le sue registrazioni che nei penitenziari italiani la violenza è prassi. Scrive l'associazione "A buon diritto": "Se Assarag dovesse morire in carcere, nessuno potrebbe dire che non si è trattato di una morte annunciata".
A Parma un detenuto ha registrato di nascosto le guardie che parlano di pestaggi in cella: «Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi». Con minacce e intimidazioni, come si evince dalle registrazioni ottenute dall'Espresso, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso". La guardia carceraria si lascia andare: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu». Il medico del penitenziario è ancora più esplicito: «Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero... Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no... Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte». Parlano liberamente davanti a un detenuto che protesta per i pestaggi in cella, ignorando che l’uomo li sta registrando. E che adesso quei nastri entreranno a far parte di un processo per capire cosa accada in una delle carceri italiane, più volte condannate dalla Corte europea per il trattamento disumano dei reclusi. Tra pochi giorni a Roma si aprirà il processo d’appello sulla fine di Stefano Cucchi, il giovane stroncato in soli sette giorni di custodia cautelare dopo un arresto per droga. In aula al fianco della famiglia Cucchi ci sarà l’avvocato Fabio Anselmo, che ha condotto una contro-inchiesta sulla morte del giovane romano. E ora il penalista è convinto di potere documentare un altro grave caso di vessazioni in cella grazie ai nastri, rivelati in esclusiva da “l’Espresso”. Uno stralcio delle registrazione audio del detenuto nel carcere di Parma mentre parla con la guardia del pestaggio subito in cella. Tutti gli audio sono stati inviati in Procura dall'avvocato della vittima. Le registrazioni non sono opera di un Henry Brubaker, il direttore in incognito del film con Robert Redford, ma di un detenuto marocchino condannato a nove anni per violenza sessuale. Rachid Assarag tra il 2010 e il 2011 si trovava nel carcere di Parma. E qui sostiene di essere stato picchiato durante la detenzione. Per documentare le sue accuse, la moglie italiana gli ha consegnato un minuscolo apparecchio audio, che ha usato per incidere le conversazioni con il personale dell’istituto. La magistratura non si è ancora pronunciata: il suo esposto giace da molti mesi sulla scrivania dei pm di Parma. Invece la querela presentata contro di lui da alcune guardie per violenza e oltraggio si è rapidamente trasformata in processo. Ed è proprio questo giudizio che l’avvocato vuole sfruttare per ribaltare la situazione. Le trascrizioni degli audio raccolti all’interno del penitenziario - affidate a una società specializzata che lavora anche per l’autorità giudiziaria - sono impressionanti: presentano uno spaccato di violenza e omertà. Viene proclamata un’unica legge: «Se tu ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male...», spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: «Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata... Non credo che lei abbia il potere di cambiare niente». Nel penitenziario emiliano sono passati boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, lì si trova pure Marcello Dell’Utri. Provenzano in un colloquio con il figlio aveva accennato a «legnate» inferte in cella, ma un’ispezione del ministero non ha trovato riscontri. Ben diversa la sorte delle accuse mosse da Aldo Cagna, condannato a trent’anni per l’omicidio della sua ex fidanzata. Due agenti gli avrebbero inflitto un supplemento di pena, picchiandolo, schiaffeggiandolo, buttandolo giù dalle scale, gettandogli addosso candeggina. La Cassazione a giugno ha riconosciuto la responsabilità delle guardie, punendole con una sentenza a 14 mesi. Anche Rachid Assarag è dentro per un crimine “da infame”: ha stuprato due studentesse ventenni e per questo sarebbe stato picchiato, secondo le regole non scritte del carcere. Lui, straniero e stupratore, con un altro precedente per violenza contro le donne, non si sarebbe dovuto ribellare. L’unica ad ascoltarlo è stata la moglie, una trentenne di Como, che gli ha fatto avere il registratore. Nelle parole degli intercettati si intravede un sistema punitivo parallelo. Per cercare di documentarlo, il detenuto ha spinto gli agenti a parlare: «Sì, sì, va bene: tu sei entrato dopo. Ma io sento la tua mano sulla mia faccia e il tuo piede sulla mia schiena... Perché tutta questa violenza?!». Il funzionario replica laconico: «Perché ti devi comportare bene». Nei nastri si sente il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: «Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?». «Sì, ho visto», conferma la guardia. Denunciare però è inutile: «Comandiamo noi. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici», dichiara un agente: «Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...». L’avvocato Fabio Anselmo è convinto di potere dimostrare con i nastri il calvario: «Dopo il suo arrivo Rachid viene lasciato per tre giorni senza poter utilizzare l’acqua corrente; di questo parla con un assistente che pur condannando il comportamento tenuto dai colleghi, afferma che non testimonierà mai contro di loro». Neppure il medico è disposto a intervenire: «Se io faccio una cosa del genere oggi, mi complico solo la vita». Nonostante l’assenza di conferme giudiziarie, il legale ritiene che «a Parma i detenuti venivano ciclicamente sottoposti a violenza da parte degli agenti che non ne rispondono mai in quanto coperti da un sistema che intacca le funzioni della custodia e anche della loro cura sanitaria, perché i medici sono costretti a tacere se non vogliono subire ritorsioni». “L’Espresso” ha contattato il direttore dell’epoca, Silvio Di Gregorio, ora responsabile dell’ufficio del personale della polizia penitenziaria, che ha preferito non rilasciare dichiarazioni. I sindacati anche negli scorsi mesi hanno difeso la corretta gestione dell’istituto, chiedendo “alla politica” di prendere posizione in sostegno del difficile lavoro svolto nel penitenziario. Il rappresentante del Sappe ha forti perplessità sul metodo utilizzato dal detenuto nel ricercare le prove: «Mi sembra strano che possa aver registrato, nel carcere non è possibile avere niente di elettrico, non ci sono telefoni», dichiara Errico Maiorisi che si occupa della struttura emiliana. «La denuncia la può fare comunque, si vedrà chi ha ragione e chi ha torto. Poi per carità c’è qualche collega che può sbagliare e il detenuto può denunciare, ma mi sembra strano che si possa registrare». Insomma, le prossime udienze saranno decisive. Per ora è la parola di un detenuto contro quella di un gruppo di agenti. Con in più una manciata di audio.
La procura emiliana ha iscritto tra gli indagati alcuni poliziotti penitenziari per i presunti pestaggi subiti da un detenuto marocchino, che però aveva registrato le confessioni degli agenti: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu», ammetteva un poliziotto. Ecco gli audio in esclusiva acquisiti dalla magistratura, scrive ancora Giovanni Tizian su "L'Espresso". Un'inchiesta della magistratura fa tremare il super carcere di Parma dove sono detenuti alcuni tra i più importanti criminali italiani. I sospetti picchiatori in divisa che lavorano, o hanno lavorato, nel penitenziario emiliano adesso hanno un nome. I ripetuti pestaggi subiti da un detenuto, e rivelati in esclusiva l'anno scorso da “l'Espresso”, sono finiti in un fascicolo sulla scrivania del sostituto procuratore di Parma Emanuela Podda. Le ipotesi di reato vanno dalla calunnia alle lesioni al falso fino all'abuso metodi di correzione o di disciplina. In tutto gli indagati sono otto. Gli episodi di violenza sarebbero avvenuti tra il 2010 e il 2011 e sono stati denunciati dalla vittima, Rachid Assarag, condannato per violenza sessuale e attualmente detenuto a Sanremo. Decisive sono state le registrazioni fatte all'interno del carcere da Assarag e consegnate alla moglie. In quegli audio, pubblicati da “l'Espresso”, e acquisiti dai magistrati su richiesta dell'avvocato Fabio Anselmo, si sentono le voci degli agenti che ammettevano gli abusi. Uno stralcio delle registrazione audio del detenuto nel carcere di Parma mentre parla con la guardia del pestaggio subito in cella. Tutti gli audio sono stati inviati in Procura dall'avvocato della vittima. Il detenuto è stato già sentito dal pm. Un lungo confronto durante il quale ha riconosciuto da un album fotografico gli agenti che lo avrebbero picchiato. Da qui l'indagine ha fatto un passo ulteriore, e gli indagati ignoti sono diventati noti. A ogni volto è stato dato un nome. «Il n. 41 è colui che compare nella registrazione in cui dice che ne ha picchiati tanti e non ricorda se anche me; il n. 30 è colui che, dopo che gli altri mi avevano picchiato, mi ha dato la coperta e mi ha detto che non poteva fare nulla; il n. 91 è colui che è stato mandato dall'ispettore a convincermi a non fare la denuncia e che nelle registrazioni dice che non testimonierà mai contro il suo collega, anche se ha visto tutto; riconosco il n. 59 ed il n. 41 come due di coloro che mi hanno picchiato; il 59 ha usato la stampella per picchiarmi; ho parlato varie volte con il magistrato di sorveglianza, che sapeva tutto e non ha mai fatto nulla. Ho avuto con lei almeno quattro colloqui, due nella sala e due in cella». Nell'album fotografico mostrato ad Assarag durante l'interrogatorio ci sono facce che riconosce senza esitazione. Indica i presunti colpevoli e quelli che invece volevano aiutarlo, ma non lo hanno fatto per timore di ripercussioni. Violenza e omertà. Stesse sensazioni che emergono dall'ascolto delle registrazioni fatte da Rachid Assarag durante la detenzione a Parma. La prepotenza come metodo di rieducazione, per questo tra le ipotesi di reato c'è l'abuso di mezzi di correzione. A questa svolta si è arrivati grazie alle registrazioni effettuate in carcere da Assarag, che tra il 2010 e il 2011 si trovava nel carcere di Parma. E qui sostiene di essere stato picchiato durante la detenzione. Per documentare le sue accuse, la moglie italiana gli ha consegnato un minuscolo apparecchio audio, che ha usato per incidere le conversazioni con il personale dell’istituto. In quelle conversazioni alcune guardie ammettevano gli abusi: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu». Dopo la pubblicazione di questa frase e di molte altre, gli audio sono state acquisiti dalla procura. E ora ci sono i primi indagati. Le trascrizioni presentavano uno spaccato spaventoso. Come se all'interno delle celle esistesse un'unica legge, non scritta: «Se tu ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male...», spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: «Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata... Non credo che lei abbia il potere di cambiare niente». Dal super carcere di Parma sono passati boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, lì si trova pure Marcello Dell’Utri e da qualche tempo è arrivato anche Massimo Carminati. Provenzano in un colloquio con il figlio aveva accennato a «legnate» inferte in cella, ma un’ispezione del ministero non ha trovato riscontri. Ben diversa la sorte delle accuse mosse da Aldo Cagna, condannato a trent’anni per l’omicidio della sua ex fidanzata. Due agenti gli avrebbero inflitto un supplemento di pena, picchiandolo, schiaffeggiandolo, buttandolo giù dalle scale, gettandogli addosso candeggina. La Cassazione a giugno scorso ha riconosciuto la responsabilità delle guardie, punendole con una sentenza a 14 mesi. Anche Rachid Assarag è dentro per un crimine “da infame”: ha stuprato due studentesse ventenni e per questo sarebbe stato picchiato, secondo le regole non scritte del carcere. Lui, straniero e stupratore, con un altro precedente per violenza contro le donne, non si sarebbe dovuto ribellare. L’unica ad ascoltarlo è stata la moglie, una trentenne di Como, che gli ha fatto avere il registratore. Nelle parole degli intercettati si intravede un sistema punitivo parallelo. Per cercare di documentarlo, il detenuto ha spinto gli agenti a parlare: «Sì, sì, va bene: tu sei entrato dopo. Ma io sento la tua mano sulla mia faccia e il tuo piede sulla mia schiena... Perché tutta questa violenza?!». Il funzionario replica laconico: «Perché ti devi comportare bene». Nei nastri si sente, inoltre, il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: «Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?». «Sì, ho visto», conferma la guardia. La denuncia però si scontra contro un muro di gomma: «Comandiamo noi. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici», dichiara un agente: «Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...». Assarag è assistito dall'avvocato Fabio Anselmo (lo stesso del caso Cucchi e Aldrovandi), che è convinto di potere dimostrare con i nastri gli abusi subiti: «Dopo il suo arrivo Rachid viene lasciato per tre giorni senza poter utilizzare l’acqua corrente; di questo parla con un assistente che pur condannando il comportamento tenuto dai colleghi, afferma che non testimonierà mai contro di loro». Il legale, in una memoria, scrive: «A Parma i detenuti venivano ciclicamente sottoposti a violenza da parte degli agenti che non ne rispondono mai in quanto coperti da un sistema che intacca le funzioni della custodia e anche della loro cura sanitaria, perché i medici sono costretti a tacere se non vogliono subire ritorsioni». Nel frattempo Assarag con il piccolo apparecchio ha registrato altre confessioni e denunciato altre violenze subite nelle carceri in cui è stato traferito. Ma gli agenti hanno risposto con una controdenuncia. A Parma, ma anche a Prato e a Firenze Sollicciano. Gli esposti dei poliziotti hanno portato rapidamente a processo il detenuto con accuse di resistenza, violenza e calunnia. Ma durante quelle udienze, i giudici hanno accolto la richiesta della difesa di acquisire le registrazioni. Ora quelle voci e quelle confessioni sono al vaglio degli inquirenti toscani.
C’è un legale che difende le vittime degli abusi compiuti dalle forze dell’ordine. Ha molti nemici, ma sta scrivendo la storia dei diritti civili, scrive Roberto Saviano su "L'Espresso". Chi il primo ottobre scorso si fosse trovato in tribunale a Napoli, verso le 11 del mattino, avrebbe sentito un boato. Durante l’udienza del processo per l’omicidio di Davide Bifolco - il diciassettenne ucciso dal colpo di pistola sparato da un carabiniere il 5 settembre 2014 al Rione Traiano durante un inseguimento - alla lettura della ordinanza con la quale il giudice ha ordinato alla Procura un supplemento di indagine, chi era in aula ha esultato. Un amico mi ha chiamato in tempo reale, per dirmi quello che stava succedendo: l’euforia per una nuova possibilità in un processo che sembrava già scritto, nonostante alcune incongruenze degne di approfondimento. Il 19 novembre ci sarà la prossima udienza, a me, però, non interessa oggi parlare del processo, ma di un metodo. Il metodo è quello di Fabio Anselmo, di professione avvocato, legale della famiglia Bifolco. Ci sono tanti modi per fare il proprio lavoro, uno è farlo bene. Così, qualunque cosa facciate, riuscirete a lasciare il segno, a fare scuola. Ma non sarà facile, perché chi fa bene il proprio lavoro spesso finisce nel mirino di chi invece lo fa male. Spesso viene isolato, creduto mitomane, egocentrico, esagerato, soprattutto perché le uniche parole che restano sono quelle dei detrattori. Nell’immediato accade così, ma nel lungo termine, il livore lascia il posto a ciò che, mattone su mattone, si è costruito. Il 13 settembre 2014, immediatamente dopo l’omicidio Bifolco, Stefano Zurlo sul “Giornale” scrive un articolo su Fabio Anselmo. Il titolo è “L’avvocato che processa (in tv) i poliziotti”. Poi la parola passa a una vecchia conoscenza, Gianni Tonelli, segretario del Sap (Sindacato autonomo della Polizia): «Quando c’è un poliziotto nei guai, ecco che spunta lui. L’avvocato Fabio Anselmo. È come il prezzemolo. Per Aldrovandi. Per Cucchi. Per Uva». Il Sap è sempre in prima linea nel difendere poliziotti accusati di crimini nell’esercizio delle proprie funzioni, come con l’applauso agli assassini di Federico Aldrovandi; impossibile dimenticarlo. E, stranamente, non ha speso una parola (mai!) su Roberto Mancini, il poliziotto ucciso da un tumore sviluppato per aver lavorato per anni nella Terra dei fuochi. Secondo il Giornale, Anselmo «il processo lo istruisce in tv e sui giornali. Lo dilata e lo distribuisce in pillole all’opinione pubblica». Ma quello che vorrebbe essere un articolo critico, finisce, dando la parola ad Anselmo, col centrare il punto: «È vero io faccio i processi mediatici. Altrimenti, e questo è stato scritto dai giudici, i miei casi sarebbero o rischierebbero di essere trascurati, dimenticati, archiviati frettolosamente. Sarebbero casi di denegata giustizia. La verità - insiste lui - è che io soffio sul fuoco dell’opinione pubblica perché il controllo da parte dei cittadini è un parametro fondamentale della giustizia». Il controllo dei cittadini è tutto, anzi è un dovere: senza l’attenzione della opinione pubblica, l’amministrazione della giustizia finirebbe per diventare un discorso tra tecnici, mentre a essere in ballo sono i diritti dell’individuo. Oggi Anselmo rappresenta la famiglia Bifolco, ma il suo nome è legato ai casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, Magherini, tutti processi che se non fossero diventati “mediatici” avrebbero percorso strade completamente diverse. Tutti processi che finivano per vedere, sul banco degli imputati, non più chi aveva picchiato o premuto il grilletto, ma le vittime e la loro vita, rivoltata come un calzino. Tutti processi in cui le vittime rischiavano di diventare colpevoli. In un’intervista alla “Nuova Ferrara”, Anselmo dice: «senza processi mediatici, quelli reali poi non si farebbero, nella grande maggioranza dei casi» e sottolinea come ciò che generalmente trova spazio sui media ha contorni differenti rispetto ai casi di cui si occupa come avvocato. Lui li definisce “morti di Stato”, persone che sembrano essere morte perché reiette, meritevoli di morire e che spesso l’opinione pubblica declassa a morti di cui non è necessario curarsi. Fabio Anselmo è quell’avvocato che, con il proprio lavoro, ha insinuato nella mente di molti un dubbio, il dubbio che al nostro ordinamento manchi qualcosa di fondamentale: il reato di tortura. Perché un poliziotto che salva un cittadino non cancella il reato commesso dal poliziotto che abusa del suo potere. Fabio Anselmo, da anni, sta contribuendo a scrivere, riga per riga, la storia dei diritti civili nel nostro paese. Facendo bene il suo lavoro. Ma questo lo capiremo tra qualche decennio.
DELITTO DI STATO. FEDERICO PERNA.
Un’altra madre, un’altra famiglia impotente di fronte a una vicenda carceraria che si conclude con il peggiore degli epiloghi: la morte di un uomo che, varcato il cancello che separa i liberi dai reclusi, smette di essere trattato come tale, scrive Michele Marangon su “Il Corriere della Sera”. Quel confine, troppo spesso in Italia, si sta trasformando in un punto di non ritorno. La vicenda di Federico Perna, 34enne originario di Latina deceduto l’8 novembre scorso mentre era ristretto a Poggioreale, ha ora la voce della madre Nobila Scafuro, decisa a tutto pur di far emergere la verità sul calvario patito dal figlio, malato, tossicodipendente, palesemente non in grado di sopportare il regime detentivo. Eppure tenuto in cella, sbattuto di carcere in carcere, sino a quando il suo corpo non ha detto basta. Per giorni nessuno, dall’alto, è intervenuto per uno così: senza santi al ministero, con una famiglia né ricca né influente. Fino a venerdì, quando il guardasigilli Annamaria Cancellieri ha disposto una «rigorosa indagine amministrativa interna» parallela all’inchiesta della procura della Repubblica. Ogni storia è a sé, ma questa di Federico - tossicodipendente con precedenti per furto, rapina, lesioni personali, evasione - per certi versi non può che rimandare a quella del romano Stefano Cucchi, che si è conclusa allo stesso modo. La prima cosa che viene da chiedersi è se lui si mai stato picchiato, ma la signora Nobila, tono fermo seppur stremato da questi giorni di dolore, rincara la dose: «Le dico di più -dice raggiunta telefonicamente da Corriere.it -secondo me è stato torturato. Siamo di fronte a un vero e proprio omicidio di Stato. Io ho tantissimi interrogativi a cui avere risposta…mica uno solo». Si legge, nella risposta del ministero datata giovedì 28 novembre, a seguito di una interrogazione in commissione Giustizia, di come Federico abbia rifiutato il ricovero in ospedale, ma Nobila è di altro avviso. «Mi pare che si stiano dando la zappa sui piedi: a Viterbo, come riporta un referto medico, mio figlio non era in grado di stare in piedi, non era lucido. È evidente come sia stato sedato, imbottito di psicofarmaci». Da alcune lettere, infatti, si evince quanto Federico sognasse il ricovero in ospedale perché lì «non ci sono celle e si possono fare colloqui». E sempre da Viterbo, però, non smettono le parole di disperazione: «Mamma mi stanno uccidendo. Portami a casa». La donna, insieme ai legali di Latina Camillo Autieri e Fabrizio Cannizzo, ha intenzione di non far spegnere i riflettori sulla vicenda, a partire da quella autopsia sul corpo di Federico effettuata a sei giorni di distanza dalla morte, così, a detta di Nobila da non poter far trovare tracce di lesioni che potrebbero dar sostegno alla tesi del maltrattamento, del pestaggio o delle torture vere e proprie come sostiene la donna. Spiegano gli avvocati : «La signora Scafuro aveva visto il figlio pochissimi giorni prima della morte. Lui mostrava segni di maltrattamenti (lividi…) e lamentava uno stato di malessere generale, psichico e fisico, dovuto e aggravato dalla vita carceraria, certamente non facile ma che, a dire di Perna, troppo spesso diventava intollerabile a causa dei soprusi e delle violenze subite da parte del personale carcerario. Tale circostanza - spiegano - dovrà essere verificata in sede di deposito della perizia autoptica. Numerose sono le lettere in possesso della madre nelle quali Federico si definiva “pungiball” o dichiarava che “con me ci giocano a ping pong”, riferendosi al fatto che ogni qualvolta chiedesse il ricovero o maggiore cura del proprio stato di salute, veniva trasferito ad altro istituto carcerario». Federico avrebbe dovuto terminare la pena il 13 aprile 2018. Una data lontanissima per qualsiasi carcerato e ancor più per lui, che aveva iniziato a scontare i suoi anni a Regina Coeli il 20 settembre 2010, passando poi a Velletri e Cassino e nel 2012 a Viterbo per motivi sanitari. Già qui viene ritenuto incompatibile con lo stato di detenzione a causa di una grave compromissione epatica con tendenza cirrotica. Seguono diversi gesti di autolesionismo, visite psichiatriche, sino a che, come ricostruisce il ministero ,«il magistrato di sorveglianza, con provvedimento del 16 luglio 2012, non aveva accolto la richiesta di scarcerazione per incompatibilità, sia in relazione alla pericolosità sociale connessa allo stato psicologico in cui versava il Perna, sia in considerazione del fatto che quest’ultimo aveva più volte rifiutato il ricovero in luogo di cura e che si era fatto dimettere – contro il parere dei sanitari – dall’ospedale Belcolle». Sempre secondo la ricostruzione ufficiale resa in commissione Giustizia il 28 novembre, «a Secondigliano il Perna aveva rifiutato il ricovero suggerito dai sanitari a seguito di un’ustione riportata nel gennaio 2013 ed aveva posto in essere gesti autolesionistici». A Poggioreale, dove esiste un centro clinico penitenziario, Federico ci arriva a luglio 2013, e qui sembra accadere il miracolo: « Nel corso dell’ultima visita psichiatrica, avvenuta a Poggioreale alla fine di settembre 2013, il Perna si era manifestato, al colloquio con lo specialista, calmo, lucido e orientato,e non aveva evidenziato disturbi percettivi». Si parla sempre del suo stato psichico nelle ricostruzioni ufficiali, mai del suo stato fisico, di cui solo la madre denuncia: « Sputava sangue dalla bocca e aveva chiesto di essere ricoverato il 5 novembre, ma l’8 è morto», ricorda Nobila. Ma per lo Stato, almeno fino a giovedì 28, è andato tutto bene, come si legge nella relazione del ministero della Giustizia: «All’esame del diario clinico e della cartella di osservazione del detenuto – documentazione contenuta nel suo fascicolo personale – risulta che nel corso della detenzione il Perna è stato seguito con costanza e regolarità sia dal personale sanitario e del Servizio Tossicodipendenze che dal personale penitenziario. In particolare, appare evidente che le autorità penitenziarie ne hanno costantemente monitorato le condizioni di salute e hanno più volte cercato di convincerlo ad accettare gli opportuni ricoveri in ospedale in ragione delle sue condizioni di salute, senza purtroppo riuscirvi». Con rabbia e dolore, una famiglia cerca la verità, mentre vengono i brividi, oggi, a guardare le foto scioccanti dell’autopsia e allo stesso tempo leggendo le lettere di Federico alla madre. Le parole di un ragazzo che sogna da dietro le sbarre un’assoluta normalità: la lasagna, il giorno del colloquio e pochi euro per le piccole spese. «Appena esco vengo da te, che sarò l’uomo più felice del mondo. Ora sono un uomo, basta con l’eroina, è solo distruzione. Un lavoretto e una vita serena. Adesso voglio il Federico vero, quello che non è mai uscito…» .
Il 34enne, tossicodipendente affetto da cirrosi epatica ed epatite C, è deceduto nel carcere di Napoli l'8 novembre. "Avevamo più volte chiesto il trasferimento. Da una settimana sputava sangue, aveva chiesto di essere ricoverato", scrive Silvia D’Onghia su “Il Fatto Quotidiano”. Federico come Stefano. Ascoltando la storia di Federico Perna, 34 anni, il pensiero va subito a Stefano Cucchi, che di anni ne aveva appena 31. Anche Federico è morto nelle mani dello Stato, di quello Stato che avrebbe dovuto punirlo per i reati commessi, certo, ma anche curarlo. Perché quel ragazzo di 34 anni della provincia di Latina, tossicodipendente da 14, oltre a dover scontare un cumulo di pene che lo avrebbe tenuto dentro fino al 2018 (l’ultima condanna per lo scippo di un telefonino), era malato di cirrosi epatica e di epatite C cronica, aveva problemi di coagulazione del sangue e disturbi psichici. Eppure aveva già scontato tre anni, rimbalzando da un carcere all’altro – Velletri, Cassino, Viterbo, poi di nuovo Cassino, Secondigliano, Benevento, ancora Secondigliano – ed era finito a Poggioreale, “undicesimo detenuto in una cella di undici metri quadrati”. È lì che è morto, l’8 novembre, “dopo una settimana che sputava sangue”, in circostanze – come dicono le autorità in questi casi – ancora da chiarire. “Mi hanno dato tante versioni diverse – racconta la mamma di Federico, Nobila Scafuro, al Fatto Quotidiano –: mi hanno detto che era morto nell’infermeria del carcere, poi in ambulanza, poi nel reparto dell’ospedale Federico II di Napoli. Ho telefonato alla direzione del carcere, vivendo a 300 chilometri di distanza, non mi sono stati neanche a sentire. Io mi sono dovuta andare a cercare il morto vagante”. Così come la famiglia Cucchi, anche la signora Scafuro ha deciso di diffondere le immagini – terribili – di suo figlio sul lettino dell’obitorio. Nel caso di Stefano, la scelta fu determinante ai fini dell’interessamento mediatico. I risultati dell’autopsia, eseguita il 14 novembre, non sono ancora arrivati – “il magistrato si è riservato 90 giorni di tempo, ma spero che la verità emerga prima” – ma per la mamma di Federico una cosa è certa: “Mio figlio non doveva stare in carcere. Lo scorso anno, attraverso il nostro avvocato, Camillo Autieri, abbiamo presentato tre referti di medici legali e primari ospedalieri e abbiamo chiesto l’incompatibilità carceraria. Ma le istanze sono state tutte rigettate dai magistrati di sorveglianza”. “Ora abbiamo fatto richiesta per conoscere le motivazioni”, conferma il legale. Per tenere buono Federico in cella, denuncia la famiglia, gli venivano somministrate pesanti dosi di psicofarmaci e tranquillanti: “Valium, Rivotril, più le medicine passate dal Sert”. “Questo faceva sì che il ragazzo non potesse provvedere alla propria cura quotidiana – spiega l’avvocato Autieri – e non avesse, in più di un’occasione, la capacità di discernimento”. Esattamente come nel caso della famiglia Cucchi, nessuno fa mistero della tossicodipendenza di Perna. “L’ho visto con lo zigomo gonfio – prosegue la signora Scafuro – e un suo compagno di cella lo ha convinto a dirmi che gli avevano dato un pugno. Non era la prima volta, a Viterbo c’è una denuncia penale: lo hanno picchiato perché teneva una lattina di Coca Cola in fresco sotto il rubinetto dell’acqua”. Ipotesi naturalmente tutte da accertare. Negli ultimi giorni, però, le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate: “Da una settimana sputava sangue dalla bocca, il martedì prima di morire aveva chiesto di essere ricoverato”. La Procura della Repubblica di Napoli ha aperto un’inchiesta e si annuncia fin d’ora una battaglia di perizie. Proprio come nella vicenda Cucchi. La madre del ragazzo si è rivolta alle associazioni che si occupano di detenuti: Ristretti Orizzonti ha contribuito a diffondere la storia e le immagini di Federico, Antigone sta seguendo il caso da vicino. “In questa fase posso solo auspicare una rapida soluzione dell’inchiesta”, commenta Mario Barone, presidente di Antigone Campania e membro dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione. Intanto il Movimento 5 stelle ha presentato alla Camera un’interrogazione al ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria è a conoscenza della situazione – anche perché sono già state presentate due interrogazioni parlamentari –, anche se il Fatto ha più volte cercato, senza esito, di mettersi in contatto con il vice capo vicario Luigi Pagano. “Non ho il numero del ministro Cancellieri, ma vorrei porle tre domande – conclude la madre –: perché Federico era ancora dentro, visto che era malato gravissimo? Perché non è stato ricoverato martedì, quando ha chiesto non di andare in discoteca ma di essere curato? E perché l’hanno massacrato di botte?”. Federico faceva di cognome Perna.
Il ministro della Giustizia Cancellieri dispone una indagine interna sulle dinamiche che hanno portato alla morte del giovane. La madre Nobila al Fatto: "Mio figlio non me lo ridanno, ma adesso voglio la verità perché non accada a nessun altro", scrive Silvia D’Onghia e Lorenzo Galeazzi su il Fatto Quotidiano del 30 novembre 2013. “Qui c’è il dirigente che vuole ricoverarmi per farmi prendere l’incompatibilità carceraria, io voglio venire con te a casa, le cartelle ci sono di aggravamento. Mamma, mi stanno uccidendo, portami a casa, voglio stare con te”. Questo scriveva Federico Perna a sua madre Nobila il 19 giugno 2012. Ed è stata lei, ieri, durante un’intervista con la web tv del fattoquotidiano.it, che ha deciso di rendere note le parole di suo figlio. Federico non c’è più, è morto – forse a causa di un ictus, ma i risultati dell’autopsia non sono ancora stati depositati – alle 16,58 dell’8 novembre scorso nel pronto soccorso del carcere napoletano di Poggioreale. Aveva 34 anni e sognava di uscire per tornare a casa a mangiare le lasagne. Come abbiamo scritto ieri, Perna dal martedì precedente sputava sangue e aveva chiesto di essere ricoverato. Inutilmente. Nella sua ormai triennale storia carceraria, Federico spesso non era lucido, ma si rendeva perfettamente conto che in cella le sue condizioni di salute peggioravano a vista d’occhio. Sempre dal carcere di Viterbo aveva scritto un’altra lettera alla mamma: “Scusa se ero un po’ assente (al colloquio, ndr), ma qua mi hanno esaurito, mi sono aggravato di salute, il prossimo colloquio se ci sarà, sarà diverso e positivo. Avevo voglia di abbracciarti ma ero come ipnotizzato”. Federico è malato, gravemente. Soffre di cirrosi epatica cronica e di epatite C, ha una personalità definita borderline, è sottoposto a una massiccia terapia di ansiolitici e tranquillanti. In cella c’è finito per il maledetto vizio dell’eroina, perché i soldi – anche quelli di una famiglia benestante – non bastano mai: e allora vai con i furti, con le rapine, con le lesioni. Un cumulo di condanne che gli costa un brutto responso: fine pena 13 aprile 2018. Ma Federico è un soggetto ad alto rischio, e questo l’istituzione carcere lo sa bene. In data 28 giugno 2012, pochi giorni dopo la prima lettera, il responsabile dell’area sanitaria della casa circondariale di Viterbo, Franco Lepri, scrive alla Direzione della struttura e al magistrato di sorveglianza: “Il carcere al momento non è compatibile con lo stato di salute del detenuto e quindi è peggiorativo per la sua salute, i contatti con le strutture sanitarie esterne sono possibili in ogni momento. Si richiede rapido trasferimento in un Cdt (Centro di Detenzione Terapeutica, ndr)”. Federico rifiuta il ricovero nei reparti di medicina protetta, ma non lo fa perché non vuole essere curato. Lui vuole essere messo ai domiciliari. Non ne può più di essere trasferito da un carcere all’altro: Velletri, Cassino, Viterbo, Secondigliano, Benevento, Napoli. ”Sono esaurito – scrive in una terza lettera alla madre –, infatti sono stato ricoverato, mamma mi stanno rovinando, sono due anni che giro carceri, non ce la faccio più. Lo so che questa non è una scusa perché il reato l’ho fatto e devo scontarlo, ma devo scontare il carcere e non una pena umana”. C’è un altro medico che certifica, il 18 settembre 2012, l’incompatibilità di Federico col carcere, è il medico di reparto del presidio sanitario di Secondigliano: “Si ribadisce l’inadeguatezza all’allocazione in una sezione detentiva comune e si invita l’autorità preposta a prendere provvedimenti anche coercitivi ai fini di un’adeguata assistenza del paziente che in una sezione di detenzione comune non può essere garantita”. Provvedimenti coercitivi: se Federico rifiuta il ricovero lo si deve obbligare. E invece nessuna “autorità” si prende questa briga. Ma c’è un referto che più di tutti dà il senso delle condizioni del ragazzo. Il giorno dopo la prima dichiarazione di incompatibilità, il 29 giugno dello scorso anno, un medico di reparto scrive: “Ho visitato il detenuto in cella: la sua cella è tutta sottosopra, lo troviamo privo di vestiti, non riesce ad alzarsi in piedi, a sostenere il capo, a mantenere la posizione seduta e a comunicare con noi. È obnubilato, non orientato nel tempo e nello spazio”. Il deputato M5S Salvatore Micillo mercoledì ha presentato un’interrogazione in commissione Giustizia; gli ha risposto il sottosegretario Giuseppe Berretta, che, prima ancora di sapere come è morto il ragazzo, ha difeso l’operato di medici e personale penitenziario: “Seguito con costanza e regolarità”, “hanno più volte cercato di convincerlo ad accettare gli opportuni ricoveri, senza purtroppo riuscirvi”. Il ministro Cancellieri, sollecitata dalla signora Nobila, ieri ha preso carta e penna e le ha invitato “le sue condoglianze e la sua personale vicinanza”. Il guardasigilli ha anche disposto “rigorosa indagine amministrativa interna”. Ma a Nobila non basta: “Federico non me lo ridanno, ma adesso voglio la verità perchè quello che è successo a mio figlio non accada a nessuno altro. Non devono più toccare un ragazzo lì dentro”.
Federico Perna, un nome che rischia di diventare una nuova icona delle tragedie che, quotidianamente, vivono i detenuti reclusi nelle carceri italiane. La storia di Federico è una storia drammatica, finita nel peggiore dei modi per un ragazzo di 34 anni morto di carcere. A raccontarci la sua vicendà è stata sua madre, Nobila Scafuro, scrive Fabrizio Ferrante su “L’Espressonline”. Federico, 34 anni originario di Latina, era un ragazzo di buona famiglia con i suoi parenti che annoverano rapporti di amicizia e di collaborazione professionale con magistrati e uomini pubblici a un certo livello. Il giovane, finito tre anni fa in carcere a seguito di piccoli reati connessi alla droga, doveva scontare 9 anni di reclusione per varie condanne accumulatesi nel tempo, fino all'ultimo arresto avvenuto appunto tre anni fa. Da quel momento, Federico ha smesso di essere considerato un essere umano ed è diventato un pacco postale, sballottato qua e là per le carceri del centro-sud. Da Velletri a Viterbo, da Secondigliano a Poggioreale ed è qui che termina la vicenda terrena di questo 34enne.
"Mio figlio è morto venerdì 8 novembre alle 17:17 - ci ha spiegato Nobila Scafuro - ma già da martedì sapevamo che stava molto male, in quanto mi aveva telefonato. Era ammalato, soffriva di epatite C e mi disse che perdeva sangue dalla bocca quando tossiva. Circostanza confermatami anche da un suo compagno di cella con cui ci siamo sentiti telefonicamente. Mio figlio si trovava nel padiglione Avellino stanza 6, in una cella che conteneva undici persone. Durante il suo periodo di permanenza a Poggioreale le cose si sono aggravate, era stato dichiarato incompatibile con la detenzione ma nonostante ciò fosse stato messo nero su bianco da due rapporti clinici stilati a Viterbo e a Napoli, un magistrato viterbese ha pensato bene di spedirlo a Poggioreale. Almeno poteva mandarlo in un carcere del Lazio, più vicino a casa, visto che per noi non era sempre possibile venirlo a trovare a Napoli. Il reato era risibile, mio figlio era uno dei tanti giovani che per divertirsi con gli amici faceva uso di qualche spinello, e pensi che la prima volta fu col figlio di un magistrato. Una volta sembra che Federico abbia dato una spinta a qualcuno, venendo accusato e condannato per questo".
Come è morto suo figlio?
"Bella domanda, è quello che vogliamo sapere tutti in famiglia ed è per questo che attendiamo i risultati dell'autopsia. Intanto posso dirle che non lo curavano, era imbottito di Valium, Rivotril e di farmaci passati dal Sert. Federico dormiva sempre e, quando non dormiva, spesso veniva picchiato. Questo non solo a Poggioreale, dove confermo che esiste la cella zero, ma anche in altre carceri dove ha soggiornato. Ovunque avvengono questi pestaggi, anche per futili motivi. A mio figlio capitò perché chiedeva aiuto in quanto non si sentiva bene, oppure perché voleva che gli aprissero l'acqua nel bagno della cella. In quell'occasione fu pestato proprio lì, nel bagno. Lo vedevo sempre pieno di lividi. In ogni caso, dopo averci chiamato martedì, Federico non ha più dato sue notizie. Abbiamo appreso della sua morte da un suo compagno di cella, che aveva molto legato con lui, il quale chiamò mia suocera – anziana e malata – dicendo che: 'Federico ormai è fuori, aprite gli occhi' lasciandoci intendere che fosse morto. Il fatto è che non sappiamo dove sia morto, non l'abbiamo ancora potuto vedere e il personale del carcere di Poggioreale non ci agevola dandoci le necessarie informazioni. Quindi non sappiamo neanche dov'è".
Quindi lei sta dicendo che non sa come è morto Federico, né dove, né tanto meno dove sia adesso?
"Esatto. Le versioni sono diverse: dicono che è morto nell'infermeria del carcere di Poggioreale, di attacco cardiaco e senza la possibilità di essere salvato con il defibrillatore. Poi dicono che è morto in ambulanza, poi che è morto prima di essere caricato in ambulanza o addirittura in ospedale, e anche su questo mi hanno nominato più di una struttura possibile. Insomma non so né come sia morto, né dove sia e tutto questo mi sta devastando. Quello che penso è che sia morto prima di essere portato in ambulanza e questo lo credo perché sempre secondo il suo compagno di cella, Fede era già morto prima che i soccorsi arrivassero. Ma non doveva trovarsi lì, doveva essere ricoverato in ospedale da molto tempo, essendo malato di epatite C. Mio figlio, che chiedeva il ricovero disperatamente da almeno dieci giorni per fortissimi bruciori di stomaco, sputava sangue e aveva bisogno di un trapianto di fegato. E' stato torturato e ammazzato dallo Stato così come gli altri morti di carcere a Poggioreale. Ma lei sa che negli ultimi giorni ci sono stati tre suicidi? Uno si è impiccato, l'altro si è ammazzato con un mix letale di farmaci e un terzo si è infilato la testa in un sacchetto mentre inalava il gas del fornelletto da campo. Ma non ci sono solo suicidi a Poggioreale e ricordo che un uomo di 43 anni è recentemente morto in cella perché malato di cuore. Gli è venuto un infarto e sa come lo curavano? Col Buscopan".
Federico Perna, evitiamo che a morti seguano altri morti, scrive Susanna Marietti su “Il Fatto Quotidiano”. Terribili e già visti gli ingredienti della vita e della morte di Federico Perna nel carcere napoletano di Poggioreale, proprio il carcere visitato da Giorgio Napolitano prima che annunciasse il messaggio alle Camere dell’8 di ottobre scorso. Poggioreale, un carcere simbolo della tragedia italiana, dove i detenuti sono ammassati, costretti a una vita degradante, resi numeri dal sovraffollamento. Un carcere dove i detenuti non hanno spazio vitale e la dignità umana è oggettivamente calpestata. La madre chiede giustizia e giustizia va assicurata. Ancora una volta, per sperare di avere giustizia, una mamma deve farsi violenza e pubblicare sui media la foto di un corpo martoriato. Il ministro della Giustizia ha disposto un’indagine interna all’Amministrazione penitenziaria. Nel frattempo si spera che scorra l’indagine penale e che l’autopsia sia fatta coscienziosamente e restituisca chiarezza sulle cause della morte. Federico Perna muore a 34 anni. La sua è una storia carceraria abbastanza comune, là dove ciò che è comune coincide oggi con ciò che è tragico. Ha problemi di tossicodipendenza. È malato di epatite C, appunto come tanti detenuti, purtroppo. Sta molto male, come tanti detenuti. Chiede aiuto, ne riceve poco. I magistrati non lo ritengono incompatibile con il carcere nonostante valutazioni difformi, pare, dei medici che invece propendevano per la non compatibilità con la detenzione.
La vicenda di Federico Perna ci impone una riflessione sul caso in questione e una di carattere più generale. Sul caso in questione, va rivendicata un’indagine condotta con determinazione, la quale chiarisca se c’è stata violenza e se c’è stata negligenza medica. Intorno alle questioni di carattere più generale, la vicenda carceraria va affrontata e decisa subito per evitare che morti seguano a morti. Bisogna intervenire su più piani: modificare in modo radicale la legge sulle droghe, liberticida e proibizionista; bisogna assicurare diritti a chi non ne ha istituendo un garante nazionale delle persone private della libertà, come ci impongono le Nazioni Unite; va introdotto il delitto di tortura nel codice penale italiano, che ridarebbe dignità a un sistema giuridico oggi in crisi di identità democratica.
POLIZIA, POLIZIA PENITENZIARIA E CARABINIERI: ABBIAMO UN PROBLEMA?
Così gli agenti si spartiscono il bottino con la banda di rom. Furti e spartizioni documentati da video stazione Milano. "Se non ci date quello che avete preso, vi togliamo i bambini e vi facciamo arrestare", scrive Luca Fazzo Giovedì 17/12/2015 su “Il Giornale”. Un saccheggio sistematico delle tasche e dei bagagli dei viaggiatori che avevano la sventura di passare nei mesi prima di Expo e durante Expo per la stazione Centrale di Milano: a realizzarlo, una banda di una ventina di rom serbo-bosniaci, che agivano indisturbati anche grazie alla copertura che ottenevano a caro prezzo da due poliziotti della Squadra Mobile di Milano. Questa mattina la Procura della Repubblica ha annunciato l'arresto di 23 appartenenti alla banda, accusati di associazione a delinquere; per i due poliziotti, che il capo della Squadra Mobile Alessandro Giuliano ha accusato apertamente di "tradimento" della loro missione e dei colleghi, il giudice preliminare (contrariamente a quanto chiesto dal pm Antonio D'Alessio, che voleva spedire anche loro in carcere) ha ritenuto sufficiente la misura degli arresti domiciliari. Ad accusarli sono stati gli stessi rom, che hanno parlato di un taglieggiamento sistematico, confermato da intercettazioni, filmati e pedinamenti: in una occasione i due poliziotti si sono fatti consegnare seicento euro, in un'altra mille. Inoltre pare avessero l'abitudine di minacciare i rom di sottrarre loro i figli se non avessero versato loro la refurtiva. Cosimo Tropeano e Donato Melella erano in servizio da anni proprio alla squadra antiborseggio. La banda di ladri, guidata da Sutka Seidic e Ante e Omar Cizmik, era strutturata in modo gerarchico, agiva sia lungo i binari, che a bordo dei treni, che negli spazi commerciali della Stazione. Ogni appartenente alla banda riusciva a accumulare un bottino tra i 500 e i mille euro al giorno. Dopo la chiusura dell'accesso ai binari, disposta per motivi di sicurezza all'inizio dello scorso maggio, l'attività della banda si è spostata prevalentemente nelle biglietterie e nelle zone d'accesso. Vittime predestinate, soprattutto i turisti stranieri. Tra il bottino dei furti, il record spetta a 120mila euro di gioielli rubati a un passeggero.
Poliziotti spartivano con i rom i proventi dei furti in Centrale. Due agenti della Squadra Mobile arrestati dalla Polfer: invece di arrestare le ladre prendevano soldi da loro e le minacciavano: «Vi portiamo via i figli», scrive il 17 dicembre 2015 “Il Corriere della Sera”. Invece di arrestare una banda di borseggiatrici rom che derubava i passeggeri dei treni, chiedevano soldi per non denunciarle e minacciavano di far «portare via» i loro bambini. Due poliziotti sono stati arrestati dalla polizia ferroviaria, su ordinanza di custodia cautelare del gip di Milano Giuseppe Vanore, perché avrebbero garantito ad un gruppo di persone di origine rom, anche loro arrestate, di compiere furti in Stazione Centrale a Milano chiudendo un occhio e incassando parte dei proventi dei colpi. Le indagini, condotte dalla polizia ferroviaria, sono state coordinate dal pm di Milano Antonio D’Alessio. I due agenti, da giovedì mattina ai domiciliari, sono accusati di concussione e falso in atti d’ufficio. In carcere sono stati invece trasferiti 23 nomadi, di origine serba e bosniaca, con l’accusa di associazione per delinquere. I due agenti arrestati, Cosimo Tropeano e Donato Melella, in servizio al dipartimento Crimini diffusi della Squadra mobile di Milano, riuscivano ad incassare «tra i 5 e i 20 mila euro a settimana» con una serie di furti, durati circa un anno. Diversi episodi, avvenuti dall’ottobre 2014 fino a tempi recentissimi, sono stati filmati dalle telecamere di sorveglianza della stazione. Il furto record è quello di gioielli per 120.000 euro sottratti al passeggero di un treno. Le vittime erano spesso turisti stranieri, anche giapponesi e americani, a volte derubati con la scusa di un aiuto a sistemare i bagagli. I due poliziotti coinvolti «sono agenti esperti, gente che lavora nell’unità antiborseggio e che conta centinaia di arresti all’attivo», ha riferito Alessandro Giuliano, il capo della Squadra Mobile di Milano. Ad arrestare i due sono stati insieme la Squadra Mobile e la Polizia Ferroviaria. «Facevano parte - ha aggiunto Giuliano - di una sezione che ha dato grandi risultati nel contrasto allo spaccio e alla criminalità predatoria. Se provate, le accuse nei loro confronti sarebbero considerate ben più gravi degli altri reati commessi in questa indagine (quelli contestati ai nomadi) e il loro sarebbe un tradimento nei confronti delle migliaia di altre persone che svolgono onestamente questo lavoro».
Milano, pizzo alle borseggiatrici della stazione: arrestati due poliziotti. "Pagate, o vi togliamo i figli". Ventidue i nomadi in manette, soprattutto donne, colpi anche per 20mila euro a settimana. Gli agenti nei guai per concussione incastrati dai filmati, scrive Emilio Randacio su “La Repubblica” del 17 dicembre 2015. Una retata in stazione ai danni dei borseggiatori rom, o meglio delle borseggiatrici in azione spesso con i figli piccoli in braccio, che si spartivano il bottino con due poliziotti della Squadra Mobile, assegnati proprio al contrasto di questo tipo di reati, arrestati anche loro. Furti anche per un valore di 20mila euro a settimana, in stazione Centrale a Milano, dove è scattato il blitz. Ventidue nomadi, soprattutto donne, sono finiti in manette per associazione a delinquere, mentre i due agenti arrestati devono rispondere di concussione. L'operazione è scattata questa mattina su ordine del pm Antonio D'Alessio ed è stata eseguita dagli uomini della squadra Mobile e della Polizia Ferroviaria. I due agenti sono accusati di essersi spartiti parte dei proventi dei furti che avvenivano in stazione Centrale, messi a segno in particolare dalle donne-mamme, tra i viaggiatori con i bimbi al collo e giacconi a nascondere la destrezza con cui mettevano a segno i borseggi. "Se non ci date quello che avete preso, vi togliamo i bambini e vi facciamo arrestare", era la minaccia degli agenti che assistevano alla razzia quotidiana nelle aree libere della stazione e negli ascensori. Le ladre riuscivano ad incassare "tra i 5 e i 20 mila euro a settimana" con una serie di furti, durati circa un anno, ai danni di turisti soprattutto giapponesi e americani. I furti e le spartizioni dei proventi con gli agenti sono stati documentati dalle telecamere di sorveglianza della stazione. A incastrare gli agenti, i filmati in cui vengono ritratti mentre ritirano materiale da dei borsoni pieni di refurtiva. I due agenti, che erano in servizio alla sezione di contrasto ai crimini diffusi e in particolare all'unità antiborseggio, sono finiti agli arresti domiciliari con le accuse di concussione e falso in atti d'ufficio. Il pm D'Alessio aveva chiesto per loro il carcere, ma il gip di Milano Giuseppe Vanore ha disposto la misura meno afflittiva. Sono finiti in carcere, invece, 23 nomadi serbo-bosniaci, tra cui ci sono anche molte donne. Due di loro, in particolare, Fadila Hamidovic e Patrizia Hamidovic sarebbero state tra i promotori dell'associazione per delinquere finalizzata ai furti perché avrebbero selezionato le persone che dovevano compiere i colpi. "Fino a ieri i due agenti - ha spiegato il capo della Squadra Mobile di Milano, Alessandro Giulian - facevano parte di una sezione che produce grandi risultati nel contrasto ai crimini predatori e se verranno provate le accuse sarà una cosa molto grave, un tradimento verso coloro che svolgono sempre egregiamente e con onestà le loro funzioni". Il dirigente della Polfer Francesco Costanzo, invece, ha precisato che gran parte dei furti al centro delle indagini sono stati compiuti prima che alla stazione Centrale di Milano fossero introdotti, quando è iniziato l'Expo lo scorso maggio, i gate di accesso ai binari (per entrare bisogna mostrare di avere un biglietto per i treni). "Con l'introduzione dei gate - ha spiegato - i furti sono calati del 75%".
Ladre rom e pizzo, in manette anche il superpoliziotto. Tra i fermati Cosimo Tropeano, recordman di arresti, una specie di Serpico. Lui e il collega erano stufi di vedere tornare in circolazione le donne dopo ogni furto, scrive Giuseppe Guastella il 18 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. Una piramide del crimine ha gestito per mesi i furti nella stazione Centrale di Milano con al vertice chi avrebbe dovuto abbatterla e che invece di arrestare i borseggiatori li taglieggiava. Sono 25 le persone arrestate, tra le quali ci sono due poliziotti fermati dai loro stessi colleghi. Con una media-record di 250 arresti l’anno, Cosimo Tropeano era considerato una specie di Serpico. Solo che con l’andare degli anni, secondo le indagini del sostituto procuratore Antonio D’Alessio, che fa parte del pool diretto dall’aggiunto Giulia Perrotti, invece di incrementare il suo invidiabile palmares, con il collega Donato Melella avrebbe costretto le borseggiatrici arrestate a consegnare il bottino se volevano tornare ad essere libere di rubare per conto dell’organizzazione, che a sua volta le taglieggiava con una «tassa» sui furti. Forse i due poliziotti erano stufi di vedere tornare in circolazione le donne, abilissime rom originarie della Bosnia Erzegovina, che di solito evitavano il carcere perché erano incinte oppure perché madri di bambini di meno di tre anni, ma sta di fatto che sono state proprio loro a farli finire nei guai, dopo che le avevano minacciate di far loro togliere i figli. L’inchiesta è partita a novembre 2014 da una borseggiatrice che ha rivelato alla Polizia ferroviaria di essere vittima di altri rom, donne e i loro mariti, che pretendevano il «pizzo» per farla «lavorare». Le intercettazioni e le confessioni delle nomadi arrestate via via quest’anno hanno completato il quadro facendo emergere le figure dei due poliziotti (ai domiciliari accusati di concussione per due episodi da 1.600 euro in tutto, ma sospettati di molti altri casi) ed incastrati anche dalle immagini delle telecamere di sorveglianza della stazione che li hanno filmati mentre si facevano dare soldi da una borseggiatrice che avevano fermato. I poliziotti sono stati immediatamente sospesi dal questore Luigi Savina. Come per tutti gli indagati, anche per loro vale la presunzione di innocenza, ma nel caso in cui le accuse fossero provate «le condotte ipotizzate sarebbero assolutamente inaccettabili», sostiene Savina in una nota in cui sottolinea come «ancora una volta la Polizia di Stato ha mostrato di avere in sé anticorpi tali da permettere di individuare presunti comportamenti illeciti anche di propri appartenenti». Le indagini tratteggiano i contorni di un’organizzazione in grado di «incassare» tra i 5mila e i 20mila euro la settimana prendendo di mira in particolare turisti giapponesi, americani e russi. I metodi erano classici: bambini usati come schermo, distrazione delle vittime, perfino falsi interventi di aiuto e tapis roulant bloccati. A una donna del Kazakistan è stata rubata un borsetta con gioielli per 130 mila euro. Quando a maggio con Expo sono comparsi i varchi controllati, gli affari della banda sono crollati del 75%.
Ascoltiamo la denuncia di un uomo colpevole, scrive Roberto Saviano su "L'Espresso" dell'11 dicembre 2015.
Rachid Assarag, marocchino condannato per stupro, ha le prove di aver subito violenze in carcere. Lo Stato di diritto vale anche per lui. Male non fare, paura non avere”. Non esiste proverbio più fuorviante di questo. Eppure non esiste summa migliore di come vorremmo fosse la vita: una corrispondenza lineare di cause ed effetti. E in questa visione inesistente, ma semplice e rassicurante, non accettiamo in cattedra maestri che non vestano i panni canonici del titolato a dare lezioni. Invece lezione è qualunque esperienza aggiunga elementi di conoscenza, e maestro chiunque sia latore di quel messaggio. Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, nei giorni scorsi ci ha raccontato la storia di un uomo che non accetteremmo mai di chiamare maestro. Ma è un uomo che ha creato una rottura, che ha trasmesso parole fuori dal carcere, dove lui è detenuto, frasi, teorie, affermazioni e prassi che invece sarebbero dovute rimanere lì, per non valicare mai quei confini. Rachid Assarag è un uomo marocchino di 40 anni. Condannato per violenza sessuale alla pena di 9 anni e 4 mesi di reclusione, che sta scontando nelle carceri italiane. È stato trasferito molte volte e in diverse circostanze è riuscito a registrare sue conversazioni con rappresentanti della polizia penitenziaria e a ottenere prova delle percosse e dei maltrattamenti subiti. On line è possibile ascoltare queste conversazioni. C’è chi le mette in dubbio per il tono pacifico. Come è possibile - dicono - che non ci sia concitazione quando si parla di percosse? Come è possibile - questo non lo dicono - che un brigadiere della polizia penitenziaria dia tante spiegazioni a un detenuto? Eppure, metterle in discussione a priori è il servizio peggiore che si possa fare a un Paese che sconta tassi di criminalità altissimi, che ha un sistema giudiziario al collasso e quello carcerario praticamente fallito. Peraltro le registrazioni e, ancor più, quel racconto dei fatti è considerato credibile da due procure, quelle di Firenze e Parma, che hanno aperto fascicoli. Quindi Rachid Assarag, detenuto per violenza sessuale, è la persona grazie alla quale oggi sappiamo, dalla voce di un brigadiere di polizia penitenziaria, che nel carcere non si applica la Costituzione, che se la Costituzione ci fosse entrata, quel carcere (nel caso specifico quello di Prato) sarebbe chiuso da tempo. Che le percosse sono un canale di comunicazione con i detenuti i quali comprenderebbero solo con la violenza le regole da seguire. Che le carceri non rieducano, al più puniscono (male non fare, paura non avere), e comunque rendono peggiori. So che queste mie parole saranno poco frequentate, leggere di carceri piace davvero a pochi. So che chi le frequenterà, in larghissima percentuale, non sarà d’accordo con me. So che molti vorrebbero sentirsi dire nulla ti sarà fatto se non commetterai errori. Ma non me la sento di rassicurare. Fabio Anselmo, avvocato di Assarag, chiede attenzione alle condizioni di salute del suo assistito che sta portando avanti uno sciopero della fame per denunciare le violenze subite. Anselmo dice che stiamo assistendo alla «cronaca di una morte annunciata che equivale a dire che nel nostro Paese vige la pena di morte». Sono d’accordo con Anselmo e invito chi mi legge in questo momento a fare uno sforzo, so di chiederne uno significativo. Lo sforzo di pensare che un uomo che sta in carcere per violenza sessuale, un uomo marocchino - mi si perdonerà la precisazione, ma in questo triste momento è facile indulgere a sentimenti di razzismo - abbia diritto, nonostante la condanna e la detenzione, ma proprio in ragione della condanna e della detenzione, a una esecuzione della pena secondo Costituzione, finalizzata alla riabilitazione e al reinserimento nella società. Il carcere si può osservare da molte prospettive. Chi ci lavora dirà cose semplici e convincenti perché in larga parte vere: i detenuti hanno poche regole e non le rispettano. I detenuti dicono tutti di essere innocenti. Ma poi ci sono le statistiche, e quelle dobbiamo usare per capire la direzione da prendere. Il tasso di suicidi di detenuti e guardie penitenziarie è altissimo, tanto alto da farci comprendere che il carcere così come è non funziona per nessuno. Il tasso di recidiva per i detenuti che lavorano è bassissimo. Quindi in carcere i detenuti devono essere occupati. Cosa manca perché si possa prendere questa direzione? Risorse? No, manca una autentica cultura del diritto. Se l’avessimo, sapremmo che anche chi ha sbagliato ha qualcosa da dire. Se l’avessimo sapremmo ascoltare.
E poi su caso Cucchi per cui l’Arma dei Carabinieri ha diffuso un comunicato stampa. Notizia epocale percepita troppo in superficie sino ad oggi come la volontà di difendersi in extremis da una valanga indiscriminata di accuse. «È una vicenda estremamente grave. Grave il fatto che alcuni Carabinieri abbiano potuto perdere il controllo e picchiare una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato, che non l’abbiano poi riferito, che altri abbiano saputo e non abbiano sentito il dovere di segnalarlo subito, che questo non sia stato appurato da chi ha fatto a suo tempo le dovute verifiche, se tutto questo sarà accertato. Grave il fatto che queste cose possano emergere soltanto a partire da oltre sei anni dopo, nonostante un processo penale celebrato in tutti i suoi gradi».
Abbiamo un problema con i Carabinieri? Si chiede Luigi Manconi. Luigi Manconi chiede al ministro Roberta Pinotti di richiamare l'arma al rispetto dei diritti delle persone fermate, dopo i casi Cucchi, Uva e Magherini, "Cara senatrice Roberta Pinotti, mi rivolgo a te in quanto, per il tuo ruolo di ministro della Difesa, sei titolare della responsabilità politica per l’attività dell’Arma dei Carabinieri. Poche ore fa, con riferimento alla vicenda della morte di Stefano Cucchi, il comandante generale della stessa Arma, Tullio Del Sette ha dichiarato: “È inaccettabile per un carabiniere rendersi responsabile di comportamenti illegittimi e violenti”. E ancora: “Siamo determinati nel ricercare la verità, ma no alla delegittimazione dei Carabinieri”. Il generale Del Sette ha ragione: e posso aggiungere che la responsabilità penale è personale. Un principio fondamentale quest’ultimo al quale sento il dovere di attenermi sempre. Dunque – come suggerisce il comandante generale – non si deve fare di tutta l’erba un fascio. In altre parole, il corpo dei Carabinieri è in gran parte sano e le colpe sono da attribuirsi a “poche mele marce”. Ma è sulle implicazioni di tutto ciò che devo esprimere un profondo dissenso. Temo infatti che il ragionamento di Del Sette si risolva in una conclusione fallace e consolatoria. Sia perché, per rimanere nell’universo linguistico dell’ortofrutta, “le poche mele marce” se raccolte in un cestino sono capaci in men che non si dica di contagiare le altre; sia perché i rari elementi infetti possono rivelare una patologia assai più diffusa. Insomma, quanto venuto alla luce in questi giorni a proposito della morte di Stefano Cucchi può inquietare particolarmente chi, come me, a quella e altre vicende simili dedica attenzione da molti anni. E allora è certo che si tratta di una perversa coincidenza, e che ciascun episodio fa storia a sé e si è verificato in luoghi e con protagonisti differenti, ma è altrettanto innegabile che – come si vedrà – vi compaiano sempre militari dell’Arma dei Carabinieri. Non solo: queste storie diverse e distanti – ecco l’insidiosa combinazione – si dipanano e si avviluppano nell’arco di alcuni giorni. Venerdì scorso, le confessioni relative al “violentissimo pestaggio subito da Cucchi” (parole del capo della Procura, Giuseppe Pignatone, al quale si deve essere tutti grati); ieri, lunedì 14 dicembre, sono cadute in prescrizione – grazie alla scellerata gestione da parte del procuratore Agostino Abate, infine sanzionato dal Csm – gran parte delle accuse perla morte di Giuseppe Uva, trattenuto illegalmente per ore nella caserma dei carabinieri di Varese; e sempre ieri si è tenuta un’udienza per la morte di Riccardo Magherini, avvenuta a Firenze il 3 marzo del 2014 nel corso di un fermo a opera di quattro carabinieri. Nel corso dell’udienza un testimone ha così dichiarato: “Uno dei carabinieri colpì Riccardo Magherini con dei calci all’addome, almeno cinque o sei volte”, poi “vidi due calci alla testa. Cioè vidi un paio di calci all’altezza della testa, non saprei dire dove colpirono”. Ripeto, so bene che parliamo di tre vicende diverse avvenute in tempi diversi e in luoghi diversi. Ma è forte la sensazione che qualcosa li tenga insieme. E che l’accertamento dell’accaduto, l’individuazione dei responsabili e la loro sanzione, nel caso di provata colpevolezza, costituisca un’impresa davvero ardua. Per molte, comprensibili quanto ingiustificabili ragioni, il conseguimento della verità sulle cause di morte di persone custodite sotto la responsabilità delle forze dell’ordine e di istituzioni dello Stato è sempre complicato. Ma, tra queste, spiccano le inchieste che vedono coinvolte l’Arma dei Carabinieri, sue articolazioni territoriali, suoi singoli esponenti. E così ci sono voluti ben sei anni per trovare riscontri all’ipotesi che la tragedia di Stefano Cucchi si fosse consumata nella stazione dei Carabinieri “Appia” di Roma. E analoghe deficienze investigative si sono verificate, come detto, nel caso della morte di Giuseppe Uva a Varese. E mi auguro di cuore che nulla del genere possa ripetersi a Firenze. In proposito, va ricordato che nel gennaio del 2014 il comando generale dei carabinieri inviò a tutte le caserme d’Italia una circolare nella quale si raccomandava di non ricorrere più proprio a quella modalità di fermo che, due mesi dopo, avrebbe provocato la morte di Magherini. La tecnica è la seguente: si immobilizza la persona, la si rovescia prona a terra, si portano le braccia dietro la schiena e si bloccano i polsi con le manette. Quindi, un numero variabile di agenti, anche tre-quattro, gravano sulla sua schiena per impedire qualsiasi movimento. Si determina qualcosa definibile come “compressione toracica” e che può portare all’infarto o all’asfissia. Quella circolare, che metteva in guardia contro una simile metodica, viene affissa in tutte le bacheche di tutte le caserme: e, dunque, anche in quella da cui parte la gazzella che incrocerà Magherini. Certo, quella direttiva è stata impartita con decenni di ritardo e tuttavia, se fosse stata letta e conosciuta e messa in pratica da quei quattro carabinieri, un giovane uomo probabilmente si sarebbe salvato. Cara senatrice Pinotti, come ho già detto, le responsabilità penali sono personali e quelle politiche non valgono certo per il pregresso, ma se c’è un problema nella cultura istituzionale dell’Arma dei Carabinieri e nei suoi rapporti con gli altri poteri dello Stato, se c’è un problema nella consapevolezza e nel rigoroso rispetto dei limiti ai propri poteri coercitivi da parte dei suoi appartenenti, il ministro della Difesa può e deve intervenire. Può e deve farlo richiamando l’intera catena di comando dell’Arma alla massima collaborazione istituzionale e l’intero corpo dei suoi appartenenti al pieno e intransigente rispetto dei diritti inviolabili delle persone fermate o tratte in arresto. Ne va della credibilità di una istituzione la cui lealtà e lo scrupolo nella osservanza delle leggi devono costituire un bene prezioso per tutti. Sapendo che, per come ti conosco, condividi queste mie considerazioni, attendo una tua presa di posizione su avvenimenti che colpiscono profondamente l’opinione pubblica.
Luigi Manconi è senatore del PD, sociologo e attivista per i diritti umani.
LA LEGGE NON AMMETTE IGNORANZA?
La legge non ammette ignoranza - è l'ignoranza del popolo che ammette la legge. Occorre avere meno leggi e più chiare? Certamente, basti pensare che la Corte costituzionale con due sentenze del 1981 e del 1982 ha stabilito che in Italia l'ignoranza della legge civile e penale è una scusante, per l'immensità e la contraddittorietà della legislazione.
Ignorantia legis non excusat. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La locuzione latina ignorantia legis non excusat è molto nota per il suo uso in ambito legale, come espressione sintetica della massima giuridica riguardo alla presunzione di conoscenza della legge. Il suo significato letterale è: «L'ignoranza della legge non scusa». La locuzione si trova anche nella forma «Ignorantia iuris neminem excusat» ovvero «Ignorantia legis neminem excusat», cioè «L'ignoranza della legge non scusa nessuno». Nata nel diritto romano, l'espressione sta a indicare che è dovere del cittadino essere al corrente delle leggi; si evita così che la non conoscenza di una legge costituisca materia per la difesa. Uno dei requisiti della legge negli ordinamenti moderni è infatti la sua conoscenza, che si dà per presunta: si presume che la legge sia sempre disponibile alla conoscenza del cittadino, anzi alla generalità dei cittadini. Il criterio è da considerarsi assoluto.
Ambiguità della traduzione italiana. C'è da premettere che il brocardo trova applicazione solo nell'ambito penale (articolo 5 del Codice Rocco), con l'avvertenza che anche in quel caso l'ignoranza della legge extrapenale può essere invocata. Solitamente l'espressione si rende in italiano con «La legge non ammette ignoranza» (in latino: Lex ignorantiam negat), una traduzione che però lascia spazio ad ambiguità, potendo intendersi come "la legge non ammette l'ignoranza degli avvenimenti inerenti a una sua violazione"; solitamente invece gli ordinamenti moderni prevedono che, per alcune violazioni, non essere a conoscenza di fatti rilevanti sia una valida giustificazione difensiva. Inoltre la Corte Costituzionale con sentenza n. 364/88, ha dichiarato l'articolo in questione parzialmente illegittimo per il fatto che non prevede l’ignoranza inevitabile della legge penale. L'"ignoranza inevitabile" può dipendere da fattori soggettivi, come una carenza di competenze del cittadino per comprendere correttamente il testo normativo, ovvero all'analfabetismo; o da fattori oggettivi, come l'eccessivo numero di leggi, e successive modifiche, e la loro difficile reperibilità in Internet e nelle collezioni di riviste giuridiche.
La presunzione di conoscenza della legge è un principio del tutto tradizionale per la codificazione italiana, tant'è vero che di solito viene rammentato in latino: Ignorantia legis non excusat. In parole semplici, nessuno può giustificarsi di fronte ad un giudice dichiarando semplicemente di non conoscere la legge di cui gli venga contestata la violazione; il fatto che tale ignoranza sia effettiva o solo accampata a propria discolpa non ha alcun rilievo. Si tratta, infatti di una presunzione assoluta, nessuno è pertanto ammesso a fornire la prova della mancata conoscenza della legge. Nell'ordinamento italiano è testualmente disposto dall'art. 5 del Codice penale, il cui rigore è peraltro stato mitigato nel 1988 da una sentenza della Corte costituzionale, nel senso di giustificare l'ignoranza della norma penale in quei casi (meno rari di quanto si vorrebbe), in cui abbia il carattere dell'inevitabilità, determinata da eccessiva complessità e/o contraddittorietà della normativa. Nel Codice penale italiano il principio è codificato all'art. 5, integrato da una storica sentenza additiva della Corte Costituzionale (sentenza cost. n. 364/1988) che ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale nella parte in cui non era prevista la scusabilità della cosiddetta "ignoranza inevitabile". «Il nuovo testo dell'art. 5 c.p., derivante dalla parziale incostituzionalità dello stesso», ha dunque sancito la Corte Costituzionale nella citata pronuncia, «risulta così formulato: “L'ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d'ignoranza inevitabile”». Va detto, poi, che una in nota pronuncia della Corte di Cassazione in materia di errore, la sent. n. 5361/1984, è stato individuato un princìpio per il quale "l'errore nell'interpretazione della legge possa essere considerato, eccezionalmente, scusabile solo se riconducibile ad una oggettiva oscurità (attestata, eventualmente, da persistenti contrasti interpretativi) della norma violata". La combinazione dei principi di queste sentenze apre la strada ad una riconsiderazione dell'assolutezza della presunzione di conoscenza in presenza di elementi oggettivamente influenti sulla pienezza e sulla correttezza della comprensione della legge; ciò anche in considerazione della proliferazione di normazioni tecnico-specialistiche, la cui corretta interpretazione (elemento della conoscenza piena) è per ragioni fattuali riservata ad alcuni soggetti, ma non certo alla generalità dei cittadini. Le esigue aperture sono per ora solo limitate ad una rigorosamente selezionata categoria di ragioni di eccezionalità.
La tendenza dottrinale, cui sembra perciò fornire qualche segnale di labile accostamento anche la giurisprudenza specifica, parrebbe volgere con decisione alla limitazione del criterio imperativistico, che intende l'obbligo come assoluto, adagiandosi sul più equitativo concetto dell'obbligo di ordinaria diligenza nell'acquisizione di dati di conoscenza relativi alle attività che si intendono esercitare.
Pino Aprile scrive. La legge non ammette ignoranza, ovvero tutti gli italiani devono conoscere la legislazione del loro Stato e non possono giustificarsi, davanti a un giudice, nascondendosi dietro un laconico: "ma io non lo sapevo"!. Male, studia e riprova, la prossima volta sarai più fortunato. Si dice anche che la civiltà di una nazione si misuri dalle sue leggi. Insomma la legge è legge e va rispettata. Il problema sorge solo nel momento in cui un buon italiano, diligente e volenteroso, vuole mettersi in regola e cominciare pazientemente a superare la sua ignoranza applicandosi a studiare cosa si può e cosa non si può fare. E’ vero che una gran quantità di norme sono soggette a interpretazione e quindi nemmeno la loro conoscenza ci salvaguarda dalla mannaia, però almeno i sacri testi ufficiali (ad esempio La Costituzione italiana) a memoria bisognerebbe saperli. Uno non può mica andare tutto il giorno in giro con i pesanti libri della giustizia, bisogna tenere a mente e rigare dritti. Purtroppo tutta questa premessa è inutile perchè gli italiani, non solo la gente qualunque, ma fior fiore di giudici e avvocati devono scartabellare in polverosi volumi tra Regi Decreti di fine Ottocento fino alle più recenti leggi repubblicane. Non basta, bisogna anche conoscere la dottrina, le consuetudini, le sentenze che spesso fanno legge a sè. E quindi probabilmente ignoranti siamo e ignoranti resteremo. Una curiosità però me la sono voluta togliere: se non proprio studiarmi tutta la giurisprudenza almeno sapere quante leggi ci sono in Italia. Insomma misurare le mie lacune. Ebbene, a rischio di smentita (ma non credo) nessuno sà quante sono. Perlomeno Google e Wikipedia non sono in grado di rispondere al quesito. Si possono però fare delle stime e avanzare delle ipotesi seppur con un buon margine di sicurezza. Secondo Yahoo Answers il Bel Paese si attesta tra le 150 e le 200 mila leggi che, come si dice, non sono bruscolini. Soprattutto se si paragona con altri Stati civili europei la differenza è abissale.
La classifica quindi è la seguente: